ITALIANITÀ NEL MONDO, FORZA PROFONDA

Questo saggio di Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Esteri, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

 

I contenuti identitari

Un forte elemento identitario della società italiana è il principio di solidarietà e di partecipazione, intrinsecamente legato al valore della vita umana e della dignità della persona. È rimasto saldo nelle generazioni che hanno vissuto la tragedia della Seconda guerra mondiale. Neppure le dittature nazista e comunista sono riuscite a cancellare i valori di questa identità: nei territori controllati dalle nostre forze armate persino la «soluzione finale» voluta da Hitler è stata in ogni modo ostacolata, anche sacrificando la vita, da migliaia di militari, diplomatici, funzionari, religiosi e comuni cittadini italiani. Tutto questo non è avvenuto per un caso della storia. Per quasi tre secoli il nostro pensiero politico e giuridico ha sviluppato quel senso di libertà laico e illuminista che, in simbiosi con la tradizione giudaicocristiana, ha ispirato le rivoluzioni democratiche di fine Settecento, e ha fatto progredire lo Stato di Diritto sino alla sua odierna concezione nel diritto internazionale, dai Trattati Europei ai numerosi accordi regionali e globali.

È proprio la tradizione giuridica a costituire per gli italiani un forte elemento identitario. Vi è, certo, il paradosso della disaffezione popolare per la politica e per le sue istituzioni. Ma il nostro Paese è tra i primissimi in Occidente ad aver influito e ad influire, da Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri sino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulla diffusione dei principi dello Stato di Diritto pur trovandosi oggi in posizione piuttosto arretrata nella lotta alla corruzione, nella libertà di informazione, per quanto riguarda la giustizia, e il sistema carcerario. È dimostrato in ogni caso come l’elemento identitario profondo e forte riguardi l’insieme della nostra cultura, il suo contributo valoriale al progresso umano, e il senso di un «comune destino» che lega gli italiani sparsi nel mondo alla terra di origine.

Un’identità, quindi, essenzialmente culturale; recepita e al tempo stesso alimentata da un’«altra Italia» fatta da quasi sessanta milioni di individui di cittadinanza o di discendenza italiana. L’attrazione che loro hanno verso il paese di origine e la sua cultura è così forte che gli ultimi censimenti negli Stati Uniti – dove il numero stimato dei nostri connazionali corrisponde quasi alla metà di tutti gli italiani all’estero – rilevano significativi aumenti tra i cittadini americani che dichiarano una loro origine italiana nonostante l’immigrazione dall’Italia sia ferma da quarant’anni. Purtroppo l’attenzione che dedichiamo a questa «italianità», così importante per far «capire l’Italia» anche 51 nei momenti più difficili, è assai modesta, anche quando si sprecano assicurazioni e promesse retoriche. Riconoscere un preciso interesse nazionale in tale direzione presuppone un netto cambiamento di rotta.

 

Un decennio perso?

Il richiamo dell’«italianità» appare ancor più necessario ove si consideri che nel decennio appena concluso la «performance» del nostro Paese rispetto ad altri – a noi paragonabili per popolazione, dimensione economica, proiezione regionale e globale, sviluppo sociale e istruzione – viene giudicata debole da molti punti di vista. In politica è stato un susseguirsi poco concludente di esperimenti che hanno accresciuto la sensazione di instabilità e di transizione permanente, governativa e istituzionale. La crescita economica e dell’occupazione è rimasta una chimera. Contraddittorie e carenti sono parse le misure fiscali, di sostegno allo sviluppo e all’innovazione.

