L’industria dei cavi sottomarini e gli interessi strategici del Paese

Intervento introduttivo del presidente Adolfo Urso al seminario  della Fondazione Astrid su “Industria dei cavi sottomarini: tendenze di mercato e geopolitica”

 

Colgo in apertura l’occasione per ringraziare Astrid e Franco Bassanini per la possibilità di continuare ad imparare in seminari come questo odierno, perché credo fortemente sia fondamentale per me, ed in generale per la classe dirigente di questo Paese, non smettere mai di apprendere su temi strategici e prioritari di cui è necessario avere approfondita conoscenza se si vuole agire, in tempi rapidi, in un mondo in cui assistiamo a continue accelerazioni nello sviluppo dei principali settori economici e tecnologici. Quindi, cercherò in particolare di ascoltare i vari interventi, che saranno molto utili, così come sono stati già molto utili incontri passati che ho avuto con alcuni di voi per continuare ad apprendere su questa materia.

Si tratta di questioni fondamentali nell’ambito del ruolo di Presidente che svolgo presso il “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” (Copasir), soprattutto per allargare anche la prospettiva con cui in quella sede affrontiamo le tematiche della sicurezza nazionale. Il Copasir, infatti, non si occupa soltanto di intelligence, come accadeva in passato, e la stessa denominazione “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” indica l’ampio perimetro della politica della sicurezza nazionale nei suoi vari aspetti, anche quelli riguardanti l’industria e la tecnologia del Paese.

Nell’ambito del mio lavoro di parlamentare, tra l’altro, ho presentato in Parlamento una mozione che riguarda proprio la politica italiana sui cavi sottomarini. Una mozione

parlamentare che non è stata né esaminata né discussa dal Parlamento, presentata oltre un anno fa, e che affrontava i temi complessi di cui discutiamo oggi.

È di assoluta importanza sottolineare che noi abbiamo un’industria ed una tecnologia da tutelare e da rafforzare nel campo dei cavi sottomarini. Non siamo infatti secondi a nessuna altra realtà internazionale, e possiamo svolgere un ruolo importante e significativo sotto i diversi aspetti che riguardano, ad esempio, le tendenze di mercato.

Ritengo su questo punto molto significativo il documento che avete presentato, in particolare per come riassume le modalità con cui si è sviluppato il mercato dei cavi sottomarini, come ha avuto un’accelerazione e quali sono i soggetti privati e pubblici, imprese e Stati, che intervengono e che comportano quindi considerazioni di natura geopolitica.

Per quanto riguarda il Copasir, la parte geopolitica di maggiore interesse è ovviamente la parte della sicurezza, tenendo però ben presente che le ricadute nel sistema industriale sono altrettanto significative: se infatti l’Italia perde eccessivo terreno nel campo della tecnologia e dello sviluppo industriale, utilizzare tecnologie altrui ci renderebbe sempre più dipendenti ed – in alcuni casi – soggetti a rischi che riguardano la nostra sicurezza nazionale. Questo vale nel settore di cui stiamo discutendo oggi, come sul terreno più ampio della transizione digitale e della transizione ecologica.

Se, lungo il percorso di queste due transizioni, l’Italia diventa Paese meramente utilizzatore di tecnologia altrui, aumenta in maniera esponenziale la dipendenza da altri paesi, con le conseguenze che tutti conosciamo. In particolare, si tratta della sicurezza nazionale, la quale ruota intorno all’informazione e ai dati che passano attraverso i cavi sottomarini, come è evidenziato sempre nella nota che avete condiviso in preparazione del seminario, ma anche della capacità di sviluppo dell’industria e dell’economia e quindi del lavoro italiano.

Il rischio che davvero corriamo, in riferimento anche all’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), e di tutto quello che ne deve conseguire in termini di investimenti, è che l’industria ed i prodotti italiani – alla fine – non siano protagonisti

nei settori tecnologici di punta, non siano quindi attori protagonisti delle due transizioni – digitale ed ecologica – verso un’era moderna, verso un nuovo modello di sviluppo.

Parlando più specificatamente dei cavi sottomarini, è importante l’esempio degli hub del gas. L’Italia, infatti, è un hub europeo di gas coi suoi gasdotti, e questo è un elemento di forza del sistema, poiché ad esempio alla luce dei recenti rincari dei prezzi, consente all’Italia di essere abbastanza garantita, se non altro sotto l’aspetto dell’approvvigionamento. Non ovviamente dal lato dei prezzi, poiché su questo aspetto incidono altri fattori legati al settore energetico. L’Italia può però diventare un hub importante anche per quanto riguarda il sistema dei cavi sottomarini e dei cavi terrestri.

In una interrogazione che presentai in Parlamento, prima di divenire Vice Presidente e poi Presidente del Copasir, posi la questione della necessità di una strategia italiana in materia di industria dei cavi, contemplando l’utilizzo dello strumento del golden power nel caso dell’azienda Interoute, una multinazionale europea che possedeva il più esteso backbone in fibra ottica presente sul continente europeo, frutto del lavoro delle imprese italiane, che avrebbe potuto essere recuperato al sistema Italia se il governo avesse attuato la stessa strategia che aveva attuato in passato. Lo strumento della golden power sarebbe infatti determinante per recuperare a sistema anche un’importante dorsale di telecomunicazione, di trasmissione di informazione europea.

Reputo pertanto che manchi all’Italia un “progetto Paese”, in cui lo Stato sappia difendere i propri interessi in settori strategici, in particolare in quelli innovativi dal punto di vista tecnologico. Recentemente, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato, molto correttamente, che lo Stato, nella frontiera tecnologica, deve essere presente. Le sue parole erano riferite alla frontiera tecnologica del digitale, nel campo della green economy e del settore energetico.

Nei settori di frontiera tecnologica, lo Stato deve svolgere un ruolo attivo, come viene svolto ad esempio dalla Repubblica Popolare Cinese o dagli Stati Uniti, secondo un modello di “capitalismo di Stato”. Un esempio è come gli Stati Uniti si stanno muovendo nel settore dello spazio, tema a cui ci stiamo interessando molto anche noi.

Sarebbe pertanto utile che il nostro Paese si dotasse finalmente di una strategia anche nella politica riguardante i cavi sottomarini. Una strategia necessaria perché, come è stato giustamente sottolineato nella nota introduttiva al seminario, ben il 99% delle informazioni e dei dati globali passano attraverso questa infrastruttura. Peraltro, diventa ancor più fondamentale svolgere un ruolo importante in questo settore, in un momento storico in cui connettere le varie aree geografiche è fattore determinante per il modello economico dominante.

In questo contesto, ci auguriamo inoltre che la strategia di cui si deve dotare l’Italia – ma anche l’Europa – consenta al Mediterraneo di svolgere un ruolo importante nel connettere l’area atlantica con l’area del Pacifico, il continente americano e quello europeo e, queste due ultime aree, con le zone in forte sviluppo dell’Africa e dell’Asia.

Il Mediterraneo rappresenta infatti il centro strategico che può connettere tutte queste realtà, uno snodo fondamentale che sarebbe auspicabile, tramite ad esempio gli hub di Palermo o Genova e non solo di Marsiglia, potesse svolgere un ruolo da protagonista nell’ambito dello scambio e della trasmissione di dati e informazioni a livello globale.

La competizione è molto forte anche sulla scelta delle aree dove i cavi sottomarini si ricollegano a quelli terrestri; per questo è importante avere una posizione dell’Italia decisa e in grado di favorire i propri hub e quindi di creare una dorsale italiana strategica a livello internazionale. È necessario quindi porre grande attenzione che le nuove infrastrutture di cavi sottomarini che stanno nascendo e nasceranno nel Mediterraneo non “saltino” i nostri hub, in favore di hub tedeschi (Francoforte) o francesi (Marsiglia), favorendo quindi le economie e gli interessi di altri paesi a discapito dei nostri.

In conclusione, l’Italia deve recuperare al più presto il terreno perso in questo settore strategico anche a causa, e lo dico senza intenti polemici, di alcune privatizzazioni di grandi imprese nazionali che hanno di fatto impedito all’Italia di avere un ruolo importante nella costruzione delle infrastrutture dei cavi sottomarini. Motivo per cui, ad esempio, per altre grandi imprese italiane come Enel ed Eni, fu scelto un modello

diverso, che ha oggettivamente funzionato, in cui il ruolo del pubblico rimaneva centrale. Per altre aziende, come ad esempio Telecom Italia, purtroppo furono fatte scelte diverse: meno di tre decenni fa Telecom Italia era una delle più grandi aziende di telecomunicazione globali ed oggi abbiamo quel che il mercato ci ha riservato.

Si tratta purtroppo di errori del passato che hanno conseguenze importanti sul presente. Nell’ambito del settore di cui discutiamo oggi, quello dell’informazione e dei dati, della loro trasmissione, circa trent’anni fa furono fatte scelte sbagliate, non considerandolo strategico al pari di quello dell’energia, del gas o del petrolio. Non si è avuta la capacità di comprendere che invece si trattava di settori probabilmente ancor più strategici di quelli citati, che – se affrontati con politiche economiche e industriali adeguate – oggi non ci avrebbero posto nella condizione di dover gestire e superare le enormi difficoltà con cui invece dobbiamo confrontarci.

È importante però recuperare il tempo perso e rimediare agli errori fatti in passato, poiché è ancora possibile ritagliarsi un ruolo importante a livello internazionale, applicando un’unica logica in quello che è lo sviluppo del sistema digitale in questo Paese. Lo Stato può avere una sua strategia che può poi declinarsi di volta in volta secondo strumenti diversi: ad esempio, tramite la golden power per difendere i propri interessi nazionali, o tramite la Cassa Depositi e Prestiti, per intervenire in maniera attiva in alcuni settori strategici, o infine attraverso la politica regolamentare.

A monte di tutto ciò, è però decisivo che lo Stato si doti di una strategia ben precisa ed organica, in grado di fare dell’Italia una piattaforma digitale e di connettività tra contenimenti nel Mediterraneo e in Europa. Per questo, è necessario che anche le aziende svolgano un ruolo attivo e centrale nel settore dei cavi sottomarini, ragionando e operando in una logica di sistema. Soltanto ragionando in questi termini, si può giungere ad accordi internazionali che tutelino gli interessi italiani ed europei. Il nostro Paese, ovviamente, non può aderire direttamente a consorzi internazionali, né è dotato di imprese in grado di fare da sole quello che sono in grado di fare le grandi Big Tech americane o cinesi, ma può mettere in campo una strategia di sistema Italia, in cui le

nostre imprese sono incentivate ad aderire a consorzi di imprese internazionali, delineando un piano nazionale che renda la nostra penisola una piattaforma strategica, interconnessa con cavi sottomarini al resto d’Europa e, attraverso l’Europa, all’Atlantico, interconnessa nel Mediterraneo con i paesi africani. In particolare, l’Italia deve mirare a rappresentare un hub centrale tra i paesi della sponda sud del Mediterraneo, che dovranno interconnettersi con la piattaforma europea, e quei paesi che vorranno connettersi con i paesi asiatici, dove nei prossimi anni, è prevista la maggiore produzione di informazione.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Europa resta il continente che produce la maggior quantità di dati ed informazioni, e di conseguenza non dobbiamo dimenticare quanto sia importante preservare questi dati e queste informazioni. Questi elementi, infatti, oggi rappresentano il campo da gioco dove si svolge la partita della geopolitica, ed è estremamente importante per l’Italia svolgere un ruolo centrale. Dotarsi di una gestione strategica dei dati oggi consente, da una parte, di garantirsi maggiore sicurezza nazionale, e, dall’altra parte, di sviluppare i settori dell’industria, della ricerca della tecnologia, incentivando e attraendo investimenti internazionali.

Credo quindi che il seminario che Astrid ha organizzato oggi sia molto importante anche per lanciare un messaggio alle istituzioni, che devono rendersi conto della grande velocità con cui certe dinamiche si stanno sviluppando, anche a seguito della recente pandemia e del lockdown a cui siamo stati costretti. Abbiamo infatti scoperto tutti quanto sia importante il lavoro a distanza, e quanto sia importante la rete Internet. L’uso della rete ha raggiunto livelli incredibili, rendendoci consapevoli sia degli aspetti positivi, sia di quelli negativi in termini di sicurezza e vulnerabilità (ad esempio in ambito sanitario).

Ci rendiamo quindi conto, e mi rivolgo in particolare all’amico Bassanini, quanto sia importante creare una rete in Italia che giunga all’ultimo miglio nel più breve tempo possibile. Se non abbiamo una rete italiana di banda ultra larga, se non abbiamo un Cloud nazionale della pubblica amministrazione che preservi i nostri dati, se non

abbiamo investimenti significativi, una connessione di cavi marittimi e cavi terrestri per farci diventare piattaforma digitale europea nel Mediterraneo e quindi nel mondo, anche le risorse, il PNRR, subiranno una dispersione e andranno a beneficio di altri, non certamente a noi.

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo

 

UNA POLITICA INDUSTRIALE PER L’ITALIA

Questo saggio di Giuseppe Pennisi, economista, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Ci può e deve essere una politica industriale nazionale e quali sono i suoi confini? Occorre fare una premessa. In economia ci sono, da sempre, due scuole di pensiero: la prima, alla Hayek, sostiene che la mano pubblica debba astenersi dall’intervenire in settori direttamente produttivi (come quelli dell’industria), il cui sviluppo dovrebbe venire orientato dal mercato; la seconda, alla Colbert (che non era un economista e non scriveva trattati, ma da ministro delle Finanze di Luigi XIV emetteva decreti con cui già alla metà del Seicento orientava le attività produttive in Francia), ritiene, invece, che la mano pubblica debba non solo guidare ma anche intervenire direttamente.

In Italia, un bel saggio recente di Pierluigi Ciocca (Tornare alla Crescita, Donzelli 2018) ricorda che i periodi di maggior sviluppo economico e industriale ci sono stati nell’età giolittiana e nei trent’anni del «miracolo economico», fasi in cui si garantivano le regole ed un efficace diritto pubblico dell’economia, le infrastrutture fisiche e istituzionali, e misure mirate solo per le aree depresse. Il sistema cresceva quasi spontaneamente e la politica industriale era in effetti orientata dal mercato. Nell’Unione europea (Ue), di cui siamo soci fondatori, e in un mondo caratterizzato da un forte grado d’integrazione economica internazionale – ci si deve chiedere – che spazio c’è per politiche industriali «nazionali»? In effetti, la «dottrina prevalente» nell’Ue è che lo sviluppo industriale deve essere garantito dalla libera concorrenza, dalla mancanza e di aiuti di Stato e di posizioni dominanti tra i player.

Da decenni, la Francia – Patria di Colbert – propone una «politica industriale europea» che, nel rispetto delle regole sulla concorrenza, incoraggi campioni europei tali da superare i confini nazionali e da gareggiare efficacemente con gigantesche multinazionali di impronta americana e asiatica. Due importanti documenti in tal senso, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012, tracciano prospettive e includono proposte concrete in materia. Hanno avuto relativamente poca attenzione in Italia e non sono stati formalmente recepiti in sede Ue, ma sono la cornice intellettuale e di politica economica in cui è nata, ad esempio, la fusione Fca-Psa, un chiaro elemento per far sì che il comparto europeo dell’auto possa rispondere efficacemente alla sfida della trasformazione tecnologica e del mercato mondiale. La Francia – vale la pena ricordare – ha anche creato «campioni europei», ma con un forte accento «nazionale», acquisendo aziende un tempo italiane, soprattutto nel comparto del lusso. Ciò dovrebbe essere un monito per l’Italia, dove non ci sono state acquisizioni significative di aziende straniere da incorporare in aziende italiane e fare così nascere «campioni europei» con il profumo ed il gusto italiano. Pochi anni fa, Franco Debenedetti, che è stato alla guida di grandi aziende, oltre che politico e saggista, ha analizzato gli insuccessi della politica industriale italiana in un volume dal titolo eloquente: Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale, Marsilio, 2016. Quasi quarantacinque anni fa, Giuliano Amato, che non può certo essere tacciato di iper-liberismo alla Hayek, nel volume Il governo dell’industria in Italia (Il Mulino, 1972), caratterizzava l’intervento pubblico nell’industria nel nostro Paese quale impiccione e pasticcione. Si potrebbe continuare con citazioni e riferimenti. La domanda di fondo è come mai Oltralpe si riesce a teorizzare i campioni europei, e anche a facilitarne la realizzazione, mentre da noi si finisce ad attuare interventi impiccioni e pasticcioni all’origine dei circa 160 tavoli di crisi in quel di via Molise, dove ha sede il Ministero per lo Sviluppo Economico (Mise)? La risposta è in gran misura in Colbert e in Napoleone Bonaparte che ne seguì le tracce e diede un inquadramento più completo alla strategia. In una Francia dove l’industrializzazione tardava a venire, Napoleone creò les grandes écoles perché lo Stato disponesse di un corpo altamente qualificato per valutare e guidare l’attuazione di interventi piccoli e grandi.

La tecnocrazia prodotta da les grandes écoles era fedele alla Nation e non cambiava funzione e ruoli a seconda del vento politico del momento. Ancora oggi, La Documentation Française, pubblicata dall’equivalente del Poligrafico dello Stato, diffonde le analisi perché tutti possano giudicarne la qualità. In effetti, quando la crisi del 1929 comportò una forte dose di intervento pubblico per salvare la finanza e l’industria italiana, Benito Mussolini non si rivolse a un camerata di stretta osservanza e fedeltà, ma a un socialista riformista, che non aveva mai preso la tessera del Partito, come Alberto Beneduce, per porre ordine al sistema. Da solo, tuttavia, questo elemento non basta. In primo luogo, al capitale intellettuale di cui dotare il settore pubblico, occorre affiancare un capitale fisico di infrastrutture (dalla logistica alle forme più avanzate di telematica) per fare sì che le imprese «nazionali» possano competere efficacemente con quelle straniere ed irrobustirsi sul piano interno e poi diventare «campioni europei»: gli storici dell’economia sottolineano che sia l’età giolittiana sia quella del miracolo economico furono caratterizzate da un grande sviluppo delle infrastrutture (finanziate in gran misura dallo Stato). In secondo luogo, è imperativo un diritto pubblico dell’economia semplice, trasparente e stabile, altra caratteristica e dell’età giolittiana e dei lustri del miracolo economico, mentre purtroppo in questi anni l’Italia è stata travagliata da un diritto pubblico dell’economia confuso e spesso cangiante (si vedano, ad esempio, i casi dell’impianto siderurgico di Taranto e delle concessioni autostradali).

A questo punto occorre chiedersi se una politica industriale «nazionale» con la prospettiva di dare vita a «campioni europei» può prevedere interventi finanziari diretti a sostegno di alcune imprese. Un’analisi interessante si ha in un saggio di Ernest Liu, un giovane professore dell’Università di Princeton (Industrial Policies in Production Networks in The Quarterly Journal of Economics, novembre 2019). Liu ha studiato con cura le politiche industriali del Giappone, della Corea del Sud, di Taiwan ed anche della Repubblica Popolare Cinese. Giunge ad una conclusione interessante: l’intervento pubblico diretto per la politica industriale può essere efficace quando mira a settori o industrie «a monte» che producono input per settori o industrie «a valle». Sulla base di queste analisi, si possono sviluppare alcuni criteri di politica industriale. Alitalia non è certo un’industria «a monte». L’ex Ilva ha, invece, tutte le caratteristiche di un’industria «a monte». Da qui a determinare come modulare un eventuale intervento pubblico la strada è ancora lunga. Ed è particolarmente complessa in una fase come l’attuale in cui le prospettive di una lunga e profonda recessione, aggravata dall’emergenza del coronavirus, e la possibile esplosione di una bolla finanziaria creata dall’indebitamento privato e dall’emissione di obbligazioni di dubbia consistenza. A metà marzo 2020 uno studio di Cerdar Selik e Mats Isaksson dell’Ocse ha stimato in 13,5 milioni di miliardi di dollari il totale del debito delle imprese non finanziarie, accumulato, in gran misura tramite emissioni di obbligazioni, in anni di crescita in molti Paesi industriali ad economia di mercato. Una crisi finanziaria sommata alla recessione potrebbe spazzare via non solo singole imprese ma anche interi comparti e rendere più facile individuare potenziali resistenti «campioni nazionali». L’Italia da sola non ce la potrà fare ad uscire da una recessione che ha sempre più i tratti di una depressione che potrà spazzare via molte imprese del manifatturiero ed abbassare di molto la valorizzazione di mercato di altre, rendendole facili preda di gruppi stranieri, di altri Stati europei e non solo. La strategia da seguire è lineare. Da un lato, massimizzare il supporto del resto dell’Unione europea, utilizzando bene le risorse specialmente quelle dello sportello della Banca europea degli investimenti dedicato alle piccole e medie imprese e promuovendo l’attivazione di uno sportello per le imprese nel costituendo Recovery Fund. Da un lato, difendere in via normativa il nostro capitale imprenditoriale da acquisizioni straniere.

*Giuseppe Pennisi, economista

INDUSTRIA DELLA DIFESA E APPLICAZIONI DUALI

Questo saggio di Guido Crosetto,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Il termine «interesse nazionale» trova decine di declinazioni diverse, tutte nobili e rilevanti, quindi difficilmente classificabili in una scala prioritaria universale. Tuttavia diventa difficile contestare il fatto che esistono dei presupposti necessari alla difesa dell’interesse di una nazione: ci si difende se si è temuti, se si ha un ruolo nel mondo, se si hanno assets necessari al resto del mondo, se si sa farsi rispettare nel contesto mondiale.

La debolezza, politica, economica, finanziaria, militare, tecnologica, culturale, non consente difesa. Il Qatar o gli Emirati, inesistenti come popolazione, come potenze militari o tecnologiche, hanno un ruolo nel mondo per le risorse che detengono. La Germania ha un ruolo nel mondo per il peso delle proprie tecnologie, per il peso della propria economia, per la dimensione demografica e per il peso politico in Ue. L’Italia, su cosa basa la propria forza nei contesti internazionali? Su cosa può far leva per difendere i propri interessi? Negli ultimi anni i principali elementi di credibilità internazionale e di cooperazione con altri nazioni in modo istituzionalmente coordinato, sono derivati dalla difesa e dall’industria della difesa e cioè dalla nostra possibilità e volontà di partecipare a missioni internazionali Nato, Onu, Ue e dalla nostra possibilità e volontà di fornire tecnologie militari di alto livello tecnologico ad altre nazioni.

Per una nazione come la nostra, priva di risorse naturali strategiche, quasi totalmente dipendente da altri per le risorse energetiche, con un’economia forte, tecnologicamente avanzata, ma non rilevante su scala mondiale nei settori più innovativi (elettronica, telefonia, informatica, chimica, etc.), forze armate preparate ed efficienti, supportate da un’industria credibile ed all’avanguardia, diventano presupposti di sopravvivenza, di credibilità e di competitività e quindi strumenti fondamentali per mantenere un ruolo rilevante nei consessi che contano. La necessità di disporre di tecnologie e know how propri, nel settore industriale della difesa è un punto rilevante ed imprescindibile, pertanto, nella difesa degli interessi di una nazione. Non soltanto perché la difesa fisica di una nazione passa attraverso la capacità di difenderla in acqua e sott’acqua, sulla terra e nel cielo, nello spazio e nell’etere, ma anche perché, sempre più spesso, le innovazioni tecnologiche rilevanti anche per il mondo civile (internet o Gps ad esempio) sono di derivazione militare. Se non altro perché molto spesso i finanziamenti alla difesa sono un modo facile e ampiamente utilizzato, per far avere aiuti di Stato alle industrie nazionali senza incorrere in sanzioni e per poter affidare appalti di entità rilevante senza passare attraverso gare.

Gli stessi Usa, fautori del liberismo più spinto, investono centinaia di miliardi per mantenere una superiorità tecnologica, attraverso la difesa. È quindi evidente quanto sia forte l’interesse nazionale collegato a questo settore: è lo strumento con cui difendo le mie ricchezze produttive industriali ed i miei patrimoni di conoscenza, ma anche quello con cui riesco ad aumentarlo ed incrementarlo, scavalcando magari la mancanza di possibilità di investimento in ricerca del sistema privato, alimentandolo, surrettiziamente, con soldi pubblici. Basterebbe solo questo a spiegarne l’importanza, ma c’è molto di più. Prodotti innovativi ed efficienti significano forze armate più temute, considerate e autorevoli. Prodotti più innovativi significano un maggiore export, ma soprattutto un export che poi lega i clienti per decenni. Prodotti più innovativi, in questo campo, consentono di sedersi al tavolo con nazioni che altrimenti non avrebbero alcun bisogno di rapporti con l’Italia. Prodotti più innovativi nel campo della difesa, significano applicazioni duali in altri settori tecnologici. L’industria della difesa in connubio indissolubile con le forze armate, è quindi il presupposto di qualunque difesa di interesse nazionale e non capirlo significa condannare un paese come il nostro ad un lento declino economico e ad un’irrilevanza politica internazionale repentina.

Capirlo, per contro, significa investire chiedendo esplicitamente risultati su tecnologie che si considerano rilevanti per il futuro ed imprescindibili nel confronto internazionale. Perché un’industria forte ed una difesa forte, non servono a nulla senza qualcuno che indichi la strada da percorrere. Per tutti questi motivi occorre la consapevolezza che esiste un interesse altrettanto forte nel volerci escludere da questo settore: se in Italia scomparisse l’industria della difesa, si potrebbe tranquillamente attuare il piano di una sola industria europea del settore, quella francese, alimentato dai bilanci di 26 nazioni. Questa non è una competizione commerciale e non è combattuta, dai nostri concorrenti, con le armi della diplomazia e del fair play: esiste una parte dei servizi francesi che si occupa specificamente di perseguire questo obiettivo e lo fa con mezzi, risorse, progetti e molti alleati o «dipendenti» in Italia. Anche sotto questo versante occorre quindi attrezzarsi.

 

*Guido Crosetto,  presidente AIAD – Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza

La riflessione di un Italiano all’estero

Da oltre un decennio si parla sempre di più e in toni sempre più foschi del flusso costante di italiani che lasciano il Paese per trasferirsi all’estero. Le motivazioni sono le più disparate, si passa da studenti che vogliono proseguire i propri studi in contesti più internazionali, a giovani professionisti alla ricerca di opportunità di affermazione, a persone in difficoltà che portano sulle spalle i segni delle due crisi e di un decennio di politiche economiche restrittive.

Nel mio caso, lo spirito di avventura e l’interesse professionale per lo sviluppo di mercati esteri, mi hanno portato a trascorrere quasi interamente gli ultimi 10 anni in vari paesi europei e non solo.

L’interessante lezione che il Senatore Urso ha tenuto in apertura del nostro corso FormarsiNazione, sull’interesse nazionale e su come altri paesi si stiano muovendo sul tema, mi ha spinto a fare alcune riflessioni che vorrei condividere.

Nella definizione di una strategia per tutela e la promozione dell’interesse nazionale, bisogna tenere conto infatti tra i vari aspetti, anche delle leve su cui si può giocare per la sua implementazione. Tra queste è oggi di particolare rilevanza a mio parere quella costituita dagli italiani che vivono all’estero.

Sulla scorta della mia esperienza diretta ho pensato di poter suddividere i nostri connazionali espatriati in tre macro-categorie: la prima che chiamo quella degli esterofili tout court, la seconda quella degli emigranti, la terza quella delle persone di buona volontà.

Alla prima appartengono in media individui in età universitaria o post-universitaria, generalmente dotati di un elevato livello di formazione. Rientrano in questo gruppo alternativamente giovani che desiderano raggiungere velocemente posizioni di rilievo e ben remunerate, come ad esempio quelle negli organismi comunitari o internazionali oppure individui che, nonostante l’alto livello di preparazione, in Italia riuscirebbero a stento a sottrarsi al precariato e remunerazioni non consoni al loro profilo, un caso su tutti, quello dei ricercatori. Quello che ho osservato dialogando con alcuni di essi è un rapporto spesso quasi controverso con il proprio Paese, che viene vissuto in maniera conflittuale. L’idea stessa di interesse nazionale è sentita come un retaggio novecentesco da superare alla luce di un ben più nobile interesse europeo o di una vaga apolidia propugnata dal main stream del pensiero contemporaneo.

Il secondo gruppo è quello che chiamo degli emigranti. Vi appartengono molto spesso persone che sono state costrette a lasciare il Paese da situazioni di precarietà o di difficoltà economica. I profili professionali sono molteplici si va da operatori della ristorazione, a operai, a liberi professionisti. In questo caso la scelta di emigrare è fortemente subita e giustificata dalla ricerca di una stabilità economica che il nostro mercato interno ormai non è più in grado di assicurare oltre che dalla volontà di offrire maggiori opportunità per il futuro dei propri figli.  Essi tendono ad aggregarsi in piccole comunità dove concentrano la maggior parte dei propri rapporti sociali, riproponendo dinamiche che ormai pensavamo di vedere solo in qualche vecchio film di Alberto Sordi. Sono in generale caratterizzati da un forte desiderio di rientrare a casa qualora le condizioni lo permettano e, in alcuni casi, presentano un certo risentimento sia verso l’Italia matrigna che verso il paese ospitante, in cui molto spesso sono tollerati con malcelata sufficienza.

Tra questi due estremi vi è poi il gruppo che ritengo il più numeroso e che mi piace definire delle persone di buona volontà.

Al suo interno vi si possono trovare individui dai profili molto variegati, uomini di impresa, ricercatori, liberi professionisti, operai, manovali, ristoratori. Sono in larga parte persone espatriate alla ricerca di migliori occasioni di realizzazione personale e di accesso a buoni standard di vita. In generale, possiamo affermare che sono lontani da un qualsiasi approccio ideologico al loro stato di espatriati, vivendo molto spesso la propria italianità in maniera positiva se non come un vero e proprio valore aggiunto da sfruttare nel contesto in cui operano. Presentano mediamente un buon livello di integrazione con le comunità locali e valutano positivamente l’opzione di rientrare stabilmente in Italia qualora si presentassero buone opportunità lavorative.

I dati ISTAT per il 2019 certificano la partenza di circa 800.000 italiani nell’ultimo decennio, il 53% del quale con un titolo di studio medio alto e un’età media inferiore ai 35 anni. Di fronte a questi numeri e alle pesanti conseguenze, è inevitabile domandarsi come si possa declinare l’interesse nazionale in riferimento agli italiani trasferitisi all’estero.

A mio giudizio due sono le sfide su cui iniziare a lavorare. La prima e forse la più difficile, è quella di rendere il sistema Italia appetibile e più concorrenziale per i nostri connazionali e per gli stranieri con profili professionali di alto livello. Senza voler entrare qui nel merito di una discussione particolarmente affascinante ma allo stesso tempo molto complessa, sulla base della mia attività lavorativa penso che gli aspetti su cui intervenire in questo senso siano la valorizzazione del mercato interno (in termini salariali e fiscali), la promozione della crescita dimensionale del nostro tessuto produttivo (con aziende troppo piccole per garantire una remunerazione adeguata e sfide professionali reputate interessanti da professionisti e giovani altamente qualificati) e l’incremento del livello di servizio alle imprese da parte della pubblica amministrazione. Agendo decisamente su queste leve si potrebbe pensare di agevolare il mondo imprenditoriale garantendo buone opportunità di crescita e un positivo flusso nei rimpatri.

La seconda sfida consiste invece nel rendere i nostri connazionali che vogliano continuare a vivere all’estero soggetti attivi nella difesa dell’interesse nazionale. A vario livello e in funzione dei singoli profili potrebbero divenire veri e propri ambasciatori del made in Italy e del Paese, attraverso la loro attività professionale, i loro consumi e i loro interessi culturali. Penso in particolar modo a quella categoria che ho chiamato degli uomini di buona volontà, che particolarmente integrata nelle comunità ospitanti e generalmente priva di posizioni ideologiche predefinite, può effettivamente diventare un vero e proprio volano per il miglioramento della percezione dell’Italia nei paesi ospitanti, con rilevanti ricadute in termini economici e di flussi informativi.

La grande priorità che abbiamo tutti di fronte è quella di convincere in primis noi stessi, che l’Italia non è inesorabilmente destinata a diventare solo un paese vacanze. Fare industria, fare commercio, fare agricoltura con successo è possibile anche in questo mondo globale. Non solo ne abbiamo le risorse, le competenze e le capacità. Abbiamo soprattutto la bellezza del nostro Paese e il nostro stile di vita, che, rimossi i freni che stanno bloccando da oltre un ventennio lo sviluppo industriale, possono farci tornare a considerarlo come diceva Dante, il vero e unico “giardino dell’impero”.

*Federico Laudazi, collaboratore di Charta minuta

Necessario intervenire subito sul DURC

Le problematiche degli assetti produttivi, e in particolare delle PMI, alla luce dell’emergenza nazionale covid sono tante. Affrontiamo quelle immediate, a cominciare dal DURC. Le piccole e medie imprese rappresentano nello scenario industriale nazionale una risorsa importante per l’economia del Paese e per la vita stessa della Grande Impresa.

Le recenti evoluzioni dello scenario politico nazionale e internazionale, la crisi economico finanziaria ancora in atto, unitamente all’emergere di capacità  produttive in paesi dove vigono condizioni normative e fiscali assolutamente diverse da quelle nazionali ed europee, pongono non pochi ostacoli ad uno sviluppo concreto del mondo delle PMI o addirittura ne minacciano la sopravvivenza. Gli ostacoli che storicamente nel nostro paese impediscono uno sviluppo armonico della piccola e media impresa ( e come visto,non solo) , sono ormai noti. Tra questi: eccesso di burocrazia, alta tassazione, lentezza della Giustizia civile, inefficienza della Pubblica Amministrazione, instabilità politica e assoluta mancanza di visione e strategie di lungo periodo.

Facciamo qualche esempio: una media impresa con un centinaio di dipendenti e un giro d’affari compreso fra i 10 e 15 milioni di euro l’anno tra IRES,IRAP, INAIL, IMU,TARI,INPS e IRPEF è costretta a pagare da 2,5 a 3 milioni di euro l’anno, equivalenti ad un 20, 25% del proprio fatturato. E ciò non considerando in questi valori le spese fisse di personale interno ed esterno ( consulenti) necessario per fare fronte a tali innumerevoli incombenze. A questo si includa ancora, nel settore dell’Aerospazio e Difesa, la necessità di personale fisso per garantire le stringenti certificazioni e controlli che le normative internazionali impongono, in maniera quasi indipendente dal giro d’affari.

Stanti l’attuale scenario e le connesse difficoltà di cassa, le aziende sono costrette ad effettuare tardivamente i pagamenti sopra detti, e così facendo incorrono in sanzioni ed interessi, che ovviamente non fanno che aggravare la situazione. Ma c’è di più, incorrendo in queste fattispecie, le aziende si vedono negare il DURC con la nefasta impossibilità di partecipare a gare pubbliche ( talvolta anche a gare bandite da grandi gruppi a partecipazione statale), e quindi alla possibilità di fatturare e incassare. Come si suo dire, piove sul bagnato!

Alla luce di tutto ciò si chiede con forza che lo Stato possa concedere dilazioni significative di almeno 6/12 mesi, e non i 10/20 giorni come avvenuto nella scorsa primavera, eliminando l’automatismo negativo su concessioni e rinnovi del DURC.

Se questi auspicati provvedimenti aiuterebbero la situazione di cassa delle aziende, nulla potrebbero influire sul Conto Economico delle aziende stesse, le quali com’è noto possono fallire per difetto cassa o di conto economico. Si chiede quindi di tramutare parte dei provvedimenti in contributi a fondo perduto, in modo da non aggravare l’indebitamento e i bilanci delle società.

Va inoltre rilevato che mentre le aziende, pur dovendo ricorrere al cosiddetto smart working, hanno dovuto garantire accettabili livelli di efficienza, non così sembra essere avvenuto in alcuni settori della Pubblica Amministrazione. Come effetto di ciò in alcuni Ministeri abbiamo visto aumentare i già troppo lunghi tempi di smaltimento delle pratiche burocratiche e purtroppo di pagamento alle imprese!

Come ultima notazione si accenna alla urgente necessità di ripristino e revisione della Legge 808/85, che da sola, in uno scenario internazionale di estrema competitività con imprese di paesi concorrenti che dispongono di analoghi strumenti, può consentire la sopravvivenza del comparto nazionale dell’Aerospazio e Difesa.

*Carmelo Cosentino, già presidente distretto aerospaziale lombardo