Ora chieda scusa chi ha protetto Battisti!

Battisti ha chiesto scusa ammettendo gli omicidi per cui era stato condannato. Ma ancora nessuno di coloro che hanno firmato negli anni gli appelli per lui, nessuno di coloro che lo hanno coperto nella latitanza parlando male dell’Italia ha avuto la decenza di chiedere a sua volta scusa! Questo è lo scandalo più grande. La vicenda è chiara a tutti. E non ammette più giustificazioni, dopo anni di menzogne ideologiche.  L’ex terrorista dei proletari armati per il comunismo, dopo quasi quaranta anni di latitanza, ha ammesso per la prima volta, le sue responsabilità per i reati che gli sono stati attribuiti dalle sentenze sui Pac passate in giudicato. “ I quattro omicidi, i tre ferimenti e una marea di rapine e furti per l’autofinanziamento, corrisponde al vero”, “Mi rendo conto del male che ho fatto e chiedo scusa ai familiari delle vittime”, sono queste le parole di Cesare Battisti riportate dal Pm Nobili, capo del pool antiterrorismo di Milano. In un altro momento dell’interrogatorio, l’ex terrorista, ha spiegato come sia riuscito a farla franca, grazie alla protezione di un vasto ambiente di esponenti del mondo progressista. “ Vede dottor Nobili, io me la sono sempre cavata grazie agli appoggi che ricevevo in Francia, poi in Messico, poi in Brasile. E’ stato grazie a loro che sono sopravvissuto”.

Battisti si riferisce evidentemente ai politici, agli scrittori e filosofi, ai giornalisti, i cosiddetti intellettuali insomma, che colpevolmente ignari degli atti processuali a suo carico, hanno tessuto intorno a lui, per ragioni puramente ideologiche, una intricata rete di protezione internazionale che lo ha protetto fino all’arresto in Bolivia. Dopo la fuga dal carcere di Frosinone del 1981, l’ex terrorista trascorre un anno a Parigi come clandestino, per poi recarsi in Messico, paese dal quale apprende di essere stato condannato in contumacia per l’omicidio di quattro persone. Negli anni novanta fa ritorno in Francia dove vive al riparo della cosiddetta dottrina Mitterand, una sorta di ospitalità concessa dall’allora presidente francese ai ricercati, soprattutto dalla giustizia italiana, che avevano commesso atti di natura violenta, ma di ispirazione politica. Verso la fine degli anni Novanta, scrive un libro dal titolo “Travestito da uomo” grazie al quale riuscirà ad entrare nelle simpatie della sinistra intellettuale francese che qualche anno più tardi lo proteggerà a suon di manifestazioni e addirittura firmando una petizione, dalle richieste di estradizione avanzate dal governo italiano. La petizione verrà condivisa anche da una vasta schiera di intellettuali nostrani. Due anni dopo, ottiene la cittadinanza francese che però gli viene revocata prima di poter ottenere il passaporto. Battisti torna dunque alla latitanza e fugge facilmente in Brasile, dove viene arrestato. Fa richiesta dello status di rifugiato politico che in prima battuta gli viene negato e che ottiene probabilmente in seguito alla manipolatoria dichiarazione “se torno in Italia mi ammazzano”. Il ministro di giustizia brasiliano gli concede lo status di rifugiato, creando, peraltro, forti dissapori tra Italia e Brasile. Successivamente il Tribunale Supremo Federale brasiliano, dichiarerà illegittimo lo status di rifugiato. Nel frattempo viene condannato a due anni, per uso di passaporto falso, ma sconterà la pena in regime di semilibertà. Il presidente Inacio Lula da Silva, suo grande protettore, per chiudere in bellezza, l’ultimo giorno del suo mandato, non concederà l’estradizione dell’ex terrorista.

Il nuovo presidente Dilma Roussef ribadendo quanto stabilito dal suo predecessore, gli concederà il permesso di soggiorno permanente. La Giustizia Federale brasiliana decide di annullare l’atto del governo e l’ex terrorista rosso viene nuovamente arrestato, ma verrà scarcerato poche ore più tardi. Dopo il tentativo di fuga in Bolivia, ancora un nuovo arresto alla frontiera. Dirà alla polizia: “stavo andando a pescare”. Nel frattempo il presidente Temer, firma la richiesta di estradizione prima di lasciare la guida del paese al suo successore Jair Bolsonaro, il quale aveva annunciato già in campagna elettorale, di voler consegnare l’ex terrorista alle autorità italiane. A metà dicembre del 2018, viene emesso l’ordine di cattura per scongiurare il pericolo di fuga, ma Battisti, allertato dalle voci di un suo imminente arresto, aveva già fatto perdere le sue tracce. La sua fuga si concluderà, come sappiamo, il 12 gennaio del 2019 in Bolivia. In una delle ultime dichiarazioni al PM Nobili, forse la più inquietante, Battisti ringrazia, per così dire, politici ed intellettuali progressisti, dicendo di averli presi in giro per trent’anni. “Eh si dottore, li ho praticamente presi in giro per trent’anni”. Chi sa se i vari innocentisti, firmatari di appelli e negatori di estradizione, proveranno un briciolo di imbarazzo? Chi comincerà tra loro a chiedere finalmente SCUSA.

 

*David Mastrella, collaboratore Charta minuta

Ecco perchè vince Bolsonaro

«È come quello che sta succedendo in Italia e negli Usa: la gente respinge un tipo di classe politica perpetua, che è legata al capitalismo clientelare, alla corruzione e all’incompetenza». Senza troppi giri di parole, Steve Bannon fotografa alla perfezione l’elezione di Jair Bolsonaro a nuovo presidente del Brasile. Nel Vecchio Continente si è assistito ad un progressivo declino del partiti socialdemocratici. Sono ormai lontani i tempi di Tony Blair e della “terza via” che aveva sedotto gli ambienti di sinistra: fallito mestamente il tentativo di governare la globalizzazione, i socialdemocratici sono stati severamente puniti dagli elettori. Un trend che, come mostrano le ultime elezioni regionali in Germania, sta iniziando a coinvolgere anche le forze tradizionali di centrodestra. In Sud America è possibile osservare la medesima dinamica.

Agli inizi del Duemila, e per oltre un decennio, i partiti socialisti governavano, di fatto, pressoché l’intera America Latina: ma ora la geografia politica a sud dell’Equatore è decisamente cambiata. In Argentina, la lunghissima epopea peronista della dinastia Kirchner è mestamente terminata nel dicembre del 2015 con la vittoria al ballottaggio di Mauricio Macri e con una richiesta di custodia cautelare per l’ex presidente nel settembre del 2018. In Cile, Sebastiàn Piñera – fratello del celebre José Piñera – è tornato ad essere presidente dal marzo del 2018, succedendo alla rivale di sempre, la socialista Michelle Bachelet. In Bolivia, nel febbraio del 2016, ha vinto il “no” al referendum con cui il presidente Evo Morales – in carica dal 2006 – intendeva modificare la costituzione al fine di ricandidarsi nel 2019 per il quarto mandato consecutivo. Hanno virato a destra anche il Perù e la Colombia, con il Uruguay ed Ecuador uniche enclavi rimanenti alla sinistra. La situazione del Venezuela è, di fatto, quella di una dittatura socialista. La luna di miele tra i venezuelani e Maduro, successore di Hugo Chavez, è durata solo pochi anni: la popolazione è stremata, le violenze si susseguono e per la prima volta, dopo le diminuzioni delle ultimi decenni, è ricomparsa la denutrizione (3,9% tra i minori di cinque anni).

In tale contesto, la vittoria di Bolsonaro acquisisce un significato particolare, in quanto rappresenta un nuovo, importante tassello di una rinnovata stagione politica in tutto il Sud America. Occorre, tuttavia, molta cautela nel voler bollare il neo-presidente come “populista”, oppure – come già è stato ribattezzato – il “Trump brasiliano”. Senza dubbio, lo stile comunicativo di Bolsonaro ricorda molto da vicino quello del tycoon statunitense, fatto di provocazioni, battute politicamente scorrette e costanti attacchi al precedente establishment. Tuttavia, è opportuno ricordare che da sempre l’America Latina – complice la forma di governo presidenziale e dunque l’elezione diretta del capo dello Stato, comune a molti Paesi dell’area – è terra di leaderismo e di personalizzazione della politica che non di rado è sfociato in regimi autoritari. Riprendendo lo spunto di Steve Bannon, nel caso del Brasile i socialisti hanno pesantemente pagato un deficit di credibilità, venuta meno in seguito agli scandali che hanno coinvolto Lula e la sua delfina Dilma Rousseff.

Allargando la prospettiva e operando un’ulteriore contestualizzazione, è necessario ricordare che gli ultimi quindici anni hanno visto interrompersi, in Sud America, il modello politico-economico del chavismo, entrato ormai in crisi irreversibile con la morte di Hugo Chavez – evento spartiacque della recente storia politica sudamericana. Tale modello era imperniato su di una sorta di “patto sociale” tra il popolo – e dunque, su di un ampliamento della spesa pubblica a favore delle classi più povere e sulla nazionalizzazione delle imprese – e una ristretta élite che controllava i proventi dell’esportazione degli idrocarburi. Alla dipartita del comandante marxista ha fatto seguito un inevitabile indebolimento del cosiddetto “asse bolivariano”, in primis nella già citata Bolivia ma anche in Ecuador. A Quito, infatti, nonostante la continuità data dalla vittoria del socialista Lenin Moreno, la Corte Nazionale di Giustizia (CNJ) ecuadoriana ha richiesto l’arresto e l’estradizione dal Belgio dell’ex presidente Rafael Correa, accusato di aver ordinato il rapimento di un deputato dell’opposizione. Questi fattori, molto più del voler etichettare come “populista” Bolsonaro o di voler cercare, ridicolmente, di ridisegnare la mappa politica mondiale sulla base del grado di “fascismo” o di “razzismo” di un candidato, fanno la differenza nel tracciare delle coordinate realistiche che consentano di capire, davvero, l’evoluzione contemporanea dei sistemi politici. 

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta