Questo saggio di Renato Cristin, è stato pubblicato nel Primo Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo
L’Islam e l’Europa sono un binomio anomalo: vengono spesso affiancati come se fossero due entità commisurabili, mentre rappresentano oggetti molto diversi. L’Islam è una religione e, per estensione del termine, definisce l’insieme dei paesi in cui lo si pratica come religione e lo si applica come concezione della società, del mondo, della vita. L’Islam dunque non è un’entità statale e tuttavia ha un influsso decisivo su molte strutture statali e perfino sulla totalità istituzionale di alcuni paesi.
L’Europa invece designa un’entità plurale che geograficamente è un continente, storicamente è lo sviluppo dell’antica Grecia e dell’impero romano sui quali si sono innestate poi le linee franco-germaniche, nordiche e slave; politicamente è un insieme di nazioni di democrazia liberale; culturalmente è un complesso di ambiti differenti per tradizione ed evoluzione, che però si armonizzano nell’idea, effettiva ed efficace, di un orizzonte comune che chiamiamo cultura europea; spiritualmente è uno spazio tracciato dalla religione ebraica e da quella cristiana, soprattutto da quest’ultima, che dalla prima discende, nelle sue relazioni con la sfera sociale e con le articolazioni culturali che in Europa sono state tradizionalmente una delle colonne portanti dello sviluppo storico. In quanto fenomeni di genere differente, Islam ed Europa non sono dunque comparabili direttamente, e non sono nemmeno affiancabili in base a supposte analogie, perché i loro nomi sono piuttosto l’espressione di due forze opposizionali, storicamente contrapposte non tanto per motivi territoriali o economici, quanto piuttosto per ragioni culturali, meglio ancora: spirituali.
Se la loro differenza si situa primariamente su questa faglia culturale e spirituale, affinché vi sia una relazione positiva fra essi è necessario che entrambi possano operare, in modo collaborativo, per convergere su alcuni temi che rappresentino lembi di terreno comune. Tutto ciò ovviamente senza deformare il rispettivo spirito che li anima e che li caratterizza nella loro essenza. Infatti, lo spirito dei popoli esiste, perché si forma con il loro percorso storico concreto, con il concretizzarsi e il consolidarsi delle loro tradizioni. E così possiamo parlare di uno spirito europeo, che riunisce i caratteri essenziali tipici dei vari popoli che da millenni abitano il nostro continente, in un insieme che non annulla le loro specificità singolari. A questo spirito europeo è estraneo l’Islam, poiché da quando è sorta questa religione, con il movimento politico-culturale che l’accompagna, l’identità europea si è caratterizzata anche per differenza rispetto all’Islam, per differenza radicale essenziale e non soltanto storica contingente, perché molte delle peculiarità del mondo islamico sono sempre state per lo spirito europeo un mondo incompatibile e quindi un elemento di conflitto inconciliabile o almeno di contrapposizione insormontabile. Chiarito dunque che Europa e Islam non sono due entità omogeneamente confrontabili e che le loro differenze sono profonde e radicate nella loro rispettiva identità, resta valido l’obiettivo di un dialogo che favorisca le relazioni fra esse e, in particolare, permetta agli europei e ai musulmani presenti in Europa di avere rapporti positivi che, a loro volta, facilitino l’integrazione di questi ultimi nelle realtà sociali e nazionali nelle quali sono venuti a vivere. Se entrambe le parti condividono questo scopo, allora faranno il possibile per conseguirlo.
Ma per raggiungere questo obiettivo c’è bisogno di una disponibilità che va ben al di là del semplice ascolto delle argomentazioni e delle posizioni altrui. E soprattutto va ribadito che l’integrazione, pur essendo frutto di un dialogo, deve necessariamente avere una direzione ben precisa: sono coloro che arrivano in Europa, a doversi integrare con chi in Europa e nella sua cultura vive da secoli e, ancor di più, le ha formate lungo il corso di generazioni. Solo deformazioni ideologiche – di tipo globalistico comunitarista e multiculturalista – possono teorizzare un’integrazione alla rovescia: gli europei che dovrebbero integrarsi agli immigrati. Certo, in questi ultimi anni abbiamo ascoltato anche queste follie ideologiche, esito del fanatismo immigrazionista che a sua volta è una delle più recenti bandiere del vecchio e mai estinto comunismo, ma sappiamo che di ciò appunto si tratta. Ora, nell’ottica della possibile integrazione, la struttura mentale e i cardini teorici dello spirito europeo sono predisposti a qualche cambiamento, se ritenuto fattore di crescita positiva, all’interno di una dialettica di comprensione reciproca e di reciproco avvicinamento, ovviamente però purché vi sia una identica disponibilità da parte dell’interlocutore.
Ma da parte islamica possiamo dire altrettanto? Quanto a concessioni, le istituzioni e gli organismi sociali degli Stati europei hanno dato molto e, stando ai riflessi che si avvertono nella controparte islamica, fin troppo. Si parla molto di reciprocità fra nazioni europee e Paesi islamici, ma quando si tratta della reciprocità fra cittadini europei e musulmani che sono in Europa, allora le cose si complicano, i pretesti retorici e i cavilli giuridici proliferano e sopraffanno qualsiasi buon senso e, in ogni caso, qualsiasi senso di difesa dell’identità europea. Per il politicamente corretto, che ha fatto del multiculturalismo, del rispetto delle minoranze e dell’immigrazionismo le sue bandiere prioritarie, queste due identità non sono equivalenti: la bilancia pende sempre a favore delle rivendicazioni musulmane. La domanda ricorrente e politicamente corretta è: vorremmo forse privare le minoranze dei loro diritti intangibili e perfino di quelli molto discutibili? E poiché i musulmani che vivono in Europa sono una delle principali minoranze, essi vanno tutelati da qualsiasi violazione dei loro diritti e da ogni eccesso identitario da parte europea.
Puro autolesionismo mascherato da garantismo o, più precisamente, da dirittismo, estremizzazione patologica della teoria dei diritti umani. Un esempio di questo atteggiamento masochistico riguarda la sfera religiosa. Quando si trattò di stilare la Carta europea, ci fu un vasto movimento, anche politico, per menzionare in essa le radici ebraicocristiane. La Convenzione preposta e in generale le istituzioni europee respinsero questa richiesta con una duplice motivazione: la laicità dell’Unione Europea è prioritaria rispetto a qualsiasi istanza, e inoltre un tale richiamo alla religione ebraico-cristiana sarebbe discriminante nei confronti di altre fedi, dell’Islam in primo (e unico) luogo. Non irritare le comunità musulmane presenti in Europa e gli Stati arabi e islamici particolarmente suscettibili è una priorità della UE e della gran parte dei governi europei attuali. Ma questo atteggiamento, che in linea di principio cerca giustamente di valorizzare i punti di contatto, non tiene conto delle differenze radicali che ci separano dall’Islam. E in questo modo esso compromette anche la possibilità che i punti di contatto diano risultati positivi, perché opera con rimozioni psicologiche che producono un doppio danno e con strumentalismi politici che guardano agli interessi elettorali della sinistra. Quando gli europei pensano: dobbiamo sbrigarci a fare questa o quest’altra operazione, perché vogliamo vederne i risultati e perché non sappiamo se in futuro le condizioni saranno propizie, i musulmani pensano: c’è tempo, non serve affrettarsi, perché è già stato predeterminato – e sta scritto nel Corano – che la spada dell’Islam conquisterà il mondo e soggiogherà gli altri popoli. E sul piano concreto del rapporto con l’Europa, questa pazienza storica è favorita da un fatto decisivo, cioè dall’andamento demografico, che sta rompendo gli antichi equilibri e che, sul lungo periodo, potrebbe sconvolgere l’assetto etnico, culturale e religioso del continente.
Questa considerazione è al centro della strategia islamica per l’Europa, ma vale anche sul piano globale, come mostra per esempio un’espressione sintomatica (e rivelatoria di questo atteggiamento di attesa) enunciata da Malek Chebel: «il futuro è dell’Islam; tra il 2020 e il 2050 l’Islam sarà la prima religione monoteista» (Le Point, 17 gennaio 2007). Non si tratta solo di una constatazione: se analizzate dal punto di vista psicologico, frasi come questa ci dicono molto anche sulle intenzioni retrostanti, su come il mondo islamico intenda agire una volta acquisita la necessaria forza numerica: sottomissione degli infedeli. Sembra destinata a realizzarsi la previsione enunciata da un alto dignitario musulmano e riferita nel 1999 dall’allora vescovo di Smirne monsignor Bernardini, nel corso della seconda assemblea speciale per l’Europa del sinodo dei vescovi: «grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; con le nostre leggi religiose vi sottometteremo». La realtà attuale mostra infatti un islamismo in piena espansione sul piano religioso e sociale, nonché pesantemente aggressivo su quello terroristico, a cui corrisponde la progressiva contrazione europea e occidentale. Nel suo intervento, monsignor Bernardini affermava: «come non vedere in tutto questo un chiaro programma di espansione e di riconquista? Sappiamo tutti che bisogna distinguere la minoranza fanatica e violenta dalla maggioranza tranquilla e onesta, ma questa, ad un ordine dato in nome di Allah o del Corano, marcerà sempre compatta e senza esitazioni.
La storia ci insegna che le minoranze decise riescono sempre ad imporsi alle maggioranze rinunciatarie e silenziose». Invece di prendere in seria considerazione queste e analoghe riflessioni, le istituzioni europee le derubricano a pessimismo storico, a ingenuità politica e, soprattutto, avversione all’Islam. Infatti, chi pensa che l’Islam guardi all’Europa con mire egemoniche o chi lo critica per il suo intrinseco totalitarismo, viene oggi tacciato, dall’apparato politico e mediatico, di islamofobia. Ma l’Islam è davvero una religione integralista, nel senso che concentra o vorrebbe concentrare nella sfera religiosa tutti gli altri ambiti della vita sociale e tutti i poteri istituzionali: il potere legislativo si deve conformare ai dettami del Corano e quindi la sua legiferazione dev’essere ripresa appunto coranicamente dal potere giudiziario (la sharia viene sancita dalla politica e amministrata o meglio somministrata dalla magistratura). Ed è quindi una logica conseguenza che esso abbia una volontà imperiale, una visione imperiale della propria azione nel mondo, che nasce dalla volontà di conquista, di imperare e imporre, piegando i popoli «infedeli» con la minaccia o con la spada, convertendoli o sottomettendoli (ed eliminando i resistenti). È indubbio quindi che questo sia l’obiettivo islamico di fondo, non dichiarato, dissimulato ma evidente, perché connaturato nel testo stesso di tale religione. Nella prospettiva islamica, si tratterà solo di determinare volta per volta le forme concrete di questa sottomissione, che potranno variare anche di molto a seconda delle reazioni degli altri popoli e delle peculiarità delle nazioni oggetto di questo processo di assoggettamento.
I tempi di questa conquista saranno lunghi, ma la pazienza secolare fa parte della concezione islamica del tempo storico e della persona: dilatazione estrema del primo e asservimento totale degli individui al disegno profetico. Unire il vantaggio demografico alla volontà di islamizzare l’Europa è, del resto, un proposito dichiarato da molti capi musulmani, anche da leader politici, come per esempio Erdogan, che in un comizio del 17 marzo 2017 ha incitato i turchi che vivono in Europa a riprodursi con maggiore intensità: «non fate tre figli, ma cinque, perché il futuro dell’Europa è vostro». E che le intenzioni di questa esortazione fossero di conquista era chiaro già da dieci anni prima, quando, non da presidente della Repubblica, ma da capo dei nazionalisti islamici, citò alcuni versi bellicosi del poeta Ziya Gökalp: «le moschee sono le nostre caserme, le cupole delle nostre moschee i nostri caschi, i minareti le nostre baionette e i credenti i nostri soldati». Nel 1997, questa citazione valse a Erdogan una condanna per istigazione all’odio religioso, perché all’epoca la Turchia era guidata dalla Costituzione laica, fatta rispettare soprattutto dai vertici militari. Oggi però quella laicità è distrutta e i militari sono i guardiani dell’islamismo nazionale del partito di Erdogan. L’attenzione islamica per la crescita demografica in relazione agli altri popoli e in particolare in rapporto all’Europa, oggetto di brama atavica dei capi musulmani di ogni epoca, è antica ed esprime un’aspirazione generalizzata in tutto il mondo islamico. Se vogliamo vedere come si manifesta oggi questa non troppo recondita mira di conquista, dobbiamo osservare come agiscono le comunità musulmane che sono maggioranza nei quartieri delle città europee: alcuni di questi gruppi religiosi, che si connotano per un frenetico attivismo sociale, sono riusciti a imporre zone quasi extraterritoriali, enclaves controllate da regole che si richiamano alla sharia e in cui le leggi dello Stato hanno valore relativo (non possono essere del tutto ignorate, ma questo è l’obiettivo a lungo termine).
Questi quartieri islamizzati: Rosengård, Nørrebro, Molenbeek, solo per citare alcuni dei più tristemente noti, sono l’emblema della sconfitta non solo delle forze di polizia e di sicurezza, ma anche della libertà degli individui (basti pensare alle condizioni in cui sono ridotte le donne) e della laicità dello Stato; sono il simbolo di una sconfitta delle istituzioni e, più in generale, dell’intera tradizione europea. Si è tentato di spiegare questi stati di fatto con la rassicurante, ma poco realistica, idea che per favorire la formazione di un Islam europeo sia necessario che quest’ultimo si senta tranquillo e per quanto possibile autonomo. Ma la teoria dell’Islam europeo, della quale Tariq Ramadan è uno dei principali esponenti e che viene elaborata e propagandata dai cosiddetti «fratelli musulmani», un gruppo la cui essenza fondamentalista è ben nota, è una trappola concettuale e politica, una chimera a cui si ricorre per sviare l’attenzione dalla realtà, usando soprattutto la ben nota pratica della dissimulazione. Di fatto, l’Islam europeo si differenzia da quello dei Paesi islamici solo per alcuni dettagli, relativi, per esempio, all’abbigliamento e ai comportamenti nella vita sociale, ma è identico per quanto concerne tutte le dinamiche religiose o i codici di comportamento familiare o, ancora, i dettami coranici fondamentali. L’Islam europeo è uno stratagemma con il quale si spaccia per diverso ciò che invece, nella sostanza, è identico a quello che opera nel mondo arabo-islamico. L’Islam europeo potrebbe essere il cavallo di Troia che permetterà il dilagare di una religione espansionistica e suprematista. La causa di questa inquietante realtà è duplice: da un lato l’incessante spinta islamica ad acquisire spazi di autonomia, dall’altro l’atteggiamento di rassegnazione e di rinuncia da parte delle varie istituzioni dei Paesi europei. Rinunciatarie sono infatti quelle istituzioni che, per un malinteso e male direzionato senso di difesa delle minoranze, nascondono o in qualche caso addirittura aboliscono i simboli della nostra tradizione religiosa e culturale, affinché le comunità straniere (ma si deve intendere: musulmane) non si sentano offese nella loro identità. Ciò accade soprattutto nelle scuole e negli spazi sociali, ma anche, sia pure in forma diversa e meno eclatante, nell’ambito delle strutture ecclesiastiche. Rinunciataria è la Chiesa, sia cattolica sia evangelica, quando cerca il dialogo con i rappresentanti della religione musulmana senza però porre limiti precisi e non oltrepassabili (relativi soprattutto alle proteste musulmane per la diffusione dei simboli religiosi cristiani negli ambiti sociali); limiti che sarebbero utili per la chiarezza del dialogo stesso. E di questa molteplice rinuncia è causa una mentalità che si è consolidata nel Novecento e che esalta l’altro (qualsiasi altro, purché extra-europeo, e in particolare poi alcune tipologie preferite, come gli africani e gli asiatici, soprattutto se musulmani) e, parallelamente, disprezza il sé. L’odio verso se stessi è la malattia spirituale che più si è diffusa nell’Europa del Novecento e che oggi può diventare mortale per l’Europa stessa.
La sua genesi lontana risale al XVI secolo, si è sviluppata con l’illuminismo e consolidata con il marxismo ottocentesco; la sua prima ripresa si colloca negli anni ’40 del XX secolo, in concomitanza con l’avvio del processo di decolonizzazione; poi la seconda ripresa nel ‘68, che ha visto affermarsi il rivoluzionarismo sovversivo anti-occidentale, con la diffusione delle filosofie dell’alterità e delle parallele teorie sulla violenza degli europei; e infine l’attuale ripresa che è esplosa in coincidenza con la crisi immigratoria, che viene spesso relazionata alle presunte colpe storiche dell’Occidente. Come scrive Richard Millet, «il buon selvaggio rousseauiano si è trasformato, nella seconda metà del Novecento, nel buono straniero ed è diventato, oggi, il buon immigrato […], per lo più musulmano», e ciò è avvenuto (e continua ad accadere) senza che si rifletta adeguatamente su quelli che sono problemi insolubili o quanto meno ad altissimo grado di difficoltà relativi all’integrazione di popolazioni extraeuropee molto diverse dagli europei per religione, per concezione della società e per strutture culturali generali. Non è stata presa in adeguata considerazione una delle premesse essenziali di ogni relazione fra esseri umani socializzati, e cioè che l’integrazione può avvenire solo fra integrabili. Ci sono gruppi che non riescono a integrarsi e gruppi che non vogliono integrarsi: le condizioni sono diverse, ma il risultato è lo stesso. Nella seconda metà del Novecento, molti musulmani, per lo più di origine maghrebina, si sono perfettamente integrati nelle società europee, ma da un paio di decenni si è registrato una controtendenza: non ci si vuole integrare, perché ciò significherebbe abdicare ai princìpi religiosi e allo stile di vita islamico tradizionale, e pure perché l’integrazione viene vista come un segno di resa culturale e politica.
Il risultato è l’aumento dell’integralismo e del fanatismo, che rendono di fatto impossibile qualsiasi dialogo. Di fronte a questa realtà, della quale ho fornito qui soltanto alcuni scorci di sorvolo e alcune coordinate teoriche per interpretarla, il lavoro da fare è ciclopico, ma non irrealizzabile. L’Europa potrà avere un futuro soltanto se riaffermerà le proprie radici culturali e religiose, nel quadro del sistema socio-istituzionale del liberalismo occidentale e nella prospettiva politica del liberalconservatorismo, che è oggi l’unica opzione in grado di fronteggiare, in modo incruento ma assolutamente risoluto, le pretese degli islamici, trattandoli con pieno rispetto ma da pari a pari, senza cioè quella indulgenza che sfocia sempre nella remissività, perché la scelta preferenziale per i musulmani non solo può intaccare tali radici, cristiane ed ebraiche, ma può condurre addirittura all’autodissoluzione. A questa deriva bisognerebbe opporre un rinnovato e del tutto pacifico spirito di Lepanto, declinato sulle esigenze e sulla realtà storica del nostro presente: non uno spirito di guerra, ma di inflessibilità (che non significa intolleranza, bensì rigore, nel concetto, nel pensiero e nell’azione, e anche nel rapporto con gli altri), uno spirito che, pur dialogando con gli altri, animi la coscienza europea a difesa della nostra identità.
*Renato Cristin, docente di Ermeneutica filosofica, Università di Trieste