Questo saggio di Giulio Terzi di Sant’Agata, è stato pubblicato sul Rapporto Italia 2020 della Fondazione Farefuturo
I CONTENUTI IDENTITARI
Un forte elemento identitario della società italiana è il principio di solidarietà e di partecipazione, intrinsecamente legato al valore della vita umana e della dignità della persona. È rimasto saldo nelle generazioni che hanno vissuto la tragedia della Seconda guerra mondiale. Neppure le dittature nazista e comunista sono riuscite a cancellare i valori di questa identità: nei territori controllati dalle nostre forze armate persino la «soluzione finale» voluta da Hitler è stata in ogni modo ostacolata, anche sacrificando la vita, da migliaia di militari, diplomatici, funzionari, religiosi e comuni cittadini italiani. Tutto questo non è avvenuto per un caso della storia. Per quasi tre secoli il nostro pensiero politico e giuridico ha sviluppato quel senso di libertà laico e illuminista che, in simbiosi con la tradizione giudaicocristiana, ha ispirato le rivoluzioni democratiche di fine Settecento, e ha fatto progredire lo Stato di Diritto sino alla sua odierna concezione nel diritto internazionale, dai Trattati Europei ai numerosi accordi regionali e globali. È proprio la tradizione giuridica a costituire per gli italiani un forte elemento identitario. Vi è, certo, il paradosso della disaffezione popolare per la politica e per le sue istituzioni. Ma il nostro Paese è tra i primissimi in Occidente ad aver influito e ad influire, da Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri sino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulla diffusione dei principi dello Stato di Diritto pur trovandosi oggi in posizione piuttosto arretrata nella lotta alla corruzione, nella libertà di informazione, per quanto riguarda la giustizia, e il sistema carcerario. È dimostrato in ogni caso come l’elemento identitario profondo e forte riguardi l’insieme della nostra cultura, il suo contributo valoriale al progresso umano, e il senso di un «comune destino» che lega gli italiani sparsi nel mondo alla terra di origine. Un’identità, quindi, essenzialmente culturale; recepita e al tempo stesso alimentata da un’«altra Italia» fatta da quasi sessanta milioni di individui di cittadinanza o di discendenza italiana. L’attrazione che loro hanno verso il paese di origine e la sua cultura è così forte che gli ultimi censimenti negli Stati Uniti – dove il numero stimato dei nostri connazionali corrisponde quasi alla metà di tutti gli italiani all’estero – rilevano significativi aumenti tra i cittadini americani che dichiarano una loro origine italiana nonostante l’immigrazione dall’Italia sia ferma da quarant’anni. Purtroppo l’attenzione che dedichiamo a questa «italianità», così importante per far «capire l’Italia» anche nei momenti più difficili, è assai modesta, anche quando si sprecano assicurazioni e promesse retoriche. Riconoscere un preciso interesse nazionale in tale direzione presuppone un netto cambiamento di rotta.
UN DECENNIO PERSO?
Il richiamo dell’«italianità» appare ancor più necessario ove si consideri che nel decennio appena concluso la «performance» del nostro Paese rispetto ad altri – a noi paragonabili per popolazione, dimensione economica, proiezione regionale e globale, sviluppo sociale e istruzione – viene giudicata debole da molti punti di vista. In politica è stato un susseguirsi poco concludente di esperimenti che hanno accresciuto la sensazione di instabilità e di transizione permanente, governativa e istituzionale. La crescita economica e dell’occupazione è rimasta una chimera. Contraddittorie e carenti sono parse le misure fiscali, di sostegno allo sviluppo e all’innovazione. In politica estera si deve ammettere come siano stati anni più di declino che non di rilancio del ruolo complessivo dell’Italia in Europa, nel Mediterraneo, e sul piano globale. Hanno indubbiamente pesato fattori poco prevedibili e lontani dalla capacità di controllo per un singolo, per quanto influente, paese europeo. Lo è stato il disimpegno americano da spazi geopolitici di nostro diretto interesse; così come l’emergere di due «potenze revisioniste» dell’attuale ordine mondiale, o di ciò che ne resta. Pur essendo molto diverse per dimensione economica – il Pil russo equivale a un ottavo circa di quello cinese, e ai tre quarti di quello italiano – Cina e Russia sono infatti mosse da una comune propensione all’utilizzo della forza nell’accaparrarsi risorse naturali, nell’ampliare la loro influenza politica e presenza militare, nella politica del fatto compiuto. Cina e Russia si preoccupano sempre meno di dover risolvere – come prevedono trattati e statuti che hanno ratificato – ogni eventuale controversia attraverso i numerosi strumenti giurisdizionali e pattizi offerti dal Diritto internazionale. Da parte italiana, numerose incertezze, rinunce, ambiguità nei riferimenti fondamentali della nostra politica estera e di sicurezza, europea, atlantica e mediterranea hanno tuttavia contribuito, e non poco, a ridimensionare il ruolo dell’Italia sulla scena globale. Se pertanto si è chiuso un decennio che sarebbe arduo valutare come positivo per il ruolo internazionale del Paese, ancor meno accettabile è la scarsità di risultati conseguiti nell’affermazione dell’interesse nazionale e della sovranità dell’Italia.
NON UN DECENNIO PERSO PER LA «DIPLOMAZIA DELLA CULTURA»
Vi è tuttavia un ambito che si è rivelato sorprendentemente vitale anche negli ultimi dieci anni, persino più di quanto non lo sia stato in precedenza. Una dimensione cresciuta con dinamiche essenzialmente proprie, per lo più estranee all’impiego di risorse pubbliche, a strategie di Governo, o a visioni sostenute nei palazzi del potere. Si tratta della «Diplomazia della Cultura»: terreno privilegiato di interazione tra le «società civili», tra grandi e meno grandi protagonisti del sapere, della comunicazione e della conoscenza a livello globale. Ed è proprio in tale dimensione che si sta affermando con maggior chiarezza un ruolo di primo piano dell’Italia sostenuto dai valori identitari e culturali di «italianità» propri alle nostre comunità all’estero. Vi sono principalmente tre motivi che rafforzano questa tendenza: 1. In primo luogo, si rileva da tempo una motivazione crescente delle nostre comunità all’estero – per effetto soprattutto della accelerata globalizzazione del sapere sostenuta dalle nuove tecnologie – a «promuovere l’Italia» nella sua riconosciuta «unicità» di patrimoni culturali e di bellezza che colma oltre due millenni di una storia al centro dell’Europa e del Mediterraneo. 2. Inoltre, tale elemento motivazionale appare concentrarsi tra i giovani; siano essi di seconda, terza o altra fascia generazionale della nostra emigrazione; così come tra quanti sono partiti per l’estero in numero crescente negli ultimi dieci-quindici anni. Sono stati e continuano a essere sempre più numerosi i nostri giovani e giovanissimi impegnati a formare nei nuovi Paesi di residenza centri di studio, associazioni, reti di scienziati, di studiosi e professionisti, a lanciare con partner in Italia collaborazioni nella ricerca, nei servizi e nell’industria dei settori tradizionali del «Made in Italy» e dei comparti più innovativi, nelle attività di cooperazione allo sviluppo, maturando positive esperienze imprenditoriali e di lavoro tra le realtà nelle quali vivono e operano all’estero e il paese di origine. 3. In terzo luogo, come recentemente ha scritto da Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera», «l’Italia da sola ha una stazza troppo leggera per ambire a un ruolo significativo: anche solo per difendere i propri interessi. Ha bisogno di un partner forte, quanto più possibile forte. Ora, non potendo questo partner essere l’Unione Europea (…) la scelta si restringe di fatto agli Stati Uniti. (…) oggi nel teatro geografico che più ci interessa la posizione degli Stati Uniti appare oscillante tra tentazioni di disimpegno e affondi improvvisi. Sta di fatto però che nella politica americana alcuni punti fermi sono comunque ravvisabili: contrasto con l’espansionismo russo; un consolidato buon rapporto con il fronte islamico tradizionalista e anti-iraniano; una permanente intesa di fondo con Israele. (…) l’accredito di cui l’Italia gode nel mondo arabo, la sua posizione geografica di assoluto valore strategico unitamente al suo forte legame con la Santa Sede e da ultimo la sua qualità di terzo Paese dell’Unione Europea e quindi potenziale importante sponda con Bruxelles utili per consentire di stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più forte e concertato di quello attuale». Nel rapporto privilegiato tra Italia e Stati Uniti conta, e può ancor di più influire in futuro, la realtà italiana negli Stati Uniti purché Roma esprima consapevolezza di un interesse nazionale imperniato sull’italianità nel mondo e sulle opportunità offerte dalla grande comunità italiana negli Usa.
… E PER IL SOFT POWER
Se ricerca e sviluppo in Italia soffrono di un’endemica carenza di risorse, per disfunzioni amministrative o fondi decrescenti, decine di migliaia di nostri studiosi nelle più prestigiose università sono una forza insostituibile per collaborazioni e partenariati in campi di ricerca avanzata dai quali spesso possono operare in stretto rapporto con nostre aziende, enti e istituzioni. Tutto questo è anche il soft power del nostro Paese, ed è un fondamentale interesse nazionale sostenerlo nel modo più convinto. Il principale studioso del soft power, Joseph Nye, ne ha definito i contenuti sottolineando come si tratti di strategie utilizzate da un Paese e da una società civile per diventare attraenti nel mondo anziché utilizzare la coercizione, gli interessi nazionali possono essere sostenuti attraverso un mix di cultura, valori, iniziative di politica estera con le quali persuadere gli altri ad agire in modo compatibile con gli interessi nazionali affermati da chi ricorre al soft power. In questa linea è stato autorevolmente affermato che la democrazia liberale è il sistema di governo certamente più idoneo ad agire attraverso soft power. Riesce necessariamente più difficile farlo a un sistema autocratico o dittatoriale. E in effetti, mentre il presidente cinese Xi Jinping aveva affermato che i «valori sottostanti alla Via della Seta e alla Belt and Road Initiative hanno un richiamo più forte che in passato», le iniziative infrastrutturali e culturali promosse da Pechino stanno avendo crescenti difficoltà nell’ammorbidire la dura immagine internazionale della Cina. Autorevoli analisti, come sottolinea «Portland Report 2019» sul soft power, giudicano la Via della Seta e la Belt and Road Initiative un danno per la reputazione internazionale della Cina. Non è un caso che nel raffronto analitico tra le diverse componenti del soft power in Cina e in Italia, il nostro Paese appaia negli ultimi tre anni in netta crescita mentre la Cina registra una considerevole flessione.
Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Affari Esteri