L’industria dei cavi sottomarini e gli interessi strategici del Paese

Intervento introduttivo del presidente Adolfo Urso al seminario  della Fondazione Astrid su “Industria dei cavi sottomarini: tendenze di mercato e geopolitica”

 

Colgo in apertura l’occasione per ringraziare Astrid e Franco Bassanini per la possibilità di continuare ad imparare in seminari come questo odierno, perché credo fortemente sia fondamentale per me, ed in generale per la classe dirigente di questo Paese, non smettere mai di apprendere su temi strategici e prioritari di cui è necessario avere approfondita conoscenza se si vuole agire, in tempi rapidi, in un mondo in cui assistiamo a continue accelerazioni nello sviluppo dei principali settori economici e tecnologici. Quindi, cercherò in particolare di ascoltare i vari interventi, che saranno molto utili, così come sono stati già molto utili incontri passati che ho avuto con alcuni di voi per continuare ad apprendere su questa materia.

Si tratta di questioni fondamentali nell’ambito del ruolo di Presidente che svolgo presso il “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” (Copasir), soprattutto per allargare anche la prospettiva con cui in quella sede affrontiamo le tematiche della sicurezza nazionale. Il Copasir, infatti, non si occupa soltanto di intelligence, come accadeva in passato, e la stessa denominazione “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” indica l’ampio perimetro della politica della sicurezza nazionale nei suoi vari aspetti, anche quelli riguardanti l’industria e la tecnologia del Paese.

Nell’ambito del mio lavoro di parlamentare, tra l’altro, ho presentato in Parlamento una mozione che riguarda proprio la politica italiana sui cavi sottomarini. Una mozione

parlamentare che non è stata né esaminata né discussa dal Parlamento, presentata oltre un anno fa, e che affrontava i temi complessi di cui discutiamo oggi.

È di assoluta importanza sottolineare che noi abbiamo un’industria ed una tecnologia da tutelare e da rafforzare nel campo dei cavi sottomarini. Non siamo infatti secondi a nessuna altra realtà internazionale, e possiamo svolgere un ruolo importante e significativo sotto i diversi aspetti che riguardano, ad esempio, le tendenze di mercato.

Ritengo su questo punto molto significativo il documento che avete presentato, in particolare per come riassume le modalità con cui si è sviluppato il mercato dei cavi sottomarini, come ha avuto un’accelerazione e quali sono i soggetti privati e pubblici, imprese e Stati, che intervengono e che comportano quindi considerazioni di natura geopolitica.

Per quanto riguarda il Copasir, la parte geopolitica di maggiore interesse è ovviamente la parte della sicurezza, tenendo però ben presente che le ricadute nel sistema industriale sono altrettanto significative: se infatti l’Italia perde eccessivo terreno nel campo della tecnologia e dello sviluppo industriale, utilizzare tecnologie altrui ci renderebbe sempre più dipendenti ed – in alcuni casi – soggetti a rischi che riguardano la nostra sicurezza nazionale. Questo vale nel settore di cui stiamo discutendo oggi, come sul terreno più ampio della transizione digitale e della transizione ecologica.

Se, lungo il percorso di queste due transizioni, l’Italia diventa Paese meramente utilizzatore di tecnologia altrui, aumenta in maniera esponenziale la dipendenza da altri paesi, con le conseguenze che tutti conosciamo. In particolare, si tratta della sicurezza nazionale, la quale ruota intorno all’informazione e ai dati che passano attraverso i cavi sottomarini, come è evidenziato sempre nella nota che avete condiviso in preparazione del seminario, ma anche della capacità di sviluppo dell’industria e dell’economia e quindi del lavoro italiano.

Il rischio che davvero corriamo, in riferimento anche all’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), e di tutto quello che ne deve conseguire in termini di investimenti, è che l’industria ed i prodotti italiani – alla fine – non siano protagonisti

nei settori tecnologici di punta, non siano quindi attori protagonisti delle due transizioni – digitale ed ecologica – verso un’era moderna, verso un nuovo modello di sviluppo.

Parlando più specificatamente dei cavi sottomarini, è importante l’esempio degli hub del gas. L’Italia, infatti, è un hub europeo di gas coi suoi gasdotti, e questo è un elemento di forza del sistema, poiché ad esempio alla luce dei recenti rincari dei prezzi, consente all’Italia di essere abbastanza garantita, se non altro sotto l’aspetto dell’approvvigionamento. Non ovviamente dal lato dei prezzi, poiché su questo aspetto incidono altri fattori legati al settore energetico. L’Italia può però diventare un hub importante anche per quanto riguarda il sistema dei cavi sottomarini e dei cavi terrestri.

In una interrogazione che presentai in Parlamento, prima di divenire Vice Presidente e poi Presidente del Copasir, posi la questione della necessità di una strategia italiana in materia di industria dei cavi, contemplando l’utilizzo dello strumento del golden power nel caso dell’azienda Interoute, una multinazionale europea che possedeva il più esteso backbone in fibra ottica presente sul continente europeo, frutto del lavoro delle imprese italiane, che avrebbe potuto essere recuperato al sistema Italia se il governo avesse attuato la stessa strategia che aveva attuato in passato. Lo strumento della golden power sarebbe infatti determinante per recuperare a sistema anche un’importante dorsale di telecomunicazione, di trasmissione di informazione europea.

Reputo pertanto che manchi all’Italia un “progetto Paese”, in cui lo Stato sappia difendere i propri interessi in settori strategici, in particolare in quelli innovativi dal punto di vista tecnologico. Recentemente, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato, molto correttamente, che lo Stato, nella frontiera tecnologica, deve essere presente. Le sue parole erano riferite alla frontiera tecnologica del digitale, nel campo della green economy e del settore energetico.

Nei settori di frontiera tecnologica, lo Stato deve svolgere un ruolo attivo, come viene svolto ad esempio dalla Repubblica Popolare Cinese o dagli Stati Uniti, secondo un modello di “capitalismo di Stato”. Un esempio è come gli Stati Uniti si stanno muovendo nel settore dello spazio, tema a cui ci stiamo interessando molto anche noi.

Sarebbe pertanto utile che il nostro Paese si dotasse finalmente di una strategia anche nella politica riguardante i cavi sottomarini. Una strategia necessaria perché, come è stato giustamente sottolineato nella nota introduttiva al seminario, ben il 99% delle informazioni e dei dati globali passano attraverso questa infrastruttura. Peraltro, diventa ancor più fondamentale svolgere un ruolo importante in questo settore, in un momento storico in cui connettere le varie aree geografiche è fattore determinante per il modello economico dominante.

In questo contesto, ci auguriamo inoltre che la strategia di cui si deve dotare l’Italia – ma anche l’Europa – consenta al Mediterraneo di svolgere un ruolo importante nel connettere l’area atlantica con l’area del Pacifico, il continente americano e quello europeo e, queste due ultime aree, con le zone in forte sviluppo dell’Africa e dell’Asia.

Il Mediterraneo rappresenta infatti il centro strategico che può connettere tutte queste realtà, uno snodo fondamentale che sarebbe auspicabile, tramite ad esempio gli hub di Palermo o Genova e non solo di Marsiglia, potesse svolgere un ruolo da protagonista nell’ambito dello scambio e della trasmissione di dati e informazioni a livello globale.

La competizione è molto forte anche sulla scelta delle aree dove i cavi sottomarini si ricollegano a quelli terrestri; per questo è importante avere una posizione dell’Italia decisa e in grado di favorire i propri hub e quindi di creare una dorsale italiana strategica a livello internazionale. È necessario quindi porre grande attenzione che le nuove infrastrutture di cavi sottomarini che stanno nascendo e nasceranno nel Mediterraneo non “saltino” i nostri hub, in favore di hub tedeschi (Francoforte) o francesi (Marsiglia), favorendo quindi le economie e gli interessi di altri paesi a discapito dei nostri.

In conclusione, l’Italia deve recuperare al più presto il terreno perso in questo settore strategico anche a causa, e lo dico senza intenti polemici, di alcune privatizzazioni di grandi imprese nazionali che hanno di fatto impedito all’Italia di avere un ruolo importante nella costruzione delle infrastrutture dei cavi sottomarini. Motivo per cui, ad esempio, per altre grandi imprese italiane come Enel ed Eni, fu scelto un modello

diverso, che ha oggettivamente funzionato, in cui il ruolo del pubblico rimaneva centrale. Per altre aziende, come ad esempio Telecom Italia, purtroppo furono fatte scelte diverse: meno di tre decenni fa Telecom Italia era una delle più grandi aziende di telecomunicazione globali ed oggi abbiamo quel che il mercato ci ha riservato.

Si tratta purtroppo di errori del passato che hanno conseguenze importanti sul presente. Nell’ambito del settore di cui discutiamo oggi, quello dell’informazione e dei dati, della loro trasmissione, circa trent’anni fa furono fatte scelte sbagliate, non considerandolo strategico al pari di quello dell’energia, del gas o del petrolio. Non si è avuta la capacità di comprendere che invece si trattava di settori probabilmente ancor più strategici di quelli citati, che – se affrontati con politiche economiche e industriali adeguate – oggi non ci avrebbero posto nella condizione di dover gestire e superare le enormi difficoltà con cui invece dobbiamo confrontarci.

È importante però recuperare il tempo perso e rimediare agli errori fatti in passato, poiché è ancora possibile ritagliarsi un ruolo importante a livello internazionale, applicando un’unica logica in quello che è lo sviluppo del sistema digitale in questo Paese. Lo Stato può avere una sua strategia che può poi declinarsi di volta in volta secondo strumenti diversi: ad esempio, tramite la golden power per difendere i propri interessi nazionali, o tramite la Cassa Depositi e Prestiti, per intervenire in maniera attiva in alcuni settori strategici, o infine attraverso la politica regolamentare.

A monte di tutto ciò, è però decisivo che lo Stato si doti di una strategia ben precisa ed organica, in grado di fare dell’Italia una piattaforma digitale e di connettività tra contenimenti nel Mediterraneo e in Europa. Per questo, è necessario che anche le aziende svolgano un ruolo attivo e centrale nel settore dei cavi sottomarini, ragionando e operando in una logica di sistema. Soltanto ragionando in questi termini, si può giungere ad accordi internazionali che tutelino gli interessi italiani ed europei. Il nostro Paese, ovviamente, non può aderire direttamente a consorzi internazionali, né è dotato di imprese in grado di fare da sole quello che sono in grado di fare le grandi Big Tech americane o cinesi, ma può mettere in campo una strategia di sistema Italia, in cui le

nostre imprese sono incentivate ad aderire a consorzi di imprese internazionali, delineando un piano nazionale che renda la nostra penisola una piattaforma strategica, interconnessa con cavi sottomarini al resto d’Europa e, attraverso l’Europa, all’Atlantico, interconnessa nel Mediterraneo con i paesi africani. In particolare, l’Italia deve mirare a rappresentare un hub centrale tra i paesi della sponda sud del Mediterraneo, che dovranno interconnettersi con la piattaforma europea, e quei paesi che vorranno connettersi con i paesi asiatici, dove nei prossimi anni, è prevista la maggiore produzione di informazione.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Europa resta il continente che produce la maggior quantità di dati ed informazioni, e di conseguenza non dobbiamo dimenticare quanto sia importante preservare questi dati e queste informazioni. Questi elementi, infatti, oggi rappresentano il campo da gioco dove si svolge la partita della geopolitica, ed è estremamente importante per l’Italia svolgere un ruolo centrale. Dotarsi di una gestione strategica dei dati oggi consente, da una parte, di garantirsi maggiore sicurezza nazionale, e, dall’altra parte, di sviluppare i settori dell’industria, della ricerca della tecnologia, incentivando e attraendo investimenti internazionali.

Credo quindi che il seminario che Astrid ha organizzato oggi sia molto importante anche per lanciare un messaggio alle istituzioni, che devono rendersi conto della grande velocità con cui certe dinamiche si stanno sviluppando, anche a seguito della recente pandemia e del lockdown a cui siamo stati costretti. Abbiamo infatti scoperto tutti quanto sia importante il lavoro a distanza, e quanto sia importante la rete Internet. L’uso della rete ha raggiunto livelli incredibili, rendendoci consapevoli sia degli aspetti positivi, sia di quelli negativi in termini di sicurezza e vulnerabilità (ad esempio in ambito sanitario).

