NUOVE POVERTÀ, EMARGINAZIONE SOCIALE, CITTADINANZA

Questo saggio di Domenico De Masi  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.

Attualmente i Paesi del mondo sono 196. Messi in ordine decrescente, l’Italia si piazza al 23° posto per numero di abitanti, all’ottavo posto per Prodotto interno lordo (Pil) e al 32° posto per Pil pro-capite: è, dunque, un paese ricco. Però la ricchezza vi è distribuita in modo disuguale e con disuguaglianza crescente. Nel corso degli ultimi dieci anni, segnati dalla crisi, il patrimonio dei 6 milioni di italiani più ricchi è cresciuto del 72% mentre quello dei sei milioni più poveri è diminuito del 63%. Secondo l’Istat, il primo gennaio 2019 cinque milioni di persone, pari all’8,3% della popolazione residente, era in condizione di povertà assoluta, cioè priva dei mezzi necessari per vivere con dignità. Dopo 12 mesi, grazie al “reddito di cittadinanza”, la metà di questi poveri, pari a 2,5 milioni, percepiscono un sussidio medio di 520 euro e, quindi, sono usciti dalla povertà assoluta. Tra questi, 200.000 sono disabili e 600.000 sono minorenni, quindi non sono in grado di lavorare. Ciò sottolinea il fatto che la povertà non va confusa con la disoccupazione perché non tutti i poveri sono disoccupati, né tutti i disoccupati sono poveri. Così, ad esempio, tra i cinque milioni di poveri assoluti che vi erano in Italia il primo gennaio 2019, il 60% non era in grado di lavorare perché composto da inabili, vecchi e minori.

Nella nostra società postindustriale un disoccupato, un occupato precario e con salario irrisorio, un minorenne, un vecchio, un inabile, un malato cronico diventa «scarto sociale» quando, venuto meno anche il soccorso della famiglia e del welfare, si ritrova in uno stato di mendicità o prossimo ad essa, per cui è condannato all’invisibilità, alla sventura assoluta, alla morte civile prima della morte fisica. Quella «persona», anche se non ancora mendicante, costretta a scivolare furtiva lungo i margini della società, vergognandosi di chiedere un euro al passante frettoloso, magari qualche anno prima preparava la sua tesi di laurea illudendosi di approdare di lì a poco a una vita migliore di quella che suo padre, piccolo borghese, aveva condotto per anni, sacrificandosi per tenere suo figlio agli studi. Ora si metterà in fila, una fila che si allunga di giorno in giorno, la stessa cui si accodano l’operaio e l’impiegato che hanno superato i termini previsti dalla cassa integrazione, il manager che fino a qualche mese fa si illudeva di essere immune dal licenziamento e poi, da un momento all’altro, è stato gettato sul lastrico, il lavoratore che mantiene ancora un impiego ma percepisce un salario assolutamente inadeguato alle pur misere esigenze della propria famiglia.

Poiché non siamo di fronte a una crisi economica violenta ma breve come è spesso accaduto in passato, ma 55 di fronte a una decrescita di lunga durata, che gli economisti chiamano elegantemente «strutturale», questa povertà si rifletterà anche sulla prossima generazione perché, come dice Wright Mills, «non solo i figli dei ricchi ereditano la ricchezza con tutti i suoi vantaggi, ma i figli dei poveri ereditano la povertà con tutti i suoi svantaggi». Perciò dalla povertà economica discende la povertà educativa e, nel 30% dei casi, i figli dei nuovi poveri finiscono per abbandonare la scuola, castrandosi così anche dell’ultima speranza di mobilità sociale.

Due cose interessano ai ricchi per quanto riguarda i poveri «assoluti»: che siano docili e invisibili. La docile non-ribellione è assicurata dalla povertà stessa perché essa infiacchisce il corpo e offusca la mente inchiodando tutta la persona alla ricerca di risorse minime e indilazionabili, sicché al povero non resta nessuna residua energia, nessuna ulteriore intelligenza da applicare a un progetto di lungo termine. L’invisibilità è una delle due conditio sine qua non imposte al povero se vuole conservare il diritto a sopravvivere in un sistema preoccupato di assicurare ai suoi privilegiati la sicurezza urbana, la tranquillità della coscienza e la soavità dei sensi. Il povero è tenuto a diventare «uno di quelli che, anche se visti, anche se sentiti, non vengono guardati, non vengono ascoltati, e che, del resto, tacciono», come scrive Viviane Forrester nell’Orrore economico. L’insistenza di un accattone che chiede l’obolo, la spudoratezza di un barbone che osa dormire sotto un portone borghese, la puzza di un pezzente che si permette di salire su un autobus di linea, rappresentano altrettante evasioni improprie dall’invisibilità, altrettante ferite al quieto vivere della borghesia e al rispetto per la sua agiatezza.

La colpa ulteriore di questi poveri è di ricordarci, con la loro sola presenza, che essi non sono soli: come a volte ci mostra la televisione tra una pubblicità di cibi per gatti e un quiz premiato con gettoni d’oro, migliaia di altri poveri sbarcano clandestinamente sulle nostre coste e milioni si ammassano nelle regioni in guerra e nei deserti infuocati, tutti minaccianti per la nostra opulenta tranquillità di spettatori dominanti. Ciò che il benestante apprezza nei poveri, ciò che reputa legittimo pretendere da essi, ciò che, ai suoi occhi, i poveri hanno il dovere di coltivare in massimo grado, è la dignità. Il povero dignitoso – e tutti i poveri sono tenuti a esserlo – non importuna i passanti con le sue questue noiose, non si ripara dal freddo in luoghi impropri, non mette a dura prova l’olfatto dei passeggeri. Anche a costo di morire di fame, di astenersi dal dormire, di rinunziare ai mezzi pubblici. Eppure tutti questi poveri, sempre più numerosi, sempre più giovani, hanno un corpo da nutrire e da far sopravvivere giorno per giorno.

Come se non bastasse, ora alla persecuzione della sorte quotidiana si è aggiunta la persecuzione del coronavirus, crudele verso tutti, crudelissima verso i 15.000 barboni di Roma e i 50.000 d’Italia. Per ironia della sorte, le norme restrittive emanate dal governo 56 obbligano tutti i cittadini, indistintamente, a chiudersi in casa: tutti, compresi questi homeless che non hanno casa e che, proprio per mancanza di un domicilio, non hanno potuto aspirare al reddito di cittadinanza. Così questa pandemia, tra tante altre cose terribili, ci ripete ciò che Albert Camus ricordava nel suo capolavoro La peste: che «neppure la paura della morte riesce a stabilire tra gli uomini un’uguaglianza solidale».

 

*Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia Sapienza Università di Roma

IDENTITÀ EUROPEA E ISLAM: RIFLESSIONI PER UN CONFRONTO

Questo saggio di Renato Cristin,  è stato pubblicato nel Primo Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo

L’Islam e l’Europa sono un binomio anomalo: vengono spesso affiancati come se fossero due entità commisurabili, mentre rappresentano oggetti molto diversi. L’Islam è una religione e, per estensione del termine, definisce l’insieme dei paesi in cui lo si pratica come religione e lo si applica come concezione della società, del mondo, della vita. L’Islam dunque non è un’entità statale e tuttavia ha un influsso decisivo su molte strutture statali e perfino sulla totalità istituzionale di alcuni paesi.

L’Europa invece designa un’entità plurale che geograficamente è un continente, storicamente è lo sviluppo dell’antica Grecia e dell’impero romano sui quali si sono innestate poi le linee franco-germaniche, nordiche e slave; politicamente è un insieme di nazioni di democrazia liberale; culturalmente è un complesso di ambiti differenti per tradizione ed evoluzione, che però si armonizzano nell’idea, effettiva ed efficace, di un orizzonte comune che chiamiamo cultura europea; spiritualmente è uno spazio tracciato dalla religione ebraica e da quella cristiana, soprattutto da quest’ultima, che dalla prima discende, nelle sue relazioni con la sfera sociale e con le articolazioni culturali che in Europa sono state tradizionalmente una delle colonne portanti dello sviluppo storico. In quanto fenomeni di genere differente, Islam ed Europa non sono dunque comparabili direttamente, e non sono nemmeno affiancabili in base a supposte analogie, perché i loro nomi sono piuttosto l’espressione di due forze opposizionali, storicamente contrapposte non tanto per motivi territoriali o economici, quanto piuttosto per ragioni culturali, meglio ancora: spirituali.

Se la loro differenza si situa primariamente su questa faglia culturale e spirituale, affinché vi sia una relazione positiva fra essi è necessario che entrambi possano operare, in modo collaborativo, per convergere su alcuni temi che rappresentino lembi di terreno comune. Tutto ciò ovviamente senza deformare il rispettivo spirito che li anima e che li caratterizza nella loro essenza. Infatti, lo spirito dei popoli esiste, perché si forma con il loro percorso storico concreto, con il concretizzarsi e il consolidarsi delle loro tradizioni. E così possiamo parlare di uno spirito europeo, che riunisce i caratteri essenziali tipici dei vari popoli che da millenni abitano il nostro continente, in un insieme che non annulla le loro specificità singolari. A questo spirito europeo è estraneo l’Islam, poiché da quando è sorta questa religione, con il movimento politico-culturale che l’accompagna, l’identità europea si è caratterizzata anche per differenza rispetto all’Islam, per differenza radicale essenziale e non soltanto storica contingente, perché molte delle peculiarità del mondo islamico sono sempre state per lo spirito europeo un mondo incompatibile e quindi un elemento di conflitto inconciliabile o almeno di contrapposizione insormontabile. Chiarito dunque che Europa e Islam non sono due entità omogeneamente confrontabili e che le loro differenze sono profonde e radicate nella loro rispettiva identità, resta valido l’obiettivo di un dialogo che favorisca le relazioni fra esse e, in particolare, permetta agli europei e ai musulmani presenti in Europa di avere rapporti positivi che, a loro volta, facilitino l’integrazione di questi ultimi nelle realtà sociali e nazionali nelle quali sono venuti a vivere. Se entrambe le parti condividono questo scopo, allora faranno il possibile per conseguirlo.

Ma per raggiungere questo obiettivo c’è bisogno di una disponibilità che va ben al di là del semplice ascolto delle argomentazioni e delle posizioni altrui. E soprattutto va ribadito che l’integrazione, pur essendo frutto di un dialogo, deve necessariamente avere una direzione ben precisa: sono coloro che arrivano in Europa, a doversi integrare con chi in Europa e nella sua cultura vive da secoli e, ancor di più, le ha formate lungo il corso di generazioni. Solo deformazioni ideologiche – di tipo globalistico comunitarista e multiculturalista – possono teorizzare un’integrazione alla rovescia: gli europei che dovrebbero integrarsi agli immigrati. Certo, in questi ultimi anni abbiamo ascoltato anche queste follie ideologiche, esito del fanatismo immigrazionista che a sua volta è una delle più recenti bandiere del vecchio e mai estinto comunismo, ma sappiamo che di ciò appunto si tratta. Ora, nell’ottica della possibile integrazione, la struttura mentale e i cardini teorici dello spirito europeo sono predisposti a qualche cambiamento, se ritenuto fattore di crescita positiva, all’interno di una dialettica di comprensione reciproca e di reciproco avvicinamento,  ovviamente però purché vi sia una identica disponibilità da parte dell’interlocutore.

Ma da parte islamica possiamo dire altrettanto? Quanto a concessioni, le istituzioni e gli organismi sociali degli Stati europei hanno dato molto e, stando ai riflessi che si avvertono nella controparte islamica, fin troppo. Si parla molto di reciprocità fra nazioni europee e Paesi islamici, ma quando si tratta della reciprocità fra cittadini europei e musulmani che sono in Europa, allora le cose si complicano, i pretesti retorici e i cavilli giuridici proliferano e sopraffanno qualsiasi buon senso e, in ogni caso, qualsiasi senso di difesa dell’identità europea. Per il politicamente corretto, che ha fatto del multiculturalismo, del rispetto delle minoranze e dell’immigrazionismo le sue bandiere prioritarie, queste due identità non sono equivalenti: la bilancia pende sempre a favore delle rivendicazioni musulmane. La domanda ricorrente e politicamente corretta è: vorremmo forse privare le minoranze dei loro diritti intangibili e perfino di quelli molto discutibili? E poiché i musulmani che vivono in Europa sono una delle principali minoranze, essi vanno tutelati da qualsiasi violazione dei loro diritti e da ogni eccesso identitario da parte europea.

Puro autolesionismo mascherato da garantismo o, più precisamente, da dirittismo, estremizzazione patologica della teoria dei diritti umani. Un esempio di questo atteggiamento masochistico riguarda la sfera religiosa. Quando si trattò di stilare la Carta europea, ci fu un vasto movimento, anche politico, per menzionare in essa le radici ebraicocristiane. La Convenzione preposta e in generale le istituzioni europee respinsero questa richiesta con una duplice motivazione: la laicità dell’Unione Europea è prioritaria rispetto a qualsiasi istanza, e inoltre un tale richiamo alla religione ebraico-cristiana sarebbe discriminante nei confronti di altre fedi, dell’Islam in primo (e unico) luogo. Non irritare le comunità musulmane presenti in Europa e gli Stati arabi e islamici particolarmente suscettibili è una priorità della UE e della gran parte dei governi europei attuali. Ma questo atteggiamento, che in linea di principio cerca giustamente di valorizzare i punti di contatto, non tiene conto delle differenze radicali che ci separano dall’Islam. E in questo modo esso compromette anche la possibilità che i punti di contatto diano risultati positivi, perché opera con  rimozioni psicologiche che producono un doppio danno e con strumentalismi politici che guardano agli interessi elettorali della sinistra. Quando gli europei pensano: dobbiamo sbrigarci a fare questa o quest’altra operazione, perché vogliamo vederne i risultati e perché non sappiamo se in futuro le condizioni saranno propizie, i musulmani pensano: c’è tempo, non serve affrettarsi, perché è già stato predeterminato – e sta scritto nel Corano – che la spada dell’Islam conquisterà il mondo e soggiogherà gli altri popoli. E sul piano concreto del rapporto con l’Europa, questa pazienza storica è favorita da un fatto decisivo, cioè dall’andamento demografico, che sta rompendo gli antichi equilibri e che, sul lungo periodo, potrebbe sconvolgere l’assetto etnico, culturale e religioso del continente.

Questa considerazione è al centro della strategia islamica per l’Europa, ma vale anche sul piano globale, come mostra per esempio un’espressione sintomatica (e rivelatoria di questo atteggiamento di attesa) enunciata da Malek Chebel: «il futuro è dell’Islam; tra il 2020 e il 2050 l’Islam sarà la prima religione monoteista» (Le Point, 17 gennaio 2007). Non si tratta solo di una constatazione: se analizzate dal punto di vista psicologico, frasi come questa ci dicono molto anche sulle intenzioni retrostanti, su come il mondo islamico intenda agire una volta acquisita la necessaria forza numerica: sottomissione degli infedeli. Sembra destinata a realizzarsi la previsione enunciata da un alto dignitario musulmano e riferita nel 1999 dall’allora vescovo di Smirne monsignor Bernardini, nel corso della seconda assemblea speciale per l’Europa del sinodo dei vescovi: «grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; con le nostre leggi religiose vi sottometteremo». La realtà attuale mostra infatti un islamismo in piena espansione sul piano religioso e sociale, nonché pesantemente aggressivo su quello terroristico, a cui corrisponde la progressiva contrazione europea e occidentale. Nel suo intervento, monsignor Bernardini affermava: «come non vedere in tutto questo un chiaro programma di espansione e di riconquista? Sappiamo tutti che bisogna distinguere la minoranza fanatica e violenta dalla maggioranza tranquilla e onesta, ma questa, ad un ordine dato in nome di Allah o del Corano, marcerà sempre compatta e senza esitazioni.

La storia ci insegna che le minoranze decise riescono sempre ad imporsi alle maggioranze rinunciatarie e silenziose». Invece di prendere in seria considerazione queste e analoghe riflessioni, le istituzioni europee le derubricano a pessimismo storico, a ingenuità politica e, soprattutto, avversione all’Islam. Infatti, chi pensa che l’Islam guardi all’Europa con mire egemoniche o chi lo critica per il suo intrinseco totalitarismo, viene oggi tacciato, dall’apparato politico e mediatico, di islamofobia. Ma l’Islam è davvero una religione integralista, nel senso che concentra o vorrebbe concentrare nella sfera religiosa tutti gli altri ambiti della vita sociale e tutti i poteri istituzionali: il potere legislativo si deve conformare ai dettami del Corano e quindi la sua legiferazione dev’essere ripresa appunto coranicamente dal potere giudiziario (la sharia viene sancita dalla politica e amministrata o meglio somministrata dalla magistratura). Ed è quindi una logica conseguenza che esso abbia una volontà imperiale, una visione imperiale della propria azione nel mondo, che nasce dalla volontà di conquista, di imperare e imporre, piegando i popoli «infedeli» con la minaccia o con la spada, convertendoli o sottomettendoli (ed eliminando i resistenti). È indubbio quindi che questo sia l’obiettivo islamico di fondo, non dichiarato, dissimulato ma evidente, perché connaturato nel testo stesso di tale religione. Nella prospettiva islamica, si tratterà solo di determinare volta per volta le forme concrete di questa sottomissione, che potranno variare anche di molto a seconda delle reazioni degli altri popoli e delle peculiarità delle nazioni oggetto di questo processo di assoggettamento.

I tempi di questa conquista saranno lunghi, ma la pazienza secolare fa parte della concezione islamica del tempo storico e della persona: dilatazione estrema del primo e asservimento totale degli individui al disegno profetico. Unire il vantaggio demografico alla volontà di islamizzare l’Europa è, del resto, un proposito dichiarato da molti capi musulmani, anche da leader politici, come per esempio Erdogan, che in un comizio del 17 marzo 2017 ha incitato i turchi che vivono in Europa a riprodursi con maggiore intensità: «non fate tre figli, ma cinque, perché il futuro dell’Europa è vostro». E che le intenzioni di questa esortazione fossero di conquista era chiaro già da dieci anni prima, quando, non da presidente della Repubblica, ma da capo dei nazionalisti islamici, citò alcuni versi bellicosi del poeta Ziya Gökalp: «le moschee sono le nostre caserme, le cupole delle nostre moschee i nostri caschi, i minareti le nostre baionette e i credenti i nostri soldati». Nel 1997, questa citazione valse a Erdogan una condanna per istigazione all’odio religioso, perché all’epoca la Turchia era guidata dalla Costituzione laica, fatta rispettare soprattutto dai vertici militari. Oggi però quella laicità è  distrutta e i militari sono i guardiani dell’islamismo nazionale del partito di Erdogan. L’attenzione islamica per la crescita demografica in relazione agli altri popoli e in particolare in rapporto all’Europa, oggetto di brama atavica dei capi musulmani di ogni epoca, è antica ed esprime un’aspirazione generalizzata in tutto il mondo islamico. Se vogliamo vedere come si manifesta oggi questa non troppo recondita mira di conquista, dobbiamo osservare come agiscono le comunità musulmane che sono maggioranza nei quartieri delle città europee: alcuni di questi gruppi religiosi, che si connotano per un frenetico attivismo sociale, sono riusciti a imporre zone quasi extraterritoriali, enclaves controllate da regole che si richiamano alla sharia e in cui le leggi dello Stato hanno valore relativo (non possono essere del tutto ignorate, ma questo è l’obiettivo a lungo termine).

Questi quartieri islamizzati: Rosengård, Nørrebro, Molenbeek, solo per citare alcuni dei più tristemente noti, sono l’emblema della sconfitta non solo delle forze di polizia e di sicurezza, ma anche della libertà degli individui (basti pensare alle condizioni in cui sono ridotte le donne) e della laicità dello Stato; sono il simbolo di una sconfitta delle istituzioni e, più in generale, dell’intera tradizione europea. Si è tentato di spiegare questi stati di fatto con la rassicurante, ma poco realistica, idea che per favorire la formazione di un Islam europeo sia necessario che quest’ultimo si senta tranquillo e per quanto possibile autonomo. Ma la teoria dell’Islam europeo, della quale Tariq Ramadan è uno dei principali esponenti e che viene elaborata e propagandata dai cosiddetti «fratelli musulmani», un gruppo la cui essenza fondamentalista è ben nota, è una trappola concettuale e politica, una chimera a cui si ricorre per sviare l’attenzione dalla realtà, usando soprattutto la ben nota pratica della dissimulazione. Di fatto, l’Islam europeo si differenzia da quello dei Paesi islamici solo per alcuni dettagli, relativi, per esempio, all’abbigliamento e ai comportamenti nella vita sociale, ma è identico per quanto concerne tutte le dinamiche religiose o i codici di comportamento familiare o, ancora, i dettami coranici fondamentali. L’Islam europeo è uno stratagemma con il quale si spaccia per diverso ciò che invece, nella sostanza, è identico a quello che opera nel mondo arabo-islamico. L’Islam europeo potrebbe essere il cavallo di Troia che permetterà il dilagare di una religione espansionistica e suprematista.  La causa di questa inquietante realtà è duplice: da un lato l’incessante spinta islamica ad acquisire spazi di autonomia, dall’altro l’atteggiamento di rassegnazione e di rinuncia da parte delle varie istituzioni dei Paesi europei. Rinunciatarie sono infatti quelle istituzioni che, per un malinteso e male direzionato senso di difesa delle minoranze, nascondono o in qualche caso addirittura aboliscono i simboli della nostra tradizione religiosa e culturale, affinché le comunità straniere (ma si deve intendere: musulmane) non si sentano offese nella loro identità. Ciò accade soprattutto nelle scuole e negli spazi sociali, ma anche, sia pure in forma diversa e meno eclatante, nell’ambito delle strutture ecclesiastiche. Rinunciataria è la Chiesa, sia cattolica sia evangelica, quando cerca il dialogo con i rappresentanti della religione musulmana senza però porre limiti precisi e non oltrepassabili (relativi soprattutto alle proteste musulmane per la diffusione dei simboli religiosi cristiani negli ambiti sociali); limiti che sarebbero utili per la chiarezza del dialogo stesso. E di questa molteplice rinuncia è causa una mentalità che si è consolidata nel Novecento e che esalta l’altro (qualsiasi altro, purché extra-europeo, e in particolare poi alcune tipologie preferite, come gli africani e gli asiatici, soprattutto se musulmani) e, parallelamente, disprezza il sé. L’odio verso se stessi è la malattia spirituale che più si è diffusa nell’Europa del Novecento e che oggi può diventare mortale per l’Europa stessa.

La sua genesi lontana risale al XVI secolo, si è sviluppata con l’illuminismo e consolidata con il marxismo ottocentesco; la sua prima ripresa si colloca negli anni ’40 del XX secolo, in concomitanza con l’avvio del processo di decolonizzazione; poi la seconda ripresa nel ‘68, che ha visto affermarsi il rivoluzionarismo sovversivo anti-occidentale, con la diffusione delle filosofie dell’alterità e delle parallele teorie sulla violenza degli europei; e infine l’attuale ripresa che è esplosa in coincidenza con la crisi immigratoria, che viene spesso relazionata alle presunte colpe storiche dell’Occidente. Come scrive Richard Millet, «il buon selvaggio rousseauiano si è trasformato, nella seconda metà del Novecento, nel buono straniero ed è diventato, oggi, il buon immigrato […], per lo più musulmano», e ciò è avvenuto (e continua ad accadere) senza che si rifletta adeguatamente su quelli che sono problemi insolubili o quanto meno ad altissimo grado di difficoltà relativi all’integrazione di popolazioni extraeuropee molto diverse dagli europei per religione, per concezione della società e per strutture culturali generali. Non è stata presa in adeguata considerazione una delle  premesse essenziali di ogni relazione fra esseri umani socializzati, e cioè che l’integrazione può avvenire solo fra integrabili. Ci sono gruppi che non riescono a integrarsi e gruppi che non vogliono integrarsi: le condizioni sono diverse, ma il risultato è lo stesso. Nella seconda metà del Novecento, molti musulmani, per lo più di origine maghrebina, si sono perfettamente integrati nelle società europee, ma da un paio di decenni si è registrato una controtendenza: non ci si vuole integrare, perché ciò significherebbe abdicare ai princìpi religiosi e allo stile di vita islamico tradizionale, e pure perché l’integrazione viene vista come un segno di resa culturale e politica.

Il risultato è l’aumento dell’integralismo e del fanatismo, che rendono di fatto impossibile qualsiasi dialogo. Di fronte a questa realtà, della quale ho fornito qui soltanto alcuni scorci di sorvolo e alcune coordinate teoriche per interpretarla, il lavoro da fare è ciclopico, ma non irrealizzabile. L’Europa potrà avere un futuro soltanto se riaffermerà le proprie radici culturali e religiose, nel quadro del sistema socio-istituzionale del liberalismo occidentale e nella prospettiva politica del liberalconservatorismo, che è oggi l’unica opzione in grado di fronteggiare, in modo incruento ma assolutamente risoluto, le pretese degli islamici, trattandoli con pieno rispetto ma da pari a pari, senza cioè quella indulgenza che sfocia sempre nella remissività, perché la scelta preferenziale per i musulmani non solo può intaccare tali radici, cristiane ed ebraiche, ma può condurre addirittura all’autodissoluzione. A questa deriva bisognerebbe opporre un rinnovato e del tutto pacifico spirito di Lepanto, declinato sulle esigenze e sulla realtà storica del nostro presente: non uno spirito di guerra, ma di inflessibilità (che non significa intolleranza, bensì rigore, nel concetto, nel pensiero e nell’azione, e anche nel rapporto con gli altri), uno spirito che, pur dialogando con gli altri, animi la coscienza europea a difesa della nostra identità.

*Renato Cristin, docente di Ermeneutica filosofica, Università di Trieste

Global compact è la fine dei confini. Salvini dica no

Tra il braccio di ferro con l’Ue sulla manovra e le spericolate divisioni interne alla maggioranza, un fantasma sempre più palpabile aleggia sul punto di maggiore consenso del “governo del cambiamento”: il Global compact immigration. Ossia l’accordo promosso dall’Onu che promuove la necessità di una risposta mondiale al problema della migrazione. Tradotto? In realtà – come ha denunciato per prima Giorgia Meloni – è un documento «che sancisce un principio inedito e pericoloso: il diritto fondamentale per ogni essere umano a immigrare e a essere immigrato indipendentemente dalle ragioni per le quali si muove. È la vittoria delle tesi mondialiste e un altro colpo mortale a chi si oppone all’invasione».
Incredibile ad immaginarlo, pensando a un esecutivo che viene descritto a “trazione Salvini”. Eppure si tratta di una provvedimento sul quale il ministro degli Esteri, Enzo Moavero, e quindi il governo è orientato sul sì in previsione del summit che si terrà tra il 10 e l’11 dicembre a Marrakech, all’interno della conferenza intergovernativa organizzata dall’ Assemblea generale delle Nazioni Unite. Un vero e proprio non sense, viste le decisioni di Salvini & co sul tema degli sbarchi e dopo i provvedimenti inseriti nel decreto sicurezza riguardo proprio il restringimento delle misure di protezione umanitaria. E invece, se la porta principale in questione sembra ufficialmente sul punto di chiudersi, con un una misura del genere si spalancherebbero invece le finestre (a partire da quelle giuridiche) per quell’immigrazione incontrollata che l’esecutivo giallo-verde sostiene di voler bloccare: «Incredibilmente il governo italiano intende sottoscrivere questo patto e sconfessare così tutta la politica fatta finora sull’immigrazione», ha commentato non a caso la leader di FdI dopo la risposta-shock nel question time. Ed è così ma noi non possiamo accettarlo e chiediamo all’esecutivo di non sottoscrivere il patto. Come ha invitato a fare Meloni siamo pronti a dare battaglia (qui il testo della petizione) e invitiamo tutti a portare alla ribalta questa «trappola».
Ad alimentare ulteriormente i dubbi sulle intenzioni del governo, o per lo meno di quella parte in sintonia con i desiderata del Quirinale, ci ha pensato infatti lo stesso titolare della Farnesina il quale, intervenendo qualche giorno fa anche a un incontro con l’ex premier Paolo Gentiloni, ha pensato bene di uscirsene con una dichiarazione che più distonica non si poteva: «Di fronte al migrante economico – ha spiegato – non dobbiamo essere ottusamente chiusi, dobbiamo porci la domanda del perché si migra». Non più solo emergenza profughi (con tutte le dissimulazioni del caso) ma adesso – secondo il titolare della Farnesina – l’Italia dovrebbe porsi il problema dei “perché” di tutti i migranti del mondo: un passepartout bello e buono per aprire un fronte interno con la benedizione della “Dichiarazione di New York”, la formula altisonante con cui è stato ribattezzato il Global compact.
Peccato, per gli immigrazionisti, che proprio gli Stati Uniti di Donald Trump sono stati velocissimi a sconfessare tesi e “trappole” del suddetto accordo. E lo hanno fatto in grande compagnia proprio dove il tema è “sensibile”. Con chi? Con mezza Europa: Austria, Bulgaria, Polonia, Repubblica ceca, Svizzera ed Ungheria. Governi molto preparati e leader estremamente vigili sul tema con i quali proprio la Lega – come Fratelli d’Italia – è sulla stessa lunghezza d’onda. Proprio per questo il sospetto è di un tentativo di sabotaggio del cambio di paradigma sul dossier che più di tutti viene considerato strutturale dai sostenitori del globalismo, della decostruzione della sovranità. Ecco perché un “no” deciso al Global Compact da parte del ministro dell’Interno e quindi del governo è un atto politico irrinunciabile.

*Marco Marconi, collaboratore Charta minuta

Caso Osakue. La "frittata" della sinistra finita per stendere se stessa

Ad oggi la notizia, quella buona, è che Daisy Osakue, la discobola colpita all’occhio da un uovo, potrà rappresentare l’Italia ai prossimi campionati Europei di atletica leggera di Berlino. L’altra notizia, o per essere più precisi non una notizia ma una ricorrente consuetudine, è l’ennesimo cortocircuito della sinistra. Ricordiamo bene che Renzi, prima di accomodarsi sullo scranno del Senato (quel Senato che lui stesso avrebbe voluto abolire con il referendum costituzionale), promise, all’esecutivo appena insediatosi, una durissima opposizione. Senza troppi dubbi possiamo affermare che la suddetta opposizione si è rivelata piuttosto inconsistente. Ma definirla inconsistente è inesatto, più corretto sarebbe classificarla addirittura autolesionista. Metaforicamente parlando, un pugile che sul ring, invece di colpire l’avversario, colpisce se stesso.

Ne è la prova il caso di questi giorni che ha visto al centro al giovane campionessa olimpica di origine nigeriana colpita a un occhio, nella notte di domenica 29 luglio, da un uovo lanciato da una macchina con a bordo tre ragazzi. Il fatto ha provocato reazioni di sdegno da parte dell’opposizione Dem che ha pensato bene di puntare, tempestivamente, il dito in direzione dell’esecutivo 5 stelle-Lega e in particolare di Matteo Salvini, accusandolo di alimentare il clima di razzismo, di odio e di intolleranza ormai – secondo la narrazione della rive gauche – pericolosamente dilagante in Italia. Insieme alle forze di sinistra anche buona parte della stampa ha scagliato la sua pietra non solo contro il peccatore satanasso Salvini, ma anche contro gli italiani, rei di essersi fatti trascinare dal leader leghista nella spirale di intolleranza xenofoba.

Quando sembrava che tutte le critiche avessero colpito nel segno, ecco venire a galla la verità. Secondo le indagini delle forze dell’ordine, infatti, il lancio dell’uovo che ha ferito la povera Daisy non è stato determinato da motivi di odio razziale; in realtà si è trattato di una bravata, realizzata da tre ragazzacci un po’ discoli che, complice la noia delle serate estive, hanno pensato di andare in giro a imbrattare gli ignari passanti con albume e tuorlo. Nel mirino quindi non c’era la giovane campionessa in quanto ragazza dalla pelle nera, per di più iscritta al PD, come avrebbe voluto far credere la cronaca di sinistra.

Oltretutto, e questo davvero è il colmo, dalle indagini è emerso che il veicolo, tramite il quale è avvenuto il raid dell’uovo, sia di proprietà di un esponente del PD e uno dei tre diciannovenni a bordo sia figlio di quest’ultimo. A questo punto ci si potrebbe domandare se la giovane discobola, una volta terminate le cure mediche, abbia anche intenzione di ritirare la querela nei confronti del diciannovenne per solidarietà di partito; restando in tema di tuorlo e albume, invece, è innegabile che i dem abbiano fatto una bella frittata. La realtà, insomma, è un’altra e il tanto osteggiato dalla sinistra quanto fantomatico razzismo non alberga nel costume profondo degli italiani. Ecco quindi che, nonostante il boomerang sia tornato indietro, nessun mea culpa è stato pronunciato dai democratici che, continuando ad ignorare le vicissitudini degli italiani, preferiscono accusarli di ogni scelleratezza, facendoli sentire in colpa per le loro recenti scelte elettorali.

Non è un caso che al centro degli attacchi di PD e LEU, in queste ore, è finito anche il Lorenzo Fontana. Il ministro, reo di voler abrogare la legge Mancino, ha dichiarato: «Se esiste quindi un razzismo, oggi è in primis quello utilizzato dal circuito mainstream contro gli italiani. La ragione? Un popolo, che non la pensa tutto alla stessa maniera e che è consapevole e cosciente della propria identità e della propria storia, fa paura ai globalisti, perché non è strumentalizzabile». La proposta del ministro della famiglia è pienamente condivisa da Giorgia Meloni che sostiene la contrarietà di FdI nei confronti dei reati di opinione: «Riteniamo la libertà di espressione sacra e inviolabile».

La sinistra tuttavia non la pensa così e preferisce procedere con i soliti slogan posticci, somigliando sempre di più a un pugile suonato che però se l’è date da solo.

*Alessandro Boccia, collaboratore Charta minuta

Vade retro Salvini? Il "peccato" (di convenienza) di Famiglia Cristiana

Se la tentazione era di dividere il palco della politica italiana tra buoni e cattivi, Famiglia cristiana c’è caduta in pieno. Ecco la prossima copertina: “Vade Retro Salvini”. Addirittura. Il settimanale del gruppo San Paolo scende in campo e raccoglie l’invito arcobaleno di Rolling Stone, “Da adesso chi tace e complice!”. Ma di che, di che cosa? Del fiume di livore, odio e banalità che sta ammorbando il Paese? Salvini uguale a Satana. Peggio di così, a questo punto, non resta che appendere il cartello wanted nelle edicole e nelle parrocchie e tirare a vista. Una chiesa così forse piace ad Antonio Padellaro che invoca «metodi bruschi» per far fuori il ministro dell’Interno dalla scena pubblica. Perché la critica (legittima) ha ormai varcato il Rubicone del buon senso assumendo toni apocalittici e febbrili. Intanto le chiese si svuotano e una parte del mondo cattolico vota per la Lega e per quei partiti che sulla questione migranti hanno almeno una visione pragmatica, aderente al reale.
Per carità, la crisi della Chiesa ha ragioni più vaste, più profonde, da studiare seriamente. Appunto per questo le sirene del politicamente corretto di scuola clintoniana andrebbero rifiutate di netto, dai vescovi e dagli intellettuali di una certa gauche ormai increspata. Invece no, paraocchi e non solo. Altrimenti la riflessione di un Orban che da iscritto al “pericolosissimo” Partito popolare europeo dice che è contro le migrazioni perché in difesa dell’identità cristiana ungherese andrebbero vagliate con maggior beneficio d’inventario. Siccome però anche lui rientra tra i satanassi del ventunesimo secolo, meglio non ascoltarlo. Peccato che il consenso sulla sua persona sia un fatto vero e misurabile a suon di voti e Pil. Metri di misura forse inefficaci, ma almeno da valutare.
Vade retro Salvini. Mai però dire vade retro barconi scricchiolanti. Vade retro scafisti. Vade retro trafficanti di uomini. Vade retro a tutti coloro che con la loro ipocrisia fanno sì che delle zattere siano messe in mare per poi affondare. Oppure, se proprio si vuole parlare del depauperamento dell’Africa, come ha fatto di recente il vescovo di Palermo Corrado Lorefice, sarebbe più opportuno stigmatizzare la violenza armata dell’intervento francese in Libia. Da lì partono molti degli attuali problemi del Mediterraneo. Quelli che l’Italia ha dovuto gestire in solitario.
Ammettere però che il no italiano all’attracco dell’Aquarius ha costretto le principali cancellerie europee a rivedere le proprie posizioni in tema d’immigrazione, significherebbe ammettere che forse il capo del Viminale non è poi così scellerato. Urlare “Vade retro Salvini” è molto facile, e porta molti meno problemi di relazione con certi poteri rispetto ai quali le Chiese giocano ormai di rimessa. Meglio le copertine dedicate a Matteo Renzi e Laura Boldrini. Soprattutto se c’è la convinzione che la crisi migranti, la crisi delle morti in mare, possano essere risolte con appelli al veleno. Quello è il fumo di Satana. A loro piace così.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

Pensioni & immigrazione. Se Tito Boeri "dà i numeri" (e non le soluzioni)

Se i conti non tornano neanche a Tito Boeri, non resta che tornare al pallottoliere e ai conteggi carta, penna e saliva. Il presidente Inps è tornato a parlare di pensioni e immigrati disegnando un quadro tanto apocalittico davanti al quale è difficile non storcere il naso e non invocare il time-out. L’aveva già detto nelle scorse settimane ma ora è tutto nero su bianco nella relazione annuale alle Camere. «Senza nuovi ingressi, niente previdenza per i nostri anziani», suonano più o meno così le parole di Boeri. Ufficialità e numeri non rendono però la questione meno opinabile, anzi. Appunto perché mai come ora i numeri «fanno politica» e servono da foglia di fico a una classe dirigente che non ha saputo leggere con attenzione il tempo presente.
Perché è difficile credere che in un Paese che fa fatica a trovare un’occupazione sempre meno precaria ai propri figli – con le aziende che chiudono o delocalizzano – la risposta a una crisi di sistema siano i barconi, le Ong battenti bandiere straniere o i porti aperti. Suvvia, posta così la questione è facile scivolare nel grottesco, nel ridicolo. Chi sussurra analisi di tal portata è chiaro che non ha mai visto una nave carica di migranti attraccare al porto. Oppure, che non si è mai avvicinato a un Cara e non ha percepito il dramma patito da una massa umana in cammino. La risposta ai problemi del Paese non è nelle analisi di Boeri. No, non può: è una questione morale, prima ancora che politica.
L’emergenza migranti è seria. Sarebbe altrettanto serio ammettere quanto sia impossibile ricollocare i “nuovi italiani” nel tessuto sociale e lavorativo entro un lasso di tempo dignitoso. Quanti migranti di seconda e terza generazione hanno qui vissuto la povertà più bieca appunto perché gli è stata raccontata una favola condita da una prosperità a copertura parziale prima di partire? Dovremmo chiedere scusa loro e inchinarci davanti alle storie di chi è riuscito a garantire futuro e italianità ai propri figli percorrendo la via della legalità.
I migranti fanno i lavori che gli italiani non vogliono fare più? Mamma mia! Una banalità. Una fake, per non dire altro. Sarebbe più onesto dire che spesso i migranti sono costretti a essere impiegati in quei settori a rischio dove non c’è uno straccio di diritto e garanzia. Dove sta il contributo pensionistico nelle venti euro giornalieri in nero per raccogliere i pomodori nei campi siciliani o pugliesi? Dov’è nell’elemosina chiesta ai semafori? O nei traffici gestiti dalle organizzazioni criminali che devono assoldare manovalanza straniera? Sarebbe ora che si mettessero in riserva gli slogan da giornaletto studentesco e si parlasse con serietà di un problema che in ordine di tempo anticipa la pensione, il lavoro.
È tutta lì la questione. L’uscita di Giorgia Meloni mette ordine alla faccenda: «Il presidente dell’Inps debba sapere che il problema dell’Italia, per cui non vengono pagate le pensioni, è che non c’è abbastanza occupazione, che l’Italia è quasi dieci punti sotto la media delle altre nazioni europee. Quindi basta favorire nuova occupazione per i cittadini italiani per avere più persone che producono e che quindi mettono da parte i soldi per pagare le pensioni». Lavoro, speranza. E speranza di un lavoro certo. Non può non essere quella la ricetta per invertire la crisi demografica che attanaglia l’Italia da anni. Chiaro che non è facile. Intanto però la fuga dei cervelli italiani all’estero continua. E i numeri li dà proprio Boeri. Ma non le soluzioni.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta

"Prima gli italiani"? Un dovere dello Stato. Parola di immigrato

L’Italia finalmente si fa sentire, in Europa e nel Mondo. La vicenda dell’Aquarius ha mostrato, dopo tanti anni di stallo e “zerbinismo”, come si fa politica estera, come si difendono gli interessi nazionali. Per la prima volta si assiste, da parte dei paesi europei, a passi indietro, giustificazioni confuse e ritrattazioni e, addirittura, autocritiche per non essere stati al fianco dell’Italia.nQuesta fermezza politica è il primo passo, L’Aquarius il fatto scatenante, ma la vera forza del nuovo governo e del parlamento si vedrà a breve, quando si andranno ad affrontare i problemi migratori sotto il profilo giuridico, organizzativo, interno.
Sono stato un immigrato anch’io, forse privilegiato ma pur sempre classificabile come tale. Immigrare significa lasciare la propria terra, le origini, gli affetti, per trasferirsi in un altro Paese. I motivi sono quasi sempre economici e raramente politici. Anche perché in quest’ultimo caso il desiderio non è quello di stabilirsi bensì di fuggire da un pericolo, dalla violazione di diritti, da repressioni, per poi un giorno ritornare a casa. Ed è il mio passato da immigrato, e non la mia cittadinanza italiana, che mi consentono di affrontare l’argomento sentendomi immune da contestazioni e polemiche.
Anni fa avevo raccontato in un romanzo il fenomeno dell’immigrazione clandestina in Italia e, per via delle posizioni prese in una successiva intervista, fui definito “leghista bulgaro” dalle pagine di un noto quotidiano nazionale. Oggi, stante i risultati delle elezioni e le prime azioni messe in atto sull’immigrazione, tale definizione non sembra più un’offesa (forse non lo era anche allora), bensì un complimento verso tutti gli italiani che hanno votato il centrodestra. Perché il vero pericolo per l’Italia è il falso buonismo che ha caratterizzato la politica del passato.
Quando, quasi trent’anni fa, la caduta del Muro di Berlino originava il primo flusso migratorio verso l’Occidente, quello dei cittadini dell’Est Europa, si partiva senza attendere alcuna accoglienza, alcuna solidarietà né tolleranza dal paese ospitante. Si sapeva che, andando in Germania, Austria, Francia, Inghilterra, Italia, Belgio e Spagna, con visti turistici per poi restare lì si violavano le leggi. C’era la piena consapevolezza di essere considerati intrusi, di non essere visti con buon occhio, e si accettava il rischio, senza alcuna pretesa di comprensione e aiuto.
Non esistevano le Onlus e le Ong che aiutavano, nessuno offriva alloggi e diarie, schede telefoniche e quant’altro. A nessun immigrato passava per la mente di avanzare pretese o rivendicare diritti che non aveva.
Ed eravamo europei, cugini, con la stessa cultura, stessa religione e tradizioni, divisi solo da 45 anni di storia sbagliata. Oggi, quindi, da ex immigrato inorridisco nel vedere quello che succede nell’Occidente tollerante e politically correct ad ogni costo, a partire dalle strumentalizzazioni del problema dei clandestini fino alla sua presentazione mediatica quasi come fenomeno irrisolvibile e persino utile (con le cosiddette “risorse”).
Tante firme illustri, da decenni, hanno messo in guardia l’opinione pubblica sui problemi e sui pericoli di questa “invasione”, perché di questo si tratta, da Magdi Allam ad Oriana Fallaci, ma i governi sono rimasti sempre sordi ai loro appelli. Oggi, finalmente, qualcosa potrebbe cambiare. La soluzione esiste e a mio parere è tanto semplice quanto efficace. Quale? Nazionalizzare la gestione dell’accoglienza e dell’intero fenomeno migratorio, estromettendo così gli attuali soggetti coinvolti a favore dello Stato.
Si è capito, ormai, e i fatti lo dimostrano, che alcuni settori sensibili non possono essere delegati. Come non possiamo cedere in outsourcing la polizia di stato o la giustizia, così non si possono affidare a soggetti non statali i servizi relativi all’accoglienza, alla gestione e al controllo di persone che di fatto hanno violato le leggi introducendosi clandestinamente in un paese, eludendo le regole doganali, privi di documenti e perciò con identità difficilmente accertabile e che di fatto non possono circolare liberamente nel Paese.
Presentando in tempi brevi in parlamento una nuova legge correttiva della precedente e più adeguata alle mutate esigenze, si potranno estromettere le Cooperative e le Ong – facendo cessare il lucrare di queste a spese dello Stato e dei cittadini – dalla gestione di un problema così epocale che richiede un intervento diretto e una responsabilità nell’allocazione delle risorse pubbliche ad esso destinate che può competere solo allo Stato. Anche perché parliamo di 5 miliardi di soldi pubblici.
Ecco perché quando si dice Prima gli italiani o Prima l’Italia, questa non è un offesa o razzismo, perché non si escludono gli altri, ma si sancisce semplicemente una giustizia sociale, di rispetto e riconoscenza di uno Stato verso i propri cittadini, verso il lavoro e il sacrificio del proprio popolo che ha combattuto per costruire un paese che il mondo intero invidia. Ed è per questo che ogni cittadino italiano deve avere la prelazione sui diritti e sull’attenzione dello Stato rispetto a chi non ha partecipato a questo lungo percorso storico.
Parola di immigrato.

*Kiril Maritchkov, avvocato internazionalista

 

 

Lezioni identitarie dall’America di Trump – the State of the Union address

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha tenuto nei giorni scorsi il suo primo State of the Union address di fronte al Congresso e alle istituzioni. Lo commentiamo per voi lettori con in mente l’orizzonte delle destre patriottiche nel mondo, che nella destra di governo americana, sotto la leadership di Trump, ritrovano oggi un formidabile esempio, mancato per i molti anni di opposizione ad Obama.
Read more

L’Italia nel vuoto, il vuoto d’Italia. L’azione internazionale nella stagione del ritorno degli interessi nazionali: geopolitica, economia, sicurezza

L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Center for Near Abroad Strategic Studies

Sono intervenuti: Paolo Quercia (direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies), Adolfo Urso (presidente della Fondazione Farefuturo), Alberto Negri (giornalista de Il Sole 24 Ore), Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Guido Crosetto (presidente dell’AIAD), Carlo Jean (professore), Gabriele Checchia (ambasciatore), Raffaele De Lutio (ministro plenipotenziario).