L’interesse nazionale e la concorrenza europea

Nell’ambito delle linee guida politiche adottate dalla Commissione europea per il mandato della Presidente Ursula von der Leyen per gli anni 2019-2024, Margrethe Vestager, ancora una volta titolare della delega alla concorrenza economica, ha reso nota la sua intenzione di introdurre novità normative in materia di regolamentazione della politica industriale europea in rapporto all’economia digitale.

Per gli addetti ai lavori, il programma del Commissario Vestager non è un fulmine a ciel sereno, bensì la concretizzazione di un lavoro politico e tecnico accumulato in cinque anni, dal 2014 al 2019. Nonostante la natura fortemente composita dell’Unione europea, data dalla struttura articolata nel Trattato di Lisbona, il tema della concorrenza è sempre stato uno dei fiori all’occhiello della Commissione, snocciolata in precise ed accurate normative a copertura di concentrazioni ed acquisizioni industriali, aiuti di Stato e meccanismi di filtraggio degli investimenti diretti esteri.

La decisione presa nel 2019 dalla Commissione di fermare il merger tra la francese Alstom e la tedesca Siemens per la creazione di un colosso europeo delle infrastrutture su rotaia è considerato tipicamente lo spartiacque che ha portato la riforma del diritto europeo della concorrenza tra le priorità delle agende europee dei grandi Paesi-industria d’Europa: Francia e Germania.

D’altro canto, il tenore stesso dell’atteggiamento tenuto dal Commissario Vestager fornisce una cifra stilistica e politica di due grandi visioni d’Europa: allorché Francia e Germania ponevano come condizione necessaria e sufficiente per l’approvazione dell’operazione la necessità di creare un campione europeo (il primo tra tanto) nel campo del trasporto ferroviario per far fronte alle crescenti sfide poste dai grandi apparati industriali cinese ed americano, la DG Comp del Commissario Vestager si è opposta indicando come non sussista il rischio, allo stato attuale, di una invasiva ed anticoncorrenziale presenza di attori stranieri (in primis la Cina) nel mercato europeo tale da dover giustificare la creazione di campioni industriali europei.

Il dibattito, tra le Cancellerie con sede a Bruxelles, ha disposto immediatamente la creazione di due grandi paradigmi: favorire una politica industriale orientata alla creazione di campioni industriali europei, anche con deroghe alla normativa attuale per “ragion di Stato”, o mantenimento del rigoroso status quo? Sebbene Francia e Germania fossero capifila della prima corrente di pensiero, il tema del “come” rappresentava e rappresenta tuttora una questione interamente differente. Ammessa e non concessa la possibilità di un regime di deroga ai meccanismi di controllo del Regolamento n. 139/2004 (cd. EUMR), con che meccanismo dovrebbe vedersi attuata? Il diavolo è nei dettagli, e nei dettagli di queste grandi proposte di riforma si scorgono le vere differenze tra i giocatori in gara. Le Autorità francesi, infatti, hanno più volte caldeggiato un meccanismo di deroga di natura politica, da identificarsi idealmente nel Consiglio dei Ministri dell’Unione europea, o, comunque, mediante logiche intergovernative; i tedeschi, di converso, hanno sempre apprezzato l’idea di istituire una vera e propria antitrust europea, o comunque di delegare le valutazioni di questo tipo ad un organo completamente indipendente.

La Commissione europea, infatti, segue un modello ibrido, basato prevalentemente su un rigoroso rispetto di tutta una serie di crismi e di procedure di filtro e di controllo sulle acquisizioni industriali, lasciando in ogni caso l’ultima decisione in capo al Commissario responsabile che, in ogni caso, è un attore finemente e squisitamente politico.

Questo vivace dibattito ha inaugurato tutta una serie di iniziative volte ad influenzare e comprendere la direzione di un eventuale processo di riforma. Tale occasione pare finalmente essere arrivata con le proposte di regolamento sui servizi (DSA) e sui mercati (DMA) digitali avanzati dalla Commissione nel 2021, in attesa di un più ampio processo di riforma dell’EUMR. L’opportunità e le eventuali modalità di adattamento della normativa sulla concorrenza per l’era digitale è ancora oggi oggetto di un forte dibattito quando si toccano tematiche di policy ed applicazione normativa. Il nodo gordiano è in questo caso rappresentato dal fenomeno delle “killer acquisitions”, o acquisizioni ostili (estremamente ricorrenti in ambito digitale), operazioni di concentrazione di mercato dove gli acquirenti (genericamente aziende over the top) decidono di acquistare potenziali rivali, siano esse aziende o prodotti, per poterne neutralizzare l’influenza sul mercato.

Da un punto di vista meramente tecnico, l’EUMR prevede che un’operazione di concentrazione industriale finisca sotto la giurisdizione della Commissione europea solo quando il fatturato totale mondiale delle attività oggetto di merger superi i 5 miliardi di euro e il fatturato realizzato a livello europeo da almeno due delle imprese coinvolte superi i 250 milioni di euro. Le operazioni sono sottoposte al controllo della Commissione anche qualora si superino altre soglie di fatturato delle imprese interessate. Data la dimensione economica palesemente sotto soglia delle startup oggetto di acquisizioni ostili, le operazioni non finiscono quasi in nessun caso sotto la lente della DG COMP.

L’unica deroga è fornita dalla cd. “Dutch clause”, l’articolo 22 dell’EUMR, che stabilisce che uno o più Paesi membri possa richiedere alla Commissione di esaminare una determinata operazione di M&A che, pur non avendo una dimensione strettamente comunitaria, abbia tangibili ripercussioni sulla propria economia interna. Dal 1989 ad oggi, a fronte di oltre 8.000 casi esaminati dalla Commissione europea, questa disposizione è stata utilizzata solo 42 volte.

Nel marzo 2021, la Commissione europea, sotto impulso del Commissario Vestager, ha esteso l’applicazione della Dutch clause anche alle operazioni non regolarmente segnalabili alla Commissione. Il nuovo regime applicativo dell’articolo 22 ha portato a porre due nuove operazioni di concentrazione sotto l’occhio della DG COMP: Illumina/Grail e Facebook/Kustomer.

La modifica della Dutch clause costituisce solo un piccolo tassello di un più grande processo di riforma in ambito europeo, dove si discute l’eliminazione del meccanismo di competenza giurisdizionale della DG COMP basato sulle soglie di fatturato e dimensione economica. L’Italia deve buona parte del suo output economico alla produzione manifatturiera che, a parte qualche eccezione, si basa su una enorme rete frastagliata di cluster di piccole e medie imprese, e non di giganti industriali per settore.  Se Francia e Germania su questo tema hanno posto a più riprese le proprie posizioni, a tutela dei loro interessi economici e dei loro campioni industriali, il silenzio da parte italiana desta non poche preoccupazioni. Ora più che mai, dato l’inevitabile impulso riformatore delle normative europee in seguito alla crisi da COVID-19, le Cancellerie europee si pongono tutte il medesimo quesito: che cosa vuole l’Italia?

*Alessandro Guidi Batori, analista di politiche pubbliche

PROMUOVERE L’INTERESSE NAZIONALE IN UN MONDO COMPLESSO

Questo saggio di Giampiero Massolo, ambasciatore,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Nel nostro Paese, per motivi storici e culturali, ci si riferisce spesso con pudore e cautela al tema dell’interesse nazionale. Oggi, peraltro, esso è tornato di attualità in quanto fattore qualificante dello «stare al mondo», un requisito necessario per il bene della collettività.  L’impatto di una crisi grave e inattesa, come quella dovuta alla pandemia da Covid19, riassume in sé molti aspetti caratterizzanti: una minaccia nuova, immateriale e asimmetrica, che mette alla prova assetti e alleanze, così come la nostra coerenza nel farne parte; che comporta la necessità di conciliare l’emergenza sanitaria con quella economicosociale; l’opportunità di tutelare asset strategici potenzialmente in posizione di minore forza da appetiti stranieri. L’urgenza di definire e difendere l’interesse nazionale si ripropone, quindi, viepiù oggi con grande evidenza. Cresce coerentemente l’esigenza di formulare politiche improntate all’interesse nazionale, fra tutte il primato spetta alla politica estera. Sembra evidente che quest’ultima risponda all’interesse nazionale per sua stessa natura, ma in realtà, perché ciò accada, è necessaria una chiara definizione degli ambiti verso i quali prioritariamente ci si intende rivolgere, come necessaria appare una coscienza dei limiti, una disponibilità di strumenti e, soprattutto, l’attitudine a usarli per assumersi responsabilità in proprio.

Non sempre accade. È intuitivo constatare che l’interesse nazionale consiste in un esercizio di sintesi. Non vi è un interesse nazionale aprioristico, ma una sommatoria di fattori che spetta ai Governi sintetizzare. E di tale potere di sintesi essi sono responsabili, poiché nell’esercitarlo definiscono priorità e operano scelte. Queste scelte trovano la propria verifica politica nei parlamenti e, in definitiva la propria sanzione, nel voto dei cittadini. Torna qui il tema della difficoltà nel definire il proprio interesse nazionale, in qualche modo correlata alla poco assidua attenzione per le cose del mondo e alla spesso non profilata sensibilità dei cittadini. Anche da noi. È difficile quindi che i governi si sentano responsabili in via prioritaria su questi specifici temi. I governi si muovono comprensibilmente alla ricerca del consenso e sembrano dare spesso per scontato il peso relativo della politica estera e delle aspettative dell’opinione pubblica al riguardo. Oggi questo trend è in qualche inversione, anche a seguito della progressiva presa di coscienza dell’impatto che hanno sui nostri destini avvenimenti fuori dai confini nazionali (paradigmatici il conflitto libico, come i flussi migratori o il drastico passaggio della crisi finanziaria del 2008 e seguenti). E ancora, la pandemia che ha colpito il mondo ha accentuato drammaticamente la presa di coscienza.

D’altra parte il nostro Paese (e i suoi cittadini) deve tenere conto della realtà nella quale è chiamato a operare, inserito com’è in un sistema di relazioni internazionali, su un campo di gioco, ove competono e si confrontano diversi interessi nazionali. È difficile perseguire il proprio, senza essere vigili ai cambiamenti dello scenario globale. Perché questo accade in misura crescente? Conta sotto questo profilo, la rapida evoluzione del contesto internazionale in questi anni. Anzitutto, il contesto internazionale in cui si muovono gli Stati è ormai privo di «ombrelli protettivi». Il progressivo declino del multilateralismo, l’allentamento del carattere valoriale delle alleanze ha indotto una diluizione della differenza fra la nozione di partner e di alleato. Insomma, oggi il mondo è sempre più un mondo di competitors nel quale ancoraggi tradizionali come la Nato, la stessa Ue, l’Onu sembrano attenuarsi come mezzi di legittimazione dell’attività internazionale. In secondo luogo, sono mutati gli attori. Non è chiaro se si stia marciando a tappe forzate verso un nuovo «condominio bipolare» sino-statunitense. È ancora presto per dirlo. Ciò che è incontrovertibile, tuttavia, è che l’ordine mondiale liberale come l’abbiamo conosciuto, basato sulla primazia dell’Occidente, sul libero mercato e sui valori della democrazia rappresentativa è venuto meno e difficilmente potrà riproporsi almeno nella sua forma originaria. Siamo come «in mezzo al guado», perché se è vero che il condominio sino-americano sembra intravedersi, ci troviamo ancora in una fase fluida, di «recessione geopolitica», si potrebbe dire in uno stato di «G Zero». Senza un protagonista unico riconosciuto e senza regole universali. Al tempo stesso, si affollano nel mondo odierno molti nuovi attori essenzialmente non statali: grandi aziende, individui, Ong, terrorismo jihadista, le «piazze» (da non sottovalutarne l’impatto sul panorama internazionale).

A medio termine, dunque, non sembra alle viste un ritorno alla logica della cooperazione, una volta affermatasi quella di potenza che sempre più connota le relazioni internazionali. La logica «transazionale» promossa in primis – ma non solo – anche dall’amministrazione americana tende a prevalere al momento («pesi» e sei mio alleato non in nome di un valore fondante della nostra alleanza, ma per ciò che puoi darmi). Anche la risposta internazionale alla pandemia ne ha risentito: il mondo è apparso molto più diviso rispetto, ad esempio, alla reazione alla crisi finanziaria del 2008/2009.  Attenzione meritano poi le crescenti forme di influenza extra-statuali, la cui dirompente portata è esemplificata da quella della cibernetica.

È vero che non siamo nuovi all’esperienza di diverse forme di influenza, ma oggi questa è così pervasiva, penetrante da rappresentare una minaccia straordinaria. Se da un lato ciò non può far concludere  che ogni appuntamento elettorale in una democrazia rappresentativa sia falsato, dall’altro comporta una mutazione del sistema delle relazioni internazionali e implica la necessità di assumere opportune contromisure a propria difesa. Se questo è il mondo di oggi con le sue prospettive di medio termine, come può modellarsi una politica basata sull’interesse nazionale date le circostanze? Ogni governo, che voglia fare l’interesse dei propri cittadini deve intanto abituarsi a navigare in mare aperto senza dare per scontate più di tanto amicizie e inimicizie, identificando chiaramente il proprio interesse nazionale, dandosi un sistema decisionale efficiente, assumendo sempre più responsabilità in proprio senza pensare di poterle troppo delegare agli organismi multilaterali. E se l’autorevolezza e la solidità delle organizzazioni internazionali dipende dall’autorevolezza e solidità dei loro Stati membri, si può concludere che Stati forti e autorevoli rafforzerebbero il multilateralismo oggi in crisi. Rafforzare le capacità, all’occorrenza, di poter decidere in proprio è cruciale. Accrescere poi la partecipazione delle proprie opinioni pubbliche. L’opinione pubblica non può entrare in gioco solo come macchina di consenso (e di voti), ma deve contribuire, in modo informato, ai processi decisionali responsabilizzando i propri rappresentanti. Far crescere consapevolezza e responsabilità è essenziale. Ricercare i partner e alleati con i quali compiere percorsi comuni, distinguendo gli uni dagli altri. Con i primi entrano in gioco gli interessi, che a volte possono coincidere e indurre a compiere un tratto di strada insieme, con i secondi sono i valori (non sempre gli interessi contingenti) a fungere da collante. La capacità di discernere è decisiva. Rilanciare infine il multilateralismo è centrale, specie per un Paese come il nostro e più in generale per i Paesi Europei.

Per superarne la crisi oggi bisogna partire con un approccio bottom up, dagli interessi concreti, promossi da coalizioni di Paesi che intendano compiere lo stesso percorso, per dirigersi auspicabilmente nella medesima direzione. In un mondo «multi-concettuale» diventa allora prioritario ricercare temi unificanti e fra tutti quelli della sicurezza cibernetica e dei cambiamenti climatici sembrano i più adatti a lanciare un simile esperimento. Lavorare insieme tra Stati «willing», senza troppi distinguo, ricostruendo la dimensione multilaterale, è la prospettiva di speranza per il futuro. Ma se non accadesse, non potremmo evitare di assumerci le nostre responsabilità. Meglio prepararsi per tempo.

 

*Giampiero Massolo, presidente ISPI, ambasciatore

INVESTIMENTI ESTERI E INTERESSE NAZIONALE

L’Italia è ancora oggi un Paese strategico nello scacchiere internazionale per rilevanti motivi geopolitici ed economici. Catalizza interesse e attrae investimenti esteri, i cosiddetti IDE (Investimenti Diretti Esteri, appunto). Sul fronte dell’internazionalizzazione passiva, IDE in entrata, sono oltre 14.000 le imprese a controllo estero residenti nel Bel Paese, con oltre 1.300.000 dipendenti, un fatturato che supera i 500 miliardi di euro ed un valore aggiunto di oltre 100 miliardi di euro. Pur rappresentando solo lo 0,3% circa delle imprese attive in Italia, il loro peso sale a quasi l’8% degli addetti, a oltre il 15% del valore aggiunto prodotto e a poco più del 18% del fatturato complessivo.

Numeri importanti, quindi, e ben vengano gli investimenti esteri oggi più che mai! Anzi dovremmo essere in grado di attrarne di più perché, in generale, qualificano le nostre filiere produttive. Basti pensare che, in media, le imprese a capitale estero presentano delle performance di gran lunga migliori in termini di valore aggiunto per addetto (86 mila contro 38 mila euro), grazie alle maggiori dimensioni medie di impresa (90 addetti per impresa, contro i 4 delle imprese domestiche). In generale, poi, gli IDE portano anche maggiori e diverse competenze, tecnologie, capacità manageriali, vantaggi di scala e di network.

Ciò premesso, non è tutto oro quel che luccica e, a volte, dietro apparenti vantaggi si nascondo pericolose insidie. Se ne è parlato ad esempio, nel recente passato, con l’investimento della cordata franco indiana Arcelor Mittal in quella che era la più grande acciaieria d’Europa, l’ILVA di Taranto e i risultati attuali sono sotto gli occhi di tutti. Sempre restando a Taranto è di pochi giorni fa la notizia degli interessi cinesi per il suo porto e per la gestione della relativa logistica, cosa che ha subito fatto drizzare le antenne agli americani (in zona ci sono importanti presidi militari strategici per l’area del Mediterraneo). Oggi la notizia dell’acquisto, da parte dei tedeschi di Hhla, del pacchetto di maggioranza del terminal multifunzionale del porto di Trieste, altra infrastruttura strategica molto ambita (anche dai cinesi, per altro). Nelle operazioni appena citate, cosa non banale, non ci sono solo privati ma anche i rispettivi Stati di provenienza.

Ecco che, allora, entra in campo l’interesse nazionale, o almeno così dovrebbe essere. Nel contesto attuale le infrastrutture materiali (come ad esempio i porti) e immateriali (ad esempio le tecnologie 5G), assieme ai settori strategici, rappresentano infatti degli asset fondamentali per i singoli Paesi.

Questo all’estero sembra che lo sappiano bene mentre a livello governativo italiano pare non esserci al momento la stessa sensibilità. Diverso, invece, il clima che si registra in Parlamento, grazie all’azione meritoria portata avanti negli ultimi tempi dal COPASIR. Ma non basta, perché l’attività di monitoraggio va fatta prima, sulla base di azioni preventive che abbiano da un lato l’obiettivo di incentivare e promuovere gli investimenti che fanno bene all’Italia e, dall’altro, “attenzionare” con maggiore efficacia e nel caso stoppare quelle operazioni potenzialmente lesive dell’interesse nazionale.

Ecco che, allora, andrebbero promosse anche specifiche commissioni parlamentari con compiti sia di vigilanza, sia di indirizzo generale rispetto al tema della tutela dell’interesse nazionale in ragione dei tentativi di incursione di potenze straniere portate avanti anche attraverso gli IDE.

In parallelo andrebbe promosso un vero e proprio “Osservatorio Italia Internazionale” che monitori l’andamento degli investimenti esteri in Italia e italiani all’estero, per fornire non solo un cruscotto di dati ma un vero e proprio supporto tecnico ai decisori politici, cosa diversa dall’attuale Caie.

E mentre aumentano le insidie nei settori strategici delle infrastrutture, dai porti al 5G ma non solo, diminuiscono per effetto della crisi gli IDE buoni, quelli che creano valore per il Paese: nel 2019, in epoca cioè pre-Covid, l’Italia è scesa dal 15esimo al 16esimo posto a livello mondiale, che in soldoni vuol dire da 33 a 27 miliardi di dollari (fonte Unctad) con una perdita secca di 6 miliardi di investimenti rispetto all’anno precedente.

*Enrico Argentiero, esperto mercati finanziari