Ci rendiamo quindi conto, e mi rivolgo in particolare all’amico Bassanini, quanto sia importante creare una rete in Italia che giunga all’ultimo miglio nel più breve tempo possibile. Se non abbiamo una rete italiana di banda ultra larga, se non abbiamo un Cloud nazionale della pubblica amministrazione che preservi i nostri dati, se non

abbiamo investimenti significativi, una connessione di cavi marittimi e cavi terrestri per farci diventare piattaforma digitale europea nel Mediterraneo e quindi nel mondo, anche le risorse, il PNRR, subiranno una dispersione e andranno a beneficio di altri, non certamente a noi.

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo

 

Semipresidenzialismo e maturità politica

Le recenti dichiarazioni di Giancarlo Giorgetti sulla possibile ascesa Quirinalizia di Mario Draghi, pongono il sistema istituzionale italiano nuovamente di fronte ad interrogativi irrisolti che, ciclicamente, si ripropongono mescolandosi con l’attualità contingente. L’eventualità che il Presidente del Consiglio continui ad esercitare de facto le sue prerogative dal Colle, impersonificando il ruolo di Capo dello Stato ma modificandone così profondamente la concezione e le stesse prerogative, è la spia evidente dello sbando e dell’incertezza esiziale che ha avvolto la politica Italiana. Non una mancanza di decisionismo, bensì una diretta conseguenza del depauperamento della classe dirigente, ormai incapace di rinnovarsi e costretta a preconizzare scenari incerti da cui far dipendere principalmente la propria sopravvivenza. In questo perverso meccanismo di autoconservazione, è stato più volte sottolineato come la figura di Draghi si ponga da garante degli equilibri politici e dell’azione di governo, che è libero di proiettare in una dimensione internazionale, ottenendo in cambio rassicurazioni su materie economiche e un rinnovato prestigio personale.

Grazie alla sua indiscussa autorevolezza, per la prima volta nella storia delle istituzioni repubblicane il Presidente del Consiglio lascia che siano i partiti a restringere il campo da gioco, concentrando le poche energie intellettuali su terreni di scontro meramente ideologici, facilmente spendibili agli occhi di un elettorato stanco e disaffezionato alla politica, in un contesto che ha perso i suoi originari connotati emergenziali propri della pandemia, ma che sembra vivere soltanto della propria inerzia.   È anche vero tuttavia, che un simile meccanismo di “volontaria” subordinazione, da un lato accentua ancora di più la deresponsabilizzazione dei partiti, alla quale nessuno vuole o può porre rimedio e dall’altro rende più evidenti le lacerazioni interne agli schieramenti più che mai traballanti, che rischiano di non sopravvivere alla stagione di cambiamenti alle porte. L’agenda Draghi capovolge i tradizionali scenari tripolari o bipolari, in cui i leader politici erano abituati a misurarsi con una certa sicurezza e individua nell’adesione al programma di governo il metro di valutazione di divisioni e alleanze. I partiti così estraniati dalla complessità in cui verrebbero altrimenti immersi, sarebbero ben disposti a rinunciare ad una fetta della propria autonomia decisionale, sulla cui lungimiranza si potrebbe comunque dubitare, venendo così trasformati da azionisti di governo in una sorta di azionisti di risparmio della politica. Svuotati dall’interno e vittime inconsapevoli delle proprie manchevolezze, raccoglierebbero senza fatica il dividendo in termini di consenso, che la partecipazione all’esecutivo o all’opposizione garantirebbe in modo automatico, dando solamente l’illusione di poter incidere nelle scelte più importanti, sulle quali l’influenza del Capo del Governo sarebbe pressoché totale.

Se questo scenario trova una parte dell’emiciclo favorevole, con il sostegno più volte manifestato alla prosecuzione dell’esecutivo, nella speranza di una riedizione dell’attuale schema per i prossimi anni, c’è tuttavia una compagine eterogenea che, per ragioni tutt’altro che irrilevanti, prova a far collimare la figura di Mario Draghi con le scadenze imposte dal calendario istituzionale. La più importante, quella dell’elezione del Presidente della Repubblica, consegna all’incertezza del momento le giravolte improvvisate dei segretari di partito, finendo con rievocare la paradossale situazione del febbraio 2021, quando una classe dirigente allo stremo ha invocato e ottenuto per sua stessa inadeguatezza la presenza a capo del Governo di una figura che fosse allo stesso tempo propulsiva, se non persino sostitutiva, e di garanzia del sistema. Si può certamente dubitare della compatibilità del Colle con le caratteristiche che in questi mesi ha assunto la nostra forma di governo, che troverebbe nel Quirinale il luogo più opportuno per la sua riproposizione. E’ opportuno domandarsi sino a che punto una simile interpretazione materiale della Costituzione possa porsi in modo antitetico con la legittimità stessa della Carta fondamentale, e le intenzioni di chi contribuì a redigerla ? In altre parole, quali sono i confini istituzionali che l’attuale ordinamento conferisce alla figura del Capo dello Stato e quanto possono essere snaturati da chi la impersonifica come in questo caso ? L’ampiezza con cui alcuni inquilini del Quirinale hanno interpretato il loro ruolo, non ci pone al riparo da questi interrogativi.

Una via Italiana al Semi-Presidenzialismo, a lungo accarezzata con tentativi fallimentari di vaste riforme costituzionali, potrebbe realizzarsi in via informale, “de facto” e andrebbe sicuramente contro la concezione schiva e morigerata che un’altra parte dell’emiciclo attribuirebbe volentieri ad un Presidente notaio, vocato unicamente a prendere atto delle decisioni che attendono la sua ratifica. Una figura che mal si concilia con l’estremo senso di inadeguatezza che trasmette buona parte della classe dirigente e che andrebbe sicuramente a cozzare con le priorità di un’incisiva azione di Governo, che per loro stessa natura devono rifuggire le pulsioni elettorali infantili a cui siamo purtroppo abituati. Con Mario Draghi al Quirinale cambierebbe radialmente la sostanza, e il decisionismo dei precedenti inquilini del Colle non sarebbe certo paragonabile agli attuali equilibri che vedono nella trasversalità e nella condivisione l’elemento di esistenza della nuova svolta Semi-Presidenziale, rispetto ai tradizionali scontri istituzionali con il Capo dello Stato propri del bipolarismo all’Italiana. Tenendo fuori dalla contesa il tema del vincolo esterno, che pure inevitabilmente si appalesa, appare chiaro che il bivio di Febbraio nasconde più di quelle semplici insidie del Vietnam parlamentare destinate a dissolversi con l’ultimo scrutinio. Se ogni elezione del Capo dello Stato è stata definita a suo modo “fondamentale” e destinata a lasciare il segno negli anni successivi, oggi non è errato portare all’eccesso questo concetto. La lunghezza del mandato poi, che molti ricorderanno collimare con l’originale settennato Gollista, spalma gli interrogativi su un arco di tempo abbastanza lungo per mandare in crisi i partiti politici, che tradizionalmente consumano le proprie ambizioni nell’orizzonte dell’immediato.

La proposta di Mario Draghi al Colle comunque la si interpreti è l’emblema della consapevolezza raggiunta da una parte della classe dirigente sui propri limiti intrinsechi, una presa d’atto che con qualche eccezione individua nel campione “esterno” la soluzione ai problemi del paese. Un’ammissione di fallimento della propria missione, a coronamento di un trentennio di vuoto istituzionale culminato con ben tre governi tecnici, triste unicum nel panorama internazionale, che può però a suo modo porsi come impulso di rinnovamento. Un cambiamento che avverrà solo se i protagonisti della scena dismetteranno i panni del canovaccio, per rientrare nei binari che la qualità della rappresentanza di un grande paese come l’Italia rivendica a gran voce, sia per la maggioranza che per l’opposizione, oggi più di prima.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

G20 E I NUOVI ASSETTI INTERNAZIONALI

Il G20 straordinario, voluto e presieduto dall’Italia, ha portato ad una decisione condivisa sul futuro dell’Afganistan.
Come risultato è stato conferito all’ONU uno specifico mandato operativo per implementare  “con tutti i mezzi necessari” le decisioni prese dai venti Paesi più importanti della terra.
Per la prima volta il Palazzo di Vetro non è più il luogo dove, anche se solo formalmente, si decide sui destini del mondo, ma diventa il braccio operativo delle decisioni dei Grandi della Terra, riuniti in un diverso ed evidentemente più autorevole consesso internazionale.

Vengono così “de facto” bypassati interminabili riti e procedure e con essi le complesse strutture ( Assemblea, Commissioni e Sottocommissioni, Consiglio di Sicurezza, Membri permanenti con diritto di veto,Segretariato Generale) che, dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale, avevano discusso dei destini del mondo. Riti consunti e strutture obsolete che da settant’anni erano oggetto di un perenne tentativo di revisione e aggiornamento, sempre impedito dai cosiddetti Grandi (4+1), fortemente determinati a non perdere rendite di posizione allora assegnatesi e diritti arrogatisi.
A nulla erano valse le considerazioni sulla crescente valenza di alcune economie, i cui pesi specifici venivano evidenziati dall’importanza dei vari G5, G7,G10, dove crescevano Germania, Giappone e Italia. A nulla avevano portato i morbidi e timidi tentativi  degli “esclusi”  di trovare nuovi schieramenti al passo coi tempi, come quello, pur pregevole, del “circolo del caffè”, ideato dall’ambasciatore Francesco Paolo  Fulci e perseguito negli anni novanta dalla diplomazia italiana.
Il mondo di oggi, che rinasce dopo la terribile pandemia, è partito al galoppo verso una direzione non precostituita ed ancora difficile da prevedere, dove stanno contando personalità e autorevolezza dei nuovi leader e in definitiva delle singole nazioni da essi guidate.

Non possiamo escludere colpi di coda di chi non intende perdere anacronistiche rendite di posizione, anzi aspettiamoceli, ma gli ultimi accadimenti macroeconomici e geopolitici, di cui questo G20 guidato dall’Italia, è solo l’ultimo e più eclatante episodio, sembrano indicarci che probabilmente siamo all’inizio di una trasformazione degli assetti mondiali.

*Carmelo Cosentino, ingegnere, presidente ASE spa

Per una Italia più forte e più verde

In previsione della convocazione del G20 a Roma il 30-31 Ottobre di quest’anno, la Fondazione Edison ha pubblicato un fascicolo intitolato G20 and the Italian economy, key indicators to be kept in mind, tanto prezioso per i contenuti raccolti quanto chiaro nell’esporli.

L’incredibile combinazione fra alta efficienza nell’uso dell’energia (l’Italia è il secondo paese meno energy-intensive del G20 dopo Regno Unito) e ridotte emissioni di anidride carbonica (terzo dopo Argentina e Francia con 302.8 MTons di CO2 emesse), rendono il Bel Paese un caso più unico che raro nel panorama delle potenze occidentali, specie se si considera che la Francia, che produce più del 40% della propria energia con centrali nucleari ad emissione praticamente zero, emette annualmente circa 293.2 MTons di CO2. Storicamente povera di materie prime, di minerali sia energetici che non, l’Italia è sempre stata in grado di “fare molto con poco” e ne è un chiaro esempio il proprio mix energetico, specchio di un paese geograficamente ed economicamente molto disomogeneo ma al contempo paradigmatico della transizione verso un’economia ad emissione carbonica zero, per la quale non solo partiamo avvantaggiati, ma in grado di dettare la linea.

Il mix energetico italiano si basa su tre assi portanti: derivati liquidi del petrolio (circa 37%), gas naturale (circa 35%) e rinnovabili (circa 20%). Le recenti scoperte di giacimenti nel mar Mediterraneo, l’inizio dello sfruttamento dei pozzi a largo di Ravenna e nell’Adriatico e i nuovi gasdotti col vicino oriente (TAP e EastMed) aumentarenno rapidamente il contributo del gas naturale, destinato ad avere un ruolo cruciale nella transizione energetica per le basse emissioni e la grande disponibilità in natura, a scapito del petrolio liquido soppiantandolo già dal 2030.

La riduzione ulteriore delle emissioni di anidride carbonica deve rientrare infatti nella strategia economica e commerciale del sistema paese dei prossimi anni, ispirandone l’approccio verso le nuove tecnologie, aprendo la strada, in intesa coi nostri partner, al meccanismo tariffario carbonico che l’Unione Europea sta preparando e facendoci guadagnare vantaggio sui memorandum degli accordi di Parigi.

La decarbonizzazione dell’economia deve essere un’opportunità per l’Italia per azzerare la dipendenza energetica dai paesi del nord Europa e riportare il baricentro dell’economia comunitaria nel bacino del mediterraneo. In questa direzione va la nuova geopolitica del gas naturale ma anche le fonti rinnovabili, che sfruttano soprattutto l’energia solare e quella eolica verso le quali la transizione completa è prevista entro il 2050.

La maggior limitazione all’uso su larga scala di queste fonti, che sono lo step successivo all’uso del gas naturale, è dato dal basso rendimento (circa il 20% per i pannelli fotovoltaici e 40% per le pale eoliche), l’intermittenza della produzione di energia e la difficoltà nel trasporto. Sfruttare un vettore energetico puo’ essere la soluzione. La SNAM, controllata cdp ed eccellenza italiana nella distribuzione di gas naturale, sta scommettendo nella produzione e distribuzione, ormai dal 2019, di una miscela di idrogeno e gas naturale per consumo industriale, partendo dal 5%, fino ad arrivare pochi giorni fa (19/05/2021) all’uso di una miscela al 30% H2 e gas naturale in un forno per la forgiatura di acciaio.

L’uso di tale vettore energetico pone molte criticità a causa delle elevate pressioni di stoccaggio e dalla tendenza del gas ad interagire con i metalli normalmente usati nelle condotte di distribuzione del gas provocandone un severo infragilimento che porta spesso a rottura improvvisa compromettendo la vita di tutto l’impianto.

Lo sviluppo di una filiera tecnologica per la produzione, la distribuzione e lo sfruttamento di questo elemento rientra nel perimetro dell’interesse nazionale per varie ragioni:

1 – l’Italia è uno dei primi paesi al mondo per la produzione di valvole, turbine a gas ed elementi di condotte per l’oil and gas (il solo export dei primi due elementi vale 8.21 e 4.9 miliardi di euro all’anno). Lo sviluppo di acciai speciali adatti al trasporto di idrogeno sarebbe un volano per i nostri settori industriali, ridando vitalità a tutto l’indotto, dalla ricerca e sviluppo, alla produzione e fino ai trattamenti superficiali del manufatto.

2 – Si potrebbe creare una filiera tutta italiana di sviluppo della tecnologia su cui già siamo leader, con potenzialità dell’ordine di grandezza del commercio mondiale.

3 – Sfruttando la produzione per idrolisi dell’idrogeno è possibile raggiungere l’indipendenza energetica abbinando le celle idrolitiche a centrali fotovoltaiche o eoliche offshore che servirebbero da veri e propri giacimenti di gas a largo delle coste italiane o nei deserti nord africani ricchissimi di luce solare, laddove le condizioni lo permettessero.

La transizione energetica richiederà una formula mista di produzione dell’energia per la quale siamo già preparati ma serviranno sforzi significativi di riconversione, data l’insostenibilità economica di ricreare un sistema di distribuzione e produzione dell’energia ex novo. Riuscire a governare il cambiamento in atto nel settore dell’energia sarà la vera sfida del sistema paese e questo sarà possibile solo in sinergia col nostro tessuto industriale, sfruttando le nostre eccellenze nazionali ed europee e mettendole a sistema. Solo su queste basi possiamo costruire l’Italia e l’Europa di domani, più forte e più verde.

*Vittorio Casali De Rosa, ingegnere chimico 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRESERVARE I NOSTRI VALORI DALL’ONDATA GIALLA

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciammo noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Corrado Ocone

 Giambattista Vico ci ha insegnato che “la natura delle cose è nel loro nascimento”, cioè nella loro origine. Molti dei punti problematici evidenziati nelle relazioni precedenti, in merito ai nostri rapporti, economici e non solo, con la Cina, forse potranno ricevere qualche delucidazione ulteriore, rispetto a quanto pure si è detto, risalendo alla loro radice culturale. Per farlo mi servo delle riflessioni, affidate a più libri, da colui che, nel mondo filosofico, è probabilmente il massimo esperto della cultura cinese: François Jullien. Egli nelle sue opere ci ha ricordato come la Cina è la vera realtà esteriore all’Occidente, non potendosi dire altrettanto, ad esempio, né della cultura islamica né di quella indiana. La sua lingua, fra l’altro, non appartiene nemmeno al ceppo indo-europeo, e ciò non è da considerarsi un elemento secondario: i filosofi più degli altri sanno che il linguaggio non è un semplice strumento di comunicazione, ma è il luogo in cui, per così dire, si crea il mondo, in cui si forgiano le strutture mentali con cui noi ci mettiamo in rapporto con la realtà.

Non è un caso, ed è comunque un fatto, che la cultura cinese si sia sviluppata da sempre in modo autonomo, e con successo, e che sia risultata impermeabile all’influenza dell’uomo occidentale quando costui, all’inizio dell’età moderna, ha cominciato ad estendere la sua potenza sulle più sperdute contrade del mondo. Basti considerare il diverso modo in cui hanno reagito i cinesi e gli indigeni americani all’impatto con l’Occidente nel XV e XVI secolo. La Cina non si è cristianizzata. I viaggiatori che andavano in Cina trovavano un “mondo pieno”, mentre in America trovavano un mondo capace di essere svuotato dalla nostra cultura. Mentre noi abbiamo costruito dei miti, come quello del buon selvaggio e altri, che in qualche modo assimilavano gli indigeni americani al nostro essere stati “uomini primitivi”, in Cina tutto questo non è accaduto né poteva accadere essendosi la civiltà cinese sviluppata molti secoli prima della nostra.

La cultura cinese non può essere affrontata nell’ottica dell’esotismo perché essa è “altra” dalla nostra semplicemente perché ha sviluppato degli elementi che sono anche presenti nella nostra tradizione culturale ma che noi in qualche modo avevamo accantonato. I cinesi non hanno sviluppato la logica razionale, o meglio la loro razionalità è diversa dalla nostra: elemento che, andando sul pratico, ci farà capire il loro atteggiamento nei nostri confronti. Noi sin da Platone e Aristotele abbiamo concepito in qualche modo l’idea della razionalità intendendola come ricerca dell’Eidos , l’Idea, e del Logos, il concetto. Questo processo ha avuto un’impennata nel XV e XVI secolo, quando noi, con l’opera di Galileo, Newton e altri, abbiamo cominciato a costruire la nostra cultura attuale fondata sul razionalismo. Da allora ad oggi noi, portando all’estremo questo razionalismo, abbiamo messo in pratica gli strumenti che ci hanno portato a dominare il mondo. I cinesi hanno vissuto il nostro distanziamento nei loro confronti come qualcosa che li ha feriti nel loro più profondo. Fino a quel momento, la Cina non era affatto “inferiore a noi”, anzi in alcuni settori (ad esempio quello della navigazione), ci surclassava.

Quando i primi missionari raggiunsero Shangai, non solo dovettero adattare i loro costumi a quelli indigeni, al contrario di quello che avevano dovuto fare in America, ma trovarono una città per certi aspetti più progredita di molte città occidentali. Ma cerchiamo di capire cosa è da intendersi propriamente per razionalismo, ovvero cosa è il razionalismo moderno. Noi agiamo nella realtà creandoci dei “modelli” e cercando di “applicarli” ad essa. Ovviamente la realtà fa attrito, recalcitra, e non sempre questa “applicazione” è perfetta o conseguenziale, ma comunque noi agiamo in questo modo (è in questo contesto, detto fra parentesi, che nasce il mito dell’individuo, che nella storia cinese non esiste). Quindi noi ragioniamo secondo la logica mezzo-fine: abbiamo un fine, un obiettivo, il telos e cerchiamo di trovare i mezzi migliori, più “economici”, per raggiungerlo. È la logica della “realizzazione” la nostra. Quella cinese, presente fra l’altro in alcuni momenti della storia occidentale, è invece una logica della “propensione”. I cinesi partono dalla situazione e cercano di farla maturare a loro vantaggio, sfruttando in qualche modo le “pendenze” che quella situazione presenta. Noi diamo al termine “opportunismo” una accezione negativa che loro probabilmente non darebbero ad esso affatto. Il saggio o lo stratega militare deve prendere atto della realtà, non “modellarla” secondo i suoi fini: deve assecondare quei processi che permettono poi alla realtà di trasformarsi. Sun Tzu, un grande stratega militare del V secolo a.C. e uno dei padri della cultura cinese, scriveva che “le truppe vittoriose sono quelle che accettano il combattimento solo quando hanno già vinto. Le truppe vinte sono quelle che cercano la vittoria solo nel momento del combattimento” Quindi la cultura cinese impone, da una parte, un grande adattamento alla realtà, ma, dall’altra, una costante attenzione ad individuare i punti dove la realtà può essere piegata o indirizzata a nuovi sviluppi. Quindi il modo di agire dei cinesi, tramandatoci dalla loro cultura, è quello indiretto.

Noi agiamo per cambiare radicalmente le cose, loro vogliono trasformarle attraverso un fare amichevole. La loro logica quindi non è la logica del piano e non è una logica della “precisione”. Il filosofo francese Alexandre Koyré diceva che la modernità ha segnato il passaggio “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione” (è il titolo di un suo noto saggio del 1957). Quella dei cinesi resterebbe, in quest’ottica, una logica del “pressappoco”. Spesso i cinesi vengono accusati di non rispettare i contratti. Il fatto è che per loro il contratto non ha la forma rigida che ha per noi: è piuttosto un processo, qualcosa che continuamente si trasforma. I cinesi hanno ovviamente i loro fini, ma essi credono molto nella negoziazione. Quindi, stante questa interpretazione, quello che è successo in questi ultimi decenni esemplificherebbe in qualche modo il loro modo di agire. Entrando nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), ad esempio, essi hanno accettato le nostre regole e lo hanno fatto fino a che non ci hanno chiesto di collaborare più attivamente con loro. Nel frattempo, però, i rapporti di forza fra noi e loro erano cambiati. Quelle collaborazioni sono, in qualche modo, perdenti ab origine. Questo elemento culturale va tenuto molto presente perché non credo che il nostro modello di opporci frontalmente ai cinesi possa essere vincente: sostanzialmente è troppo tardi. Però conoscendo ciò che è tramandato nei loro trattati, conoscendo anche l’orgoglio che hanno della loro cultura e della loro civiltà, tutte queste cose avremmo dovute saperle. Anche se hanno vissuto come una ferita da rimarginare la nostra potenza tecnologica, essi non si sono mai sentiti inferiori all’Occidente e né hanno mai cercato di emularlo.

La Cina, quasi senza farsene accorgere, è penetrata nel nostro mondo più di qualsiasi altra civiltà. Ma era da immaginarselo. E infatti da subito grandi pensatori occidentali come Pascal, Montaigne, Montesquieu, avevano messo a tema questa “esteriorità” cinese. Montaigne, ad esempio, scriveva: “… in Cina, Regno del quale il governo e le arti, senza rapporto con le nostre e senza conoscenza di esse, superano in eccellenza i nostri esempi sotto diversi aspetti, e la cui storia insegna quanto il mondo sia più ampio e vario di quello che gli antichi e noi possiamo concepire …”. Ora tutto questo crea dei problemi grossi per la democrazia, per le libertà individuali, perché i cinesi non hanno una idea di individuo come l’abbiamo noi. Anche il loro leader è da considerarsi più che altro un timoniere: uno che aiuta il popolo cinese a fronteggiare le onde, quindi a considerare continuamente la situazione per tenersi in piedi nel modo migliore. Non avendo il concetto di individuo, è evidente che ogni insistenza nostra sulle libertà personali e sui diritti individuali ai cinesi dice poco, perché per loro è la comunità tutta che deve in qualche modo riuscire a raggiungere dei risultati. Poi c’è il problema del cristianesimo e dei rapporti del Vaticano con la Cina. Il Cristianesimo in Cina non ha avuto successo, non ha mai attecchito nella società. Fra l’altro, il cristianesimo di Stato non è il cristianesimo basato sull’autonomia morale dell’uomo che è il nostro. Questo è un fatto fondamentale. Quindi la nostra fondamentale preoccupazione dev’essere: come preservare i nostri valori dall’ondata cinese, la quale è in qualche modo un attacco al liberalismo. Il fatto è che non possiamo contare né in una contrapposizione frontale, essendo nel mondo contemporaneo i nostri legami strettissimi, né in una non frontale, in cui sarebbero senza dubbio vincenti. Un vero dilemma.

 

*Corrado Ocone, filosofo, saggista al meeting Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

Il dragone in Europa attraverso l’Italia

Finalmente l’Europa si è svegliata e si tutela dagli investimenti cinesi e persino la Germania denuncia che la via della Seta è lo strumento del dominio globale di Pechino. Quando lo denunciano noi, nel meeting internazionale della Fondazione Farefuturo, organizzato alla Camera proprio il giorno dell’arrivo trionfale a Roma del Presidente cinese, gli altri plaudivano agli accordi Italia-Cina sottoscritti dal governo Conte Lega-Cinque Stelle. Ecco il testo dell’intervento che in quella occasione fu svolto da Adolfo Urso

 

Questo meeting è organizzato da Farefuturo insieme alla Fondazione New Direction, la fondazione che fa riferimento in Europa al gruppo dei conservatori e riformisti e quindi alla famiglia dei conservatori europeo-occidentale, su un tema centrale per l’interesse nazionale in una giornata particolarmente significativa a poche ore dalla visita del Presidente della Repubblica Popolare di Cina in Italia, evento a cui viene dato un alto valore politico. In tale contesto, abbiamo voluto proporre un seminario di studi dal titolo emblematico “Il Dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” per analizzare il valore politico ed economico di alcuni accordi che verranno firmati in quella occasione dal Presidente Xi Jinping, che rappresenta tutte le cariche della Cina a cominciare da quella più prestigiosa di Segretario del Partito Comunista Cinese, e come tutti sanno, in Cina la carica del partito viene prima di quella dello Stato. Lui stesso nel presentare la sua visita ad un quotidiano italiano ne parla all’interno di un contesto storico, culturale e politico di straordinaria importanza a suggello del quale sarà apposta la firma di un MoU che riguarda la cosiddetta Via della seta, il primo realizzato da un Paese importante della NATO e da un Paese del G7.

Oggi la “Via della seta” è la più importante infrastruttura navale, ferroviaria, logistica del mondo, quindi è acciaio più che seta. Altrettanto significativi i circa cinquanta accordi collegati, alcuni tra aziende pubbliche, quindi su indirizzo specifico dello Stato, altre di aziende private di varia natura. Nel MoU non si affronta la tematica commerciale ma si parla di infrastrutture, trasporti, logistica, spazio, telecomunicazioni quindi di assetti strategici. Ovviamente non si parla di commercio strettamente inteso perché come tutti sanno la politica commerciale è esclusiva competenza dell’Unione Europea. Si parla invece di economia, di finanza e anche di quei settori strategici che vi ho citato prima ma non certamente di commercio in quanto tale, come si è voluto far credere. Il nostro export non ne trarrà alcun beneficio diretto. Ieri nel due rami del Parlamento, sia alla Camera che al Senato, c’è stato un dibattito su questo evento, certamente estremamente significativo per le conseguenze che ha sulla nostra collocazione internazionale, prima ancora per le sue ricadute sulla nostra economia.

Il Parlamento ha approvato una davvero strana mozione di maggioranza in cui si impegna il Governo a fare i dovuti accertamenti sulle ricadute del Memorandum: se il nostro interesse nazionale è garantito, se la nostra sicurezza nazionale è garantita se le relazioni e gli accordi internazionali sottoscritti dall’Italia a cominciare da quelli dell’Alleanza Atlantica e della UE sono garantiti; in sostanza, la stessa maggioranza chiede al governo di accertare e verificare ora a poche ore dalla sottoscrizione degli accordi se tutto ciò è garantito, dopo che per sette mesi i ministeri interessati hanno lavorato alla preparazione del MoU e degli accordi collegati avendo si presume fatto già tutti gli accertamenti necessari, in caso contrario sarebbe di fatto gravissimo. Il fatto che la stessa maggioranza impegni il suo governo a fare ora tutti i necessari accertamenti è di per se significativo e nel contempo inquietante per la leggerezza con cui si è affrontata la questione. Risalgono ai giorni immediatamente successivi alla formazione del governo le prime missioni in Cina del vice Primo ministro Di Maio e del ministro dell’economia Tria e poi un via vai di missione di esponenti di Cinque Stelle e del Sottosegretario al Commercio che di fatto in questi mesi ha vissuto più in Cina che in Italia. Quindi sette mesi di analisi, documentazione, contrattazioni avrebbero dovuto portare evidentemente a una verifica sotto gli aspetti che riguardano la sicurezza nazionale, quanto il rispetto dei nostri accordi internazionali e delle nostre alleanze storiche.

È anomalo, ripeto, che la maggioranza impegni il governo a fare tutto ciò a poche ore prima della firma degli accordi quando ormai tutto è già deciso. Questa missione e queste firme giungono proprio mentre l’Unione Europea, dopo un lunghissimo letargo politico e strategico in cui le singole Nazioni si sono mosse autonomamente e in cui tutti hanno affrontato la Cina come una grande opportunità, improvvisamente l’UE da una parte e gli Stati Uniti dall’altra stanno valutando con grande apprensione i rischi di quella che appariva una grande opportunità con dei provvedimenti alcuni già deliberati altri in via di deliberazione di straordinaria efficacia nella modifica di questa postura.  Tra quelli approvati io evidenzio il Regolamento sullo screening degli investimenti esteri in Europa che stranamente ha avuto come opposizione solo l’Italia (insieme alla Gran Bretagna che però non fa più parte di fatto dell’Unione Europea). Fatto perlomeno strano se lo compariamo al documento ufficiale presentato dall’attuale Governo poche settimane fa in Parlamento nel rapporto annuale dei servizi di sicurezza in cui vengono individuati alcuni rischi per la sopravvivenza del Paese. E tra i rischi per la sopravvivenza del Paese individuati nei rapporti ufficiali vi sono: – la sicurezza cibernetica come nuova frontiera per la sicurezza nazionale  su cui prestare la massima attenzione perché la sicurezza cibernetica significa la sicurezza sui nostri dati; – l’attività predatoria economica e finanziaria fatta da Paesi stranieri che utilizzano anche entità statuali per individuare per esempio le migliori start-up che hanno depositato i migliori brevetti per acquisirle prima che li sviluppino o per favorire la nomina di management nelle aziende che si intendono acquisire affinché preparino il terreno alla azione predatoria che ne seguirà.

Quindi le nuove frontiere della sicurezza nazionale e della sovranità economica – a cui io aggiungo la sovranità sulla conoscenza, sui dati, sull’intelligenza quindi sul nostro futuro – sono quelle economico-finanziarie e quelle della cyber security. Ho fatto notare recentemente al Primo Ministro in una riunione del nostro Comitato per la Sicurezza della Repubblica che l’Italia si è opposta in sede europea proprio al Regolamento sullo screening che invece il rapporto presentato in Parlamento e da Lui sottoscritto definiva come atto fondamentale per garantire la nostra sicurezza e sovranità economica e tecnologica. Com’è possibile? Se noi individuiamo in quel Regolamento il passo decisivo per tutelarci meglio, poi perché ci opponiamo in Europa a quel Regolamento? Altri episodi di questo tipo, dalla anomala posizione sul Venezuela all’annuncio del ritiro dei nostri militari dall’Afghanistan, alla lettera che quindici ambasciatori della UE hanno scritto con l’assenza della firma italiana, al governo cinese per la tutela delle minoranze in quel Paese, ci fanno capire come la postura del governo italiano nei confronti della Cina sia profondamente mutata ed appare clamorosamente diversa di quella dei nostri partner europei.

La nostra postura assomiglia sempre più alla postura (di sudditanza) che per esempio la Grecia ha assunto spesso dopo che la Cina gli ha acquistato i porti del Pireo. Tanto più grave perché l’Italia non è la Grecia e non è certo considerata come tale dai nostri alleati tradizionali e neppure dai nostri avversari tradizionali. Perché l’Italia dovrebbe guardare con attenzione non soltanto alle opportunità ma anche e forse soprattutto ai rischi? Lo dico sulla base della mia esperienza personale di Ministro delegato al commercio con l’estero: nel novembre del 2001 rappresentavo l’Italia al meeting del WTO a Doha dove la Cina realizzò ufficialmente l’obiettivo dell’adesione alla Organizzazione del commercio mondiale, che una volta era il simbolo del capitalismo mercantile. Ero fisicamente presente come capo delegazione italiana quando fu sottoscritto l’ingresso della Cina, allora qualificato come Paese in via di sviluppo a cui erano concesse, proprio per questo, anche dei vantaggi importanti. Allora essa era considerata anche una “economia non di mercato” che avrebbe dovuto nel frattempo nell’arco di quindici anni diventare un’economia di mercato. Cosa che allo stato non è ancora avvenuta. Tutt’altro: la sua economia resta dirigista e le sue aziende sono di fatto ancora in gran parte in mani allo Stato e comunque sussidiate dallo Stato. Le condizioni di allora sono ovviamente profondamente cambiate.

La Cina non è più un Paese in via di sviluppo; è la seconda economia del mondo e presto diventerà la prima economia del mondo, molto competitiva proprio sugli assetti tecnologici e industriali. Ma nel contempo è rimasta un’economia non di mercato anzi è sempre più un’economia non di mercato per la presenza importante e significativa dello Stato soprattutto nei settori strategici dell’economia cinese, come dimostra proprio il caso delle telecomunicazioni.  La situazione è molto cambiata in questi anni. Siamo in un’altra epoca. In quel periodo io stesso mi sono recato in Cina decine di volte con delegazioni di imprese italiane per tentare di cogliere le migliori opportunità di un Paese che si apriva al mondo. Mi recai in Cina anche nella primavera del 2003, durante la SARS, nel massimo momento di crisi del Paese, credo fui l’unico ministro del mondo a farlo per dare un sostegno politico ovviamente allora ritenuto significativo. L’anno successivo nel 2004, fui anche il propugnatore in Europa della misura anti dumping più importante della storia del WTO per vastità di settore, quella nei confronti delle calzature cinesi e vietnamite riproposta poi nel 2008. Non ho quindi mai avuto una visione ideologica o comunque pregiudiziale nei confronti della Cina. Ho guardato sempre e solo e comunque innanzi tutto all’interesse del mio Paese.

In questi anni, la Cina è profondamente cambiata, e da Grande Opportunità è diventata prevalentemente un Grande Rischio perché è molto accresciuta la sua forza competitiva e perché la nuova presidenza di Xi Jinping ne ha cambiato la postura.  Xi Jinping che sarà tra poche ore in Italia è l’unico presidente che ha assunto nelle sue mani, dopo Deng Xiaoping, tutti i poteri della struttura cinese: Segretario generale del Partito Comunista, presidente dallo Stato, coordinatore delle forze armate e altri dieci diversi incarichi di coordinamento. Ha inserito il suo Pensiero nella Costituzione cinese. Ha rimosso il vincolo dei due mandati si pone come un nuovo imperatore della Cina e nel contempo ha modificato profondamente nelle radici la stessa legislazione cinese.  Nel 2017 la “via della seta” è stata inserita nello statuto del partito comunista cinese, come obiettivo strategico per cambiare il mondo. Nel 2018 lo stesso concetto è stato ribadito nel preambolo della Costituzione cinese come nuova alleanza globale, alternativa capace di soppiantare quella del blocco occidentale. Quindi, la via della seta è tutt’altro che uno spot commerciale e nemmeno meramente economico se è inserito nello statuto del partito e nella costituzione della Cina. Inoltre dal  2015 con quattro differenti provvedimenti legislativi che riguardano la sicurezza si fanno una serie di obblighi legislativi tra i quali quello secondo cui e non solo i cittadini e le aziende cinesi operanti nel mondo hanno l’obbligo di fornire informazioni e assistenza al proprio Stato, ai propri servizi di sicurezza e alle proprie forze armate per motivi di sicurezza largamente intesi. Perché per sicurezza non intendono soltanto la sicurezza ovviamente nei confronti della lotta al terrorismo, sarebbe forse comprensibile, ma intendono la sicurezza, la sovranità economica, l’interesse sociale in sostanza ogni aspetto della vita nazionale.

Tra gli accordi sulla economia digitale, particolarmente sensibile, ve ne è persino uno che sarà sottoscritto per favorire la costituzione di una piattaforma commerciale europea di Alibaba in Europa.  Cosa significa? Significa che la piattaforma commerciale Alibaba in Europa, così come ha fatto la grande distribuzione globale per esempio francese, favorirà la vendita dei prodotti cinesi in Europa saltando ogni tipo di controllo anche sanitario. E questo mentre proprio in questo campo, sull’economia digitale, sull’intelligenza artificiale l’Europa vuole recuperare i suoi macroscopici ritardi proponendo di realizzare un piano straordinario europeo per fare dell’Europa la prima economia sull’intelligenza artificiale. Questa è  la frontiera della quinta rivoluzione industriale! Noi oggi parliamo dalla quarta rivoluzione industriale, quella della economia digitale, ma già si prepara la quinta rivoluzione industriale in cui la Cina è cinque anni avanti rispetto all’Occidente, la rivoluzione della intelligenza artificiale. Quindi l’Europa cerca di recuperare un ritardo nella frontiera più importante per il nostro futuro. Nella nuova postura dell’Unione ci sono nuove proposte di direttive o nuovi regolamenti che riguardano la cyber security, la tassazione della economia digitale, ma anche in maniera specifica le relazioni transatlantiche, le tariffe industriali. L’altro giorno nel mio intervento in Parlamento ho elencato almeno dieci argomenti che l’Europa in un senso o nell’altro sta inserendo o vorrebbe inserire nelle proprie normative comunitarie per tutelare il continente rispetto a questa competizione globale.

Nel meeting di oggi vogliamo porre a conoscenza degli addetti ai lavori e in particolare dei decisori ma anche di chi desidera meglio capire e conoscere, persino seguendoci nella diretta su Facebook di cosa si tratta, quale sia la vera posta in palio, cosa si sta per sottoscrivere, perché il Paese deve sapere.  Deve sapere che queste scelte cambiano la postura del rapporto dell’Italia rispetto alla Cina e quindi nei confronti del mondo. Il fatto stesso che in queste ore sia stata rivista la normativa contenuta nel MOU sui porti e gli investimenti in logistica ci deve far riflettere. Perché qual era quella precedente contrattata per mesi all’insaputa del Paese e degli stessi ministeri competenti?  Cosa prevedeva dato che è stata rimossa? Dato che i porti sono la chiave del Paese che non si può mai consegnare a chi ha l’infrastruttura che legherà il mondo. Una chiave che può essere aperta o può essere chiusa da chi la dispone. La conoscenza e la competizione globale si basa su tre-quattro livelli; certamente il primo è il controllo dell’infrastruttura cioè del trasporto di merci e noi stiamo consegnando le chiavi di casa dell’Europa, dell’Occidente ad un soggetto che mette nello Statuto del Partito Comunista che quella via è lo strumento per cambiare gli assetti globali del mondo. Secondo. Le altre “chiavi di casa” è la rete internet. La comunicazione è fondamentale perché riguarda la sicurezza del Paese, la conoscenza dei dati è oggi il centro di tutto e mi riferisco al 5G. Chi controlla, chi ha le chiavi delle infrastrutture digitali ha le chiavi del nostro cervello.  Terzo: chi controlla la vendita on-line ha le chiavi dei nostri mercati. Alibaba è l’esercito che controlla i mercati. Infine e su tutto, il problema dell’intelligenza artificiale, dello spazio e del suo sviluppo tecnologico ed economico, ma questo è un cuore della quarta anzi della quinta rivoluzione industriale che verrà ma i cui assetti si determinano oggi. Spero che questo meeting possa servire a capire e quindi a decidere meglio.

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo, al meeting “Il dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia” Roma, 20 marzo 2019

Giuseppe Prezzolini, un italiano inutile?

«Mi chiamo Agostino Carrino. È Giuseppe Prezzolini?».

«Il carlino?».

«Agostino Carrino. La chiamo da Salerno. Mi piacerebbe incontrarla. Ho appena finito di leggere il suo libro, L’italiano inutile».

Soltanto la giovanile incoscienza o forse arroganza di un ragazzino di 14 anni poteva giustificare quella telefonata a un frammento di storia italica, non solo letteraria, ma anche politica e di costume, scrittore appunto per Il resto del carlino di Bologna.

Prezzolini era tornato da poco da New York in Italia e dopo Ravello si era stabilito, per ragioni di salute (soffriva di artrite), a Vietri sul Mare, in un comprensorio chiamato “La Crestarella”, con vista sul golfo di Salerno. L’anno prima, per i tipi di Vallecchi, era uscita la nuova edizione di quella sua raccolta di ricordi alla quale aveva dato il titolo L’italiano inutile, considerandosi uno che aveva sempre predicato al vento, anche se proprio al vento non era stato, perché il suo nome resta tra i protagonisti del renouveau letterario italiano dei primi del Novecento, l’epoca delle riviste (Il Regno Il Leonardo, Lacerba La Voce) e delle contaminazioni filosofiche, con la Francia in particolare: Bergson, Sorel, le avanguardie. Di quel libro, che conservo ancora da qualche parte, ricordo un capitolo, intitolato “Il tempo del birroccio”, parola desueta e ignota ai più oggi ma anche a me allora: era un attrezzo agricolo, usato nei campi della toscana. Sul risvolto di copertina avevo scoperto che l’Autore abitava a pochi chilometri.

Ad essere sinceri, a me, giovane in politica, interessava un’altra storia: leggevo Prezzolini su una rivista di destra, Il borghese, al quale collaborava, e sapevo che aveva scoperto il Mussolini giornalista, con le sue “Cronache dal Trentino” per La Voce. Sospetto per le sue frequentazioni fasciste dopo la guerra, in realtà Prezzolini si vantava, a ragione, di due cose: non aveva mai avuto nessuna prebenda dal regime, lui che a Mussolini era uno dei pochissimi che si rivolgeva col “tu”, anche negli anni di Palazzo Venezia, e negli anni de La Voce aveva creato sia il fascismo sia l’antifascismo (ci scriveva per esempio Giovanni Amendola). Ma credo che la cosa di cui sotto sotto s’inorgogliva di più fosse la prima.

Fissammo così un appuntamento nel suo appartamento di Vietri, colmo di carte e di libri; doveva essere il maggio o giugno 1964. Rispose al citofono e mi disse come raggiungerlo; ci sedemmo in un salottino dove troneggiava una grande radio. «Stavo ascoltando Gluck: lo conosce?». Chiariamoci: avevo 14 anni e ne dimostravo di più, diciamo 18-19, ma anche un ragazzo di 18 anni non è detto che conosca Gluck, quello di Orfeo e Euridice. E io in effetti Gluck non sapevo chi fosse, ma sorvoliamo.

«Dove sta seduto lei c’era poco fa Piero Buscaroli». Buscaroli era un altro giornalista del Borghese, che conoscevo tra l’altro per un libro illustrato in maniera un po’ audace per quei tempi: Le seduttrici, una storia della cocotte prima che perdesse le piume e diventasse più volgarmente “escort”. «Sta finendo una storia della seconda guerra mondiale, ma gli ci vuole tempo». Per la verità Buscaroli quella storia non la scrisse mai, anche se ogni tanto raccontava qualche cosa sulla rivista. Scrisse invece una ponderosa biografia di Bach, essendo in effetti un fine musicologo.

Quello fu il primo di altri incontri, specie sul lungomare di Salerno, dove scendeva per le sue lunghe passeggiate, nelle quali il giovane arrancava dietro il passo veloce del vecchio col bastone. Tra un ricordo e l’altro, Mussolini, William F. Buckley e la National Review, ma anche Alberto Moravia, di cui aveva grande stima (lo aveva conosciuto a New York nel 1938, ospite della Casa Italiana, che diresse fino al 1940), mi insegnò a consumare il succo di pomodoro condito (pepe, limone e angostura), un rito al termine di ogni passeggiata, prima che la moglie americana, la famosa Pigia dei Diari, venisse a prenderlo con la sua 600 rossa (più giovane di lui, gli premorì nel 1980).

Si parlava un po’ di tutto, domande non molto intelligenti, le mie, ma risposte sempre bonarie e pazienti. Mi regalava molti libri, anche in inglese (ricordo ancora il libro di Eugene Weber appena uscito sull’Action française), che gli arrivavano d’ogni dove e non sapeva dove stipare nel piccolo appartamento di Vietri. Così mi capita di tenere ancora dei libri con la dedica di scrittori o giornalisti, per esempio Gervasio, non a me, ovviamente, ma al monumento col quale mi accompagnavo. Mi capitò qualche volta che mia madre si trovasse di fronte sul pianerottolo di casa la signora Prezzolini, con una sporta di libri per il figlio, senza sapere chi lei fosse e perché.

Dopo un paio di anni mi disse che aveva deciso di lasciare l’Italia. Si trasferì a Lugano perché da noi, si lamentava, pagava troppe tasse (in effetti, donne e soldi, insieme coi libri, erano una sua preoccupazione costante: «scrivo per soldi, ma quello che voglio io»). Mi resta il ricordo di un gran vecchio, molto gentile, occhio lucido e penetrante, gran conversatore, uomo dotato di un fine ma anche pungente senso dell’umorismo. In fondo è stato il mio primo maestro, assai prima che facessi l’università e poi la carriera accademica. Prezzolini è oggi un nome che nell’ignoranza generale che impera è dimenticato e semmai solo talvolta usato per qualche citazione fuori luogo perché scrisse un Manifesto dei conservatori pubblicato nel 1971 da Rusconi. Ma Prezzolini conservatore lo fu solo in vecchiaia e in maniera anche lì tutta sua. Fu piuttosto un rivoluzionario, un anticonformista, un uomo fuori delle convenzioni, che a forza di essere un “fesso” (di contro ai “furbi”) si era rassegnato, cosa un po’ diversa dall’essere un conservatore (“dalla cintola in su”, avrebbe forse detto col Marlowe di Chandler in tempi meno banali dei nostri).

I libri che scrisse – tranne quello sulla vita di Machiavelli – non rendono l’idea di un personaggio che era sì un uomo di libri, ma di libri che dovevano poi animarsi in rapporti personali, conversazioni, incontri e scontri. Non amava gli Italiani (Soffici «scopre ora che l’Italia è un merdaio»: qui e di séguito cito dai Diari pubblicati da Rusconi: 23.11.1946) e da questo punto di vista era tipicamente italiano, anche se non ne aveva i difetti caratteristici, «la retorica, la teatralità, la vanità» (15.5.1946). Riteneva che la sua disgrazia fosse nell’essere «matto sul serio e non un matto buffone» (17.9.1954). Disprezzava in particolare quelli che lo avevano accusato di aver profittato dell’amicizia con Mussolini per dirigere la Casa Italiana di New York, specialmente Gaetano Salvemini, antifascista dalla «camicia merdosa» (6.9.46): un’accusa del tutto priva di fondamenti (un esempio per tutti: l’accoglienza riservata a professori ebrei dopo le leggi razziali). Ciò nonostante per lui il Fascismo «fu una delle più italiane creazioni politiche che ci sian state», col Papato, i Comuni e le Signorie. Riteneva che i letterati italiani fossero da criticare per aver «spinto il fascismo sulla via dei sussidi e dei premi letterari. Lo spirito di mendicità del letterato italiano dura dal Rinascimento e non si spegnerà mai» (1934). Stimava gli Americani che lo avevano accolto ma anche lì ne vedeva i difetti con giudizi acuti, dal «sinistro Roosevelt» che trascinava gli Americani alla guerra senza che questi lo sapessero, al cancro del legalismo: «gli Stati Uniti un giorno moriranno di una indigestione di legalità» (29.4.1952)

Amava l’Italia, anche quando la criticava e ne dava un giudizio che andrebbe sviluppato: «L’Italia fu grande al tempo in cui non era unita; la sua unificazione è stata la sua distruzione» (1962). Esperto di Machiavelli, a lui si deve il giudizio su Guicciardini come il vero Machiavelli italico, non proprio nel significato migliore del termine, perché espressione di un paese, l’Italia, dove «l’ingiustizia rotativa tiene luogo della giustizia permanente», nel senso che i politici si alternano solo per avvantaggiare se stessi e i loro amici. Non a caso per lui la giustizia non esisteva, fosse «parca aut magna, umana o divina» (28.12.1956) e la democrazia, come i diritti dell’uomo, erano qualcosa di irrazionale. Uomo di virtù e di vizi, stupide le prime, poco significativi gli altri: «Quelle mi han chiuso strade, e questi non me ne hanno aperta nessuna» (30.10.1939).

Fu uomo acuto e pungente, tutto però del suo tempo, «fatto di speranze, non di attese» (8.12.1962) e oggi probabilmente darebbe di matto a vedere a cosa s’è ridotta l’Italia, lui che pure in anticipo sui tempi scrisse un libro intitolato L’Italia è finita. «Non posso scrivere per due giornali, sarebbe come avere due mogli», mi disse in una delle nostre passeggiate. Chissà cosa direbbe oggi che viviamo in un’epoca di prostituzione generale, dove un Presidente del Consiglio resta lo stesso pur con maggioranze politiche contrarie. Probabilmente ripeterebbe la sua litania sin dai tempi de La Voce: il popolo italiano soffre di «mancanza di carattere». In una nota del 1941 dai Diari si legge: «manca agli Italiani la classe che dirige, e non sanno nemmeno crearsela. Hanno provato il voto e la dittatura, i preti e i laici, gli stranieri e gl’indigeni e non hanno quasi mai trovato chi stesse alla testa pagando di persona ed avesse senso sociale» (1.1.1941). Del resto, diceva di non credere al Fascismo non perché fosse fascismo, «ma perché fatto da italiani».

Fu uomo di altri tempi e capisco che sia stato dimenticato. Tuttavia, andrebbe ricordato ancora oggi per essere stato l’ideatore di una società immaginaria che non nacque mai, la “società degli apòti”, di “quelli che non la bevono”. Di questi tempi, ora che basta un buffone per radunare masse di imbecilli elettori, un uomo come Prezzolini sarebbe veramente perso, ma forse, almeno, servirebbe a dare forza a quei pochi italiani rimasti che, appunto, ancora “non la bevono”.

*Agostino Carrino, professore ordinario di Diritto pubblico, Università Federico II Napoli

IL PATRIOTTISMO NECESSARIO

Questo saggio di Paolo Peluffo,  segretario generale del CNEL, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

 

Che il patriottismo di Carlo Azeglio Ciampi – presidente della Repubblica dal 1999 al 2006 – sia stato una esperienza originale di pedagogia civile, lo ammettono anche i critici più aspri. Alcuni di essi lo perdonano, concedendone l’origine autobiografica; altri persistono a descriverlo come nazionalismo retrogrado. Nessuno tuttavia ne ha percepito la natura strategica, né il suo fondamento in un’analisi dello scontro geopolitico contemporaneo, e in particolare nell’impiego di strumenti quali la guerra economica e la guerra psicologica. Certo, il patriottismo di Ciampi va interpretato prima di tutto come l’espressione di un dovere civile delle istituzioni: dare fiducia alla comunità, rafforzare i comportamenti cooperativi tra gruppi e persone, la disponibilità a lavorare insieme. Ciampi era tuttavia consapevole, prima di altri, che la liberalizzazione dei movimenti di capitale, e quindi la globalizzazione finanziaria, esponevano gli Stati più fragili a fenomeni di decostruzione, potenzialmente distruttivi.

Quel rischio l’Italia lo aveva già corso alla fine degli anni Ottanta, con la crisi di fiducia sui mercati che culminò nel settembre 1992, quando con la traumatica uscita della lira dal Sistema monetario europeo, per cinque lunghe settimane il Tesoro non riuscì a collocare i suoi titoli di Stato. Il Paese rischiò l’insolvenza proprio mentre il bilancio pubblico aveva trovato per la prima volta un equilibrio sostanziale, giungendo nel 1991 all’avanzo primario. L’esplosione dei tassi d’interesse e del rischio sovrano fece lievitare il debito pubblico. L’ingresso nell’euro mise l’Italia al riparo, per qualche tempo, dal rischio di fallimento, ma non le garantì una prospettiva di crescita, una responsabilità che ricadeva sull’Italia e che avremmo dovuto costruire pazientemente, con una strategia che coinvolgesse governo, imprese, lavoratori, famiglie. L’insistere sulla Patria comune, sui valori, sulle memorie, era funzionale a quello sforzo di modernizzazione del Paese, con il suo inserimento a pieno titolo, a «testa alta», in una Unione europea con obiettivi ben più ambiziosi che in passato. La partecipazione dell’Italia alla moneta unica, secondo Ciampi, coincideva con l’interesse nazionale, in quanto ci costringeva a fare in tempi accelerati una serie di cose che avremmo dovuto fare comunque, per non andare a sbattere contro il muro del dissesto finanziario, del dissolvimento dei risparmi accumulati.

Già prima di diventare presidente della Repubblica, Ciampi usava una metafora molto semplice: «In che direzione dobbiamo andare? Le richieste di abbassare l’inflazione, di aumentare il risparmio pubblico, di ridurre il debito in che direzione mi portano? Nella stessa direzione che dovrei prendere comunque. E allora se devo andare verso Milano, magari mi fermerò a Bologna, ma sarà andato nella direzione giusta». Ma quella corsa era faticosa. Una volta entrati nella moneta unica, avremmo dovuto continuare per anni a produrre avanzi primari, a investire, a lavorare di più, in un contesto di moderazione salariale. Non certo una passeggiata. Per questo, serviva il consenso del Paese verso una difficile strategia di riforme e impegno costante. L’ingresso nell’Unione monetaria non faceva certo venir meno gli interessi nazionali dei partecipanti. Questo fu evidente fin da subito. Quando nel novembre 1996, l’Italia rientrò nel meccanismo di cambio e dovette negoziare il valore del cambio lira-marco, francesi e tedeschi puntarono il dito sull’avanzo commerciale italiano che si era accumulato con la svalutazione.

Il braccio di ferro fu proprio sulla conservazione di quel vantaggio competitivo conquIstato, contro la nostra stessa volontà, nel biennio 1993-1995 in cui avevamo navigato perigliosamente fuori dallo SME. I francesi ci aiutarono a entrare nel gruppo di testa nel 1997 perché capirono che per loro era meglio averci «dentro», piuttosto che «fuori», per tutelare le loro produzioni dalla concorrenza italiana. Muoversi tra gli interessi nazionali degli altri che talvolta prendevano le forme di norme comunitarie (per la nostra disattenzione, o per rapporti di forza) implica una vasta organizzazione, un metodo di lavoro, il coinvolgimento continuo di tutti i ministeri, non solo degli Esteri, implica giovani preparati e combattivi, con un riferimento saldo dietro le spalle.

Implica un meccanismo complesso da costruire, responsabilità, indirizzo, controllo, fiducia. Ciampi era convinto che l’ingresso accelerato nell’euro, facendo crollare i tassi d’interesse, eliminando il rischio di cambio, riducendo il rischio-Paese, avrebbe rappresentato una boccata di ossigeno talmente potente, che gli investimenti sarebbero facilmente ripartiti. A convincerlo di questo, oltre alle teorie di Franco Modigliani, c’era soprattutto l’accordo sul costo del lavoro del 1993, che esibiva orgoglioso ai suoi interlocutori, soprattutto tedeschi e olandesi, come l’àncora del sistema economico, garanzia per la sua stabilità futura. I tedeschi si interessarono a questo modello. Kohl gli chiese di spiegarlo alle commissioni del Bundestag. La Germania avviò così la preparazione della sua gigantesca azione competitiva di svalutazione interna attraverso l’accordo Hartz IV, anche prendendo spunto dall’accordo del luglio 1993. La fase di nuova accumulazione di capitale in Italia fu inferiore alle attese. Le imprese continuarono a chiedere maggiore flessibilità ai sindacati, riducendo i salari. Ridussero i costi, per aumentare i profitti. In molti vendettero, trasformandosi da imprenditori in investitori. Lo smantellamento dell’industria pubblica fece il resto.

Anche su questo terreno, Ciampi ministro del Tesoro fece qualche tentativo di rilancio, senza troppo successo. Per esempio, venne esplorato un accordo con la telefonia pubblica tedesca per costruire un colosso italo-tedesco pubblico, come alternativa alla privatizzazione totale. Immaginò più di una volta un accordo strategico franco-italiano per l’impresa pubblica (con Paolo Savona nel novembre 1993). Poi arrivarono due eventi imprevisti. Primo. L’ingresso della Cina nel WTO nel 2001. Secondo. Una lenta sindrome deflattiva, una spirale bassi salari-bassi consumi che si stava diffondendo in Europa, per precipitare poi nella Grande Recessione del 2008-2015, la peggiore da duecento anni. L’eliminazione dei concorrenti passa anche attraverso la demotivazione dell’avversario, la convinzione che non vale più la pena combattere, che è meglio chiudere la saracinesca del negozio. Ciampi al Quirinale cominciò a studiare le tendenze autodistruttive della demografia italiana, che gli sembravano il frutto di una crisi profonda di fiducia, nel futuro individuale e collettivo. Solo una strategia che continuasse a tener vivo un progetto collettivo poteva arginare quella tendenza al declino di cui i dati Istat del 2018 attestano l’aggravamento. È per questo che il patriottismo si declinò in discorsi complessi sulla crisi delle nascite, sul lavoro femminile, sulla necessità di attirare lavoratori stranieri con un «contratto non al ribasso», chiedendo loro integrazione, studio della lingua, conoscenza della Costituzione.

Il patriottismo dei primi anni Duemila, dunque, aveva origini nella fase precedente, ma cambiava di significato in un contesto che si andava aggravando, giorno dopo giorno. Ho spiegato in un intervento su Limes (10/2019) alcuni aspetti politici del patriottismo ciampiano: primo, il desiderio di sottrarre a un uso di parte l’infrastruttura simbolica nazionale; secondo, l’estrema preoccupazione per la predicazione secessionista della Lega di Bossi, che poteva aggrovigliarsi a precipizio con una possibile insolvenza, come era accaduto proprio nell’ottobre 1992; terzo, il costante riferimento francese, soprattutto al periodo mitterandiano. In questa sede, ne voglio aggiungere uno ulteriore: la nascita di soggetti privati di dimensione globale che possono avere interesse, nel lungo periodo, allo smantellamento dello stato sociale nei mercati ricchi, per fornire servizi che sostituiscano istruzione, sanità, previdenza pubbliche. Gli Stati nazionali, con costituzioni come quella della Repubblica Italiana, sono ancora oggi – nonostante tutte le azioni di erosione che hanno subito da normative europee e trattati internazionali– un baluardo insostituibile per i diritti di integrazione sociale.

L’Unione europea è una cintura esterna (che di fatto opera su delega degli Stati) che, in linea di principio, potrebbe rafforzare e rendere più duratura la difesa di questi organismi nazionali ad elevate tutele sociali, come quelli nati dopo la Seconda guerra mondiale. Ma perché il senso dell’integrazione continui ad essere questo, serve un’azione costante, persistente, per far valere quotidianamente gli interessi nazionali all’interno delle istituzioni comuni. Nei primi mesi del governo del «traghettatore» che si avviò in condizioni difficilissime negli ultimi giorni dell’aprile 1993, Ciampi volle a Palazzo Chigi un piccolo ufficio per gli affari europei che fosse autonomo dalla Farnesina e chiamò a dirigerlo un giovane e brillante funzionario della Commissione, Enzo Moavero Milanesi. L’incarico che gli diede, scritto sempre su foglietti autografi che teneva nel portafoglio, fu quello di «mappare» le posizioni dirigenziali ricoperte da italiani a Bruxelles, dar loro sostegno quotidiano, trarre spunti per meglio difendere la posizione italiana. Poi chiese una sinossi, su un foglio A3, di tutte le posizioni scoperte e dei candidati che vi aspiravano, sui dossier sensibili, per avanzare proposte e valutare cosa fare in caso di candidature «sgradite».

Nel luglio del 1997, eravamo nel pieno del negoziato sul raggiungimento dei parametri di Maastricht. Ciampi ministro del Tesoro aveva in tasca i risultati dell’autotassazione di giugno, che davano per certa la discesa del deficit sotto il fatidico 3%. Ma decise di non divulgare i dati. Chiamò a sé quattro funzionari pubblici di livello eccezionale (Vittorio Grilli, Roberto Nigido, Fabrizio Saccomanni e Umberto Vattani), li chiamò il «gruppo dei quattro» e li inviò riservatamente, nel giro di tre mesi, in tutte le capitali europee per spiegare i dati dell’economia italiana e le nostre ragioni. Sembrava una missione superflua, visti i risultati del bilancio. Tutt’altro. Ci si rese conto che persistevano pregiudizi profondi sia sui dati economici, sia sulla loro solidità, sulle prospettive di medio termine. Fu in questa peregrinazione da commessi viaggiatori dell’Italia che ci si rese conto come la questione del debito, che fino a quel momento non era mai stata avanzata ai tavoli comunitari, poteva diventare il nostro tallone di Achille. Venne messo nero su bianco un primo tentativo di piano di riduzione graduale in 10 e in 15 anni, che a un certo punto emerse sulla stampa internazionale.

Ma negli ultimi tornanti del negoziato venne calata dagli olandesi, e poi dai tedeschi, la carta di chiedere una riduzione in tempi e percentuali di riduzioni, contrattualmente definite. Ciampi rifiutò categoricamente questa ipotesi, considerandola contraria alla lettera e allo spirito del Trattato di Maastricht. Accettò invece di richiedere una sorta di mozione parlamentare condivisa tra maggioranza e opposizione per la riduzione del debito. E a quel tempo, bastò. Nei primi mesi del settennato presidenziale, e soprattutto dopo il 2 giugno 2000 (anzi quell’anno fu il 4 giugno, domenica), quando si ripristinò la sfilata militare per la Festa della Repubblica, si cominciò a riunire periodicamente al Palazzo del Quirinale un gruppo di studiosi e ricercatori al quale si era proposta una riflessione riservata sul «disagio comunitario» del Paese. L’idea era nata da una serie di spunti offerti dal filosofo di Harvard Robert Putnam e dai ricercatori dell’Istituto Cattaneo di Bologna che avevano studiato fenomeni sociali come il servizio civile e la disponibilità al volontariato, come indicatori della consistenza di «capitale sociale». Nel lavoro di quel gruppo cui parteciparono diversi studiosi delle più disparate provenienze disciplinari (tra cui Domenico De Masi, Alberto Abruzzese, Mario Morcellini, Nando Pagnoncelli, Nicola Piepoli, Renato Mannheimer, Ilvo Diamanti, e tanti altri) emerse la necessità di un discorso pubblico coerente, intelligibile, che riannodasse i fili di valori comunitari esistenti, ma spesso frustrati. Si avviò un esercizio di misurazione del capitale sociale, da cui nacque, per esempio, l’idea del viaggio presidenziale in tutte le province d’Italia con lo scopo di abbattere la sensazione della lontananza delle istituzioni.

L’idea venne declinata tuttavia con uno stile «operativo» congeniale al vecchio presidente, che voleva avere a disposizione mappe di opere pubbliche, analisi degli insediamenti industriali, punti di eccellenza culturali e sociali, città per città. E poi, perché no, il rito repubblicano: la fascia tricolore, le bandiere, l’inno, i saluti ufficiali. Si può forse pensare che un uomo come Ciampi – che aveva passato 47 anni dentro la Banca d’Italia – potesse anche solo lontanamente pensare che un lavoro simbolico, di comunicazione, risolvesse i problemi del Paese? Ciampi sapeva bene che solo la costruzione di politiche di lungo periodo (investimenti, istruzione, innovazione) potevano rimettere in carreggiata l’Italia. Pensava tuttavia che solo in un contesto di impegno nazionale, di «patriottismo», quello sforzo avrebbe potuto essere elaborato e perseguito. Un patriottismo necessario, dunque, ma non sufficiente. Un integratore del capitale sociale. Un elemento di tutela per gli strumenti di inclusione del benessere, fondati sulla Costituzione. In questo contesto può essere valutato lo sforzo del presidente Ciampi. Il relativo successo della sua predicazione laica non fa altro che avvalorare la tesi di Dario Fabbri di una omogeneità della società italiana proprio sotto il profilo nazionale, per certi aspetti superiore a quella dei paesi nostri soci-concorrenti. Una evidenza empirica – completamente dissonante con la vulgata mainstream – che emerse nell’esperienza di Ciampi in occasione delle approfondite ricerche per individuare le immagini sul lato nazionale delle monete metalliche dell’euro, con l’identificazione dell’uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci come icona-guida, e il televoto a Domenica In con Fabrizio Frizzi per scegliere le altre immagini, il 7 febbraio 1998.

 

*Paolo Peluffo, segretario generale CNEL

La mancata riforma del MES

Nei prossimi giorni il governo dovrà affrontare la questione della sottoscrizione delle modifiche al trattato MES. Il dibattito atteso in Parlamento non sarà semplice e si dà per scontato che i problemi maggiori deriverebbero dalla mancata sottoscrizione del nuovo trattato.

Ma è così?

Se ci si domanda quali siano i nodi che si celano dietro la riforma del MES è agevole rispondere che siamo di fronte ad una incompiuta proprio dal punto di vista istituzionale e che non promette bene per il futuro.

Per comprendere meglio bisogna andare indietro ai giorni della crisi economica e finanziaria, allorquando, nel 2010, furono istituiti due programmi di finanziamento temporaneo a livello europeo per fare fronte alle difficoltà economiche di alcuni stati membri: il meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (EFSM) e lo strumento europeo di stabilità finanziaria (FESF). La differenza tra i due programmi non sta in quello che possono fare, in quanto entrambi erano chiamati a prestare assistenza finanziaria agli Stati membri in difficoltà, bensì nella loro struttura istituzionale. Infatti, il primo era uno strumento comunitario di assistenza e aveva la sua base giuridica nell’art. 122, comma 2, TFUE; il secondo, invece, nasceva da un accordo tra i sottoscrittori di una società di diritto lussemburghese e mancava di ogni collegamento diretto con il diritto dei Trattati europei.

Non a caso, si dovette procedere all’inserimento di un paragrafo nell’art. 136 TFUE (con Decisione del Consiglio Europeo del 25 marzo 2011), per consentire agli Stati membri la cui moneta è l’euro di istituire un meccanismo di stabilità a carattere permanente, precisando che “la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”.

In questo modo si è giunti all’istituzione del Meccanismo europeo di Stabilità (MES) attraverso la sottoscrizione di un apposito trattato (2012), al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’Unione europeo.

Ora, la differenza tra i due meccanismi è incommensurabile: con il primo, lo Stato membro che chiedeva assistenza si obbligava nei confronti delle Istituzioni europee; con il secondo, invece, nei confronti dei governi degli altri Stati membri. Di conseguenza, fu subito evidente che il MES dal punto di vista istituzionale indeboliva oltre misura l’Unione europea, anche perché questa appariva incapace di fronteggiare la crisi economica e finanziaria, e metteva così in discussione l’euro, nonostante apparentemente tendesse a rafforzarlo.

Non è un caso che, non appena ci si avvide di questo errore, si pose il problema di come cercare di recuperare il disastro istituzionale che si era causato nei giorni della paura cagionata dalla crisi.

Le prime reazioni, che servirono a bloccare la speculazione sull’euro e sui titoli del debito degli Stati membri, furono del Presidente della BCE, Mario Draghi, che, prima, nel suo intervento alla Commissione Affari economici e monetari del Parlamento europeo, in data 19 dicembre 2011, dichiarava l’irreversibilità dell’Euro e, dopo, in occasione dell’incontro presso la Global Investment Conference, il 26 luglio 2012, a Londra, pronunciava la celebre frase: “All’interno del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto quanto è necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza” (Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough).

Anche la Commissione europea intervenne in modo deciso e nel suo “blueprint for a deep and genuine economic and monetary union. Launching a European Debate” (COM(2012) 777 final/2, 30.11.2012) affermò la necessità di una riforma profonda del coordinamento delle politiche economiche, dal momento che, con riferimento ai processi di legittimazione, si riteneva che il modo di procedere non avrebbe potuto essere dato dal metodo intergovernativo, ma da quello comunitario. La Commissione così poneva in discussione il MES (“non è chiaro dove si situi la responsabilità nei confronti del Parlamento di un livello intergovernativo europeo che cerca di influenzare le politiche economiche dei singoli Stati membri della zona euro”).

La Commissione richiedeva di sottoporre il MES, attraverso l’incorporazione nei Trattati, al controllo del Parlamento e la modifica del trattato avrebbe dovuto comportare anche il rafforzamento della responsabilità democratica della BCE nella sua veste di autorità di vigilanza sulle banche.

La Commissione sembrava porre le premesse per una politica fiscale (di bilancio) europea finanziata, con risorse proprie derivanti da un’imposizione europea (“un potere impositivo mirato e autonomo”) e la creazione “di una struttura analoga ad un ‘Tesoro’ dell’UEM in seno alla Commissione”, al fine di “dare una direzione politica e accrescere la responsabilità democratica”, in modo che l’Unione venisse posta in condizione di resistere a eventuali shock economici. Essa avrebbe altresì avuto la capacità di emettere obbligazioni da cui potrebbero derivare risorse a seguito della “possibilità di emettere debito sovrano proprio dell’UE”.

Questo disegno venne avallato dalla relazione dei cinque Presidenti (Completing Europe’s Economic and Monetary Union. Pubblicato il 12 giugno 2015) e la Commissione lo riprese in un successivo documento (Reflection Paper on the Deepening of the Economic And Monetary Union, COM(2017) 291 del 31 maggio 2017), e portò alla proposta di trasferire le funzioni economico-finanziarie del MES in capo al “Tesoro” e a trasformare il MES nel Fondo Monetario Europeo, dopo la sua integrazione nel quadro giuridico dell’Unione.

A tal fine, venne anche presentata una proposta di regolamento da parte della Commissione (COM(2017)827) che avrebbe risolto la coesistenza tra le Istituzioni europee e un meccanismo intergovernativo permanente come il MES che dava luogo a molteplici aporie decisionali, di responsabilità democratica e di rispetto dei diritti fondamentali.

Inoltre, l’incorporazione del MES avrebbe garantito nel quadro istituzionale europeo anche il sostegno comune (backstop) al Fondo di risoluzione unico, il cosiddetto meccanismo di risoluzione unico che avrebbe rafforzato la credibilità delle azioni del Comitato di risoluzione unico e accresciuto la fiducia nel sistema bancario.

In questo modo, in sostanza, il Fondo monetario europeo si sarebbe affermato come un solido organismo di gestione delle crisi nell’ambito dell’Unione europea, in piena sinergia con le altre Istituzioni.

Tuttavia, la proposta della Commissione sembra essere stata accantonata – non è dato comprendere se per sempre o per un altro periodo, comunque lungo – per andare nella direzione di una revisione del trattato del MES. Infatti, a seguito delle discussioni tenutesi nelle riunioni dell’Eurogruppo (in particolare dicembre 2018 e giugno 2019), e dei vertici euro del 14 dicembre 2018 e del 21 giugno 2019, sono stati definiti i termini generali della riforma del MES, che mantiene la sua attuale struttura come accordo intergovernativo.

Gli emendamenti proposti, che riconoscono ulteriori funzioni di rilievo al MES, perciò, implicano un ulteriore spostamento in sede intergovernativa di poteri che non si giustificano pienamente nelle mani dei governi degli Stati sottoscrittori, mentre avrebbero un ben diverso significato in quelle delle Istituzioni europee.

In particolare, gli emendamenti amplierebbero il mandato del MES sulla governance economica degli Stati membri. Infatti, si consentirebbe al MES di “seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, inclusa la sostenibilità del loro debito pubblico e di effettuare analisi di informazioni e dati pertinenti” (art. 3). Inoltre, grazie all’accordo dell’aprile 2018 tra la Commissione e il MES, relativo alle loro relazioni di lavoro nel contesto dell’assistenza finanziaria agli Stati membri della zona euro, la struttura di governo del MES verrebbe coinvolta nella valutazione della sostenibilità del debito degli Stati membri, fornendo una base giuridica esplicita per la “cooperazione all’interno e all’esterno dell’assistenza finanziaria”. Infine, avendo reso più precisi i criteri di ammissibilità e di condizionalità, potrebbe sussistere una maggiore difficoltà per gli Stati membri nell’accesso all’assistenza finanziaria, senza contare anche il pericolo che il consiglio di amministrazione del MES possa richiedere un margine aggiuntivo se lo Stato membro ha prelevato fondi dallo strumento.

Quanto poi al sostegno del Fondo di risoluzione unico, in misura tale da resistere a una crisi bancaria più pronunciata o generalizzata nell’area dell’euro, questa non rafforza l’Unione bancaria, perché inframmetterebbe forme intergovernative con forme comunitarie. Infatti, lo strumento di sostegno assumerebbe la forma di una linea di credito rotativa, in base alla quale il MES potrebbe fornire prestiti al Comitato di risoluzione unico.

In conclusione, ci si aspettava un rafforzamento dell’Unione economica e monetaria e, invece, l’avere scelto la linea del trattato di revisione del MES, anziché quella dell’inserimento di questo nel quadro istituzionale dell’UE, non va a favore del processo di integrazione europeo, nel quale si punta, sia pure con tutte le imperfezioni del caso, a una maggiore trasparenza del processo di decisione e al rafforzamento dei poteri democratici del Parlamento europeo, anche per la politica economica.

Invero, il trattato di revisione del MES determinerà – nella migliore delle ipotesi – il mantenimento dell’attuale frammentazione dei poteri tra sfera comunitaria e sfera intergovernativa. La sottoscrizione e la ratifica del trattato di revisione del MES, perciò, non porterà ad una maggiore trasparenza istituzionale del sistema europeo. Inoltre, bisogna considerare che anche questo trattato, al pari di quello del 2012, interessa la questione della distribuzione del potere di decisione comune tra gli Stati membri ed è noto che trattati del genere, determinando una cessione di sovranità, senza mettere in chiaro chi effettivamente gestisce le quote di potere politico conferite dagli Stati con simili Accordi, accentueranno l’asimmetria del potere politico di decisione tra i governi e non miglioreranno la qualità dei rapporti tra gli Stati membri, sia in termini di solidarietà e sia di costruzione di un orizzonte europeo comune.

 

*Stelio Mangiameli, ordinario di Diritto costituzionale – Università di Teramo

LO SPAZIO

Questo saggio di Giuseppe Basini, atrofisico, dirigente di ricerca e deputato Lega, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.

L’inizio di un nuovo secolo è un naturale periodo di bilanci anche per le nazioni e oggi siamo all’inizio di un secolo che segna un millennio, un periodo che sembra enorme rispetto alla nostra vita, ma che non lo é per la nostra Nazione. Perché siamo, a riflettere storicamente, la più antica nazione d’Europa. Fin da ben prima che cominciassimo a contare gli anni secondo il calendario cristiano, l’Italia già esisteva come provincia, come realtà culturale e come coscienza di sé, la cultura latina era condivisa in tutta la penisola e anzi l’intera Italia, con Catullo che nasceva a Verona, Plinio a Como, Virgilio a Mantova, Tito Livio a Padova, era ormai tutta protagonista della cultura latina, tanto che Virgilio dedicava all’Italia un’ode nelle Georgiche e nell’Eneide chiamava Italia il luogo in cui i Troiani finalmente sbarcavano. E non a caso Dante a Virgilio si è richiamato. Nazione lo siamo insomma da sempre e da sempre, di fatto, ai primi posti della civilizzazione mondiale.

È difficile infatti trovare una civilizzazione che sia durata così continuativamente sulla scena mondiale come quella italiana, dal diritto e dalla poesia della Roma repubblicana all’urbanistica e all’architettura della Roma imperiale, dalle cattedrali del Medioevo alla nuova cultura del Rinascimento, dal metodo sperimentale di Galileo che segna la nascita della scienza moderna, alla scoperta dell’America che segna la nascita dell’era moderna e che fu consapevolmente ricordata nel messaggio del premio Nobel Arthur Holly Compton, quando, grazie a Fermi e alla sua pila atomica, si aprì l’epoca nucleare: «Il navigatore italiano è giunto nel Nuovo Mondo». Faccio questo orgoglioso bilancio del mio Paese, all’inizio del nuovo millennio, per un preciso motivo, per richiamarne le energie, scientifiche, culturali e morali al servizio di una situazione mondiale che appare dal futuro drammaticamente incerto. Noi italiani non sempre ce ne rendiamo conto, ma su scala storica stiamo vivendo un periodo di tranquillità, di benessere e anche di stabilità reale (sotto la grande instabilità politica) eccezionale in rapporto al resto del mondo ed anche in rapporto a quei non molti paesi che sono più ricchi di noi, per effetto del progresso economico, certo, ma anche di una antica tradizione, di una profonda solidarietà e soprattutto di una certa virtù di vivere, grazie alla quale pure la povertà è vissuta in maniera meno dura e più dignitosa da noi (da ricco potrei vivere bene, a parte gli affetti, in qualunque parte del mondo occidentale, ma da povero, anche col nostro pessimo e mal governato stato, senza dubbio sceglierei l’Italia).

Ma nel resto del mondo non è affatto così e, soprattutto, quello che preoccupa è la rapida tendenza al peggio che è dato vedere (e questo anche da noi). È come se la Terra si fosse ripiegata su se stessa, con l’intero terzo mondo che sembra solo preoccupato di ripetere – in peggio – 315 gli stessi errori da noi già fatti, mentre le grandi nazioni ricche di potenzialità hanno smesso di progettare il futuro. Come la Russia del ripiegamento economico e demografico, che, insieme alla tragica e sanguinosa prassi dittatoriale del comunismo, sembra aver perso però anche la religione laica del progresso, come gli Stati Uniti, che, a parte i due grandi sprazzi delle presidenze di Kennedy e Reagan, sono adagiati su di una mediocrità politically correct che sembra figlia della noluntas verde-radical chic.

Come l’Europa, che, per colpa del direttorio di Francia e Germania, continua a non essere tale e, perciò stesso, a non poter sostituire e neanche affiancare il motore americano. Certo, Trump, Putin e i federalisti europei sembrano voler arrestare questa tendenza, ma non mostrano realmente una visione del futuro sufficiente ad invertire la rotta e la Cina vuole solo diventare una grande potenza economica e militare e non mette certo libertà e democrazia tra i suoi primi valori. Complessivamente insomma si delinea lo scenario di un mondo bloccato, senza nessuna spinta nemmeno lontanamente paragonabile a quella sprigionatasi nel Rinascimento o nell’Ottocento, ma soprattutto nemmeno lontanamente paragonabile a quella che oggi sarebbe necessaria. Perché non ci sarebbe nulla di troppo negativo in questo periodo che, ribadisco, contrariamente a quello che molti credono è di ripiegamento, se non fosse che l’essere sul punto di raggiungere i limiti dello sviluppo sul nostro pianeta, introduce un rischio gravissimo di crollo esplosivo, definibile, a mio avviso, da un’equazione del tipo: mancato sviluppo = catastrofe = guerra e allora la vita ragionevolmente piacevole che in Italia riusciamo ancora a fare, potrebbe non durare a lungo, in un’epoca in cui non é più possibile ignorare i problemi mondiali, perché si finisce comunque per ritrovarseli addosso. E questo dal terrorismo alle guerre sante, dal «Grande Fratello» ai virus.

E allora é alla lunga tradizione di capacità storico-diplomatica di una nazione come la nostra, che bisogna attingere, per rimettere in moto, prima il processo di integrazione europea, poi quello di solidarietà atlantico-occidentale e infine quello di ricostruzione continentale comprendente anche la Russia, con l’obbiettivo di un gigantesco sforzo Euro-Americano per rimettere in moto ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, rivolti finalmente di nuovo all’espansione reale e non solo alla gestione elettronica e inquisitrice di una mediocrità virtuale e illusoria. E questo a favore di tutto il mondo. L’Italia, che é stata tra i primi a raggiungere la consapevolezza dell’impossibilità di risolvere problemi globali sulla base di una spinta puramente nazionale e che proprio per questo è ancora e nonostante tutto, una nazione europeista, deve porre le risorse di un’antichissima scuola diplomatica (e il pensiero corre a Cavour) a cui non è estranea la tradizione del papato, al servizio di una nuova grande iniziativa, nel solco della tradizione e dello spirito occidentale. I problemi interni del nostro paese sono ben poca cosa rispetto a quelli del mondo (e lo dimostra il fatto che possiamo baloccarci, come facciamo, con mille astruserie barocche, dal localismo, alle strane authorities, fino alle formule 316 politiche a «geometria variabile», senza – finora – danni irreparabili) e non solo se riferiti al mondo in generale, ma proprio anche agli effetti diretti che producono sul nostro paese, visto che i cambiamenti che importiamo in Italia per i sommovimenti mondiali (dalla stagnazione all’effetto serra, dal ciclo economico all’immigrazione selvaggia, dalle ragioni di scambio alle tecnologie condizionanti) tendono a diventare sempre più importanti rispetto a quelli di origine interna. Insomma stiamo passando da un lunghissimo periodo storico in cui, molto spesso, la politica estera era un prolungamento di quella interna, ad un nuovo periodo in cui è quella interna ad essere determinata da quella estera. Se non riusciremo a risvegliare l’antico spirito pionieristico occidentale in una, massimo due, generazioni, la partita per il mondo sarà perduta e con essa anche quella per il nostro Paese. Ho in testa qualcosa di preciso dicendo questo, qualcosa che deriva dalla constatazione che é impossibile, senza perdere insieme benessere, libertà e pace, accettare i limiti dello sviluppo.

Intendendo con questo che è mia opinione che, senza la pianificazione urgente di una prima ondata di colonizzazione dello spazio vicino, l’umanità entro questo o il prossimo secolo, conoscerà una discontinuità (catastrofica) prima di riprendere il cammino, ma da un livello molto più basso. L’orgoglio che provo e che ho sempre provato (e che prima di me provava mio padre) di essere italiano, mi spinge a credere che un’Italia indipendente saprà e potrà risvegliare la scintilla di un nuovo Rinascimento scientifico ed umanistico che apra la strada alla conquista dello spazio vicino, allo stesso modo che fu nei nostri monasteri e nelle nostre accademie che si determinò il primo. Ad ogni modo che sia l’America a riprendere quello spirito di avventura che oggi sembra appannato, l’Europa o chiunque altro, noi dovremo dare il nostro contributo, meglio se tra i primi. E non ci tragga in inganno la sproporzione numerica, anche Firenze, anche Venezia, erano piccola cosa all’alba del Rinascimento, eppure, dalla letteratura, alla scienza, alla finanza, cambiarono il mondo. La possibilità di comprensione e di guida dei nuovi avvenimenti, se ci sarà, non nascerà da grandi masse o da moltitudini urlanti, ma dalle università e dai chiostri.

Oggi che l’Italia, pur possedendo le chiavi di lettura di ogni singolo progresso scientifico, non è percepita da nessuna parte del mondo come potenza aggressiva o egemone, la possibilità concreta di influenzare l’atteggiamento delle altre nazioni potrebbe essere notevole, purché si sappia cosa volere, dove andare e come. Potrebbe essere un altro millennio di fondamentale presenza della cultura e dello spirito italiano. La Spagna della regina Isabella sappiamo dov’è oggi, a Bruxelles, a Mosca, a Pechino e al di là dell’Atlantico, ci servono però altri «navigatori italiani» per noi e per tutti gli altri. Al nostro interno, il principio della libertà trova, nella realtà italiana di inizio secolo, uno dei luoghi che maggiormente necessitano di una rivoluzione liberale e di una politica che sia conseguente. La riscoperta di libertà e tradizione è necessaria quanto mai nel nostro Paese, per procedere verso 317 un futuro che sia umano, di progresso e iscritto in un progetto comune. Lo spirito illuminista e risorgimentale, la cultura liberale, l’assunzione consapevole di tutta la storia italiana (dalla tradizione monarchica, ai nazionalisti, al sentimento cattolico), l’ottimismo nel futuro, la visione occidentale, l’Europa, sono tutti tasselli che devono trovare armonico posto nella visione di insieme di uno sviluppo di società nazionale, coerente con la storia e compatibile con le necessità e l’ambiente, che proponiamo all’Italia. E allora in Italia tutte le forze tradizionaliste devono riconoscersi per quello che sono, nei fatti, nelle aspettative e nel solco della grande tradizione della Destra Storica: il movimento italiano per la libertà (politica ed economica) e la Nazione.

Libertà e Nazione, perché è tradizionale il riconoscimento del valore della libertà della persona e contemporaneamente del suo radicamento in una comunità che è quella nazionale. E questa la base di un modo di pensare chiaro, patriottico, democratico ed Europeo, su cui chiamare a raccolta i cittadini, spronarli ed indicar loro la strada del recupero della libertà e della tradizione nazionale. E dello stato di diritto, che, dall’abbandono del giusnaturalismo in poi, non ha fatto che regredire e oggi (e purtroppo soprattutto in Italia) sembra soccombere di fronte ad una magistratura tendenzialmente autoreferenziale che, associata al populismo antipolitico, al posto della democrazia sembra quasi volersi rifare a un potere sapienziale assoluto premoderno, come fondamento di uno stato di polizia dotato di modernissimi strumenti tecnici. È una linea occidentale, quella che proponiamo, ma tutta dentro la tradizione italiana, una linea di Destra Storica che, entrati nell’era moderna con l’illuminismo e gli empiristi inglesi, prende forza con Carlo Alberto e Re Vittorio, Cavour e Sella, continua con Mosca e Pareto, Salandra e Sonnino, passa per Einaudi e Croce, fino a toccare De Gasperi e Pio XII, Malagodi e Pella, Sogno e Tatarella, Maranini e Martino, una linea sottile, ma che, quando ha prevalso, ha fatto la fortuna d’Italia.

È una linea rigorosamente garantista, perché la democrazia non è una parola e una giustizia democratica non è tale, se i diritti del cittadino vengono calpestati in nome di un giustizialismo che faccia di giudici intoccabili dei poteri insindacabili. È una linea che considera libertà personale e democrazia beni essenziali da difendere e tutelare in ogni circostanza, anche in presenza di una pandemia, per evitare che possa realizzarsi, sotto mentite spoglie, una via sanitaria alla tirannia. È una linea che vede nella rigorosa difesa e diffusione della proprietà privata la prima base dell’essere davvero libero cittadino. È una linea che ci vuole in Europa da Italiani orgogliosi di esserlo, condizione necessaria per essere veramente europei. È una linea volta a costruire un futuro che non dimentichi la storia della nostra civilizzazione.

*Giuseppe Basini, fisico nucleare