Le incertezze di una guerra alle porte dell’Europa

Il protrarsi delle ostilità in Ucraina da parte della Russia rappresenta oggi un evento singolare e di eccezionale gravità, quanto ad effetti sul piano economico e umanitario, destinato a mettere alla prova le previsioni formulate nei paesi occidentali sullo scoppio e l’andamento del conflitto. Ben prima che si materializzasse la decisione dell’uso della forza, una progressiva escalation politica e poi militare ha spinto i vari governi e le cancellerie, sino agli Stati Uniti, a concepire soluzioni in grado di sciogliere insieme alla Russia il nodo gordiano alla base del conflitto, che appare invece ancora più stretto dopo mesi di frustranti e infruttuose trattative. La crisi, che è ormai assurta alla dimensione di una guerra di aggressione condotta su più fronti ai danni dell’Ucraina, con l’esplicito obiettivo del suo annichilimento politico e territoriale, non figurava come una priorità nelle agende dei principali leader e ora sconta il vuoto di chi potrebbe quanto meno candidarsi a governarla. La decisione della Russia di raggiungere manu militari i propri obiettivi, con un impeto novecentesco, ha colto alla sprovvista chi prefigurava una sostanziale condizione pacifica dell’Europa, non più teatro di offensive su larga scala contro una nazione sovrana, ma anche chi all’opposto immaginava un’operazione tanto rapida quanto di successo per Mosca. Nessuna delle due previsioni si è avverata e oggi . È evidente che l’andamento del conflitto sin dalle prime ore ha tradito le aspettative di chi confidava in una facile vittoria, lasciano spazio ad una serie di valutazioni sulle conseguenze del protrarsi delle ostilità sul piano militare ed economico.

Se è vero che l’Ucraina ha scontato sin dalle prime ore una radicale asimmetria sul piano tattico, le forze armate Russe non sono state in grado di sfruttare la loro superiorità per una serie di fattori: in primis contrariamente alla narrazione diffusa l’esercito di Kiev non somiglia più ad una compagnia di sbandati, ricordo sbiadito del 2014. Dopo 8 anni di combattimenti nel Donbass e un piano di riarmo con il supporto dei paesi occidentali, l’Ucraina schiera delle truppe altamente motivate e ben equipaggiate, con una notevole esperienza bellica sostenuta in patria, sia in teatri urbani che in campo aperto, a cui si è aggiunto il prezioso contributo dell’addestramento americano in tecniche di combattimento in grado di ostacolare azioni offensive come quelle Russe. Gli ultimi mesi inoltre hanno visto un grande afflusso di aiuti militari, specialmente armi anticarro e antiaeree, che a fronte del costo relativamente esiguo sono in grado di infliggere perdite rilevanti e neutralizzare mezzi ben più dispendiosi e soprattutto difficilmente sostituibili ad un ritmo accettabile, se il conflitto dovesse perdurare per diverse settimane. L’esercito Russo al contrario oltre ad essere parso demotivato e smarrito, è sembrato incapace di sfruttare appieno le proprie dotazioni, finendo impantanato in clamorosi errori logistici ripetuti nel corso del tempo, che chiamano in causa l’intera catena di comando. Ci si potrebbe chiedere legittimamente come le decine di migliaia di coscritti inviati al fronte da Mosca dalla tundra siberiana possano prendere l’iniziativa, in una guerra che se è vero che è apparsa tanto insensata alle gerarchie Bielorusse da farle desistere dal partecipare alle operazioni, è altrettanto intuibile quanto possa interessare ai nativi dalle aree più remote del Paese. Meno inclini a fraternizzare con gli Ucraini con cui si scontrano per la prima volta, anche per differenze linguistiche ed etnoculturali, ma non per questo meno restii dei loro connazionali a combattere per conquistare Kiev, che dista pur sempre 5000 chilometri dalla Buriazia. Le débâcle dei primi giorni pongono la questione di quante siano effettivamente le truppe russe addestrate secondo i criteri dell’Alleanza Atlantica. Probabilmente meno di diecimila: un numero di gran lunga insufficiente per prevalere senza rinforzi, contro un nemico che padroneggia il terreno alla perfezione e che sembra disposto a resistere sino in fondo anche in contesti urbani.

L’impatto delle sanzioni economiche invece, è destinato a produrre i suoi effetti nel medio e lungo periodo, ma non è escluso che misure più radicali come una rimozione pressoché totale della Russia dal sistema di pagamenti SWIFT o l’embargo americano sugli idrocarburi, in particolare il petrolio, possano risultare insostenibili già nell’immediato. Decapitare un flusso di cassa di 800 milioni di dollari che giornalmente si riversano nell’erario di Mosca per garantire quel minimo livello di benessere accettabile dal popolo Russo, potrebbe avere contraccolpi altrettanto severi in Europa per la ormai arcinota dipendenza energetica, ma anche gli stessi Stati Uniti verrebbero investiti da una ulteriore fiammata inflazionistica “indotta” dalla crescita del prezzo dell’energia. Mosca potrebbe incorrere in una crisi del debito sovrano, come già accaduto in diverse circostanze ai tempi di Yeltsin, e potrebbe tentare di rimborsarlo in rubli anche in presenza di altri compratori dei suoi titoli di stato, come la Cina e in misura nettamente minore l’India. In assenza di altri paesi esportatori di greggio, l’Arabia Saudita (che sconta notevoli incomprensioni con la Casa Bianca) e l’OPEC rimangono maldisposte ad incrementare la produzione di petrolio e con il Venezuela e l’Iran ben lontani da un accordo politico maturo con gli USA, è facilmente intuibile le ripercussioni che una simile mossa avrebbe sulla ripresa post-covid e sulla tenuta sociale, che nelle democrazie occidentali è sicuramente più a rischio rispetto ad un paese autoritario come la Russia e di quest’ultimo particolare a Mosca sono ben consapevoli. È importante tenere a mente che il prezzo del petrolio si colloca intorno al 6% del PIL in Italia e la soglia della recessione si materializza al 7%, non è difficile intuire che ad Aprile la congiuntura diventerà negativa se il trend fosse confermato.

L’incognita rimane tuttavia comprendere come incideranno i due fattori, militare ed economico in rapporto all’arco di tempo di un conflitto che sembra voler durare abbastanza a lungo da dissanguare l’aggressore. Il supporto ancorché indiretto della NATO gioca un ruolo fondamentale nel contribuire ad infliggere notevoli perdite ai Russi, sia nelle divisioni corazzate che nelle forze aeree, così da distruggere le residue speranze di un blitzkrieg vittorioso. Una situazione di logoramento non potrà avvenire a queste condizioni, perché sarebbe per la Russia semplicemente insostenibile da un punto di vista economico sopportare intensità di un conflitto troppo alte per un paese che conta meno di un decimo della spesa militare degli Stati Uniti e poco più del Regno Unito, non potendo già adesso che impiega la quasi totalità degli effettivi nelle operazioni, rimpiazzare la totalità delle perdite senza sguarnire o depauperare le proprie forze armate al di fuori dell’Ucraina.

Uno stallo destinato a prolungarsi nei prossimi giorni che potrebbe aprire giocoforza lo spazio delle trattative, uno scenario ancora incerto con diversi attori che si affacciano con aspiranti ruoli di mediazione. In Europa Macron, Presidente di turno del Consiglio dell’UE, tiene i fili con il Cremlino forse per emulare il suo predecessore Sarkozy che dalla medesima posizione negoziò nel 2008 il cessate il fuoco in Georgia con Putin e Saakashvili. La Germania paga le consuete contraddizioni energetiche con la Russia, alimentate a vario titolo dagli ultimi cancellieri e si trova a dover prendere frettolosamente le distanze da un passato recentissimo. Se alcune voci autorevoli rimpiangono la leadership di Angela Merkel, ne dimenticano le sue responsabilità nel comportamento ambivalente che Berlino ha in un certo senso imposto all’Europa sulle forniture di gas naturale e nei tentennamenti mostrati davanti ad una crisi che dura ormai da 8 anni e che è parsa per tutto questo tempo una sorta di commedia degli equivoci, oscillante tra proclami internazionalisti e arrocchi mercantilisti. La Turchia gioca una sua partita autonoma dalla NATO, non applicando le sanzioni alla Russia con cui mantiene buoni rapporti, ma vendendo droni all’esercito Ucraino e ribadendo la propria primazia sugli stretti. Erdogan prova ad apparire come l’unico leader abbastanza equidistante da entrambi i contendenti sia da un punto di vista geografico che politico, così da poter promuovere una svolta, quantomeno apparente, nelle trattative in corso ed alimentare una presunta fama di risolutore di conflitti. I legami economici con la Russia poi pendono a suo favore e le recenti intese con Mosca in Siria trovano la diplomazia turca preparata a raggiungere un accordo. Anche Israele sembra apparentemente in grado di inserirsi e sfruttare i legami etnici e culturali che la legano ad ambedue le parti, ma l’eventualità di un successo sconta i limiti di una mediazione forse ancora non matura dal punto di vista temporale, che appare ancora oggi incerta e difficile da concretizzare. Chi si staglierà nei prossimi giorni come possibile paciere è la Cina: maggiore sarà la durata le conflitto, maggiori saranno le difficoltà Russe che potrebbero facilitare una soluzione orientale dalla quale Mosca uscirebbe doppiamente sconfitta. Sul piano militare perché costretta ad invocare l’intervento salvifico di Pechino da una guerra che non sembrerebbe più in grado di controllare autonomamente e su quello economico dove si troverebbe a brandelli, a fronte di conquiste territoriali dal discutibile valore strategico, con la certezza di finire nell’orbita cinese su interni settori produttivi: banche, energia e semiconduttori.

La reazione di Putin dinanzi ad un insuccesso militare, ancorché momentaneo, che si presenterebbe come l’anticamera di quella che fu la guerra in Afghanistan per l’Unione Sovietica, potrebbe spingere la Russia ad innalzare l’intensità dello scontro con uno scenario diametralmente opposto ad una trattativa lampo. Una vittoria di Pirro non è da escludere se l’impegno di Mosca fosse tale da rendere le forze Russe così soverchianti rispetto a quelle Ucraine, da portarle ad una sconfitta sicuramente dolorosa per entrambi o quantomeno da imporre una trattativa a senso unico che ha come precondizione la conquista delle grandi città, a cominciare dalla capitale. Se le perdite fossero eccessive persino in questo scenario, il modello che Putin potrebbe adottare è quello di Grozny, il che presupporrebbe rinunciare al combattimento urbano classico per radere al suolo con l’artiglieria le principali città ucraine in una sorta di riedizione della guerra in Cecenia, nella misura ritenuta sufficiente ad imporre un cessate il fuoco a Kiev, che si ritroverebbe a patire numerosissime vittime civili senza l’evacuazione con i corridoi umanitari. Facile intuire le finalità dal lato Russo di una misura apparentemente rivolta a mettere al riparo i civili, che darebbe il via libera al fuoco indiscriminato dell’artiglieria sui centri abitati, per altro già in corso in sprezzante contrasto con le convenzioni internazionali. Le perdite economiche sarebbero in quest’ultimo caso enormi, Mosca non risulterebbe in grado di colmarle ricostruendo i centri abitati e le infrastrutture. Ciò che rimarrebbe dell’Ucraina somiglierebbe ad una striscia di terra di nessuno devastata che ben si presta alla teoria dello stato cuscinetto più orientato verso l’annichilimento che l’equidistanza.

Un’escalation con il clima arroventato diventerebbe così più probabile, Le tensioni latenti, unite a quelle che un’ulteriore crescita del livello dello scontro sul piano economico e militare possono innescare, formano un mix esplosivo in grado di ipotecare sostanzialmente ogni residua aspettativa di pace nel breve periodo. Le modalità di escalation e di de-escalation sono speculari e spesso non dipendono fino in fondo dalla volontà dei contendenti: la NATO per esempio potrebbe anche istituire una no fly-zone nell’ovest del paese per assicurare il deflusso dei profughi ma al di là dell’aspetto provocatorio, le difficoltà dell’aviazione Russa, martoriata dagli stinger e spinta al volo notturno, renderebbero una  simile misura inutile contro gli attacchi portati avanti con artiglieria e missili cruise, che i caccia sarebbero difficilmente in grado di intercettare. Si aprono allora interessanti prospettive rispetto alla dichiarazione Russa di cobelligeranza, è qui che potrebbero nascere i presupposti per un’improvvisa accelerazione del conflitto: in assenza di un’invasione dal confine Bielorusso, che finora non ha avuto seguito, una Russia esausta con caccia e tank braccati da Kiev con le armi NATO, potrebbe pensare di colpire i trasferimenti degli aiuti militari al confine qualora risultassero così decisivi per le sorti del conflitto da portarla alla sconfitta. Questo in che misura possa interessare i membri dell’alleanza atlantica ancora non è chiaro e ovviamente dipenderebbe dall’area geografica interessata da un potenziale attacco. L’articolo 5 del trattato non contribuisce a sciogliere i dubbi e la stessa definizione di “attacco armato” si presta a diverse interpretazioni in assenza di una prassi applicativa. Lo stesso accadrebbe con la messa a disposizione dell’Ucraina delle infrastrutture aeroportuali in Polonia, avendo la Russia distrutto la quasi totalità degli aeroporti di Kiev, e di alcuni vecchi caccia MIG da trasferire, la cui utilità però appare dubbia in considerazione della scarsa importanza che l’aviazione ha avuto in questo conflitto. Contrariamente a quanto si crede, i bombardamenti aerei hanno avuto un impatto relativamente ridotto rispetto al loro potenziale e anche per i diversi errori di Mosca nelle prime fasi del conflitto l’Ucraina sembra conservare ancora una piccola parte delle proprie difese aeree che non ha esitato ad impiegare con successo.

Anche le sanzioni infine potrebbero influire su scenari inaspettati: non sarebbe difficile immaginare le conseguenze che una rimozione totale della Russia dallo SWIFT unita all’embargo dagli idrocarburi produrrebbero sulla leadership Russa, che appare sotto pressione in tutti i casi e che per questo potrebbe essere portata a compiere scelte avventate. La debolezza è spesso una caratteristica connaturata agli Stati autoritari e il paradosso di un Putin sempre più debole potrebbe essere il rafforzamento interno delle forze armate, non più semplice strumento di proiezione di una flebile potenza imperiale ma ormai le vere indiziate di questo conflitto, che le ha viste finora prevalere sul blocco di potere dei servizi di sicurezza che in Russia è da sempre dominante. La vera incognita potrebbe presto riguardare il ruolo nascosto dei generali, pronti a tessere la trama di uno scontro interno al Cremlino dove a prevalere sarebbero i falchi più che le colombe.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

 

 

 

Israele e la destra, il meeting che aprì la strada

Venti anni sono passati ma purtroppo invano. Ogni tentativo di trovare una soluzione al conflitto che minaccia Israele cade nel vuoto, anche per l’irruzione nel contesto mediorientale di nuovi protagonisti, potenze regionali che vogliono imporre con ogni mezzo la propria supremazia, talvolta usando anche le organizzazioni terroristiche del fondamentalismo islamico. Sono passati appunto venti anni, da quando si tenne un importante meeting nella storia della destra italiana, promosso proprio dalla nostra rivista “Charta minuta” in occasione di un numero monografico dedicato ad “Israele”. Era 14 febbraio del 2001, nella sede dell’Osservatorio parlamentare, il think tank del centrodestra, da cui poi nacque la Fondazione Farefuturo, si svolse un convegno sulla questione israelopalestinese e sugli sviluppi del processo di pace all’indomani dell’esito delle elezioni nello Stato di Israele.

In quella occasione fu infatti presentato il fascicolo monografico della nostra rivista riprodotto in copertina dal titolo “Israele”. Al convegno parteciparono, con l’on. Urso, animatore del think tank e direttore della rivista, anche esponenti della comunità ebraica, insieme con influenti rappresentanti dello Stato di Israele e con lo storico rappresentante diplomatico di Arafat in Italia, Nemmer Hammad. Con lui vi erano Oreste Bisazza Terracini, Padre Giovanni Marchesi, il Rabbino Chaim Klein, Nemer Hannad e Over Bavli.
Nel fascicolo della rivista, oltre ai protagonisti del convegno, scrissero anche Sergio Romano, Avital Sahar, Emanuele Fiano, Giancarlo Elia Valori, Franco Cardini, Michael A. Leeden, Franco Perlasca, Furio Colombo, Dario Colombo, Giano Accame, Olda Mattera, Federico Eichberg, Roberto Aliboni, Marco Zacchera. L’editoriale di Urso aveva appunto il titolo “Israele”.

L’anno successivo fu proprio Urso, quale viceministro al Commercio estero del nuovo governo Berlusconi, ad essere ricevuto in visita ufficiale, primo esponente della destra di governo in Israele, come ha recentemente ricordato ricordato l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, che ha pubblicato in un twitter anche la foto dell’evento con Simon Peres, presidente del partito laburista e poi dello Stato di Israele. Successivamente, il nostro direttore ebbe altre occasioni di incontro in missioni ufficiali di governo a Tel Aviv. La associazione “Alleanza per Israele” ha recentemente ricordato quelle con ArielSharon, quando il padre storico di Israele era capo del governo, e con Ehud Olmert, anche lui Primo ministro di Israele.

Israele, bene Trump. Italia non pervenuta

Il 29 novembre 2012 l’ONU, mediante la risoluzione 67/19 adottata dall’Assemblea generale con 138 sì, 9 no e 41 astenuti, ha cambiato lo status della Palestina da «entità non statuale» a «Paese osservatore permanente non membro», equivalente in sostanza a quello dello Stato della Città del Vaticano. Allora, sia gli Stati Uniti che Israele espressero un voto contrario, e il segretario di Stato Hillary Clinton usò parole particolarmente dure: «La risoluzione non sancisce la nascita dello Stato palestinese ed è controproducente per il principio di due popoli e due Stati». Il 17 dicembre 2014 il Parlamento europeo ha approvato a grande maggioranza – 498 favorevoli, 88 contrari, 111 astenuti – una risoluzione che «sostiene il riconoscimento in linea di principio dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che ciò debba andare di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace che occorre far avanzare». Il 2 maggio 2017 l’UNESCO ha approvato – 20 favorevoli, 10 contrari e 23 astenuti – una risoluzione che definisce Israele «potenza occupante» e che nega i legami fra l’ebraismo e la Città vecchia di Gerusalemme. Con un’ulteriore risoluzione del 7 luglio 2017 – approvata con 12 voti favorevoli, 3 contrari e 6 astenuti – l’UNESCO riconosce la Tomba dei Patriarchi ad Hebron, in Cisgiordania, come «sito palestinese» del Patrimonio Mondiale: la Città vecchia di Hebron e la Tomba dei Patriarchi diventano «siti palestinesi» e si evidenzia «il loro essere in pericolo».
Veniamo ai giorni nostri. Il 23 ottobre 1995, il Congresso degli Stati Uniti approva una legge che prevede lo spostamento dell’Ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. L’atto prevede una clausola in base alla quale il presidente può rinviare l’attuazione della legge ogni sei mesi per ragioni di sicurezza nazionale. Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama hanno firmato questa deroga ogni sei mesi. Donald Trump, il primo giugno scorso, ha seguito l’esempio dei suoi predecessori, ma ha recentemente annunciato – qui il discorso integrale in italiano – di voler prendere un’altra strada. «Ho stabilito che è tempo di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale d’Israele. […] Israele è una nazione sovrana con il diritto, come ogni altra nazione sovrana, di determinare la propria capitale. Riconoscere questo come un fatto è una condizione necessaria per raggiungere la pace. […] Voglio anche chiarire un punto: questa decisione non intende in alcun modo riflettere un allontanamento dal nostro forte impegno per facilitare un accordo di pace duraturo. Vogliamo un accordo che sia molto importante per gli israeliani e molto per i palestinesi. […] Gli Stati Uniti potrebbero sostenere una soluzione a due Stati se concordata da entrambe le parti».
Apriti cielo. Nell’epoca delle fake news, i fake media si sono messi subito al lavoro: e hanno mostrato, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che la politica dei due pesi e due misure verso Israele va ancora di moda, sia sulla carta stampata che in politica internazionale. E allora ecco che Trump viene dipinto come un pazzo che condurrà il mondo alla terza guerra mondiale, come un incendiario che vuole destabilizzare il Medio Oriente. Tuttavia quando l’ONU, l’UNESCO e altre organizzazioni internazionali prendevano metaforicamente a ceffoni Israele con le loro risoluzioni provocatorie, nessuno considerava tali atti destabilizzanti per il Medio Oriente: cento risoluzioni pro-Palestina meritano a priori scroscianti applausi, mentre un atto pro-Israele è un irreparabile danno alla pace e un’offesa da lavare con una nuova intifada. Trump, con la sua storica decisione, ha voluto cambiare marcia ad una politica estera americana ormai da tempo ammuffita nei confronti di Israele – senza tuttavia rinunciare all’impegno di lavorare per il dialogo – e ha stanato l’ipocrisia della comunità internazionale, preoccupata solo di non turbare la suscettibilità palestinese e dei Paesi arabi fingendo che vi sia un fantomatico “processo di pace” da salvaguardare. Il mantra “due popoli due Stati”, che ora viene rilanciato da tutte le cancellerie europee, in questi anni è stato solo una mera – e comoda – dichiarazione d’intenti, e di certo la decisione di Trump non mette in pericolo alcun accordo epocale dietro l’angolo.
E l’Italia? Non pervenuta. Il nostro ministro degli Esteri è troppo impegnato nell’annunciare urbi et orbi la sua volontà di non ricandidarsi – una notizia che senza dubbio lascerà sgomente le diplomazie europee – per occuparsi di Gerusalemme. Nella scacchiera medio-orientale così come a Bruxelles, l’Italia gioca ormai solo di rimessa, abituata alla mediocrità. Priva di ogni ruolo nel Mediterraneo, balbuziente con l’Unione Europea, guardiamo da spettatori Francia, Turchia, Germania, Russia tessere le fila dei propri interessi.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta