La Francia e il deficit di classe dirigente

Le elezioni presidenziali in Francia chiudono una contesa che non ha mai visto mettere in discussione la rielezione di Emmanuel Macron. Un fatto questo di per sé inusuale negli ultimi anni, che hanno visto una sostanziale alternanza all’Eliseo al secondo turno favorita dalla progressiva frammentazione del quadro politico francese. Bisogna tornare al 2002, con la vittoria di Jaques Chirac su Jean Marie Le Pen per ritrovare un quadro simile ma non del tutto sovrapponibile a quello attuale.

Al di là delle lotte dinastiche che hanno interessato il Front National, in vent’anni è letteralmente cambiato il mondo, non abbastanza per propiziare una vittoria della destra, che attende con pazienza biblica il passaggio del cadavere nel fiume da ormai due decenni senza reali possibilità di successo. Forse il corpo esanime del nemico non arriverà mai e c’è pure il rischio concreto che a passare sia quello della Le Pen, a dispetto delle continue profezie a tinte fosche pronte a predire il crollo oggi della globalizzazione, domani dell’Unione Europea e chissà magari anche della società Francese.

Questa attesa spasmodica degli errori dell’establishment, ha portato a tralasciare contro ogni buonsenso la creazione di una vera classe dirigente, realisticamente in grado di affrontare i problemi che hanno fiaccato la popolarità di Macron in questi cinque anni e capace di proporsi agli elettori come una concreta scelta alternativa. È bene ricordare che il sistema istituzionale francese, oltre ad attribuire al Presidente della Repubblica un potere quasi “Jupiteriano”, plasmato ad immagine e somiglianza di De Gaulle, è permeato da una declinazione unica dell’elitismo che tutta la cittadinanza ha interiorizzato in modo più o meno consapevole e sicuramente sufficiente a scoraggiare avventure alla Masaniello a cui l’Italia è abituata da orami quasi un decennio.

Il Repubblicanesimo elitario si sostanzia nella sinergia tra alte sfere dell’amministrazione pubblica e vertici politici, da Pompidou a Macron, con l’eccezione di Sarkozy, spesso si ricorda come i Presidenti francesi abbiano in comune un percorso accademico scandito da tappe pressoché identiche, culminate con il diploma da enarca. Si potrebbe obiettare che ormai le pulsioni egalitarie hanno investito anche la Francia in quest’ambito e che l’ENA ha cambiato nome, una linea di pensiero a cui  Marine Le Pen non può mostrarsi estranea nella sua crociata contro i “privilegiati”. Tuttavia è questo il fattore che più l’ha contraddistinta negativamente rispetto al suo rivale Éric Zemmour, nonostante apparisse più moderata infatti, la vicinanza del leader di Reconquête ai circoli del potere editoriale e al mondo dei media di Vincent Bollorè, l’ha portato a coagulare pur con un risultato sotto le aspettative il sostegno di una buona parte della potenziale classe dirigente affine anche al Front National. Facile immaginare le conseguenze che ha sortito un simile depauperamento sulle ambizioni di governo della destra. Marine Le Pen non può neppure impiegare l’ottimo ma pur perdente risultato delle urne per fugare i dubbi che adombrano la sua reale capacità non solo di essere eletta vincendo al secondo turno, ma di incarnare un ruolo che in Occidente è l’apoteosi del verticismo politico, senza aver ricoperto prima d’ora cariche diverse dalla guida del maggiore partito di opposizione.

È quindi la mancanza degli attributi tecnico-politici ad aver allontanato gli elettori dal Front National ? Anche la Francia negli ultimi anni è stata interessata, in misura minore dell’Italia, da un fenomeno di perdita del potere d’acquisto chiamato “grand déclassement”: inflazione, crisi energetica e transizione ecologica sono stati sufficienti per attizzare il fuoco lepenista ben oltre il 40%, ma in misura lontana dal convincere i francesi della praticabilità di una soluzione politica basata su un programma di governo realmente alternativo a quello del presidente uscente.

Ciò non si è verificato forse perché un orientamento così governista non era neppure all’ordine del giorno di Marine Le Pen. Non basta infatti aver intrapreso un percorso di “normalizzazione” rispetto all’eredità politica paterna, sfociato nella costituzione del Rassemblement National e in un generale cambio di toni rispetto alla stagione politica passata. Marine Le Pen non ha mai dato l’impressione di voler prendere in mano le redini del paese e la tentazione della rendita di posizione dell’eterna opposizione può spiegare la velleitaria assenza di contenuti, spesso sfociata nella contraddizione come nel dibattito televisivo, da cui infatti è risultata sconfitta. La percezione di Macron come un bene rifugio dell’elettorato francese, rende la sua rielezione una vittoria parziale agli occhi dell’opinione pubblica che non l’ha ancora pienamente assimilato nelle categorie politiche tradizionali e con cui ha scontato grandi cali di popolarità durante il mandato.

Quando Chirac venne rieletto venti anni fa con un margine di quasi 60 punti, incarnava l’unità repubblicana e sia gli elettori che i candidati tradizionali ne riconobbero in modo esplicito l’assoluto ruolo di garanzia. Il caso di Chirac è emblematico perché sette anni prima aveva trionfato a sorpresa al primo turno contro il Primo Ministro uscente Balladur e poi al secondo con Jospin, facendo leva già allora sul tema della frattura sociale che in un paese come la Francia, meno disposta rispetto ad altri a rinunciare alle conquiste del welfare state, assume una dimensione trasversale comune a tutto l’elettorato.

Macron tuttavia non è Chiarc e pur vantando un successo solido, ma meno granitico del 2017, rischia di apparire solo come la migliore delle alternative possibili al Lepenismo, capace di coagulare intorno a sé consenso più per necessità di impedire l’ascesa del Front National che per gradimento elettorale.

Di conseguenza, la condizione del “migliore dei candidati possibili” continuerà a giocare a favore di Macron e degli altri leader europei finché i sostenitori di una proposta politica alternativa non si dimostreranno in grado di offrire all’opinione pubblica dei loro Stati pari garanzie sull’idoneità politica e tecnica richiesta dal ruolo di Capo di Stato o di Governo. Un simile processo di maturazione richiede innanzitutto la creazione di una classe dirigente in grado di offrire ad un presidente e al suo governo gli strumenti minimi per maneggiare la complessità della realtà odierna, prevedendo allo stesso tempo soluzioni in grado di incidere favorevolmente su temi in continuo mutamento, che vanno al di là delle conseguenze prodotte sulla vita di tutti i giorni come il caro benzina o l’aumento del prezzo dell’energia.

In Italia in particolare il centrodestra rischia di trovarsi in una situazione altrettanto spiacevole, con la differenza che mentre i risultati del primo mandato di Macron sono inequivocabili sia in termini di crescita economica che di riduzione della disoccupazione, in Italia altrettanto non si può dire degli esecutivi guidati dal Partito Democratico in questi ultimi 9 anni. Con la parentesi del primo governo Conte, il centrosinistra ha potuto beneficiare di una continuità politica e amministrativa pressoché ininterrotta, unita alla sostanziale benevolenza se non acquiescenza dell’Unione Europea a fronte di dati economici di gran lunga inferiori a quelli programmati nei documenti di bilancio, che non sono in alcun modo comparabili con i ritmi sostenuti della Francia ben prima della pandemia. Quello che è in apparenza un grande rompicapo politico, deve essere uno stimolo affinché il centrodestra si doti finalmente di un gruppo dirigente in grado di presentarsi ai mercati e al mondo senza ingenerare quei dubbi o insicurezze che, uniti alla litigiosità quasi puerile della coalizione, ne hanno impedito l’approdo a Palazzo Chigi. Solo dalla consapevolezza dei limiti dell’attuale quadro politico, per altro comuni a tutti gli schieramenti, potrà nascere una proposta di governo realistica e concreta che permetterà nel 2023 di ritornare al timone del paese.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo