Islamofobia, malattia immaginaria?

Questo saggio di Giuseppe Cecere è stato pubblicato sul Primo Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo

1.ITALIA ISLAMOFOBICA: UNA DIAGNOSI DA RIVEDERE?

La società italiana contemporanea è malata di islamofobia? A giudicare dalle rappresentazioni prevalenti nel discorso pubblico (in vasti settori dei media, dell’accademia, del mondo politico ed associativo, delle istituzioni civili e religiose), la diagnosi parrebbe evidente: l’Italia di oggi sarebbe preda di una sempre più forte avversione pregiudiziale (anzi, di una “paura irrazionale e infondata”, come suggerito dal termine fobia) verso l’Islam e i musulmani. Una vera e propria “malattia dell’immaginario (collettivo)”, parte di una più vasta trasformazione della nostra società in senso xenofobico e razzistico, attestata da una varia ed inequivocabile sintomatologia che culminerebbe nel crescente sostegno dell’opinione pubblica alle forze genericamente definite come “populiste”. Cause principali di tale patologia sociale, sarebbero la diffusa ignoranza delle culture “altre” e l’ancora insufficiente esposizione della popolazione autoctona alla convivenza con persone provenienti da tali culture. Nel caso specifico della islamofobia, il quadro clinico sarebbe ulteriormente aggravato dalla diffusa circolazione, nel corpo sociale, di stereotipi antiislamici di vecchio e nuovo conio – espressione, rispettivamente, di forme di religiosità reazionaria o di laicismo esasperato – e dagli effetti devastanti di una paradossale alleanza implicita tra due opposti estremismi: da un lato, quello che viene spesso chiamato “islamismo radicale”, dall’altro, le destre che vengono dette “xenofobe” – due campi di forze evidentemente contrapposti ma che sarebbero entrambi impegnati, per finalità differenti ma con esiti convergenti, in una sistematica opera di manipolazione della paura delle popolazioni autoctone – alimentata dalla diffusa ignoranza in materia di Islam – e della “retorica dello scontro di civiltà”; il tutto, allo scopo di alimentare il conflitto tra “diversi” e rendere così impossibile la serena e pacifica integrazione delle persone e delle comunità di fede musulmana nelle società occidentali. Questo, in estrema sintesi e con le semplificazioni che le sintesi spesso comportano, sembra essere il senso (nella duplice accezione di “significato” e “direzione”) del discorso pubblico prevalente sul tema della islamofobia: da un lato, si tende a negare il carattere potenzialmente problematico della massiccia diffusione di un sistema valoriale “altro” all’interno delle società europee, attribuendo caratteri “fobici” – e talvolta “razzistici” – a qualunque discorso critico sul tema; dall’altro lato, si afferma la necessità, per superare i residuali conflitti indotti dagli opposti estremismi, di moltiplicare la conoscenza dei “caratteri autentici dell’Islam” (auspicio condivisibile in astratto, ma che resta privo di senso senza una adeguata problematizzazione della nozione di Islam e della stessa nozione di “autenticità”) e, soprattutto, di incrementare la presenza demografica e la “rappresentatività” culturale e politica dei musulmani nel nostro Paese come nel resto dell’Unione Europea. Se “l’ignoranza” è causa della patologia, la “conoscenza” – delle culture e delle persone concrete- è insomma l’unica efficace terapia per contrastarla. Senza ovviamente contestare in alcun modo i pericoli dell’ignoranza ed il positivo valore della conoscenza reciproca nei rapporti tra persone e gruppi di culture differenti, sembra tuttavia opportuno compiere un tentativo di problematizzare alcuni aspetti del sistema di rappresentazioni sin qui descritto, che appaiono di assoluto rilievo a livello epistemologico. Preliminare alla progettazione di un qualunque percorso terapeutico, è infatti la possibilità di formulazione di una diagnosi corretta. Ora, è proprio su questo punto che le rappresentazioni della islamofobia nella società italiana sembrano richiedere una attenta verifica – e forse anche una profonda revisione – per un duplice ordine di motivi. In primo luogo, nella valutazione dei “sintomi” non si può prescindere da una adeguata valorizzazione di indicazioni, anche statistiche, che sembrano porsi in contrasto con l’immagine, sin qui evocata, di una società islamofobica.

In secondo luogo, la definizione stessa della “patologia” qui presa in esame è ben lungi dall’essere oggetto di unanime accordo sia in sede scientifica che in sede di pratica applicazione (incluse le prassi sociali e istituzionali). Infatti, per alcuni osservatori la nozione di islamofobia andrebbe riferita, in linea con l’etimologia del termine, esclusivamente a forme di “paura infondata” o di “avversione pregiudiziale” contro la religione e la cultura islamica (è questa, ad esempio, la definizione del lemma nel Dizionario Treccani). Per molti altri tale nozione include, come si è detto, forme di razzismo contro le persone che praticano la fede musulmana o provengono da quella cultura (come nei già citati documenti dell’Ufficio Nazionale Anti-Razzismo, UNAR). Per altri ancora, essa sembra doversi estendere, di fatto, a qualunque critica – anche razionalmente argomentata – nei confronti della religione e della civiltà islamica o di particolari aspetti di essa, in quanto ciò sarebbe comunque espressione di una tendenza ad affermare gerarchie di valori tra le diverse culture (è stato questo, ad esempio, il ragionamento alla base del processo disciplinare per islamofobia avviato, nel 2014, dall’Ordine dei Giornalisti contro Magdi Cristiano Allam, conclusosi peraltro con una piena assoluzione. Infine, nel ricorrente dibattito sull’identità culturale europea e sulle diverse identità nazionali, sono emerse posizioni tendenti a squalificare come islamofobica qualunque rappresentazione identitaria che non contempli l’esplicita inclusione dell’Islam tra i fattori costitutivi – anche in proiezione storica – di tale identità: un esempio tra molti, le critiche espresse dall’intellettuale musulmano francese Abd Al Malik, in nome tanto della laicità quanto del contrasto alla islamofobia, contro l’affermazione della originaria connotazione “giudaicocristiana” dell’identità francese; una linea sulla quale si è spinto recentemente, con esiti paradossali, anche un analista politico italiano generalmente sobrio come Antonio Polito, il quale, in un articolo apparso sul Corriere della Sera dopo la strage alla moschea di Christchurch, ha ridotto la battaglia navale di Lepanto, e la stessa impresa di Carlo Martello a Poitiers, a simboli della islamofobia contemporanea. Per queste molteplici ragioni, appare necessario spingere l’analisi più a fondo, per verificare se la società italiana sia realmente affetta, o anche solo insidiata, da una “malattia dell’immaginario” definibile come islamofobia, o se questa non debba piuttosto ritenersi come una “malattia immaginaria”. Ovvero, se la diagnosi di islamofobia non sia a sua volta il prodotto di una fobia – ispirata da considerazioni di natura ideologica – che rischi di paralizzare, nelle spire del politicamente corretto, il discorso pubblico sul rapporto con l’universo materiale e simbolico dell’Islam – nelle molteplici accezioni che il termine comporta: come visione religiosa e sistema di pensiero; come civiltà storicamente articolata in una pluralità di forme di vita sociale e culturale e in una varietà di realtà politiche e statuali ispirate ad un comune costellazione di principi; come complessa tradizione giuridica; come rete di organizzazioni nazionali ed internazionali; come riferimento identitario e valoriale – variamente inteso, declinato e problematizzato – delle singole persone di fede musulmana.

 

  1. ISLAMOFOBIA E IGNORANZA: UN BINOMIO NECESSARIO?

Come già accennato, le rappresentazioni dell’Italia come Paese malato, o quanto meno “soggetto a rischio”, di islamofobia trovano ampio spazio nelle più varie sedi di elaborazione culturale e di formazione dell’opinione pubblica. In primo luogo, sono ricorrenti gli allarmi dei media sul dilagare di atteggiamenti islamofobici nella società italiana. Già nel 2015, ad esempio, dopo gli attentati islamisti di Parigi, il Corriere della Sera denunciava una crescita della islamofobia in Europa, presentandola come uno degli obiettivi perseguiti dalla stessa Isis al fine di polarizzare le società occidentali e spingere i musulmani europei a radicalizzarsi. Sul finire dello stesso anno, il sito di informazione Stati Generali definiva l’Italia “capitale europea dell’islamofobia”, asserendo che “il 63%” della popolazione avesse “un’opinione sfavorevole dei musulmani presenti nel nostro Paese”, sullabase di un’indagine condotta in diversi Paesi europei dal think-tank statunitense PEW Research Center. Da allora, il PEW ha prodotto diverse analisi sul sentiment verso i musulmani, spesso affermando l’esistenza di una correlazione inversamente proporzionale tra la consistenza demografica della “presenza” musulmana in un dato Paese europeo e l’indice di ostilità anti-musulmana nella popolazione autoctona (ossia: meno numerosi sono i musulmani, più numerosi sarebbero gli islamofobi). In particolare, un’indagine condotta nel 2018 in quindici Paesi europei dimostrerebbe come chi abbia una conoscenza diretta di persone di fede islamica tenda più di altri ad avere un’opinione favorevole nei confronti dei musulmani e dell’Islam. L’islamofobia sarebbe quindi determinata, o comunque alimentata, essenzialmente dall’ignoranza.

  1. ISLAMOFOBIA: TEORIE CONTEMPORANEE E STORIA DEL TERMINE

L’affermazione di un nesso costitutivo tra islamofobia ed ignoranza è uno dei pilastri di quella che potremmo definire la “teoria dell’islamofobia” contemporanea (cioè del complesso sistema di rappresentazioni di cui abbiamo accennato i tratti salienti nella sezione precedente). Questa teoria trova molteplici espressioni in una bibliografia sterminata11, prodotta soprattutto negli ultimi due decenni, sulla scia del celebre rapporto Islamophobia: A challenge for us all, pubblicato nel 1997 dal think-tank britannico Runnymede- una fondazione che presenta come sua mission prioritaria il sostegno alle politiche di “uguaglianza razziale” (race equality) per la costruzione di una Gran Bretagna multi-etnica nella quale “tutti i cittadini e tutte le comunità possano sentirsi valorizzati”.

Molto probabilmente, il 1997 rappresenta un “punto di svolta” nella storia – in parte ancora dibattuta – del concetto di islamofobia. Da un lato, occorre precisare che le prime attestazioni note di tale nozione precedono di circa un secolo la pubblicazione del report della Fondazione Runnymede. Infatti, contrariamente ad alcune ricostruzioni che imputano l’elaborazione di tale nozione all’ayatollah Khomeini o ad intellettuali vicini alla Fratellanza Islamica, il termine islamophobie risulta già presente nel lessico intellettuale francese del primo Novecento, sia pure con una circolazione assai limitata. Come hanno dimostrato recentemente Abdellali Hajjat e Marwan Mohammed, alcuni studiosi e funzionari delle amministrazioni coloniali (due ruoli spesso sovrapposti, all’epoca, in una medesima persona) usano il termine islamophobie, nei primi anni del XX secolo, per contestare, tra l’altro, i timori degli ambienti governativi in ordine ad un possibile ruolo eversivo dell’Islam – come sistema di valori e come rete organizzativa – nei territori colonizzati; in particolare, si segnala La politique musulmane dans l’Afrique occidentale française (1910) del giurista Alain Quellien, in cui la “difesa” dell’Islam si basa peraltro, in larga misura, su argomenti di chiara connotazione razzista, come l’idea che la morale islamica sia più adatta di quella cristiana alle popolazioni “nere” in quanto più conciliante nei confronti degli istinti naturali16. Pochi anni più tardi, come segnala Vincent Geisser in uno studio del 2003, il termine è utilizzato dal pittore “islamofilo” Etienne Dinet per ironizzare sull’atteggiamento delle istituzioni cattoliche nei confronti dell’Islam. Tuttavia, bisogna altresì rilevare che l’uso generalizzato del termine nella lingua inglese e, soprattutto, la particolare curvatura concettuale “antirazzista” che esso ha ricevuto nel dibattito culturale contemporaneo, sembrano da ricondurre, in larga misura, proprio all’impatto, sul dibattito culturale, del report pubblicato dalla Fondazione Runnymede nel 1997. Nella legione di pubblicazioni apparse dopo quella data, sembra opportuno segnalare almeno, per complessità di costruzione, il volume Islamophobia: Making Muslims the Enemy di Peter Gottschalk e GabrielGreenberg ed i molti lavori dello statunitense John Esposito, per non dire della vasta produzione legata a Tariq Ramadan e agli ambienti intellettuali della Fratellanza Islamica (un tema sul quale ci permettiamo di rinviare al saggio di Mario Ciampi sull’Islam europeo nel presente volume). In ambito italiano, una posizione decisamente originale è espressa da Enrico Galoppini, che si allontana significativamente dalla dominante lettura “progressista” della islamofobia: in linea con una particolare visione positiva dell’Islam che caratterizza diverse correnti di pensiero “anti-moderno” – in particolare, controversi pensatori della Tradizione come Guénon ed EvolaGaloppini vede nell’ostilità anti-islamica non soltanto il prodotto di presunte manipolazioni occidentali volte a giustificare pretese egemoniche e guerre imperialistiche ma anche il risultato di un confronto tra il solido sistema di valori spirituali che egli ritiene incarnato dall’Islam ed una modernità “liquida” insofferente verso tali valori e verso il senso del divino: “La “cultura islamica” ci mette di fronte ad una delle menzogne fondamentali del “laicismo”: che non sia possibile coniugare la “modernità” con la “tradizione”. Se con “modernità” s’intende semplicemente l’esserci qui ed ora, non tutto l’ambaradam dei cosiddetti “diritti umani” di conio occidentale che, postulando di fatto l’inesistenza di Dio, i musulmani coerentemente rigettano”.

  1. ISLAMOFOBIA E “DISCORSI D’ODIO”

Nelle università italiane, soprattutto in ambito antropologico e sociologico, sono molteplici le iniziative di ricerca tese a definire e valutarele caratteristiche e l’intensità della islamofobia e di altre fobie nei confronti delle diversità etniche, culturali, religiose, sessuali. Tra le più note, la Mappa dell’Intolleranza, realizzata annualmente dall’associazione VOX – Osservatorio Italiano dei Diritti in collaborazione con l’Università Statale di Milano, l’Università di Bari, La Sapienza di Roma e il Dipartimento di sociologia dell’Università Cattolica di Milano, per monitorare qualità, quantità e distribuzione geografica dei “discorsi d’odio” (hate speech) nelle reti social. Giunta nel 2019 alla sua quarta edizione, la Mappa dedica da sempre spazio al tema dell’islamofobia, considerata sia come fenomeno in sé, sia come parte di una generica ostilità contro le persone “considerate aliene”. Quest’ultima viene valutata sommando i dati relativi a tre diverse categorie: musulmani, ebrei e migranti (un procedimento, invero, suscettibile di qualche obiezione epistemologica, poiché sembra non tener adeguatamente conto delle complessità specifiche delle diverse categorie implicate e delle loro possibili interazioni: basti pensare, ad esempio, che l’antisemitismo colpisce anche ebrei italiani e può essere praticato anche da musulmani italiani o da migranti – sia musulmani sia cristiani – oltre che da xenofobi e/o antisemiti autoctoni). Anche per i responsabili di VOX, in ogni caso, l’intolleranza è fondamentalmente legata alla non-conoscenza delle persone “considerate diverse”: “Oggi l’odio si concentra contro le persone considerate diverse, per appartenenza a culture differenti dalla nostra […]. Ma dalla rilevazione emerge un altro aspetto importantissimo. I tweet intolleranti diminuiscono, dove è più alta la concentrazione di migranti, dimostrando quindi una correlazione inversa tra presenza sul territorio e insorgere di fenomeni di odio: come a dire, conoscersi promuove l’integrazione”.

  1. ELEMENTI PER UNA “DIAGNOSI” ALTERNATIVA

Secondo le rappresentazioni sin qui evocate, gli orientamenti dell’opinione pubblica sarebbero pervasi di crescente ostilità pregiudiziale verso la “religione e la cultura islamica” e verso le persone di fede islamica. In questo quadro, la nozione di islamofobia si presenterebbe come unaforma specifica di razzismo. Tuttavia, una tale “diagnosi” dello stato della società italiana sembra prestarsi a qualche seria obiezione. In primo luogo: se la realtà sociale del Paese fosse così inquietante, si dovrebbero poter trovare tracce evidenti di islamofobia non soltanto in studi selettivi condotti su realtà “patologiche” per definizione, come i citati campioni di “discorsi d’odio” – peraltro definiti sulla base di liste di parolechiave la cui scelta, con tutte le cautele epistemologiche che si possano adottare, risulta pur sempre, inevitabilmente, influenzata anche da una componente soggettiva e aprioristica-, ma anche in analisi condotte su campioni rappresentativi della generalità della popolazione. Come spiegare, allora, i risultati emersi dell’approfondita indagine statistica inferenziale condotta nel luglio 2019 (e dunque in una fase di grande successo delle forze “populiste” e “sovraniste”) da Arnaldo Ferrari Nasi e da lui commentata in questo stesso volume? Rinviando ovviamente all’articolo in questione per una analisi dettagliata di tale indagine, in questa sede sembra comunque opportuno esprimere alcune considerazioni generali suggerite dagli esiti di quella rilevazione. In estrema sintesi, si osserva che dalle numerose domande in cui si articola la ricerca, rivolte ad un campione rappresentativo di differenti ambiti sociali, culturali e geografici della popolazione italiana, emerge il quadro di un’opinione pubblica decisamente non “fobica” nei confronti dell’Islam e delle persone di fede musulmana. In particolare, i due terzi degli intervistati ritengono possibile una positiva integrazione degli immigrati musulmani, e una maggioranza altrettanto ampia concorda sull’idea che la maggior parte dei musulmani presenti in Italia sia “moderata”. Analogamente, molti degli intervistati dimostrano di non avere ostilità preconcette verso l’Islam come religione: un’ampia maggioranza ritiene che questa religione, pur avendo vissuto anche periodi storici di violenza e intolleranza, sia però suscettibile di interpretazioni aperte alla tolleranza e al dialogo, mentre una parte minoritaria ma assai cospicua (circa un quarto) degli intervistati definisce tout court l’Islam come “una religione di pace e di tolleranza”. In quest’ambito, inoltre, risulta da segnalare il numero straordinariamente basso (12%) di quanti ritengono che l’Islam si sia diffuso principalmente attraverso le conquiste militari – e ciò, sia consentito sottolinearlo, risulta in parte sorprendente, se si considera come tali conquiste abbiano segnato proprio le fasi iniziali della storia islamica e contribuito allo sviluppo di unimmaginario collettivo in cui (anche per numerosi asceti e mistici sufi) lo “sforzo (jihâd) sulla via di Dio” si concretizza spesso – benché non sempre e non esclusivamente – in pratiche di combattimento militare. A distanza di quattro anni dal citato rapporto del PEW Research Center, dunque, i risultati sembrano esattamente invertiti rispetto a quelli che avevano indotto qualcuno a dichiarare, forse frettolosamente, l’Italia “capitale europea dell’islamofobia”: saremmo passati, cioè, da un 61% di “opinioni sfavorevoli” sui musulmani presenti in Italia, ad oltre il 60% di “opinioni favorevoli”. Una inversione di tendenza a dir poco sorprendente, in un Paese in cui la islamofobia sarebbe in vertiginoso aumento. Peraltro, anche le opinioni – minoritarie- che nel sondaggio potrebbero essere qualificate come “negative” non sembrano mai fondate su ostilità preconcette ma sulla valutazione, magari pessimistica ma non per questo “pregiudiziale”, di specifici aspetti legati alla concretezza dello sviluppo storico dell’Islam e/o alla consapevolezza della potenziale problematicità delle relazioni interculturali in un contesto sociale determinato. Anche questi dati, dunque, sembrano portare una significativa smentita alle rappresentazioni di una vasta diffusione della islamofobia, che per essere tale dovrebbe appunto fondarsi su forme di “avversione pregiudiziale”. Ovviamente, un solo sondaggio non basta ad invertire un quadro che sembra fondarsi su una mole di indagini precedenti. Tuttavia, l’indagine demoscopica condotta da Ferrari Nasi ha prodotto una serie di evidenze statistiche con le quali non sarà possibile non confrontarsi, nel prosieguo del dibattito pubblico sul tema della islamofobia. Lasciando agli studiosi di scienze statistiche e sociologiche una più approfondita valutazione dei dati, non possiamo non rilevare, in questa sede, come l’indagine di Ferrari Nasi segnali la necessità di coltivare, quanto meno, un ragionevole dubbio rispetto all’esistenza di una epidemia di islamofobia nell’Italia di oggi. In effetti, simili dati mostrano semmai un notevole grado di apertura della società italiana nei confronti delle persone di religione e di cultura islamica (purché, come indicano alcuni aspetti della rilevazione, tale presenza sia inserita in un contesto di certezza dei riferimenti giuridici comuni e di rispetto di alcuni elementi della cultura nazionale). In taluni casi, essi sembrano anzi indicare una notevole incidenza, presso settori cospicui dell’opinione pubblica, di stereotipi positivi e di rappresentazioni che affermano una metastorica “essenza irenica” dell’Islam, anche in potenziale contraddizione con la complessità delle realtà storiche che ne hanno segnato lo sviluppo. In questa rilevazione, si riscontrano dunque, da un lato, atteggiamenti di equilibrio e di apertura che evidenziano a nostro avviso le conseguenze, di lungo e medio periodo, di una vasta e articolata serie di positivi sforzi prodotti condotti da uomini e donne dell’accademia, della cultura, delle istituzioni civili e religiose, sin da tutto il secolo scorso, sul terreno della conoscenza storica obiettiva del complesso universo islamico, della comprensione interculturale, del dialogo interreligioso; dall’altro, si registrano anche atteggiamenti di simpatia “pregiudiziale” per il mondo islamico, legati all’ampia diffusione nel discorso pubblico, almeno dall’ultimo quarto del XX secolo, di rappresentazioni ideologiche di derivazione “postcoloniale” ed “anti-occidentale” che – a partire dalle letture, di impronta sartriana o fanoniana, dei “dannati della terra” come nuovo proletariato rivoluzionario, e dalla critica all’orientalismo elaborata da Edward Said (che opera una radicale decostruzione dell’etnocentrismo della cultura occidentale, ma omette – consapevolmente- di applicare lo stesso sguardo critico alle costruzioni etnocentriche elaborate dalla cultura islamica e, di fatto, da qualunque altra cultura storica) – hanno contribuito a produrre immagini stereotipate dei rapporti tra “Occidente” e “Islam”, ridotti a termini fissi di una relazione tra oppressore ed oppresso, laddove la storia dimostra una pluralità di situazioni complesse – fatte di scambi, intrecci, conflitti – in cui i ruoli si sono tante volte invertiti o sovrapposti. Proprio la diffusione, nei più diversi ambiti di formazione dei saperi e delle opinioni del Paese, di tali diversi sistemi di rappresentazioni – quelle, più connotate nel senso dell’obiettività scientifica, della ricerca orientalistica di stampo “tradizionale” e quelle, ideologicamente connotate in senso variamente “filo-islamico”, prodotte dalle rivoluzioni epistemologiche che hanno trovato la loro data-simbolo nel 1968 – sembra aver agito, peraltro, come un fattore determinante per la costruzione di un efficace sistema “immunitario” contro l’emergere e il diffondersi della islamofobia negli ambienti colti del Paese.

  1. CONCLUSIONI

Se considerazioni di vario genere sembrano suggerire che tanto gli ambienti colti quanto la generalità della popolazione siano sostanzialmente immuni, almeno nelle loro componenti largamente maggioritarie, da forme di ostilità preconcetta contro l’Islam e contro i musulmani, che cosa giustifica le reiterate e diffuse rappresentazioni della società italiana come islamofobica? La risposta ad un tale quesito richiede senza dubbio un lavoro analitico di lunga lena. Tuttavia, già ad una prima valutazione degli elementi sin qui emersi, un fattore cruciale sembra essere rappresentato dalle diverse sensibilità con cui, come già accennato, viene interpretata, e applicata, la nozione di islamofobia. Se il termine viene riferito alle sue valenze etimologiche di “paura infondata” o “avversione pregiudiziale” contro la religione e la cultura islamica e/o contro i musulmani, non si può parlare di una diffusione significativa dell’islamofobia nella società italiana; anche se resta ovviamente alta la necessità di contrastare qualunque espressione di effettivo razzismo – antislamico, islamista o di qualsivoglia altra matrice – che possa affiorare in contesti sociali “reali” o “virtuali”. Se invece si adotta una nozione più elastica del termine islamofobia, esso diviene facilmente applicabile a qualunque discorso che comporti una critica ad aspetti della cultura islamica o a qualunque riflessione sull’identità culturale, sulla sovranità, sull’organizzazione sociale di un Paese che si ponga come alternativo – o non pienamente conforme – al pensiero dell’altro ed alle posizioni multiculturaliste tuttora prevalenti nel discorso pubblico. Ma in tal caso, non si tratta più di una “malattia dell’immaginario” quanto piuttosto di una “malattia immaginaria”, evocata – con maggiore o minore buona fede – per escludere dallo spazio del dicibile, e anche del pensabile, teorie e punti di vista non graditi.

 

*Giuseppe Cecere, docente di lingua e letteratura araba, Università di Bologna

IL TERRORISMO DI MATRICE ISLAMICA

Questo saggio di Isabella Rauti  è stato pubblicato nel Primo Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo

La tragica data dell’11 settembre 2001, con l’attacco terroristico di AlQaeda agli Stati Uniti, rappresenta un punto di “non ritorno” e stabilisce una linea di demarcazione, nell’immaginario collettivo globale e nella storia mondiale, tra un prima ed un dopo. È stata una dichiarazione di guerra da parte dei fondamentalisti islamici all’Occidente! Ed il mondo è cambiato. I nostri figli ed intere generazioni sono nativi del “dopo 11 settembre” e, da allora ad oggi – purtroppo – abbiamo assistito ad un innalzamento della minaccia terroristica, ad una sua evoluzione tecnica ed alle molteplici modificazioni dei fenomeni terroristici. Si è affermato, nel tempo, un nuovo modello terroristico ed il tema resta nevralgico e permane come cruciale e strategico, così come permanente è la minaccia terroristica, al di là ed oltre la scomparsa della realtà statuale e geografica del sedicente “Stato islamico” di Daesh.

Quel frutto del processo di trasformazione, espansione e radicamento del gruppo terroristico dell’Isis (nato come una cellula di Al-Qaeda in Iraq nel 2013), che è riuscito – con molti e noti appoggi e finanziamenti stranieri – a conquistare militarmente un’area compresa tra la Siria nord-orientale e l’Iraq occidentale, ad organizzarsi in uno “Stato” con le proprie strutture ed assetti sociali ed a proclamare il Califfato (giugno 2014). Dopo gli attacchi terroristici del 2004 (Londra), del 2007 (Madrid), del 2011 in Norvegia, ci si avvia verso una tragica escalation di attentati di matrice islamica e, dal fatidico 2014 (nascita di Daesh) al 2019 si sono registrati attacchi terroristici continui, di intensità diversa (bassa, media, alta e quelli definiti emulativi) e di natura mista (attacchi di singoli attentatori o strutturati), con il picco toccato nel 2016 (l’anno degli attentati, tra gli altri, a Bruxelles, a Nizza, a Berlino, rivendicati dall’Isis e risultati legati a quelli di Parigi del 2015).  Secondo il Report realizzato dal “National Consortium for the Study of Terrorism and Responses to Terrorism” (START) sulla base dei dati raccolti dal “Global Terrorism Database” (messo a punto dall’Università del Maryland), gli attentati terroristici del 2016 in tutto il mondo (l’87% ha interessato la regione del MENA, il Sud dell’Asia e l’Africa subsahariana; il 2% l’Europa occidentale) sarebbero stati 13.488 ed avrebbero causato 34.676 vittime di cui più di 11.600 sono ritenuti attentatori; nel 2016 l’Isis si conferma come l’organizzazione terroristica più pericolosa ed attiva, portando a compimento circa 1.400 attacchi che hanno prodotto oltre 11.700 vittime , delle quali circa 4.400 erano attentatori. E nel 2017 altri attentati terroristici: Istanbul, Londra, San Pietroburgo, Stoccolma, Manchester, e ancora Parigi e ancora Bruxelles, Amburgo, Barcellona e, purtroppo, potremmo continuare perché nonostante la flessione del numero degli attacchi, la media è rimasta alta.

Nel corso di questi anni di sangue gli attacchi condotti in Occidente non sono stati tutti uguali; alcuni sono stati molto sofisticati e condotti da professionisti addestrati, altri da emulatori meno preparati o addirittura improvvisati ma questo non gli ha impedito di portare a compimento i piani terroristici, sottolineando una certa permeabilità dei sistemi di difesa e sicurezza europei. Che si trattasse di “lupi solitari” o di cellule organizzate (che hanno potuto godere del supporto di molti fondamentalisti islamici presenti in Europa) l’offensiva jihadista si è protratta, dimostrando l’inefficacia di alcune strategie ed una debolezza strutturale nelle segnalazioni e nelle misure preventive. Troppi, infatti, i casi rivelati dalla cronaca e dalle indagini successive agli attentati, di sostenitori della Jihad che hanno dissimulato con successo il loro ruolo di fiancheggiatori (o molto di più!), dietro una facciata di integrazione e “mimetizzazione” occidentale; svolgendo per anni una funzione logistica, di propaganda, di finanziamento e di reclutamento utili alla causa. La tecnica della dissimulazione (in arabo taqyyia) è sempre più utilizzata dai soggetti radicalizzati per la loro infiltrazione nel tessuto sociale occidentale. Tutti attacchi terroristici rivendicati, nella stragrande maggioranza dei casi, nel nome dell’Isis, con una frequenza elevata (e grande impatto mediatico, come voluto dalla strategia degli stragisti) ed un evoluzione del fenomeno da cui emerge che si tratta di operazioni studiate e coordinate con “team-raid” tattici, in alcuni casi simultanee, compiute da soggetti radicalizzati e, tendenzialmente, di giovane età e con la cittadinanza europea, da commando suicidi, attentatori disposti al martirio in ossequio estremo alla loro fede islamica radicale. Il bilancio complessivo degli attentati subiti dall’Europa (“il teatro operativo urbano europeo”) è impressionante, con migliaia di vittime civili colpite tra morti e feriti; sono cifre da guerra! Ma dietro gli aspetti quantitativi delle stragi – e non sono numeri, ma persone! – ci sono le necessarie analisi qualitative delle azioni terroristiche e delle loro rivendicazioni; la strategia dell’Isis e la minaccia jihadista hanno raggiunto il loro obiettivo, quello di rendere l’Occidente e l’Europa un “campo di battaglia” attuando la tattica del terrore indiscriminato: “(…) frutto di un semplice principio dell’economia: ottimi risultati con un minimo investimento.

Il susseguirsi di eventi sanguinosi che ormai da tempo riempiono intere pagine di giornali, nonché i profondi effetti tracciati sulle coscienze dei cittadini europei, lasciano un insegnamento per i giorni a venire: nessuno è al sicuro. La strategia dell’innalzamento del livello di prevenzione poteva forse risultare utile nei nefasti Anni di piombo, quando il nemico che si affrontava era noto, la sua ideologia comprensibile così come la lingua. Oggi la realtà è completamente diversa. I novelli terroristi agiscono per “delega divina”, hanno un background culturale completamente diverso dal nostro, parlano una lingua ai più sconosciuta e praticano una religione che solo negli ultimi anni si è fatta conoscere all’Occidente (OFCS REPORT, La “delega divina” che autorizza le stragi)”; insomma l’incubo che prende forma e che assilla tutti, Governi e cittadini, la minaccia e l’insicurezza globali. L’Europa, oltre che bersaglio si è rivelata una incubatrice (ma anche sorgente autonoma) di militanti, di estremisti, di Jihadisti di ritorno, di reclutatori e predicatori radicalizzati e la minaccia terroristica permane, come accennato, oltre la sconfitta militare e la caduta delle roccaforti di Daesh e del sedicente Stato Islamico, perché ne resta l’ideologia e la sconfitta militare non è la fine della Guerra. Ed affrontare l’eredità della sconfitta dello Stato Islamico e la nuova minaccia terroristica è la sfida delle sfide; un terrorismo agguerrito e multidimensionale ci coinvolge, riguarda la sicurezza delle nostre collettività, richiede studi strategici adeguati e sofisticati e misure di contrasto mirate ed efficaci. Il fenomeno terroristico, infatti, ha elaborato le sue nuove tecniche offensive e si è passati da un terrorismo tradizionale ad un “nuovo terrorismo insurrezionale”, multidimensionale, fluido, dinamico, contemporaneo, di matrice islamico-radicale. Vi concorrono atti coordinati ma anche le attività 96offensive isolate dei cosiddetti “lupi solitari”; gli attacchi suicidi, cui hanno cominciato a contribuire anche le donne: le mogli, le sorelle, le madri dei combattenti e, purtroppo, anche i bambini, impiegati come attaccanti suicidi, imbottiti di tritolo e mandati a morire telecomandati a distanza.

Non trova qui spazio e meriterebbe un capitolo a parte l’altro fronte dei foreign fighters che sono le donne; Al-Qaeda non le impiegava mentre l’IS le ha utilizzate ampiamente: da quelle operative e combattenti, impiegate in ruoli militari operativi o di spionaggio o incaricate di condurre attacchi suicidi, alle mogli forzate dei miliziani del Califfato (comprate e costrette al matrimonio), alle vedove, alle madri e alle sorelle dei combattenti jihadisti e poi i bambini, quelli indottrinati e obbligati a fare i soldati o i martiri e quelli – i “figli dell’Isis” – nati dai matrimoni forzati e, taluni, oggi ripudiati dalle loro madri. Gli esperti di settore distinguono gli attacchi ad intensità bassa, media, alta; e quelli compiuti con armi cosiddette non convenzionali e condotti da soggetti singoli e attori solitari ed isolati dagli attacchi sferrati da gruppi strutturati o da reti di cellule organizzate. Si aggiungono, gli attacchi che convenzionalmente vengono definiti di tipo emulativo, che seguono quelli principali e coordinati e ad alto impatto mediatico, e proprio lo “jihad mediatico” evoca e produce un effetto virale e amplia la fascia di simpatizzanti anche se non radicalizzati. Il nodo della radicalizzazione è un risvolto fondamentale del fenomeno. Solo un dato ed una riflessione introduttiva, al proposito; secondo le analisi e gli studi di settore il fenomeno di radicalizzazione risulta in aumento, ad esempio, all’interno delle carceri :+ 72% tra il 2016 e il 2017 e +10% dal 2017 al 2018 (Fonte “ReaCT”, l’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo, nato per monitorare e prevenire il radicalismo e contrastare il Terrorismo e per contribuire alle politiche di difesa e di sicurezza dei Paesi europei e dei membri della NATO). Le prigioni sono i luoghi in cui il proselitismo raggiunge anche soggetti non radicalizzati e recluta facilmente. Più sommerso ma non meno solido e preoccupante è l’aspetto della “radicalizzazione veloce” – che non coincide con il fondamentalismo – che utilizza i social media ed attraverso i social network si propaga esercitando una capacità di “fascinazione” ed un effetto reclutamento, suggestionando, in particolare, le fasce giovanili e quelle socialmente marginalizzate, sensibili ai richiami simbolici ed un bisogno di “appartenenza” identitaria unito ad una volontà di riscatto. La radicalizzazione veloce talvolta coincide con l’auto-radicalizzazione individuale e produce il fenomeno definito di “reclutamento 3.0”, un processo che passa attraverso percorsi diversi da quelli tradizionali e noti, viaggia sul web e tramite canali meno ortodossi e formali anche rispetto alla pratica confessionale.

Osservato nel suo insieme il fenomeno della radicalizzazione si presta ad una duplice lettura: aumentano oggettivamente i soggetti radicalizzati ed i canali di radicalizzazione ma contestualmente si affinano le capacità degli operatori e degli analisti di individuare e rilevare le “sacche” di radicalizzazione, gli indicatori e le simbologie di reclutamento. Gli studiosi sono generalmente concordi nel ritenere che la radicalizzazione sia un fenomeno subdolo e sfuggente, dinamico e sottotraccia, difficile da contrastare e che debba essere fronteggiato anche con adeguate misure di prevenzione e di “de-radicalizzazione”; è indubbio che alla sua decifrazione contribuisca anche l’individuazione dei foreign fighters ed il loro ritorno in patria dopo la dissoluzione territoriale dello Stato Islamico. I foreign fighters, i combattenti stranieri del Califfato che sono sopravvissuti, ritornano dai territori di guerra della Siria e dell’Iraq e rappresentano una minaccia reale; sono quelli che “importano” in Europa le tattiche di combattimento convenzionale e di guerriglia che hanno acquisito sul campo di battaglia e sono in grado, non solo di fare opera di proselitismo e radicalizzazione (dentro e fuori le carceri e nelle Moschee) ma anche di costituire cellule organizzate, capaci di azioni strutturate e pianificate secondo una strategia.

Il ritorno dei foreign fighters può inoltre favorire anche un aspetto diverso da quello della nascita dei nuclei, ovvero può alimentare il numero e l’attività di soggetti operativi di prossimità, i “lupi solitari” ed il “combinato disposto” delle due figure costituisce un fattore di destabilizzazione interna agli Stati, rappresenta un rischio importante e costituisce la base della nuova allerta terrorismo. Proprio la sconfitta dello Stato islamico ha incrementato il fenomeno dei rientri dei combattenti, una sorta di diaspora dei terroristi, soggetti il cui ritorno non è assimilabile a nessuna prospettiva che non sia combattentistica e terroristica. Inoltre, avvertono gli esperti di terrorismo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, potrebbero essere sopravvissuti almeno 30.000 foreign fighters di quelli che si erano uniti al Califfato e, ancora, dei circa 6000 che erano partiti dall’Europa per andare a combattere con l’IS (Stato Islamico) in Siria e in Iraq, almeno 2000 sarebbero rientrati. Sarebbero qui, a casa nostra! E nuovi attacchi Isis sono possibili, in Europa ma anche nel resto del mondo. E l’allarme di nuovi attacchi in Europa (tendenzialmente di tipologia individuale-autonoma ed a “basso costo” e non coordinata ma potrebbero anche attivarsi reti di cellule internazionali) è stata appena confermato dal Rapporto ONU, datato 15 luglio 2019 e reso noto nel mese di agosto. E si tratta di una minaccia endogena (foreign fighters di rientro o terroristi dal passaporto europeo) ed esogena (che passa attraverso le direttrici migratorie della rotta balcanica e mediterranea). L’ultimo Rapporto delle Nazioni Unite infatti, basato sui dati forniti dai servizi e dalle Agenzie di intelligence di tutti i Paesi membri dell’ONU, richiama l’attenzione mondiale sulla minaccia terroristica ed avverte che l’attuale diminuzioni degli attacchi terroristici sembra non essere destinata a durare a lungo e già entro l’anno in corso potrebbero essere sferrati nuovi attacchi ispirati dall’Isis. Insomma, la minaccia all’Europa è elevata e l’allarme resta alto in tutto il mondo; secondo gli esperti di terrorismo, lo scenario globale dei movimenti islamisti è estremamente preoccupante e continua a rappresentare una minaccia reale e significativa.

A conferma della tesi per la quale, la scomparsa geografica del Califfato, del sedicente Stato islamico, non coincide con l’esaurimento dei fattori ideologico-religiosi e politici che hanno portato alla sua nascita e la minaccia terroristica resta attuale e se possibile più pericolosa, perché può produrre “nuovi brand” terroristici internazionali, nuovi leader e diffondere la radicalizzazione nelle forme che abbiamo analizzato. Viviamo nella consapevolezza, rafforzata anche dai contenuti del Rapporto, che è imminente il rilascio della prima ondata di foreign fighters arrestati dopo il loro rientro dai campi di battaglia del Califfato e che, fin qui, i programmi di deradicalizzazione e di prevenzione della radicalizzazione di carattere terroristico, si sono dimostrati inadeguati mentre il cosiddetto “califfato virtuale” continua a fare propaganda e reclutamento ed a godere di sostegni e mezzi economici (si valuta un accesso a fondi che vanno dai 50 ai 300 milioni di dollari e non mancano altre fonti (Cfr. studio Fondazione Icsa) che confermano i contributi di guerra ed i finanziamenti al terrorismo jihadista) e l’Isis ha le capacità operative per ordinare attacchi internazionali. I miliziani di rientro dallo Stato Islamico, sono rimasti dei combattenti, sanno maneggiare armi ed esplosivi, sono pronti ad obbedire agli ordini, per loro il terrorismo è “un legittimo atto di guerra” e vedono nell’Europa il nuovo campo di applicazione delle loro teorie; dovrebbero essere sorvegliati, arrestati, messi nella situazione di non frequentare le moschee e di fare azioni di proselitismo. E non possiamo prevedere l’impatto emotivo sui potenziali attentatori, del richiamo lanciato da al-Baghdadi nel suo ultimo video, di colpire “con coltelli e veicoli” trasferendo il campo di battaglia dal Medio Oriente all’Occidente.

La “diaspora dei terroristi”, il flusso di ritorno dei foreign terrorist fighters nonché la presenza accertata in Europa di migliaia di fondamentalisti islamici, innalzano il livello della minaccia e richiedono una strategia condivisa e complessiva di intervento. E’ necessario incrementare il sistema di condivisione delle informazioni tra servizi di intelligence e le forze di polizia; realizzare l’interoperabilità delle banche dati e dei sistemi di informazione; implementare le misure di prevenzione e contrasto alla radicalizzazione. Su quest’ultimo aspetto gioca un ruolo fondamentale il Centro di eccellenza della Radicalization Awareness Network (Ran), istituito nel 2015 per fornire sostegno agli Stati membri e condividere prassi comuni, secondo un approccio multidisciplinare e multi agency; mentre sotto il profilo di coordinamento operativo nel contrasto alla minaccia terroristica, il compito principale è affidato al centro europeo antiterrorismo (Ectc), istituito a Gennaio 2016, in seno all’Europol (che pubblica annualmente il Report Terrorism Situation and Trend – Te-SAT). Al proposito vale la pena ricordare che l’ultimo Rapporto dell’Europol – l’Agenzia europea cui spetta il compito di assistere gli stati membri nelle attività di contrasto alla criminalità internazionale ed al terrorismo – contenuto nel documento TeSAT (luglio 2019), ha lanciato l’allarme – unitamente alla relazione dei servizi di informazione italiani – sulle infiltrazioni jihadiste nei flussi di migranti e sui rischi connessi agli sbarchi, nonché sulla connessione tra il traffico dei migranti e il finanziamento al terrorismo di matrice islamista. La sconfitta territoriale dello Stato islamico, infatti, ha portato il movimento a reinterpretarsi ed a delocalizzarsi nello scenario globale e in Europa. Nel suo complesso e nella sua complessità, il nuovo modello terroristico, non è circoscritto né circoscrivibile geograficamente ma sempre più fluido, diffuso territorialmente, più dinamico e multidimensionale; la nuova allerta terroristica richiede un diverso approccio metodologico per essere  fronteggiata ed una definizione condivisa per una strategia di prevenzione e di contrasto davvero comune e in grado di rafforzare la sicurezza globale. Si tratta – anche e quindi – di modificare gli organi e le organizzazioni di intelligence, di rafforzare le attività di analisi della minaccia e i rapporti di cooperazione e di alleanza europea e internazionale; anche in considerazione degli spazi geopolitici instabili e delle nuove dinamiche globali.

La mancanza di una definizione condivisa delle caratteristiche del nuovo modello di terrorismo condiziona e può pregiudicare il successo delle strategie di contrasto, perché complica la definizione comune dei parametri e dei criteri di valutazione delle Agenzie di Intelligence e degli altri stakeholder coinvolti e complica l’attività di analisi (e reazione) della minaccia. La percezione diversa della minaccia può pregiudicare l’efficacia di una strategia di contrasto e portare alla sottovalutazione della capacità offensiva del fenomeno terroristico; può essere portata ad esempio la recente notizia, passata quasi sottotraccia, che la Corte europea dei diritti umani abbia stabilito che la “sharia non è contraria ai diritti umani e che non è proibito creare dei gruppi separati che seguano le norme coraniche”. Conclusione che di fatto rappresenta la negazione di millenni di storia europea e la resa incondizionata nei confronti di chi vuole annientare la nostra libertà e la nostra cultura. E ancora, c’è un’Europa che non considera politicamente corretta nel suo linguaggio formale (e nella sua narrativa!) l’espressione “terrorismo islamico” – titolo che invece abbiamo scelto per la nostra riflessione sulla minaccia esistente di un terrorismo non convenzionale ed insurrezionale di matrice islamica radicale! – e preferisce usare la definizione “minaccia terroristica di matrice jihadista”; il punto è che seppure si può operare una distinzione tra musulmani ed Islam, ed i suoi fedeli possono essere moderati e “dialogici”, la fede in Allah di un fondamentalismo radicale che si sta diffondendo, predica l’odio e la violenza verso i miscredenti. Una percezione diversa della minaccia terroristica da parte dei singoli Stati Membri non solo non favorisce la necessaria interoperabilità dei dati al livello europeo ma condiziona- frena! – anche le politiche comuni di contrasto e di sicurezza mentre è urgente rafforzare gli strumenti giuridici ed operativi, i controlli alle frontiere interne ed esterne, la strategia di antiradicalizzazione e migliorare la collaborazione europea in materia di difesa e sicurezza. La Commissione Europea sta studiando misure per il  contrasto al radicalismo islamico ma la strada è ancora lunga e c’è tanto da fare in Europa anche in termini di coordinamento e controllo sulla libera circolazione stabilita dai Trattati di Schengen, per cui i terroristi possono muoversi liberamente tra gli Stati. Nel nostro Paese, oltre il difetto di percezione, mancano anche gli strumenti normativi, dalla carenza di percorsi strutturati e articolati per i processi di de-radicalizzazione all’assenza di una Legge (che Fratelli d’Italia ha proposto) che introduca il reato di integralismo islamico, per punire i predicatori d’odio, chi finanzia l’integralismo islamico e le moschee clandestine, chi sostiene atti che possono mettere a rischio la sicurezza pubblica. E non è solo una questione di sicurezza e di legalità ma anche di reazione al processo di islamizzazione che stiamo subendo in Europa e in Italia.

*Isabella Rauti, senatore, giornalista, Ufficiale Riserva Selezionata Esercito Italiano

IDENTITÀ EUROPEA E ISLAM: RIFLESSIONI PER UN CONFRONTO

Questo saggio di Renato Cristin,  è stato pubblicato nel Primo Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo

L’Islam e l’Europa sono un binomio anomalo: vengono spesso affiancati come se fossero due entità commisurabili, mentre rappresentano oggetti molto diversi. L’Islam è una religione e, per estensione del termine, definisce l’insieme dei paesi in cui lo si pratica come religione e lo si applica come concezione della società, del mondo, della vita. L’Islam dunque non è un’entità statale e tuttavia ha un influsso decisivo su molte strutture statali e perfino sulla totalità istituzionale di alcuni paesi.

L’Europa invece designa un’entità plurale che geograficamente è un continente, storicamente è lo sviluppo dell’antica Grecia e dell’impero romano sui quali si sono innestate poi le linee franco-germaniche, nordiche e slave; politicamente è un insieme di nazioni di democrazia liberale; culturalmente è un complesso di ambiti differenti per tradizione ed evoluzione, che però si armonizzano nell’idea, effettiva ed efficace, di un orizzonte comune che chiamiamo cultura europea; spiritualmente è uno spazio tracciato dalla religione ebraica e da quella cristiana, soprattutto da quest’ultima, che dalla prima discende, nelle sue relazioni con la sfera sociale e con le articolazioni culturali che in Europa sono state tradizionalmente una delle colonne portanti dello sviluppo storico. In quanto fenomeni di genere differente, Islam ed Europa non sono dunque comparabili direttamente, e non sono nemmeno affiancabili in base a supposte analogie, perché i loro nomi sono piuttosto l’espressione di due forze opposizionali, storicamente contrapposte non tanto per motivi territoriali o economici, quanto piuttosto per ragioni culturali, meglio ancora: spirituali.

Se la loro differenza si situa primariamente su questa faglia culturale e spirituale, affinché vi sia una relazione positiva fra essi è necessario che entrambi possano operare, in modo collaborativo, per convergere su alcuni temi che rappresentino lembi di terreno comune. Tutto ciò ovviamente senza deformare il rispettivo spirito che li anima e che li caratterizza nella loro essenza. Infatti, lo spirito dei popoli esiste, perché si forma con il loro percorso storico concreto, con il concretizzarsi e il consolidarsi delle loro tradizioni. E così possiamo parlare di uno spirito europeo, che riunisce i caratteri essenziali tipici dei vari popoli che da millenni abitano il nostro continente, in un insieme che non annulla le loro specificità singolari. A questo spirito europeo è estraneo l’Islam, poiché da quando è sorta questa religione, con il movimento politico-culturale che l’accompagna, l’identità europea si è caratterizzata anche per differenza rispetto all’Islam, per differenza radicale essenziale e non soltanto storica contingente, perché molte delle peculiarità del mondo islamico sono sempre state per lo spirito europeo un mondo incompatibile e quindi un elemento di conflitto inconciliabile o almeno di contrapposizione insormontabile. Chiarito dunque che Europa e Islam non sono due entità omogeneamente confrontabili e che le loro differenze sono profonde e radicate nella loro rispettiva identità, resta valido l’obiettivo di un dialogo che favorisca le relazioni fra esse e, in particolare, permetta agli europei e ai musulmani presenti in Europa di avere rapporti positivi che, a loro volta, facilitino l’integrazione di questi ultimi nelle realtà sociali e nazionali nelle quali sono venuti a vivere. Se entrambe le parti condividono questo scopo, allora faranno il possibile per conseguirlo.

Ma per raggiungere questo obiettivo c’è bisogno di una disponibilità che va ben al di là del semplice ascolto delle argomentazioni e delle posizioni altrui. E soprattutto va ribadito che l’integrazione, pur essendo frutto di un dialogo, deve necessariamente avere una direzione ben precisa: sono coloro che arrivano in Europa, a doversi integrare con chi in Europa e nella sua cultura vive da secoli e, ancor di più, le ha formate lungo il corso di generazioni. Solo deformazioni ideologiche – di tipo globalistico comunitarista e multiculturalista – possono teorizzare un’integrazione alla rovescia: gli europei che dovrebbero integrarsi agli immigrati. Certo, in questi ultimi anni abbiamo ascoltato anche queste follie ideologiche, esito del fanatismo immigrazionista che a sua volta è una delle più recenti bandiere del vecchio e mai estinto comunismo, ma sappiamo che di ciò appunto si tratta. Ora, nell’ottica della possibile integrazione, la struttura mentale e i cardini teorici dello spirito europeo sono predisposti a qualche cambiamento, se ritenuto fattore di crescita positiva, all’interno di una dialettica di comprensione reciproca e di reciproco avvicinamento,  ovviamente però purché vi sia una identica disponibilità da parte dell’interlocutore.

Ma da parte islamica possiamo dire altrettanto? Quanto a concessioni, le istituzioni e gli organismi sociali degli Stati europei hanno dato molto e, stando ai riflessi che si avvertono nella controparte islamica, fin troppo. Si parla molto di reciprocità fra nazioni europee e Paesi islamici, ma quando si tratta della reciprocità fra cittadini europei e musulmani che sono in Europa, allora le cose si complicano, i pretesti retorici e i cavilli giuridici proliferano e sopraffanno qualsiasi buon senso e, in ogni caso, qualsiasi senso di difesa dell’identità europea. Per il politicamente corretto, che ha fatto del multiculturalismo, del rispetto delle minoranze e dell’immigrazionismo le sue bandiere prioritarie, queste due identità non sono equivalenti: la bilancia pende sempre a favore delle rivendicazioni musulmane. La domanda ricorrente e politicamente corretta è: vorremmo forse privare le minoranze dei loro diritti intangibili e perfino di quelli molto discutibili? E poiché i musulmani che vivono in Europa sono una delle principali minoranze, essi vanno tutelati da qualsiasi violazione dei loro diritti e da ogni eccesso identitario da parte europea.

Puro autolesionismo mascherato da garantismo o, più precisamente, da dirittismo, estremizzazione patologica della teoria dei diritti umani. Un esempio di questo atteggiamento masochistico riguarda la sfera religiosa. Quando si trattò di stilare la Carta europea, ci fu un vasto movimento, anche politico, per menzionare in essa le radici ebraicocristiane. La Convenzione preposta e in generale le istituzioni europee respinsero questa richiesta con una duplice motivazione: la laicità dell’Unione Europea è prioritaria rispetto a qualsiasi istanza, e inoltre un tale richiamo alla religione ebraico-cristiana sarebbe discriminante nei confronti di altre fedi, dell’Islam in primo (e unico) luogo. Non irritare le comunità musulmane presenti in Europa e gli Stati arabi e islamici particolarmente suscettibili è una priorità della UE e della gran parte dei governi europei attuali. Ma questo atteggiamento, che in linea di principio cerca giustamente di valorizzare i punti di contatto, non tiene conto delle differenze radicali che ci separano dall’Islam. E in questo modo esso compromette anche la possibilità che i punti di contatto diano risultati positivi, perché opera con  rimozioni psicologiche che producono un doppio danno e con strumentalismi politici che guardano agli interessi elettorali della sinistra. Quando gli europei pensano: dobbiamo sbrigarci a fare questa o quest’altra operazione, perché vogliamo vederne i risultati e perché non sappiamo se in futuro le condizioni saranno propizie, i musulmani pensano: c’è tempo, non serve affrettarsi, perché è già stato predeterminato – e sta scritto nel Corano – che la spada dell’Islam conquisterà il mondo e soggiogherà gli altri popoli. E sul piano concreto del rapporto con l’Europa, questa pazienza storica è favorita da un fatto decisivo, cioè dall’andamento demografico, che sta rompendo gli antichi equilibri e che, sul lungo periodo, potrebbe sconvolgere l’assetto etnico, culturale e religioso del continente.

Questa considerazione è al centro della strategia islamica per l’Europa, ma vale anche sul piano globale, come mostra per esempio un’espressione sintomatica (e rivelatoria di questo atteggiamento di attesa) enunciata da Malek Chebel: «il futuro è dell’Islam; tra il 2020 e il 2050 l’Islam sarà la prima religione monoteista» (Le Point, 17 gennaio 2007). Non si tratta solo di una constatazione: se analizzate dal punto di vista psicologico, frasi come questa ci dicono molto anche sulle intenzioni retrostanti, su come il mondo islamico intenda agire una volta acquisita la necessaria forza numerica: sottomissione degli infedeli. Sembra destinata a realizzarsi la previsione enunciata da un alto dignitario musulmano e riferita nel 1999 dall’allora vescovo di Smirne monsignor Bernardini, nel corso della seconda assemblea speciale per l’Europa del sinodo dei vescovi: «grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; con le nostre leggi religiose vi sottometteremo». La realtà attuale mostra infatti un islamismo in piena espansione sul piano religioso e sociale, nonché pesantemente aggressivo su quello terroristico, a cui corrisponde la progressiva contrazione europea e occidentale. Nel suo intervento, monsignor Bernardini affermava: «come non vedere in tutto questo un chiaro programma di espansione e di riconquista? Sappiamo tutti che bisogna distinguere la minoranza fanatica e violenta dalla maggioranza tranquilla e onesta, ma questa, ad un ordine dato in nome di Allah o del Corano, marcerà sempre compatta e senza esitazioni.

La storia ci insegna che le minoranze decise riescono sempre ad imporsi alle maggioranze rinunciatarie e silenziose». Invece di prendere in seria considerazione queste e analoghe riflessioni, le istituzioni europee le derubricano a pessimismo storico, a ingenuità politica e, soprattutto, avversione all’Islam. Infatti, chi pensa che l’Islam guardi all’Europa con mire egemoniche o chi lo critica per il suo intrinseco totalitarismo, viene oggi tacciato, dall’apparato politico e mediatico, di islamofobia. Ma l’Islam è davvero una religione integralista, nel senso che concentra o vorrebbe concentrare nella sfera religiosa tutti gli altri ambiti della vita sociale e tutti i poteri istituzionali: il potere legislativo si deve conformare ai dettami del Corano e quindi la sua legiferazione dev’essere ripresa appunto coranicamente dal potere giudiziario (la sharia viene sancita dalla politica e amministrata o meglio somministrata dalla magistratura). Ed è quindi una logica conseguenza che esso abbia una volontà imperiale, una visione imperiale della propria azione nel mondo, che nasce dalla volontà di conquista, di imperare e imporre, piegando i popoli «infedeli» con la minaccia o con la spada, convertendoli o sottomettendoli (ed eliminando i resistenti). È indubbio quindi che questo sia l’obiettivo islamico di fondo, non dichiarato, dissimulato ma evidente, perché connaturato nel testo stesso di tale religione. Nella prospettiva islamica, si tratterà solo di determinare volta per volta le forme concrete di questa sottomissione, che potranno variare anche di molto a seconda delle reazioni degli altri popoli e delle peculiarità delle nazioni oggetto di questo processo di assoggettamento.

I tempi di questa conquista saranno lunghi, ma la pazienza secolare fa parte della concezione islamica del tempo storico e della persona: dilatazione estrema del primo e asservimento totale degli individui al disegno profetico. Unire il vantaggio demografico alla volontà di islamizzare l’Europa è, del resto, un proposito dichiarato da molti capi musulmani, anche da leader politici, come per esempio Erdogan, che in un comizio del 17 marzo 2017 ha incitato i turchi che vivono in Europa a riprodursi con maggiore intensità: «non fate tre figli, ma cinque, perché il futuro dell’Europa è vostro». E che le intenzioni di questa esortazione fossero di conquista era chiaro già da dieci anni prima, quando, non da presidente della Repubblica, ma da capo dei nazionalisti islamici, citò alcuni versi bellicosi del poeta Ziya Gökalp: «le moschee sono le nostre caserme, le cupole delle nostre moschee i nostri caschi, i minareti le nostre baionette e i credenti i nostri soldati». Nel 1997, questa citazione valse a Erdogan una condanna per istigazione all’odio religioso, perché all’epoca la Turchia era guidata dalla Costituzione laica, fatta rispettare soprattutto dai vertici militari. Oggi però quella laicità è  distrutta e i militari sono i guardiani dell’islamismo nazionale del partito di Erdogan. L’attenzione islamica per la crescita demografica in relazione agli altri popoli e in particolare in rapporto all’Europa, oggetto di brama atavica dei capi musulmani di ogni epoca, è antica ed esprime un’aspirazione generalizzata in tutto il mondo islamico. Se vogliamo vedere come si manifesta oggi questa non troppo recondita mira di conquista, dobbiamo osservare come agiscono le comunità musulmane che sono maggioranza nei quartieri delle città europee: alcuni di questi gruppi religiosi, che si connotano per un frenetico attivismo sociale, sono riusciti a imporre zone quasi extraterritoriali, enclaves controllate da regole che si richiamano alla sharia e in cui le leggi dello Stato hanno valore relativo (non possono essere del tutto ignorate, ma questo è l’obiettivo a lungo termine).

Questi quartieri islamizzati: Rosengård, Nørrebro, Molenbeek, solo per citare alcuni dei più tristemente noti, sono l’emblema della sconfitta non solo delle forze di polizia e di sicurezza, ma anche della libertà degli individui (basti pensare alle condizioni in cui sono ridotte le donne) e della laicità dello Stato; sono il simbolo di una sconfitta delle istituzioni e, più in generale, dell’intera tradizione europea. Si è tentato di spiegare questi stati di fatto con la rassicurante, ma poco realistica, idea che per favorire la formazione di un Islam europeo sia necessario che quest’ultimo si senta tranquillo e per quanto possibile autonomo. Ma la teoria dell’Islam europeo, della quale Tariq Ramadan è uno dei principali esponenti e che viene elaborata e propagandata dai cosiddetti «fratelli musulmani», un gruppo la cui essenza fondamentalista è ben nota, è una trappola concettuale e politica, una chimera a cui si ricorre per sviare l’attenzione dalla realtà, usando soprattutto la ben nota pratica della dissimulazione. Di fatto, l’Islam europeo si differenzia da quello dei Paesi islamici solo per alcuni dettagli, relativi, per esempio, all’abbigliamento e ai comportamenti nella vita sociale, ma è identico per quanto concerne tutte le dinamiche religiose o i codici di comportamento familiare o, ancora, i dettami coranici fondamentali. L’Islam europeo è uno stratagemma con il quale si spaccia per diverso ciò che invece, nella sostanza, è identico a quello che opera nel mondo arabo-islamico. L’Islam europeo potrebbe essere il cavallo di Troia che permetterà il dilagare di una religione espansionistica e suprematista.  La causa di questa inquietante realtà è duplice: da un lato l’incessante spinta islamica ad acquisire spazi di autonomia, dall’altro l’atteggiamento di rassegnazione e di rinuncia da parte delle varie istituzioni dei Paesi europei. Rinunciatarie sono infatti quelle istituzioni che, per un malinteso e male direzionato senso di difesa delle minoranze, nascondono o in qualche caso addirittura aboliscono i simboli della nostra tradizione religiosa e culturale, affinché le comunità straniere (ma si deve intendere: musulmane) non si sentano offese nella loro identità. Ciò accade soprattutto nelle scuole e negli spazi sociali, ma anche, sia pure in forma diversa e meno eclatante, nell’ambito delle strutture ecclesiastiche. Rinunciataria è la Chiesa, sia cattolica sia evangelica, quando cerca il dialogo con i rappresentanti della religione musulmana senza però porre limiti precisi e non oltrepassabili (relativi soprattutto alle proteste musulmane per la diffusione dei simboli religiosi cristiani negli ambiti sociali); limiti che sarebbero utili per la chiarezza del dialogo stesso. E di questa molteplice rinuncia è causa una mentalità che si è consolidata nel Novecento e che esalta l’altro (qualsiasi altro, purché extra-europeo, e in particolare poi alcune tipologie preferite, come gli africani e gli asiatici, soprattutto se musulmani) e, parallelamente, disprezza il sé. L’odio verso se stessi è la malattia spirituale che più si è diffusa nell’Europa del Novecento e che oggi può diventare mortale per l’Europa stessa.

La sua genesi lontana risale al XVI secolo, si è sviluppata con l’illuminismo e consolidata con il marxismo ottocentesco; la sua prima ripresa si colloca negli anni ’40 del XX secolo, in concomitanza con l’avvio del processo di decolonizzazione; poi la seconda ripresa nel ‘68, che ha visto affermarsi il rivoluzionarismo sovversivo anti-occidentale, con la diffusione delle filosofie dell’alterità e delle parallele teorie sulla violenza degli europei; e infine l’attuale ripresa che è esplosa in coincidenza con la crisi immigratoria, che viene spesso relazionata alle presunte colpe storiche dell’Occidente. Come scrive Richard Millet, «il buon selvaggio rousseauiano si è trasformato, nella seconda metà del Novecento, nel buono straniero ed è diventato, oggi, il buon immigrato […], per lo più musulmano», e ciò è avvenuto (e continua ad accadere) senza che si rifletta adeguatamente su quelli che sono problemi insolubili o quanto meno ad altissimo grado di difficoltà relativi all’integrazione di popolazioni extraeuropee molto diverse dagli europei per religione, per concezione della società e per strutture culturali generali. Non è stata presa in adeguata considerazione una delle  premesse essenziali di ogni relazione fra esseri umani socializzati, e cioè che l’integrazione può avvenire solo fra integrabili. Ci sono gruppi che non riescono a integrarsi e gruppi che non vogliono integrarsi: le condizioni sono diverse, ma il risultato è lo stesso. Nella seconda metà del Novecento, molti musulmani, per lo più di origine maghrebina, si sono perfettamente integrati nelle società europee, ma da un paio di decenni si è registrato una controtendenza: non ci si vuole integrare, perché ciò significherebbe abdicare ai princìpi religiosi e allo stile di vita islamico tradizionale, e pure perché l’integrazione viene vista come un segno di resa culturale e politica.

Il risultato è l’aumento dell’integralismo e del fanatismo, che rendono di fatto impossibile qualsiasi dialogo. Di fronte a questa realtà, della quale ho fornito qui soltanto alcuni scorci di sorvolo e alcune coordinate teoriche per interpretarla, il lavoro da fare è ciclopico, ma non irrealizzabile. L’Europa potrà avere un futuro soltanto se riaffermerà le proprie radici culturali e religiose, nel quadro del sistema socio-istituzionale del liberalismo occidentale e nella prospettiva politica del liberalconservatorismo, che è oggi l’unica opzione in grado di fronteggiare, in modo incruento ma assolutamente risoluto, le pretese degli islamici, trattandoli con pieno rispetto ma da pari a pari, senza cioè quella indulgenza che sfocia sempre nella remissività, perché la scelta preferenziale per i musulmani non solo può intaccare tali radici, cristiane ed ebraiche, ma può condurre addirittura all’autodissoluzione. A questa deriva bisognerebbe opporre un rinnovato e del tutto pacifico spirito di Lepanto, declinato sulle esigenze e sulla realtà storica del nostro presente: non uno spirito di guerra, ma di inflessibilità (che non significa intolleranza, bensì rigore, nel concetto, nel pensiero e nell’azione, e anche nel rapporto con gli altri), uno spirito che, pur dialogando con gli altri, animi la coscienza europea a difesa della nostra identità.

*Renato Cristin, docente di Ermeneutica filosofica, Università di Trieste

La Shari’a compatibile con la democrazia?

 

Il sistema islamico di giurisprudenza (la Shari’a) è uno tra i più seguiti ed applicati al mondo. Questa breve introduzione è mirata a far conoscere la magnitudine di questo corpus di conoscenza giuridica e l’impatto che ha avuto sulla civilizzazione in generale dal settimo secolo d.C. ad oggi. Pertanto il presente articolo, basato su una pubblicazione eccellente del già Vicepresidente della Corte Internazionale dell’Aia, di C. G. Weeramantry “Islamic Jurisprudence: an international perspective”, cerca di aprire qualche spiraglio di conoscenza su questo mondo vasto e sfaccettato, nella speranza di apprezzare la ricchezza ed importanza dell’universo della conoscenza legale e mostrare alcune delle molte interrelazioni tra la giurisprudenza e filosofia(e) islamica(che) ed occidentale(i).

Il diritto islamico è basato, come vedremo, sulla assoluta sottomissione al volere di Dio. Questo è un canone fondamentale della religione Islamica, e dal momento che il diritto islamico è basato sulla religione, ne consegue la stessa asserzione di base: il volere di Dio incorpora tutti gli aspetti della vita e quindi la legge li deve regolare tutti. Prima dell’islam l’Arabia (intesa come Medio Oriente, non come l’odierno Regno Saudita) non aveva alcun ordinamento, né statale né sociale, ed era governata dall’anarchia senza codice morale o sistema legale. Con il Profeta Muhammad (in occidente Maometto) attraverso le sue rivelazioni e il testo sacro islamico (il Corano) è radicalmente cambiato il sistema sociale.

Il Corano (da Qur’an, pronunciato “Kuur’an” che significa ‘recitazione’ in arabo) è stato direttamente dettato a Muhammed (Maometto) dall’Arcangelo Jabril – Gabri’eel (Gabriele), e come tale è considerato dall’intera comunità musulmana, senza eccezione (la Umma), la parola di Dio vera ed inequivocabile e la base dell’Islam sotto tutti i profili incluso quello giuridico, racchiudendo in esso norme del diritto personale (civile), penale e la completa normazione in materia di successioni È inoltre necessario tenere a mente il contributo in termini di civilizzazione e cultura che questo testo, diretta parola di Dio per l’Islam, ha portato all’intero mondo Islamico (circa il 25% della popolazione mondiale attuale, 1.8 miliardi di persone, pressoché un quarto dell’umanità).

Dal momento che l’esistenza di Dio è considerata oltre ogni dubbio (visioni agnostiche o atee non sono contemplate), il Suo potere illuminato, la Sua unicità oltre l’analisi, la disciplina centrale dell’Islam non era e non è la teologia o la metafisica, bensì proprio il Diritto, la Legge – la Shari’a. L’espansione territoriale della legge islamica dopo un secolo dalla morte del Profeta Muhammad coprì i territori islamici dalla Spagna alla Cina, le colonie arabe non fecero semplicemente espandere il territorio dell’Islam, ma anche la religione ed il diritto islamico.

A differenza del diritto romano che, espandendosi nei territori dell’Impero Romano e non includeva il credo enunciandolo, si adattò e si mescolò con le usanze locali, emergendo in sistemi giuridici particolari per ogni territorio come il diritto franco-romano, il diritto tedesco-romano, il diritto olandese-romano, nel diritto islamico il carattere di tale fusione era diverso, c’erano differenze o variazioni localizzate, pronunciando un timbro più forte perché derivato dall’unicità dell’Islam.

La disciplina centrale dell’Islam, che secondo i musulmani trascende tutte le altre, è la Giurisprudenza. Questo è dato dal fatto che i principi Coranici si applicano a tutti gli aspetti della legge e della vita stessa. Gli studiosi delle scienze sociali o umanistiche, particolarmente i giuristi o gli avvocati, dovevano compiere le loro ricerche e studi all’interno del Corano stesso, dal momento che i principi delle loro discipline – diversamente dai principi delle scienze naturali – sono contenuti al suo interno. Moderni studi giurisprudenziali hanno chiarito che nessun sistema legale raggiunge un certo livello di grandezza (intesa come estensione e seguito) se è statico e inerte e quindi incapace di sviluppo ed adattamento ai tempi. Il common law inglese si è sviluppato in secoli di decisioni giuridiche dei giudici, applicandoli ai casi concreti sia come binding precedent che come normazione ex novo. Il civil law o Diritto Romano d’altronde si è sviluppato grazie a centinaia di trattati scritti da eminenti giuristi nel trascorrere dei secoli. Il diritto indiano più precisamente indù non è stato raccolto in un testo, ma in una serie di testi di diversi gradi gerarchici o d’autorità.

Come si poteva mantenere e promuovere le relazioni nazionali ed internazionali in un contesto in continua espansione territoriale sulla base di tale testo inalterabile e non interpretabile oltre il senso originale del profeta Maometto? Il diritto islamico, è importante rammentare, ha da fare con due vasti aspetti di regolazione (o regolamento). In prima istanza c’è la serie (un insieme) di leggi che trattano dei doveri degli esseri umani verso Dio (Ibadat) – i cinque pilastri dell’Islam o arkan-al-islam (la professione di fede, la preghiera, il digiuno nel mese del Ramadam, la raccolta fondi o elemosina ai poveri e il pellegrinaggio alla Mecca, Makkah nell’odierno Regno dell’Arabia Saudita).

Questi temi vengono trattati per primi nelle raccolte dei fiqh (all’incirca dei ‘Codici della Shari’a’ o raccolte di leggi islamiche). Seguono le leggi generali, e successivamente le specifiche norme che regolano le relazioni umane (mu’amalat) come le nozze, il divorzio, e le successioni (quindi all’incirca equivalenti a Codici Civili). Riflessioni interessanti sulle similitudini tra i giuristi islamici e i giuristi del diritto romano si possono trovare negli studi di eminenti studiosi europei. Il diritto islamico è universale e pone tutti (la comunità umma) ad un eguale livello di sottomissione a Dio. Non esiste discriminazione in base alla religione, razza, sesso eccetera, almeno a livello formale. Ci sono svariate hadith o tradizioni che regolano questo istituto di eguaglianza, gli unici limiti sono il caso dei dhimmi, non-mussulmani che vivono negli Stati islamici, soggetti a un numero di ‘limitazioni di stato’.

Anch’essi godevano comunque di un largo riconoscimento dei diritti, soprattutto se ritenuti ahl-al-kitab ovvero popoli del libro come i cristiani, gli ebrei ed un numero di altri appartenenti a religioni monoteiste (norma contenuta esplicitamente nel Corano). Il governo dell’umma (la comunità mussulmana) dipende quindi dai principi di consultazione (parlamento shura – ripartito in majlis i aam – rappresentanti del popolo e majlis i khass- dei dotti) e nessun sovrano ne era al di sopra. Il potere può quindi cambiare di mano, se è Allah a volerlo, facendolo o ad ogni modo lasciandolo accadere. La teoria di Stato e di governo chiaramente delinea che il potere di governo non dovrebbe riporsi esclusivamente nelle mani di un individuo o di una classe dirigente, ma del popolo. Dal momento che però la sovranità nell’Islam non esiste, o meglio, non è terrena, non può appartenere al popolo.

Le principali differenze con il diritto pubblico occidentale, sia civil law che common law, sono numerose ed evidenziate soprattutto dalla differenza nell’approccio e nella mancanza di istituzioni di diritto pubblico. Si può vedere come esso non sia un diritto basato meramente sui testi, benché la sua fonte principale sia il Corano, perché l’importanza della giurisprudenza e dell’interpretazione in varie forme (siano esse fonti o scuole) è determinante.

A ben vedere i due sistemi giuridici hanno in comune la regolamentazione di usi e consuetudini formalmente senza distinzione di razza e sesso ma hanno una visione diversa per quanto riguarda l’applicazione pratica del diritto stesso: il diritto occidentale regola la sola vita terrena, il diritto islamico la vita pratica (sfera esteriore) come conseguenza di quella sfera interiore che viene regolata dalla legge divina. Per quanto concerne la compatibilità con la Democrazia, insita nel ‘Sistema-Occidentale’, alcune nozioni di base possono essere estrapolate direttamente dalla fonte suprema della Shari’ia che poi è equipollente al rango costituzionale (v. Regno Saudita), cioè il Corano, ad esempio le nozioni: della fratellanza e della solidarietà, della dignità umana, del diritto della donna della privacy, degli abusi del diritto, delle libertà individuali, dell’eguaglianza dinnanzi alla legge, la presunzione di innocenza, l’indipendenza giuridica, la supremazia del diritto, la sovranità limitata, il fare del bene, la tolleranza ed infine o meglio al vertice, della partecipazione democratica – il majlis come si è detto è appunto un ‘parlamento’ già esistente anche se in svariate forme, pressoché in ogni Stato musulmano.

Grazie ad una più approfondita analisi delle fonti di diritto islamico, è evidente che la Democrazia è insita anche nel Sistema-Mondo Islamico, e non è esclusiva del Mondo Occidentale.

 

*Davide Garbin, collaboratore Charta minuta

UNO STUDIO AL SERVIZIO DELLE LIBERTÀ CIVILI

Il quadro complessivo in cui il rapporto proposto da “Farefuturo” affonda le sue puntuali analisi, da diverse posizioni e con vari e significativi approcci, poggia su un ampio e consolidato tappeto storico e scientifico che la letteratura prevalente, in Europa come in Italia, ha a lungo dissimulato e continua a farlo fino a mistificarne i contenuti e le conseguenze. Parto da questa amara considerazione per evidenziare come il senso del mio intervento è, essenzialmente, quello di sottolineare la valenza del filone di studi in cui questo rapporto si innesta. Accanto a una presa d’atto della diffusione crescente dell’Islam in Europa e della sua deriva radicalista, che si àncora fortemente a ragioni di carattere storico, demografico e finanche statistico, esiste l’evidente considerazione che, invece, lo stesso fenomeno è totalmente sottovalutato in maniera scientifica, in quanto funzionale a più grandi e devastanti obiettivi.

Quando ad un popolo, ad una identità culturale si toglie la propria identità religiosa, esso diventa permeabile a tutto, manipolabile in ogni modo fino a perdere i suoi fondamenti storici e sociali. E’quanto, evidentemente, sta già accadendo per il Cristianesimo in Europa e marcatamente per alcune nazioni, tra cui, certamente, l’Italia. La dimensione del fenomeno che il rapporto disegna ha ben precisi connotati, individuati e codificati ancor prima che la tragedia dell’11 settembre rendesse eclatante lo scontro di civiltà in atto. Sono elementi che descrivono una profonda e continua islamizzazione dell’Europa come conseguenza di una massiccia immigrazione da Paesi in cui l’Islam è molto più di una religione, è un sistema di governo e il Corano è legge. È lo scenario preconizzato, e sempre archiviato quasi come fosse mero esercizio statistico, in cui prende vita quella entità geopolitica definita “Eurabia”, oggi diventata realtà e che attende di compiere l’ultimo passo per completarsi. È ciò che Giulio Meotti, giornalista de “Il Foglio” e autore di un rapporto sulla egemonia sociale del mondo musulmano in Francia, descrive con la felice definizione di “rimpiazzo”, la “grande sostituzione” (G. Meotti: “La fine dell’Europa. Nuove moschee e chiese abbandonate”, ed. Cantagalli, 2016). Che nulla altro è se non la inevitabile prevalenza del sistema di valori musulmani, islamisti che in pochi decenni andrà a sostituirsi alla scolorita identità che l’Europa va smarrendo.

Le ragioni di questa tendenza sono ben spiegate nel rapporto di “Farefuturo”, ben codificate e analizzate, ragioni di cui la quotidianità ci costringe a prendere atto tramite la cruda realtà della cronaca. L’aspetto demografico, innanzitutto, che evidenzia il tasso di natalità più elevato degli immigrati islamici rispetto agli europei e la loro età media nettamente più giovane. Aspetti, questi, che sono direttamente connessi alla massiccia e incontrollata immigrazione verso l’Europa. L’Italia, poi, è già da entrata nel processo di crossing-over, quello per cui il numero delle persone oltre i sessant’anni di età supera il numero di coloro che ne hanno meno di venti. Quindi una penetrazione economica dei petroldollari in Europa che non risparmia quasi nessun settore, dal lusso allo sport, ai grandi complessi alberghieri. Ancora, il proliferare di moschee e centri di culto, spesso difficili da controllare, a cui si affiancano le ragioni di un multiculturalismo sbandierato ed esibito dai salotti di certa “intellighenzia” nostrana e che finiscono per smantellare interi pezzi di un sistema di cultura e tradizioni, dalla scomparsa di crocefissi e presepi nelle scuole, all’annacquamento di ogni riferimento alla religione cristiana. Immigrazione, fertilità, conversione, penetrazione economica: sono queste le armi di diffusione del radicalismo islamico in Europa.

Questo inesorabile processo di sostituzione, alle cui ragioni ho soltanto fatto cenno ma che il rapporto ha il merito di approfondire, mina profondamente le tradizioni civili, culturali, democratiche dell’Europa cristiana, in cui invece secoli di storia, di pensieri profondi e di conquiste civili hanno determinato l’affermazione di un imprescindibile assunto: le nostre tradizioni culturali, permeate di religiosità, sono i capisaldi da cui traggono fondamento le regole, tutte le regole della civile convivenza e degli ordinamenti normativi e costituzionali del “mondo” Europa. Se a questo quadro di riferimento che la nostra storia ci ha consegnato, disegnando un assetto in cui preminente è il rispetto delle libertà civili e la laicità dello Stato (date a Cesare quel che è di Cesare…), si sostituisce un assetto basato invece sul rapporto di subalternità tra fede e Stato, tra religione e politica nelle sue forme più estreme e fanatiche che caratterizzano l’Islam, è facile comprendere che qualcosa di epocale sta avvenendo senza che l’Europa mostri segno alcuno di reazione. Ora, qui non è in discussione la libertà di culto, il piano di carattere religioso che è soltanto un aspetto del fenomeno islamizzazione, ma il complessivo sistema di valori a cui l’Europa parrebbe essere costretta a rinunciare. In tal senso, la mancata separazione tra l’ambito teologico e la dimensione politica è centrale. Questo rapporto simbiotico dell’Islam politico con i suoi fondamenti religiosi determina altri elementi di contrasto di civiltà, come la cieca derivazione di ogni azione sociale dai dettami del Corano, con la necessità di una continua affermazione della superiorità della comunità islamica, fino alla diversa concezione dell’economia, del lavoro, del ruolo della donna e della famiglia.

È quanto di più lontano dal paradigma occidentale, dal valore delle conquiste illuministiche che pure hanno contaminato virtuosamente la “nostra” spiritualità e che sono il frutto virtuoso della storia sociale in cui ci riconosciamo. Del resto, lo sfondo su cui si muovono gli Stati coranici in cui sventola la bandiera dell’Islam è la sistematica violazione dei diritti umani, in una perversa alleanza tra stato e religione che ha penetrato anche le seconde e terze generazioni degli immigrati in Europa fino a renderli indifferenti, e perfino ad essere protagonisti dei più crudeli attacchi terroristici che hanno insanguinato l’Europa negli ultimi quindici anni. Perché tacere, inoltre, su quella che sembra avere tutte le sembianze di una aggressione religiosa, evidenziando che un secolo fa i cristiani formavano il 20% della popolazione del Medio Oriente mentre oggi le continue persecuzioni ai loro danni, sistematiche anche nel continente africano, ne hanno portato la percentuale ad appena il 4%! Sono elementi da tenere nel dovuto conto per analizzare quella che già nel 1990 l’islamologo Bernard Lewis definiva “la terza invasione islamica dell’Europa”, che potrebbe avere maggior successo delle due storicamente precedenti, e che oggi appare realtà concreta anche se ancora contrastabile. Per questo, alla “rabbia e all’orgoglio” dobbiamo affiancare l’analisi e l’azione, partendo da una gestione rigorosa dei fenomeni migratori, senza lasciare spazio alla illegalità e a compromessi al ribasso: l’alibi dell’accoglienza buonista e senza regole non può diventare il suggello ad essere complici di trafficanti di uomini. Quindi politiche incisive di sostegno alla famiglia, concrete e di lunga visione, lontane da formule legate a spot elettoralistici.

L’Europa, invece, tace e sembra fare di tutto per non difendere le proprie radici, le tradizioni, la cultura, la consapevolezza di un’identità maturata in due millenni di progresso civile e culturale, di centralità dell’uomo e delle sue libertà civili racchiuse nello Stato di Diritto. Già tutto questo basterebbe a scuotere la sonnolenta Europa e renderla capace di proporre nuovi assetti di politica estera e di sicurezza, che vedano centrale la difesa della sua, della nostra identità. Servono la forza e il coraggio di consolidare la nostra storia, le radici e le tradizioni culturali e trasmetterle ai nostri figli. Per tornare, allora, all’assunto di partenza, alla qualità e all’importanza di questo rapporto, faccio decisamente ricorso alle parole di Oriana Fallaci: “Vi sono dei momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre”. Noi abbiamo deciso di parlare, lo facciamo con questo approfondito studio, lo facciamo ogni giorno con la qualità e la coerenza del nostro impegno.

*Nicola Procaccini, eurodeputato

Contributo al Rapporto sull’Islamizzazione d’Europa

 

Lotta per l’anima dei musulmani europei

La giurisprudenza delle minoranze musulmane – definita come fiqh al-aqalliyyat – è una dottrina legale che afferma che le minoranze musulmane, in particolare quelle che risiedono in Occidente, hanno bisogno di una serie speciale di regolamenti per rispondere ai loro particolari bisogni religiosi. L’obiettivo è quello di garantire la loro adesione alla fede islamica senza compromettere il loro progresso sociale e materiale come individui e come comunità.
Gli esponenti della minoranza fiqh ambiscono a emanare fatwa che restino nei limiti delle leggi dei vari Stati europei, appoggiano con cautela la promozione dell’ordine pubblico e il rispetto delle leggi che non si oppongono alla shari’a. Tuttavia, i fini comuni in tutti i volumi di fiqh al-aqalliyyat sono la chiamata all’ ‘immunizzazione spirituale’ nei confronti dell’immoralità occidentale, la stretta adesione alla pratica religiosa e l’incoraggiamento alla creazione di un ambiente islamico, fondando istituzioni e organizzando attività sociali religiose – all’interno della società non islamica.
Nel presente documento l’attenzione si concentra su un altro aspetto della minoranza fiqh, che è quello di innescare l’auto-segregazione e la promozione attiva della moralità islamica nelle società ospitanti.
Sono considerati gli architetti del genere: Taha Jabir al-Alwani con la sua Introduzione alla minoranza Fiqh: Approfondimenti fondamentali pubblicata nel 1999 e Yusuf al-Qaradawi, autore di La giurisprudenza delle minoranze musulmane: la vita dei musulmani in mezzo ad altre società nel 2001 e nel 1997 ha fondato il Consiglio europeo di Fatwa e ricerca (ECFR) di Dublino.
Nel regno della giurisprudenza sciita, opere della stessa categoria sono attribuite all’Ayatullah Muhammad Hussayn Fadlallah, all’Ayatullah ‘Ali al-Hussayni al-Sistani e l’Ayatullah Muhammad Sa’id al-Tabataba’i al-Hakim. Il nostro caso di studio si basa su uno dei manuali più noti e ampiamente utilizzati tra gli sciiti residenti in Occidente Un codice di condotta per i musulmani in Occidente attribuito all’Ayatullah “Ali al-Hussayni al-Sistani.

Quattro degli obiettivi generali di fiqh al-aqalliyyat sono di importanza strategica per il nostro studio come: fornire giustificazioni per lasciare le società a maggioranza musulmana (“la terra dell’Islam”), fornendo un kit per uno stile di vita compatibile con il fondamentale concetto religioso di Islam (shari’a), progettando un quadro per regolare le relazioni con i non musulmani e delineando una strategia per propagare l’Islam (da’wa) in un contesto secolare.
In quanto tale, è un adattamento della legge islamica basato sul contesto che fornisce una forza socialmente e politicamente unitaria per le comunità musulmane nelle società non musulmane, un mezzo per riformulare e riaffermare l’identità musulmana.
Come afferma TA Parray, il fiqh al-aqalliyyat si basa su due premesse fondamentali: il principio territoriale di “Islam come religione globale” (‘alamiyyat al-Islam) e il principio giuridico di ” governare secondo gli scopi della legge islamica “( maqasid al-shar’ia) – nel senso della sua saggezza e logica sottostanti.
Andrew March afferma che l’obiettivo di “preservare la religione” è il più importante degli scopi della legislazione islamica. Detto questo, la dottrina legale dei musulmani come minoranze è lungi dall’essere un approccio riformista, piuttosto mira a stabilire i confini che separano chiaramente l’Islamico (da rispettare) dal non-Islamico (per evitare e rifiutare). Secondo l’affermazione di March “il principio unico dell’obbligo religioso che sta alla base di tutti i modi di preservare la religione [è] l’idea di ‘comandare il giusto e proibire lo sbagliato’ ” (al-amr bi’l-ma’ruf wa’l- nahy ‘an al-munkar), si tratta di una nozione centrale di tutto il pensiero politico, etico e giuridico islamico.
Di seguito è riportata un’analisi di questo principio come appare nel Codice di condotta per i musulmani in Occidente di Sistani in relazione all’ambiente a maggioranza non musulmana. Il significato dell’Ayatollah “Ali al-Sistani. L’Ayatullah “Ali al-Sistani (1931) è nato in Iran in una famiglia di studiosi. Si trasferì in Iraq per proseguire gli studi nella città santa di Najaf nei primi anni ’50. Nel 1992 ha acquisito l’ufficio di Grand Marja (al-marji “al-uzma) a Najaf dopo la morte del suo tutore, l’Ayatullah Abu-al-Qasim al-Khui . Si dice che sia il principale marja “al-taqlid (fonte di emulazione) con il più grande seguito nel mondo sciita odierno. La sua influenza è chiaramente visibile sui siti web che elencano le autorità giuriste più consultate (maraji’a). Un sito persiano lo elenca come il primo mentre su un sito sciita arabo appare come il secondo. Sulla base delle visite effettuate sul suo sito web, dei 131 più importanti maraji’a riconosciuti a livello internazionale, arriva come secondo dopo l’Ayatollah Ruhani. A. M. Schlatman calcola che circa l’ottanta per cento dei musulmani sciiti in tutto il mondo appartengono alla sua comunità di seguaci. Un fattore decisivo nella sua popolarità è che molti sciiti sono fedeli e seguono il più importante marja’ dell’hawza a Najaf.
Il principale wakil (rappresentante) ufficiale di Sistani in Nord America e nella maggior parte dei paesi d’Europa è suo genero Murtada al-Kashmiri.
Essendo il successore del Grande Ayatollah al-Khu’i (1899-1992), Sistani ereditò la Fondazione Imam al-Khu’i a Londra. Come osserva Schlatmann, “la rete di rappresentanti di Sistani è composta da migliaia di wukala (rappresentanti) in tutto il mondo, che rappresentano le opinioni degli ayatollah e ricevono le tasse religiose”. Dal reddito generato dalla tassa khums (un quinto o il 20 percento del reddito del credente) di “milioni di suoi seguaci e una rete mondiale di uffici, le entrate annuali di Sistani sono stimate tra i 500-700 milioni di dollari e il suo patrimonio mondiale di 3 miliardi di dollari. . La fondazione Imam Ali gestisce le attività dell’Ayatullah Sistani in Europa, è responsabile della traduzione delle sue opere e della loro pubblicazione in Europa, oltre che di fornire assistenza religiosa ai praticanti in Europa.
Sia Sistani che il suo predecessore al-Khu’i presero una posizione pacata nei confronti dell’autorità politica e clericale e respinsero implicitamente il concetto di Khomeini di wilayat al-Faqih. I loro rappresentanti non hanno mai attaccato l’Occidente, un fatto che rende Sistani un’opzione preferibile da seguire per i musulmani che vivono in un contesto di minoranza. Sistani insieme al compianto Ayatullah Fadlallah e Ayatullah al-Hakim hanno pubblicato opere nel genere minoritario fiqh, inoltre hanno i loro siti web in cui trattano le questioni relative alla migrazione e alla vita in Occidente.

Codice di condotta per i musulmani in Occidente. Le fatwa di Sistani per i musulmani in Occidente sono state pubblicate in tre manuali fiqh. Il primo, Giurisprudenza resa facile, consiste in dialoghi tra un padre e un figlio sull’esecuzione di doveri e riti religiosi (1996). Una seconda raccolta delle sue fatwa correlate su una vasta gamma di questioni relative alle esibizioni rituali e alla condotta islamica è intitolata Decisioni giuridiche contemporanee nella legge sciita (1996). Il contenuto di questa pubblicazione è costituito dalle fatwa di Sistani. Il terzo e ultimo libro di questa serie è Un codice di condotta per i musulmani in Occidente (al-Fiqh li’l-mughtaribin) è stato pubblicato nel 1999. È stato tradotto e pubblicato a Londra dalla Fondazione Imam Ali in stretta collaborazione con gli uffici di Sistani a Najaf e Qum.
Il manuale conforme agli standard della letteratura fiqh – si compone di due parti principali, la prima in materia di culto (‘ibadat) e la seconda sulle interazioni sociali (mu’amalat). Ogni capitolo contiene una breve introduzione all’argomento, un insieme di regole generali sull’argomento del capitolo e una serie di fatwa correlate principalmente sotto forma di domanda-risposta. Nella sua prefazione alla versione inglese, Sayyid Muhammad Rivi, la guida spirituale del Centro islamico Jaffari di Toronto annota nella prefazione che il manuale include nuove domande specifiche ai problemi che sorgono nel contesto della maggioranza non musulmana e sottolinea che “Lo spirito e lo scopo rimangono costanti ma lo stile e il formato cambiano”.
“Comandare il giusto e proibire lo sbagliato”. Il riferimento diretto all’obbligo di “comandare il giusto e proibire lo sbagliato” si ripete sei volte nel testo, prima nell’introduzione generale seguita da cinque volte nelle fatwa sull’interazione sociale. Il fatto che appaia nell’introduzione rivela il significato della nozione come principio sottostante incarnato nelle particolari fatwa. La sezione inizia con un avvertimento ai musulmani di proteggersi dagli effetti e dai pericoli “nelle società aliene” e dall’obbligo di “creare un ambiente religioso adeguato per se stesso che compensi la perdita dell’ambiente che aveva nel suo paese.” Dopo aver ricordato – con una citazione del Corano che questa è l’unica strada che salva loro e i loro familiari e fratelli dal fuoco nell’aldilà, l’autore procede con un’altra citazione del Corano: “E gli uomini credenti e le donne credenti si aiutino a vicenda: impongano il bene e vietino il male”. (9:71) e un proverbio attribuito al Profeta: “Tutti voi siete ‘pastori’ e tutti siete responsabili nei confronti del vostro “gregge”. Infine conclude: “Così sarebbe anche implementare la necessità di imporre [ovvero comandare] il bene e proibendo il male “.
Il testo evidenzia la tensione tra gli standard islamici tradizionali e le norme e i sistemi di valori delle società ospitanti. In primo luogo, l’autore genera abilmente paure, da un lato di “perdere la religione”, dall’altro della dannazione eterna. In secondo luogo, chiama i credenti ad assumersi la responsabilità gli uni degli altri “comandando il giusto e proibendo lo sbagliato”, in altre parole controllando costantemente azioni, atteggiamenti e pensieri. L’obbligo di “comandare il giusto e proibire lo sbagliato” si applica principalmente ai membri della comunità musulmana, poiché come afferma A. March, “la cosa più pericolosa per la comunità [musulmana] è il caos, l’interruzione del loro credo, lo scompiglio intellettuale e una mancanza di fiducia in ciò che preserva il suo ordine.” Tuttavia, le manifestazioni pratiche dell’obbligo come le regole comportamentali, regolamenti sull’aspetto e il consumo di cibo, tra gli altri, influenzano l’interazione del credente con l’ambiente non musulmano. I musulmani che vivono in Occidente sono inoltre incoraggiati a diffondere questo principio di base in parole e azioni, e per di più applicarlo ai non musulmani se le condizioni sono favorevoli.
“Comandare il giusto e proibire lo sbagliato” in relazione ai non musulmani. La propagazione dell’Islam (daʿwa) ai non musulmani è un grande merito per il singolo credente e un obbligo per la comunità. La sezione “Regole generali” in Un codice di condotta per i musulmani in Occidente, inizia affermando che “Si raccomanda a un credente di viaggiare in paesi non musulmani allo scopo di diffondere la religione [dell’Islam] e il suo insegnamento, purché sia in grado di proteggere se stesso e i suoi bambini dai pericoli della perdita della fede. Secondo Sistani, propagare lo sciismo è wajib kifaya, un dovere che può essere adempiuto da una parte della comunità, dai suoi membri più abili e preparati. L’idea di trasmettere l’obbligo di “comandare il giusto e proibire lo sbagliato” nelle interazioni con i non musulmani viene riportata come segue: “Domanda 333. È obbligatorio imporre [comandare] il bene e proibire il male nei confronti di coloro che non sono seguaci dell’Islam [sciita] o che provengono da Ahlul Kitab [“Popolo del libro “, cioè che professano una religione monoteista ], che sono ricettivi, senza che ci si presenti alcun pericolo?
Risposta: Sì, è obbligatorio, purché esistano anche le altre condizioni. Una di queste altre condizioni è che la persona da ammonire non dovrebbe avere scuse per fare il male o trascurare l’obbligo. Essere ignoranti per negligenza non è una scusa accettabile. Quindi, una persona del genere dovrebbe prima essere guidata alla giusta condotta, e quindi se non agisce di conseguenza, dovrebbe essere invitato a fare il bene o dovrebbe essere proibito loro di fare il male. Tuttavia, se l’atto malvagio appartiene a una categoria che si sa che Allah non vuole che accada in nessuna circostanza – come creare la corruzione sulla terra, uccidere una persona innocente, ecc. – è necessario prevenirla, anche se il colpevole è ignorante per innocenza. ”

La fatwa rivela la procedura di trasmissione dell’obbligo islamico fondamentale ai non musulmani. Il fattore principale è che l’ “altro religioso” esprima la volontà e l’apertura di essere informato, quindi non rappresenta alcun pericolo e può essere considerato un potenziale musulmano. La risposta affronta quattro aspetti: scusa, ignoranza, confutazione da parte dell’interrogato e atti che Dio non consente in nessuna circostanza. Si sottolinea che l’ignoranza non conta come una scusa, quindi come primo passo, al non musulmano devono essere fornite le informazioni necessarie sull’obbligo. Nel caso in cui l’interessato rifiuti la componente affermativa – che agisce in conformità con ciò che è giusto negli standard islamici – la componente negativa, che vieta determinate azioni e comportamenti deve ancora essere affermata. In caso di trasgressione non giustificabile, deve essere effettuato un intervento per impedirlo senza ulteriori condizioni prese in considerazione.
Il tono del testo riflette ciò che Andrew March chiama “una concezione attivista e interventista di far rispettare la morale religiosa”. La nozione di corruzione (fasad in arabo) è un termine ampiamente definito. Nel senso coranico significa atti illeciti “da parte di miscredenti e persone ingiuste, che minacciano il benessere sociale e politico”, in altre interpretazioni significa “aperta disobbedienza contro Dio. Può anche essere visto come il risultato di tale disobbedienza.” In altre parole – sebbene in qualche modo semplicisticamente definito – significa causare un danno intenzionale all’ordine divino della creazione. Come sottolinea Oliver Leaman, è uno di quei termini che sono spesso banalizzati, che viene usato “così ampiamente che perde il suo legame con l’originale senso coranico e islamico” senza la dovuta attenzione al contesto. Come hanno fatto gli iraniani descrivendo “tutta una serie di crimini come fasad o corruzione contro Dio”. La sua attuale comprensione politicamente carica è aperta poiché implica potenzialmente idee, norme, pratiche che non rispettano i principi di base dell’Islam o una loro interpretazione particolare.
Un’altra fatwa di Sistani originariamente pubblicata in un volume comparativo di fiqh al-aqalliyyat, afferma che “la partecipazione alle riunioni in cui viene servito l’alcol non è vietata, [ma], non partecipare è, sulla base delle necessarie precauzioni, l’opzione migliore. Tuttavia, aggiunge, va bene (la ba’s), se partecipa con l’obiettivo di proporre “Comandare il giusto e proibire lo sbagliato”. Il punto di vista riflesso nel testo suggerisce che le interazioni sociali che si svolgono in un contesto in cui le norme islamiche sono non rispettate, possono essere strumentalizzate e utilizzate come un’opportunità per attirare l’attenzione sui valori islamici e testimoniare la loro rilevanza e applicabilità universali in qualsiasi momento e luogo.

Conclusione

Il tono del volume e delle sue particolari fatwa è apertamente apologetico derivante da una preoccupazione costruita per la perdita dell’identità islamica in un contesto “alieno”. Per scongiurare questo pericolo, alla comunità viene ordinato di applicare un meccanismo di controllo interno al fine di rafforzare la coscienza religiosa dei suoi membri e la sua coesione generale creando confini visibili e invisibili di “protezione”. Per questo, la preservazione dell’influenza delle autorità religiose tradizionali è una condizione preliminare. L’apprensione, il risentimento e il disprezzo per qualsiasi fenomeno incompatibile con le norme islamiche mira e richiede degli sforzi – personali o comunitari – per influenzare e trasformare il contesto non islamico. L’effetto sulla società ospitante è furtivamente distruttivo poiché questo costrutto mentale impedisce l’integrazione basata sul valore, solidifica le società parallele, mantiene lealtà verso le autorità religiose tradizionali con sede nelle regioni di origine e incoraggia un atteggiamento assertivo e interventista da parte dei musulmani immigrati che vivono nell’ovest.

*Bianka Speidl, Migration Resarch Institute

La nostra identità garanzia di futuro

«Chi controlla i bambini controlla il futuro». È uno dei passaggi centrali, tra i più inquietanti ma anche tra più importanti, di Sottomissione, il romanzo di Michel Houellebecq che nel 2014 si è rivelato come il pugno sullo stomaco, quantomai salutare, nel dibattito asfittico e falso sull’Islam e il suo rapporto con l’Europa.
Già, è stato necessario l’intervento-shock di uno scrittore anticonformista e “visionario” (ma in realtà lucidissimo e attento alla prossimità) per trovare veicolato su un mezzo di comunicazione di massa – il romanzo è diventato un best-seller, non solo per la “coincidenza” della sua uscita con la strage di Charlie Hebdo ma proprio per la forza escatologica del racconto – un passaggio di verità sulla strategia di penetrazione reale dell’Islam, nello specifico quello salafita delle monarchie del Golfo, nella nostra patria continentale.
Voglio sottoporvi un passaggio. Poche righe ma divinatorie: «Non mettono al centro di tutto l’economia – il riferimento è ai leader dell’immaginario partito della Fratellanza musulmana in trattativa con la sinistra francese per battere alle elezioni presidenziali del 2022 il candidato della destra -. Per loro l’essenziale è la demografia, e l’istruzione; il sottogruppo demografico che dispone del miglior tasso riproduttivo, e che riesce a trasmettere i propri valori, trionfa; per loro è tutto qua, l’economia e la stessa geopolitica non sono che fumo negli occhi: chi controlla i bambini controlla il futuro».
Altro che distopia o fantapolitica. Si tratta della fotografia di ciò che il “Rapporto annuale sull’islamizzazione d’Europa” che avete tra le mani ha analizzato, decrittato e sistematizzato: la sopravvivenza di una civiltà è legata prima di ogni altra cosa al tasso di natalità e al sistema di valori che grazie a questa riesce a trasmettere.
E cosa dicono i dati? Che una donna musulmana, qui in Europa, ha un tasso un tasso di fertilità superiore, il doppio, di quello di una donna non musulmana. Se i flussi migratori dei musulmani nel Vecchio continente dovessero proseguire al ritmo di come li abbiamo conosciuti negli ultimi anni? Tra soli trent’anni gli islamici in Europa saranno più che raddoppiati: si parla della percentuale clamorosa di incremento del 125%. E a quel punto chi “controllerà” il nostro futuro? Con quale scala di valori? E in nome di quali istituzioni?
Ecco, noi speriamo invece che nessuno controlli alcuno: né un governo “multinazionale” né una holding islamista. Lo speriamo proprio nel nome di quei valori – uguaglianza e democrazia – che un certo storicismo crede inevitabili, che Francis Fukuyama ottimisticamente indicava come «fine della storia», ma che in realtà appartengono a quella dimensione complessa, alimentata da una precisa direttrice, che conosciamo organicamente soltanto come e nella civiltà occidentale.
Ecco perché l’argomento dell’islamizzazione dell’Europa ci interessa in maniera specifica e problematica e su questo abbiamo predisposto, accanto e a sostegno della battaglia politica, un serrato e attrezzato dibattito scientifico e accademico. Perché temiamo che la “profezia” di Houellebecq, se l’Europa, e l’Italia per ciò che ci riguarda da vicino, non deciderà di disporre politiche e strumenti per preservare se stessa, possa tramutarsi inevitabilmente in realtà.
A fronte di un disinteresse “complice” da parte della narrazione ufficiale, ci interessa eccome studiare e denunciare il rischio dell’islamizzazione perché la difesa del nostro “futuro”, la sua stessa possibilità, è intimamente connessa alla salvaguardia del nostro “passato”. Proprio così: tutto ruota attorno alle radici, la cui preservazione – credetemi – tutto è tranne che un fatto “archeologico”. L’identità europea – attraversata e permeata da due sostrati, classico, inteso come greco-romano e giudaico, e cristiano – si impone infatti come entità viva principalmente per due elementi caratterizzanti di natura filosofica, identitaria, più che religiosa, che la distinguono da tutte le altre.
Il primo è la laicità dello Stato; per il banale motivo che la separazione fra i “poteri” è contemplata fin nei testi sacri della cristianità, alla ricerca di un’armonia che ha sempre interrogato il pensiero politico europeo e italiano su tutti, come dimostra il De Monarchia di Dante Alighieri che considerava “due soli”, l’Impero e la Chiesa, come «duplice guida, in relazione al duplice fine; e cioè il Sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita eterna secondo la Rivelazione, e l’Imperatore, che dirigesse il genere umano alla felicità temporale secondo gli insegnamenti della filosofia».
Il secondo grande elemento è proprio questo, il rapporto dinamico tra fede e ragione come dispositivo per la formazione dell’identità europea. È ciò che emerge dal grande dibattito (condito da polemiche e da attacchi strumentali) che suscitarono le parole di Papa Benedetto XVI nella celebre lezione di Ratisbona. Proprio l’incontro fra fede biblica e logos, come spiegò in quell’occasione fondamentale il Papa emerito, «al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa» e «rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa».
Dall’altro lato, invece, la religiosità islamica non solo per sua natura è trascendente, non solo nel Corano non è concepita la separazione fra fede ed entità statuale (e nella guerra civile interna all’Islam vengono combattute dall’Isis guarda caso proprio quelle nazioni, come la Siria, legate al socialismo arabo e quindi di impronta laica) ma in alcuni Stati – come l’Arabia Saudita – la sharia addirittura rappresenta in toto la “Costituzione”.
L’Europa, dunque, è plasticamente tutt’altro che un’espressione geografica. È un’identità determinata dalla sintesi dei propri connotati di origine: ed è su questa che poggia la sua sinderesi. Se perde ciò, semplicemente, non è più Europa. Potrà essere “riempita” da altro. Potrà tramutarsi in un contenitore. Ma non rappresenterà mai più la stessa formula; e sopratttutto non svelerà più lo stesso contenuto.
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L’osservazione che viene fatta a questo punto, molto spesso a opera di decostruzionisti celati e tutt’altro che disinteressati, è nota: tutto questo potrebbe non rappresentare un problema qualora avvenisse la piena integrazione dell’Islam in Europa. Tradotto: se gli immigrati diventano cittadini europei di formazione ma di religione islamica il nodo è sciolto. Una sorta di pantheon 2.0.
È così? Ingegneria (virtuale) sociale a parte, tutta la discussione riguardo a un Islam “europeo”, quello che risolverebbe a monte il problema dell’integrazione, a oggi si scontra con il dato della realtà.
Quale? I due principali punti di riferimento del proselitismo islamico nel mondo – il Qatar e l’Arabia saudita –, anche se in serrata competizione fra loro, sono anche quelli che svolgono da anni in modo scientifico e articolato la più grande azione di penetrazione religiosa e culturale straniera in Europa. Non solo tramite il finanziamento di moschee, di centri islamici, di associazioni culturali ma anche puntando dritto al cuore delle élite e dei suoi interessi economici, attraverso l’esercizio del cosiddettosoft power. Un esempio facilmente intellegibile arriva dalle sponsorizzazioni dei più importanti club di calcio europei – con una copertura delle principali capitali (Roma, Madrid e Parigi) – che scendono in campo con i colossi e le compagnie di bandiera del mondo arabo sul petto.
Incredibile il caso del Real Madrid, con il club – sponsorizzato da Fly Emirates – che ha scelto anni fa, come vero e proprio atto di”sottomissione” dissimulato dall’opportunità di marketing, di celare la propria identità e togliendo la croce dalla parte sommitale del simbolo della squadra per la vendita delle magliette negli Stati arabi: tutto questo per “non turbare” la sensibilità dei supporter di religione islamica. La stessa scelta, vergognosa e ben più scellerata, che il governo Renzi fece ai Musei Capitolini, nascondendo con le tendine le nudità dei capolavori dell’arte italiana per non disturbare la vista del presidente iraniano Rohani.
L’Opa ideologica araba nei confronti dell’Europa non si esaurisce di certo sul rettangolo di gioco. Ancora più pernicioso è lo “shopping finanziario” di aziende e asset nazionali a opera dei ricchissimi fondi sovrani delle petrolmonarchie: lo vediamo dagli hotel di lusso a Roma a palazzo Turati a Milano passando per le filiali italiane della Deutsche Bank e del Credit Suisse e così via.
Ciò ha fatto sì che il cosiddetto Islam europeo, tanto nella sua veste istituzionale (la Grande Moschea di Romam sorta e sostenuta dai sauditi, ha avuto fino a qualche tempo fa l’ambasciatore dell’Arabia Saudita come presidente del Consiglio di amministrazione) quanto in quella “comunitarista”, sia interamente un Islam che fa riferimento alle dottrine più integraliste provenienti dai Paesi del Golfo.
Il risultato? Un’Europa non solo vittima dell’attacco “nichilista” del terrorismo islamista di prima e seconda generazione – che ha prodotto 729 morti e quasi cinquemila feriti – ma un continente che è diventato a sua volta centrale di formazione e destabilizzazione internazionale.
Come ha avuto modo di verificare e denunciare Soud Sbai, presidente delle donne marocchine in Italia, il fenomeno ha assunto forme pericolose anche per le stesse nazioni del Nord-Africa e del Medioriente. Un dato indicativo e sorprendente, infatti, è quello testimoniato da Stati con un Islam moderato e abituato al confronto con l’Europa, come Tunisia e Marocco. Negli ultimi anni è accaduto un fatto preoccupante: che cittadini tunisi e marocchini si siano radicalizzati proprio in Europa, tornando in patria poi a “praticare” integralismo religioso e politico. Tutto questo sotto gli occhi pigri, quando non complici, delle istituzioni europee.
Un caso di scuola è Molenbeek, il quartiere “no-go zone” di Bruxelles: fucina di radicalizzati e combattenti dell’Isis, da qui sono partiti i terroristi che hanno colpito e sterminato al teatro Bataclan di Parigi e hanno attaccato lo stesso aeroporto della capitale belga. Come si è arrivati a questo? Grazie ad un patto che alla fine degli anni ’60 Re Baldovino strinse con l’Arabia Saudita per la fornitura di petrolio abuon mercato.L'”appalto” di ritorno?L’esclusiva sul proselitismo a Bruxelles, a partire dalla costruzione della Grande Moschea in uno spazio concesso per novantanove anni dal governo belga. Questo ha generato nel tempolegami sempre più stretti dei membri della comunità con i predicatori salafiti e un vero e proprio percorso di indottrinamento fanatistaperi più giovani che, dopo essersi formati o essersi convertiti, hanno ingrossato le file dei foreignfighters per la Siria e l’Iraq al servizio dei gruppi jihadisti. E dove si troverà mai l’edificio religioso,vero hub del fondamentalismo? Nel Parco del Cinquantenario, ironia della sorte a due passidal Palazzo Schuman, il cuore politico dell’Unione europea…
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A questo punto è più che lecito chiedersi se tale processo di islamizzazione sia davvero inevitabile. I dati ufficiali indicano che l’Europa è un continente che in termini demografici sta morendo. Il tasso di fertilità è dell’1,3 figli per donna, quando quello minimo per scongiurare la decrescita di una data popolazione è di 2,1. Un calo demografico, dunque, che in modo semplicistico e propagandistico viene dato come ineluttabile, irreversibile e che, di conseguenza, apre alle tesi che propongono soluzioni grottesche e pericolose secondo le quali – cito testualmente Emma Bonino, l’aedo dell’immigrazionismo – occorrerebbe coltivare «il giardino d’infanzia», quell’Africa che abbiamo «a 300 chilometri sotto di noi mentre l’Europa è segnata dal declino demografico».
Deliri propandistici a parte, sempre le statistiche – come abbiamo indicato prima – spiegano che i cittadini islamici presenti in Europa hanno un tasso di fertilità più alto dei non musulmani. L’elemento in più è che questo risulta comunque abbastanza basso, trattandosi di 2,6. Che cosa significa? Che da solo sarebbe insufficiente a determinare un processo di islamizzazione dipendente interamente dalla natalità. O almeno ci vorrebbero centinaia di anni. Qualcosa in più del «futuro» immaginato da Houellebecq. O dalle parole grosse del presidente turco Recep Tayyip Erdogan che ha incitato i musulmani nel continente a fare figli: «Non fate tre figli, ma cinque. Perché voi siete il futuro dell’Europa. Questa sarà la migliore risposta all’ingiustizia che vi è stata fatta». Al di là del fascino di alcuni concetti, insomma, i numeri dicono che la realtà, almeno fino ad ora, è diversa.
Lo è per un motivo semplice: perché gli immigrati che arrivano in Occidente assumono velocemente diverse abitudini occidentali, inclusa la tendenza al mettere al mondo un numero minore di figli. Ciò non significa che ci stiamo preoccupando per nulla. Esattamente il contrario. Sempre i dati illustrano altri due scenari a proposito della questione immigrazione. Quando si analizza quella legale, ad esempio, risulta che se le nazioni europee fossero interessate solo da questa – essendo equilibrata tra musulmana e non – non ci sarebbe un processo pervasivo di islamizzazione dell’Europa (il 46% dei migranti regolari è di religione islamica). I numeri però ci dicono anche un’altra cosa: che per quanto riguarda l’immigrazione illegale, invece, questa negli ultimi anni è stata in gran parte di origine islamica (il 78% dei richiedenti asilo è composto da musulmani).Eppure i cristiani la prima minoranza religiosa perseguita nel mondo (sono circa 245 milioni): sarebbe legittimo, quindi,aspettarsi un numero consistente di rifugiati cristiani giungere in Europa. Che cosa comporta, invece, l’attuale situazione? Che se il trend dovesse proseguire come è stato in questa stagione, nell’arco di poco più di un secolo la popolazione islamica supererà quella non islamica. Il futuro, dunque, semplicemente non sarà più un problema nostro perché non ne faremo quasi più parte.
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Dopo questa lunga ma necessaria premessa, che fare dunque? Come pensiamo di governare questo enorme fenomeno storico? Alla luce di un quadro complesso e con “agenti provocatori” presenti sia nel deep state italiano che nei network globalisti, le politiche e la visione di chi vuole difendere l’identità millenaria europea, per ciò che ci riguarda, sono molto chiare. Per Fratelli d’Italia, come abbiamo sempre ripetuto, prima di ogni altra cosa è necessario stringersi attorno all’unica cosa che può assicurare il futuro: i nostri figli. Ossia alle politiche di incentivo alla natalità e di sostegno alla famiglia naturale. È uno scandalo – rivelatore di una visione distorta della sua funzione politica e della distanza con le istanze reali dei popoli – che tra tutte le priorità indicate dall’Ue non sia mai entrata la questione della promozione della natalità.
Per noi invece questo è stato il primo punto del programma con cui ci siamo proposti agli italiani alle elezioni Politiche. Altri hanno presentato provvedimenti come il reddito di cittadinanza e Quota 100: temi probabilmente più spendibili in campagna elettorale, ma noi siamo fatti così, guardiamo sempre e comunque ai grandi fenomeni che interessano la nostra Nazione. Non ci siamo preoccupati, tutt’altro, di porre questo a fondamento e orientamento della nostra azione politica. Lo abbiamo fatto con una proposta più che concreta, opposta e contraria all’assistenzialismo, come il reddito di infanzia: un assegno mensile importante per i figli dai zero a sei anni (e poi un sostegno fino ai diciott’anni) con cui lo Stato potrebbe dimostrare fattivamente la volontà di voler investire sul proprio futuro.
A questo punto, però, non intendo di certo eludere un’osservazione sensata: sempre i numeri ci dicono che l’Europa può aver bisogno effettivamente di una quota di immigrazione. Vero, lo richiedono lo sviluppo industriale, le nuove esigenze sociali (cresce comunque il numero degli anziani) ma anche un dato che fa parte del nostro milieu, visto che il nostro continente è stato sempre crocevia di incontri e scambi fra culture.
Questo vuol dire, però, che occorre parlare di immigrazione e affrontare il fenomeno in modo serio, a partire dal consentire l’ingresso solo per via legale, sì da poter gestire sia la quantità che la specificità, la qualità, dell’immigrazione in entrata.
Sotto questo aspetto i dati smontano la narrazione ufficiale: se, come si dice, il problema principale dell’Europa è quello demografico, significa allora che si rende necessario l’ingresso specifico di donne e di nuclei familiari. E invece la maggior parte degli ingressi è appannaggio di uomini che arrivano da soli. Con una battuta, potremmo dire che quando nell’antichità i romani si trovarono ad affrontare un problema demografico finì con il celebre “ratto delle Sabine”. Se avessero compiuto il “ratto dei Sabini” sarebbero stati certamente all’avanguardia per i loro tempi ma si sarebbero inevitabilmente estinti.
Con questo che cosa intendo? Semplice: che, come dimostrano le stime ufficiali del Viminale, nel periodo degli sbarchi massicci – fra il 2012 e il 2017, con una percentuale bassissima di profughi veri – circa il 90% erano composto da uomini. Anche sotto l’aspetto demografico, dunque, possiamo parlare di una truffa a tutti gli effetti.
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C’è un aspetto, a tal proposito, sul quale le proposte di Fratelli d’Italia hanno sollevato ulteriore e grande polemica. Quando abbiamo parlato – proprio per venire incontro alle necessità di una quota di arrivi fisiologica – di immigrazione “compatibile”. Che cosa intendiamo? Diciamo, intanto, che la categora dell’immigrato non esiste. O meglio non è per nulla neutra: non si può immaginare, cioè, che sia indifferente la provenienza e la cultura di riferimento di chi arriva in Europa; che sia indifferente se abbiamo davanti un’immigrazione di massa sudamericana o nigeriana. E allora, se è necessaria una certa quota di immigrazione, noi non abbiamo mai avuto alcun problema a chiedere di favorire chi ha origini italiane ed europee.
Si stima che nel mondo ci siano decine di milioni di nostri connazionali che non hanno la cittadinanza italiana, pur avendone diritto. Se l’Italia ha bisogno di immigrazione la cosa più sensata è favorire allora proprio l’arrivo di chi ha le nostre stesse origini. L’esempio banale è il caso Venezuela: più di 20 milioni di abitanti di cui due milioni sono di origine italiana. Nello stato sudamericano vige il caos e in tanti soffrono la fame e le persecuzioni da parte del regime comunista di Maduro. Perché allora non prendere gli immigrati che dovessero servirci da lì? Lo stesso dovrebbe valere su scala continentale: favorire, quando necessario, l’immigrazione di origine europea e, in seconda battuta, un’immigrazione proveniente da Stati che hanno dimostrato di non creare problemi di integrazione o di sicurezza.
Insomma, non proviamo alcun imbarazzo a dire, grazie anche alle parole importanti del cardinale Biffi pronunciate con grande coraggio quasi vent’anni fa, che dovremmo caldeggiare l’accoglienza di popolazioni di origine cristiana: «Preferire i cristiani», spiegava il cardinale, perché «i musulmani più o meno dichiaratamente, vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro». I motivi li abbiamo spiegati abbondantemente in questo dossier ma ancora grazie a Biffi ripercorriamo le tracce: «Hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere, di diventare preponderanti».
Tutte tensioni, provenienti soprattutto dall’Islam fondamentalista e intimamente anti-occidentale, che sono state dibattute con grande scrupolosità su queste pagine. Eppure i governanti europei rimangono sostanzialmente sordi e ciechi dinanzi a segnali così evidenti. Non a caso il cardinale temeva con grande lungimiranza e attualità, ancora di più dell’invasione, «la straordinaria imprevidenza dei responsabili della nostra vita pubblica» e «l’ inconsistenza dei nostri opinionisti».
Gli stessi che si scandalizzano e alzano gli scudi davanti alle nostre proposte.
Perché, la domanda è pertinente, lo fanno? Perché il disegno globalista ha come primo obiettivo quello di distruggere le identità. Un’immigrazione di massa che non scardina l’identità non è più funzionale a questa dinamica. Prendiamo il caso della Polonia, governata dai sovranisti. L’Ue ha attaccato la Polonia perché rifiuta di prendersi quote di immigrati arrivati in Europa provenienti dall’Africa e dal Medioriente. I polacchi hanno risposto: abbiamo dato ospitalità ad un milione di ucraini. Lì c’è una guerra civile e ci sono, davvero, migliaia di persone che scappano dal conflitto, di certo più di molti africani. La risposta qual è stata? «Non contano». Già, sono europei. Il problema della Polonia dunque non è che non accoglie rifugiati, ma è che trattandosi di europei, cristiani, assimilabili tranquillamente allo stile di vita dei polacchi, quelli che vengono accolti non sono funzionali all’opera di destrutturazione. Ed è lo stesso motivo per il quale i buonisti che hanno sempre una parola buona per chiunque, non dicono nulla sul Venezuela e i suoi perseguitati: già, non sentiremo mai gli immigrazionisti part-time spendere una parola nemmeno per loro.
Alla fine tutto ruota attorno alla nostra identità: elemento vivificante e distintivo. Per questo Inserire un richiamo alle nostre radici classiche e cristiane come cornice e paradigma nei trattati dell’Unione Europea risulta un atto di affermazione necessario e fondamentale, non solo per dare un’anima all’architettura comunitaria ma anche per fornire uno schermo di protezione contro tutti i tentativi di colpire dall’esterno (o svuotare dall’interno) l’impianto della civiltà europea, il suo diritto al futuro. «Non si recidono le radici sulle quali si è cresciuti», esortava non a caso un gigante della storia come Giovanni Paolo II a proposito del sostrato d’Europa. Da sradicati a sottomessi, infatti, il passo è più breve di ciò che si pensi.

*Prefazione di Giorgia Meloni al Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo

l’integrazione (im)possibile. Immigrazione africa – islam

Mentre in Italia sull’uso improprio della parola “razzista” si montano settimane di polemiche pochi sanno che in Sudafrica si è approvato un emendamento costituzionale per cui si potranno espropriare i terreni ai bianchi senza indennizzo, ma anche a vantaggio dei cinesi che in Sudafrica sono equiparati ai neri.

Un razzismo alla rovescia di cui non parla nessuno, un esempio di quante poche informazioni si hanno in questo campo.

Marco Zacchera (già deputato di Alleanza Nazionale, per cinque legislature in Commissione Esteri  e per molti anni missionario laico in Africa) cerca nel suo recente libro “L’INTEGRAZIONE (IM)POSSIBILE ? – QUELLO CHE NON CI DICONO SU ISLAM, AFRICA ED IMMIGRAZIONE” di documentare le ragioni profonde del fenomeno migratorio e le sue conseguenze sul futuro italiano ed europeo, soprattutto se si continuerà a non agire in termini continentali.

Un libro dove contano più i dati che le opinioni, con informazioni corrette, numeri certi, fatti documentati ed esperienze personali, tutto in presa diretta.

Davanti ad un’Europa distratta, Marco Zacchera si pone anche il problema dal punto di vista cristiano sottolineando come sia  un preciso dovere aiutare il prossimo per obbligo morale e sociale, ma sottolineando che bisogna farlo con intelligenza, organizzazione, capacità e programmazione altrimenti non solo si finisce in un disastro, ma attecchisce anche la mala pianta della corruzione e dello sfruttamento alimentando rinnovato odio e razzismo.

Nel suo libro si può scoprire cosa stia succedendo in Sudafrica o le divisioni che spaccano la Nigeria, viene denunciato – dati alla mano – il vorace neo-colonialismo cinese che in occidente ed in Europa viene tuttora sottovalutato.

Ampio spazio per  la schiavitù fisica ed economica praticata nei paesi arabi del Golfo e il rifiuto di molti musulmani ad accettare i principi costituzionali europei, così come si sottolinea il  vergognoso silenzio europeo sull’Eritrea e soprattutto sui disastri combinati da multinazionali senza scrupoli.

Desertificazione e incremento demografico alla radice dei mali africani, ma anche una documentata e forte richiesta di maggiore attenzione su chi emigra dall’Italia verso l’estero nell’ipocrisia di un paese che accoglie immigrati ma costringe ad emigrare ogni anno oltre 100.000 diplomati e laureati italiani perdendo risorse preziose.

Temi di fondo su cui si parla poco, ma che sono le cause documentate che portano poi i poveracci a sbarcare disperati sulle nostre coste o a morire in mezzo al mare.

Una informazione corretta – anche se magari scomoda, antipatica, anticonformista e poco “buonista” – è allora necessaria per portarci a riflettere, un po’ come il medico  che ha il dovere di dire la verità al proprio paziente.

Una realtà che potrà essere a volte impietosa e crudele, ma che va conosciuta da chi è malato (come lo è la nostra società europea) per almeno tentare le cure necessarie alla sua sopravvivenza con zacchera che in merito offre una serie di ricette da non sottovalutare.

*Marco Zacchera, già Deputato e Sindaco di Verbania

La Shari’a compatibile con la democrazia?

Il sistema islamico di giurisprudenza (la Shari’a) è uno tra i più seguiti ed applicati al mondo. Questa breve introduzione è mirata a far conoscere la magnitudine di questo corpus di conoscenza giuridica e l’impatto che ha avuto sulla civilizzazione in generale dal settimo secolo d.C. ad oggi. Pertanto il presente articolo, basato su una pubblicazione eccellente del già Vicepresidente della Corte Internazionale dell’Aia, di C. G. Weeramantry “Islamic Jurisprudence: an international perspective”, cerca di aprire qualche spiraglio di conoscenza su questo mondo vasto e sfaccettato, nella speranza di apprezzare la ricchezza ed importanza dell’universo della conoscenza legale e mostrare alcune delle molte interrelazioni tra la giurisprudenza e filosofia(e) islamica(che) ed occidentale(i).

Il diritto islamico è basato, come vedremo, sulla assoluta sottomissione al volere di Dio. Questo è un canone fondamentale della religione Islamica, e dal momento che il diritto islamico è basato sulla religione, ne consegue la stessa asserzione di base: il volere di Dio incorpora tutti gli aspetti della vita e quindi la legge li deve regolare tutti. Prima dell’islam l’Arabia (intesa come Medio Oriente, non come l’odierno Regno Saudita) non aveva alcun ordinamento, né statale né sociale, ed era governata dall’anarchia senza codice morale o sistema legale. Con il Profeta Muhammad (in occidente Maometto) attraverso le sue rivelazioni e il testo sacro islamico (il Corano) è radicalmente cambiato il sistema sociale.

Il Corano (da Qur’an, pronunciato “Kuur’an” che significa ‘recitazione’ in arabo) è stato direttamente dettato a Muhammed (Maometto) dall’Arcangelo Jabril – Gabri’eel (Gabriele), e come tale è considerato dall’intera comunità musulmana, senza eccezione (la Umma), la parola di Dio vera ed inequivocabile e la base dell’Islam sotto tutti i profili incluso quello giuridico, racchiudendo in esso norme del diritto personale (civile), penale e la completa normazione in materia di successioni È inoltre necessario tenere a mente il contributo in termini di civilizzazione e cultura che questo testo, diretta parola di Dio per l’Islam, ha portato all’intero mondo Islamico (circa il 25% della popolazione mondiale attuale, 1.8 miliardi di persone, pressoché un quarto dell’umanità).

Dal momento che l’esistenza di Dio è considerata oltre ogni dubbio (visioni agnostiche o atee non sono contemplate), il Suo potere illuminato, la Sua unicità oltre l’analisi, la disciplina centrale dell’Islam non era e non è la teologia o la metafisica, bensì proprio il Diritto, la Legge – la Shari’a. L’espansione territoriale della legge islamica dopo un secolo dalla morte del Profeta Muhammad coprì i territori islamici dalla Spagna alla Cina, le colonie arabe non fecero semplicemente espandere il territorio dell’Islam, ma anche la religione ed il diritto islamico.

A differenza del diritto romano che, espandendosi nei territori dell’Impero Romano e non includeva il credo enunciandolo, si adattò e si mescolò con le usanze locali, emergendo in sistemi giuridici particolari per ogni territorio come il diritto franco-romano, il diritto tedesco-romano, il diritto olandese-romano, nel diritto islamico il carattere di tale fusione era diverso, c’erano differenze o variazioni localizzate, pronunciando un timbro più forte perché derivato dall’unicità dell’Islam.

La disciplina centrale dell’Islam, che secondo i musulmani trascende tutte le altre, è la Giurisprudenza. Questo è dato dal fatto che i principi Coranici si applicano a tutti gli aspetti della legge e della vita stessa. Gli studiosi delle scienze sociali o umanistiche, particolarmente i giuristi o gli avvocati, dovevano compiere le loro ricerche e studi all’interno del Corano stesso, dal momento che i principi delle loro discipline – diversamente dai principi delle scienze naturali – sono contenuti al suo interno. Moderni studi giurisprudenziali hanno chiarito che nessun sistema legale raggiunge un certo livello di grandezza (intesa come estensione e seguito) se è statico e inerte e quindi incapace di sviluppo ed adattamento ai tempi. Il common law inglese si è sviluppato in secoli di decisioni giuridiche dei giudici, applicandoli ai casi concreti sia come binding precedent che come normazione ex novo. Il civil law o Diritto Romano d’altronde si è sviluppato grazie a centinaia di trattati scritti da eminenti giuristi nel trascorrere dei secoli. Il diritto indiano più precisamente indù non è stato raccolto in un testo, ma in una serie di testi di diversi gradi gerarchici o d’autorità.

Come si poteva mantenere e promuovere le relazioni nazionali ed internazionali in un contesto in continua espansione territoriale sulla base di tale testo inalterabile e non interpretabile oltre il senso originale del profeta Maometto? Il diritto islamico, è importante rammentare, ha da fare con due vasti aspetti di regolazione (o regolamento). In prima istanza c’è la serie (un insieme) di leggi che trattano dei doveri degli esseri umani verso Dio (Ibadat) – i cinque pilastri dell’Islam o arkan-al-islam (la professione di fede, la preghiera, il digiuno nel mese del Ramadam, la raccolta fondi o elemosina ai poveri e il pellegrinaggio alla Mecca, Makkah nell’odierno Regno dell’Arabia Saudita).

Questi temi vengono trattati per primi nelle raccolte dei fiqh (all’incirca dei ‘Codici della Shari’a’ o raccolte di leggi islamiche). Seguono le leggi generali, e successivamente le specifiche norme che regolano le relazioni umane (mu’amalat) come le nozze, il divorzio, e le successioni (quindi all’incirca equivalenti a Codici Civili). Riflessioni interessanti sulle similitudini tra i giuristi islamici e i giuristi del diritto romano si possono trovare negli studi di eminenti studiosi europei. Il diritto islamico è universale e pone tutti (la comunità umma) ad un eguale livello di sottomissione a Dio. Non esiste discriminazione in base alla religione, razza, sesso eccetera, almeno a livello formale. Ci sono svariate hadith o tradizioni che regolano questo istituto di eguaglianza, gli unici limiti sono il caso dei dhimmi, non-mussulmani che vivono negli Stati islamici, soggetti a un numero di ‘limitazioni di stato’.

Anch’essi godevano comunque di un largo riconoscimento dei diritti, soprattutto se ritenuti ahl-al-kitab ovvero popoli del libro come i cristiani, gli ebrei ed un numero di altri appartenenti a religioni monoteiste (norma contenuta esplicitamente nel Corano). Il governo dell’umma (la comunità mussulmana) dipende quindi dai principi di consultazione (parlamento shura – ripartito in majlis i aam – rappresentanti del popolo e majlis i khass- dei dotti) e nessun sovrano ne era al di sopra. Il potere può quindi cambiare di mano, se è Allah a volerlo, facendolo o ad ogni modo lasciandolo accadere. La teoria di Stato e di governo chiaramente delinea che il potere di governo non dovrebbe riporsi esclusivamente nelle mani di un individuo o di una classe dirigente, ma del popolo. Dal momento che però la sovranità nell’Islam non esiste, o meglio, non è terrena, non può appartenere al popolo.

Le principali differenze con il diritto pubblico occidentale, sia civil law che common law, sono numerose ed evidenziate soprattutto dalla differenza nell’approccio e nella mancanza di istituzioni di diritto pubblico. Si può vedere come esso non sia un diritto basato meramente sui testi, benché la sua fonte principale sia il Corano, perché l’importanza della giurisprudenza e dell’interpretazione in varie forme (siano esse fonti o scuole) è determinante.

A ben vedere i due sistemi giuridici hanno in comune la regolamentazione di usi e consuetudini formalmente senza distinzione di razza e sesso ma hanno una visione diversa per quanto riguarda l’applicazione pratica del diritto stesso: il diritto occidentale regola la sola vita terrena, il diritto islamico la vita pratica (sfera esteriore) come conseguenza di quella sfera interiore che viene regolata dalla legge divina. Per quanto concerne la compatibilità con la Democrazia, insita nel ‘Sistema-Occidentale’, alcune nozioni di base possono essere estrapolate direttamente dalla fonte suprema della Shari’ia che poi è equipollente al rango costituzionale (v. Regno Saudita), cioè il Corano, ad esempio le nozioni: della fratellanza e della solidarietà, della dignità umana, del diritto della donna della privacy, degli abusi del diritto, delle libertà individuali, dell’eguaglianza dinnanzi alla legge, la presunzione di innocenza, l’indipendenza giuridica, la supremazia del diritto, la sovranità limitata, il fare del bene, la tolleranza ed infine o meglio al vertice, della partecipazione democratica – il majlis come si è detto è appunto un ‘parlamento’ già esistente anche se in svariate forme, pressoché in ogni Stato musulmano.

Grazie ad una più approfondita analisi delle fonti di diritto islamico, è evidente che la Democrazia è insita anche nel Sistema-Mondo Islamico, e non è esclusiva del Mondo Occidentale.

 

*Davide Garbin, collaboratore Charta minuta