In politica estera si deve ammettere come siano stati anni più di declino che non di rilancio del ruolo complessivo dell’Italia in Europa, nel Mediterraneo, e sul piano globale. Hanno indubbiamente pesato fattori poco prevedibili e lontani dalla capacità di controllo per un singolo, per quanto influente, paese europeo. Lo è stato il disimpegno americano da spazi geopolitici di nostro diretto interesse; così come l’emergere di due «potenze revisioniste» dell’attuale ordine mondiale, o di ciò che ne resta. Pur essendo molto diverse per dimensione economica – il Pil russo equivale a un ottavo circa di quello cinese, e ai tre quarti di quello italiano – Cina e Russia sono infatti mosse da una comune propensione all’utilizzo della forza nell’accaparrarsi risorse naturali, nell’ampliare la loro influenza politica e presenza militare, nella politica del fatto compiuto.

Cina e Russia si preoccupano sempre meno di dover risolvere – come prevedono trattati e statuti che hanno ratificato – ogni eventuale controversia attraverso i numerosi strumenti giurisdizionali e pattizi offerti dal Diritto internazionale. Da parte italiana, numerose incertezze, rinunce, ambiguità nei riferimenti fondamentali della nostra politica estera e di sicurezza, europea, atlantica e mediterranea hanno tuttavia contribuito, e non poco, a ridimensionare il ruolo dell’Italia sulla scena globale. Se pertanto si è chiuso un decennio che sarebbe arduo valutare come positivo per il ruolo internazionale del Paese, ancor meno accettabile è la scarsità di risultati conseguiti nell’affermazione dell’interesse nazionale e della sovranità dell’Italia.

 

Non un decennio perso per la «diplomazia della cultura»

Vi è tuttavia un ambito che si è rivelato sorprendentemente vitale anche negli ultimi dieci anni, persino più di 52 quanto non lo sia stato in precedenza. Una dimensione cresciuta con dinamiche essenzialmente proprie, per lo più estranee all’impiego di risorse pubbliche, a strategie di Governo, o a visioni sostenute nei palazzi del potere. Si tratta della «Diplomazia della Cultura»: terreno privilegiato di interazione tra le «società civili», tra grandi e meno grandi protagonisti del sapere, della comunicazione e della conoscenza a livello globale. Ed è proprio in tale dimensione che si sta affermando con maggior chiarezza un ruolo di primo piano dell’Italia sostenuto dai valori identitari e culturali di «italianità» propri alle nostre comunità all’estero.

Vi sono principalmente tre motivi che rafforzano questa tendenza: 1. In primo luogo, si rileva da tempo una motivazione crescente delle nostre comunità all’estero – per effetto soprattutto della accelerata globalizzazione del sapere sostenuta dalle nuove tecnologie – a «promuovere l’Italia» nella sua riconosciuta «unicità» di patrimoni culturali e di bellezza che colma oltre due millenni di una storia al centro dell’Europa e del Mediterraneo. 2. Inoltre, tale elemento motivazionale appare concentrarsi tra i giovani; siano essi di seconda, terza o altra fascia generazionale della nostra emigrazione; così come tra quanti sono partiti per l’estero in numero crescente negli ultimi dieci-quindici anni.

Sono stati e continuano a essere sempre più numerosi i nostri giovani e giovanissimi impegnati a formare nei nuovi Paesi di residenza centri di studio, associazioni, reti di scienziati, di studiosi e professionisti, a lanciare con partner in Italia collaborazioni nella ricerca, nei servizi e nell’industria dei settori tradizionali del «Made in Italy» e dei comparti più innovativi, nelle attività di cooperazione allo sviluppo, maturando positive esperienze imprenditoriali e di lavoro tra le realtà nelle quali vivono e operano all’estero e il paese di origine. 3. In terzo luogo, come recentemente ha scritto da Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera», «l’Italia da sola ha una stazza troppo leggera per ambire a un ruolo significativo: anche solo per difendere i propri interessi. Ha bisogno di un partner forte, quanto più possibile forte. Ora, non potendo questo partner essere l’Unione Europea (…) la scelta si restringe di fatto agli Stati Uniti. (…) oggi nel teatro geografico che più ci interessa la posizione degli Stati Uniti appare oscillante tra tentazioni di disimpegno e affondi improvvisi.

Sta di fatto però che nella politica americana alcuni punti fermi sono comunque ravvisabili: contrasto con l’espansionismo russo; un consolidato buon rapporto con il fronte islamico tradizionalista e anti-iraniano; una permanente intesa di fondo con Israele. (…) l’accredito di cui l’Italia gode nel mondo arabo, la sua posizione geografica di assoluto valore strategico unitamente al suo forte legame con la Santa Sede e da ultimo la sua 53 qualità di terzo Paese dell’Unione Europea e quindi potenziale importante sponda con Bruxelles utili per consentire di stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più forte e concertato di quello attuale». Nel rapporto privilegiato tra Italia e Stati Uniti conta, e può ancor di più influire in futuro, la realtà italiana negli Stati Uniti purché Roma esprima consapevolezza di un interesse nazionale imperniato sull’italianità nel mondo e sulle opportunità offerte dalla grande comunità italiana negli Usa.

 

… e per il soft power

Se ricerca e sviluppo in Italia soffrono di un’endemica carenza di risorse, per disfunzioni amministrative o fondi decrescenti, decine di migliaia di nostri studiosi nelle più prestigiose università sono una forza insostituibile per collaborazioni e partenariati in campi di ricerca avanzata dai quali spesso possono operare in stretto rapporto con nostre aziende, enti e istituzioni.

Tutto questo è anche il soft power del nostro Paese, ed è un fondamentale interesse nazionale sostenerlo nel modo più convinto. Il principale studioso del soft power, Joseph Nye, ne ha definito i contenuti sottolineando come si tratti di strategie utilizzate da un Paese e da una società civile per diventare attraenti nel mondo anziché utilizzare la coercizione, gli interessi nazionali possono essere sostenuti attraverso un mix di cultura, valori, iniziative di politica estera con le quali persuadere gli altri ad agire in modo compatibile con gli interessi nazionali affermati da chi ricorre al soft power. In questa linea è stato autorevolmente affermato che la democrazia liberale è il sistema di governo certamente più idoneo ad agire attraverso soft power. Riesce necessariamente più difficile farlo a un sistema autocratico o dittatoriale.

E in effetti, mentre il presidente cinese Xi Jinping aveva affermato che i «valori sottostanti alla Via della Seta e alla Belt and Road Initiative hanno un richiamo più forte che in passato», le iniziative infrastrutturali e culturali promosse da Pechino stanno avendo crescenti difficoltà nell’ammorbidire la dura immagine internazionale della Cina. Autorevoli analisti, come sottolinea «Portland Report 2019» sul soft power, giudicano la Via della Seta e la Belt and Road Initiative un danno per la reputazione internazionale della Cina. Non è un caso che nel raffronto analitico tra le diverse componenti del soft power in Cina e in Italia, il nostro Paese appaia negli ultimi tre anni in netta crescita mentre la Cina registra una considerevole flessione

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già Ministro degli Affari Esteri

La nostra identità garanzia di futuro

«Chi controlla i bambini controlla il futuro». È uno dei passaggi centrali, tra i più inquietanti ma anche tra più importanti, di Sottomissione, il romanzo di Michel Houellebecq che nel 2014 si è rivelato come il pugno sullo stomaco, quantomai salutare, nel dibattito asfittico e falso sull’Islam e il suo rapporto con l’Europa.
Già, è stato necessario l’intervento-shock di uno scrittore anticonformista e “visionario” (ma in realtà lucidissimo e attento alla prossimità) per trovare veicolato su un mezzo di comunicazione di massa – il romanzo è diventato un best-seller, non solo per la “coincidenza” della sua uscita con la strage di Charlie Hebdo ma proprio per la forza escatologica del racconto – un passaggio di verità sulla strategia di penetrazione reale dell’Islam, nello specifico quello salafita delle monarchie del Golfo, nella nostra patria continentale.
Voglio sottoporvi un passaggio. Poche righe ma divinatorie: «Non mettono al centro di tutto l’economia – il riferimento è ai leader dell’immaginario partito della Fratellanza musulmana in trattativa con la sinistra francese per battere alle elezioni presidenziali del 2022 il candidato della destra -. Per loro l’essenziale è la demografia, e l’istruzione; il sottogruppo demografico che dispone del miglior tasso riproduttivo, e che riesce a trasmettere i propri valori, trionfa; per loro è tutto qua, l’economia e la stessa geopolitica non sono che fumo negli occhi: chi controlla i bambini controlla il futuro».
Altro che distopia o fantapolitica. Si tratta della fotografia di ciò che il “Rapporto annuale sull’islamizzazione d’Europa” che avete tra le mani ha analizzato, decrittato e sistematizzato: la sopravvivenza di una civiltà è legata prima di ogni altra cosa al tasso di natalità e al sistema di valori che grazie a questa riesce a trasmettere.
E cosa dicono i dati? Che una donna musulmana, qui in Europa, ha un tasso un tasso di fertilità superiore, il doppio, di quello di una donna non musulmana. Se i flussi migratori dei musulmani nel Vecchio continente dovessero proseguire al ritmo di come li abbiamo conosciuti negli ultimi anni? Tra soli trent’anni gli islamici in Europa saranno più che raddoppiati: si parla della percentuale clamorosa di incremento del 125%. E a quel punto chi “controllerà” il nostro futuro? Con quale scala di valori? E in nome di quali istituzioni?
Ecco, noi speriamo invece che nessuno controlli alcuno: né un governo “multinazionale” né una holding islamista. Lo speriamo proprio nel nome di quei valori – uguaglianza e democrazia – che un certo storicismo crede inevitabili, che Francis Fukuyama ottimisticamente indicava come «fine della storia», ma che in realtà appartengono a quella dimensione complessa, alimentata da una precisa direttrice, che conosciamo organicamente soltanto come e nella civiltà occidentale.
Ecco perché l’argomento dell’islamizzazione dell’Europa ci interessa in maniera specifica e problematica e su questo abbiamo predisposto, accanto e a sostegno della battaglia politica, un serrato e attrezzato dibattito scientifico e accademico. Perché temiamo che la “profezia” di Houellebecq, se l’Europa, e l’Italia per ciò che ci riguarda da vicino, non deciderà di disporre politiche e strumenti per preservare se stessa, possa tramutarsi inevitabilmente in realtà.
A fronte di un disinteresse “complice” da parte della narrazione ufficiale, ci interessa eccome studiare e denunciare il rischio dell’islamizzazione perché la difesa del nostro “futuro”, la sua stessa possibilità, è intimamente connessa alla salvaguardia del nostro “passato”. Proprio così: tutto ruota attorno alle radici, la cui preservazione – credetemi – tutto è tranne che un fatto “archeologico”. L’identità europea – attraversata e permeata da due sostrati, classico, inteso come greco-romano e giudaico, e cristiano – si impone infatti come entità viva principalmente per due elementi caratterizzanti di natura filosofica, identitaria, più che religiosa, che la distinguono da tutte le altre.
Il primo è la laicità dello Stato; per il banale motivo che la separazione fra i “poteri” è contemplata fin nei testi sacri della cristianità, alla ricerca di un’armonia che ha sempre interrogato il pensiero politico europeo e italiano su tutti, come dimostra il De Monarchia di Dante Alighieri che considerava “due soli”, l’Impero e la Chiesa, come «duplice guida, in relazione al duplice fine; e cioè il Sommo Pontefice, che conducesse il genere umano alla vita eterna secondo la Rivelazione, e l’Imperatore, che dirigesse il genere umano alla felicità temporale secondo gli insegnamenti della filosofia».
Il secondo grande elemento è proprio questo, il rapporto dinamico tra fede e ragione come dispositivo per la formazione dell’identità europea. È ciò che emerge dal grande dibattito (condito da polemiche e da attacchi strumentali) che suscitarono le parole di Papa Benedetto XVI nella celebre lezione di Ratisbona. Proprio l’incontro fra fede biblica e logos, come spiegò in quell’occasione fondamentale il Papa emerito, «al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa» e «rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa».
Dall’altro lato, invece, la religiosità islamica non solo per sua natura è trascendente, non solo nel Corano non è concepita la separazione fra fede ed entità statuale (e nella guerra civile interna all’Islam vengono combattute dall’Isis guarda caso proprio quelle nazioni, come la Siria, legate al socialismo arabo e quindi di impronta laica) ma in alcuni Stati – come l’Arabia Saudita – la sharia addirittura rappresenta in toto la “Costituzione”.
L’Europa, dunque, è plasticamente tutt’altro che un’espressione geografica. È un’identità determinata dalla sintesi dei propri connotati di origine: ed è su questa che poggia la sua sinderesi. Se perde ciò, semplicemente, non è più Europa. Potrà essere “riempita” da altro. Potrà tramutarsi in un contenitore. Ma non rappresenterà mai più la stessa formula; e sopratttutto non svelerà più lo stesso contenuto.
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L’osservazione che viene fatta a questo punto, molto spesso a opera di decostruzionisti celati e tutt’altro che disinteressati, è nota: tutto questo potrebbe non rappresentare un problema qualora avvenisse la piena integrazione dell’Islam in Europa. Tradotto: se gli immigrati diventano cittadini europei di formazione ma di religione islamica il nodo è sciolto. Una sorta di pantheon 2.0.
È così? Ingegneria (virtuale) sociale a parte, tutta la discussione riguardo a un Islam “europeo”, quello che risolverebbe a monte il problema dell’integrazione, a oggi si scontra con il dato della realtà.
Quale? I due principali punti di riferimento del proselitismo islamico nel mondo – il Qatar e l’Arabia saudita –, anche se in serrata competizione fra loro, sono anche quelli che svolgono da anni in modo scientifico e articolato la più grande azione di penetrazione religiosa e culturale straniera in Europa. Non solo tramite il finanziamento di moschee, di centri islamici, di associazioni culturali ma anche puntando dritto al cuore delle élite e dei suoi interessi economici, attraverso l’esercizio del cosiddettosoft power. Un esempio facilmente intellegibile arriva dalle sponsorizzazioni dei più importanti club di calcio europei – con una copertura delle principali capitali (Roma, Madrid e Parigi) – che scendono in campo con i colossi e le compagnie di bandiera del mondo arabo sul petto.
Incredibile il caso del Real Madrid, con il club – sponsorizzato da Fly Emirates – che ha scelto anni fa, come vero e proprio atto di”sottomissione” dissimulato dall’opportunità di marketing, di celare la propria identità e togliendo la croce dalla parte sommitale del simbolo della squadra per la vendita delle magliette negli Stati arabi: tutto questo per “non turbare” la sensibilità dei supporter di religione islamica. La stessa scelta, vergognosa e ben più scellerata, che il governo Renzi fece ai Musei Capitolini, nascondendo con le tendine le nudità dei capolavori dell’arte italiana per non disturbare la vista del presidente iraniano Rohani.
L’Opa ideologica araba nei confronti dell’Europa non si esaurisce di certo sul rettangolo di gioco. Ancora più pernicioso è lo “shopping finanziario” di aziende e asset nazionali a opera dei ricchissimi fondi sovrani delle petrolmonarchie: lo vediamo dagli hotel di lusso a Roma a palazzo Turati a Milano passando per le filiali italiane della Deutsche Bank e del Credit Suisse e così via.
Ciò ha fatto sì che il cosiddetto Islam europeo, tanto nella sua veste istituzionale (la Grande Moschea di Romam sorta e sostenuta dai sauditi, ha avuto fino a qualche tempo fa l’ambasciatore dell’Arabia Saudita come presidente del Consiglio di amministrazione) quanto in quella “comunitarista”, sia interamente un Islam che fa riferimento alle dottrine più integraliste provenienti dai Paesi del Golfo.
Il risultato? Un’Europa non solo vittima dell’attacco “nichilista” del terrorismo islamista di prima e seconda generazione – che ha prodotto 729 morti e quasi cinquemila feriti – ma un continente che è diventato a sua volta centrale di formazione e destabilizzazione internazionale.
Come ha avuto modo di verificare e denunciare Soud Sbai, presidente delle donne marocchine in Italia, il fenomeno ha assunto forme pericolose anche per le stesse nazioni del Nord-Africa e del Medioriente. Un dato indicativo e sorprendente, infatti, è quello testimoniato da Stati con un Islam moderato e abituato al confronto con l’Europa, come Tunisia e Marocco. Negli ultimi anni è accaduto un fatto preoccupante: che cittadini tunisi e marocchini si siano radicalizzati proprio in Europa, tornando in patria poi a “praticare” integralismo religioso e politico. Tutto questo sotto gli occhi pigri, quando non complici, delle istituzioni europee.
Un caso di scuola è Molenbeek, il quartiere “no-go zone” di Bruxelles: fucina di radicalizzati e combattenti dell’Isis, da qui sono partiti i terroristi che hanno colpito e sterminato al teatro Bataclan di Parigi e hanno attaccato lo stesso aeroporto della capitale belga. Come si è arrivati a questo? Grazie ad un patto che alla fine degli anni ’60 Re Baldovino strinse con l’Arabia Saudita per la fornitura di petrolio abuon mercato.L'”appalto” di ritorno?L’esclusiva sul proselitismo a Bruxelles, a partire dalla costruzione della Grande Moschea in uno spazio concesso per novantanove anni dal governo belga. Questo ha generato nel tempolegami sempre più stretti dei membri della comunità con i predicatori salafiti e un vero e proprio percorso di indottrinamento fanatistaperi più giovani che, dopo essersi formati o essersi convertiti, hanno ingrossato le file dei foreignfighters per la Siria e l’Iraq al servizio dei gruppi jihadisti. E dove si troverà mai l’edificio religioso,vero hub del fondamentalismo? Nel Parco del Cinquantenario, ironia della sorte a due passidal Palazzo Schuman, il cuore politico dell’Unione europea…
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A questo punto è più che lecito chiedersi se tale processo di islamizzazione sia davvero inevitabile. I dati ufficiali indicano che l’Europa è un continente che in termini demografici sta morendo. Il tasso di fertilità è dell’1,3 figli per donna, quando quello minimo per scongiurare la decrescita di una data popolazione è di 2,1. Un calo demografico, dunque, che in modo semplicistico e propagandistico viene dato come ineluttabile, irreversibile e che, di conseguenza, apre alle tesi che propongono soluzioni grottesche e pericolose secondo le quali – cito testualmente Emma Bonino, l’aedo dell’immigrazionismo – occorrerebbe coltivare «il giardino d’infanzia», quell’Africa che abbiamo «a 300 chilometri sotto di noi mentre l’Europa è segnata dal declino demografico».
Deliri propandistici a parte, sempre le statistiche – come abbiamo indicato prima – spiegano che i cittadini islamici presenti in Europa hanno un tasso di fertilità più alto dei non musulmani. L’elemento in più è che questo risulta comunque abbastanza basso, trattandosi di 2,6. Che cosa significa? Che da solo sarebbe insufficiente a determinare un processo di islamizzazione dipendente interamente dalla natalità. O almeno ci vorrebbero centinaia di anni. Qualcosa in più del «futuro» immaginato da Houellebecq. O dalle parole grosse del presidente turco Recep Tayyip Erdogan che ha incitato i musulmani nel continente a fare figli: «Non fate tre figli, ma cinque. Perché voi siete il futuro dell’Europa. Questa sarà la migliore risposta all’ingiustizia che vi è stata fatta». Al di là del fascino di alcuni concetti, insomma, i numeri dicono che la realtà, almeno fino ad ora, è diversa.
Lo è per un motivo semplice: perché gli immigrati che arrivano in Occidente assumono velocemente diverse abitudini occidentali, inclusa la tendenza al mettere al mondo un numero minore di figli. Ciò non significa che ci stiamo preoccupando per nulla. Esattamente il contrario. Sempre i dati illustrano altri due scenari a proposito della questione immigrazione. Quando si analizza quella legale, ad esempio, risulta che se le nazioni europee fossero interessate solo da questa – essendo equilibrata tra musulmana e non – non ci sarebbe un processo pervasivo di islamizzazione dell’Europa (il 46% dei migranti regolari è di religione islamica). I numeri però ci dicono anche un’altra cosa: che per quanto riguarda l’immigrazione illegale, invece, questa negli ultimi anni è stata in gran parte di origine islamica (il 78% dei richiedenti asilo è composto da musulmani).Eppure i cristiani la prima minoranza religiosa perseguita nel mondo (sono circa 245 milioni): sarebbe legittimo, quindi,aspettarsi un numero consistente di rifugiati cristiani giungere in Europa. Che cosa comporta, invece, l’attuale situazione? Che se il trend dovesse proseguire come è stato in questa stagione, nell’arco di poco più di un secolo la popolazione islamica supererà quella non islamica. Il futuro, dunque, semplicemente non sarà più un problema nostro perché non ne faremo quasi più parte.
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Dopo questa lunga ma necessaria premessa, che fare dunque? Come pensiamo di governare questo enorme fenomeno storico? Alla luce di un quadro complesso e con “agenti provocatori” presenti sia nel deep state italiano che nei network globalisti, le politiche e la visione di chi vuole difendere l’identità millenaria europea, per ciò che ci riguarda, sono molto chiare. Per Fratelli d’Italia, come abbiamo sempre ripetuto, prima di ogni altra cosa è necessario stringersi attorno all’unica cosa che può assicurare il futuro: i nostri figli. Ossia alle politiche di incentivo alla natalità e di sostegno alla famiglia naturale. È uno scandalo – rivelatore di una visione distorta della sua funzione politica e della distanza con le istanze reali dei popoli – che tra tutte le priorità indicate dall’Ue non sia mai entrata la questione della promozione della natalità.
Per noi invece questo è stato il primo punto del programma con cui ci siamo proposti agli italiani alle elezioni Politiche. Altri hanno presentato provvedimenti come il reddito di cittadinanza e Quota 100: temi probabilmente più spendibili in campagna elettorale, ma noi siamo fatti così, guardiamo sempre e comunque ai grandi fenomeni che interessano la nostra Nazione. Non ci siamo preoccupati, tutt’altro, di porre questo a fondamento e orientamento della nostra azione politica. Lo abbiamo fatto con una proposta più che concreta, opposta e contraria all’assistenzialismo, come il reddito di infanzia: un assegno mensile importante per i figli dai zero a sei anni (e poi un sostegno fino ai diciott’anni) con cui lo Stato potrebbe dimostrare fattivamente la volontà di voler investire sul proprio futuro.
A questo punto, però, non intendo di certo eludere un’osservazione sensata: sempre i numeri ci dicono che l’Europa può aver bisogno effettivamente di una quota di immigrazione. Vero, lo richiedono lo sviluppo industriale, le nuove esigenze sociali (cresce comunque il numero degli anziani) ma anche un dato che fa parte del nostro milieu, visto che il nostro continente è stato sempre crocevia di incontri e scambi fra culture.
Questo vuol dire, però, che occorre parlare di immigrazione e affrontare il fenomeno in modo serio, a partire dal consentire l’ingresso solo per via legale, sì da poter gestire sia la quantità che la specificità, la qualità, dell’immigrazione in entrata.
Sotto questo aspetto i dati smontano la narrazione ufficiale: se, come si dice, il problema principale dell’Europa è quello demografico, significa allora che si rende necessario l’ingresso specifico di donne e di nuclei familiari. E invece la maggior parte degli ingressi è appannaggio di uomini che arrivano da soli. Con una battuta, potremmo dire che quando nell’antichità i romani si trovarono ad affrontare un problema demografico finì con il celebre “ratto delle Sabine”. Se avessero compiuto il “ratto dei Sabini” sarebbero stati certamente all’avanguardia per i loro tempi ma si sarebbero inevitabilmente estinti.
Con questo che cosa intendo? Semplice: che, come dimostrano le stime ufficiali del Viminale, nel periodo degli sbarchi massicci – fra il 2012 e il 2017, con una percentuale bassissima di profughi veri – circa il 90% erano composto da uomini. Anche sotto l’aspetto demografico, dunque, possiamo parlare di una truffa a tutti gli effetti.
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C’è un aspetto, a tal proposito, sul quale le proposte di Fratelli d’Italia hanno sollevato ulteriore e grande polemica. Quando abbiamo parlato – proprio per venire incontro alle necessità di una quota di arrivi fisiologica – di immigrazione “compatibile”. Che cosa intendiamo? Diciamo, intanto, che la categora dell’immigrato non esiste. O meglio non è per nulla neutra: non si può immaginare, cioè, che sia indifferente la provenienza e la cultura di riferimento di chi arriva in Europa; che sia indifferente se abbiamo davanti un’immigrazione di massa sudamericana o nigeriana. E allora, se è necessaria una certa quota di immigrazione, noi non abbiamo mai avuto alcun problema a chiedere di favorire chi ha origini italiane ed europee.
Si stima che nel mondo ci siano decine di milioni di nostri connazionali che non hanno la cittadinanza italiana, pur avendone diritto. Se l’Italia ha bisogno di immigrazione la cosa più sensata è favorire allora proprio l’arrivo di chi ha le nostre stesse origini. L’esempio banale è il caso Venezuela: più di 20 milioni di abitanti di cui due milioni sono di origine italiana. Nello stato sudamericano vige il caos e in tanti soffrono la fame e le persecuzioni da parte del regime comunista di Maduro. Perché allora non prendere gli immigrati che dovessero servirci da lì? Lo stesso dovrebbe valere su scala continentale: favorire, quando necessario, l’immigrazione di origine europea e, in seconda battuta, un’immigrazione proveniente da Stati che hanno dimostrato di non creare problemi di integrazione o di sicurezza.
Insomma, non proviamo alcun imbarazzo a dire, grazie anche alle parole importanti del cardinale Biffi pronunciate con grande coraggio quasi vent’anni fa, che dovremmo caldeggiare l’accoglienza di popolazioni di origine cristiana: «Preferire i cristiani», spiegava il cardinale, perché «i musulmani più o meno dichiaratamente, vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro». I motivi li abbiamo spiegati abbondantemente in questo dossier ma ancora grazie a Biffi ripercorriamo le tracce: «Hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere, di diventare preponderanti».
Tutte tensioni, provenienti soprattutto dall’Islam fondamentalista e intimamente anti-occidentale, che sono state dibattute con grande scrupolosità su queste pagine. Eppure i governanti europei rimangono sostanzialmente sordi e ciechi dinanzi a segnali così evidenti. Non a caso il cardinale temeva con grande lungimiranza e attualità, ancora di più dell’invasione, «la straordinaria imprevidenza dei responsabili della nostra vita pubblica» e «l’ inconsistenza dei nostri opinionisti».
Gli stessi che si scandalizzano e alzano gli scudi davanti alle nostre proposte.
Perché, la domanda è pertinente, lo fanno? Perché il disegno globalista ha come primo obiettivo quello di distruggere le identità. Un’immigrazione di massa che non scardina l’identità non è più funzionale a questa dinamica. Prendiamo il caso della Polonia, governata dai sovranisti. L’Ue ha attaccato la Polonia perché rifiuta di prendersi quote di immigrati arrivati in Europa provenienti dall’Africa e dal Medioriente. I polacchi hanno risposto: abbiamo dato ospitalità ad un milione di ucraini. Lì c’è una guerra civile e ci sono, davvero, migliaia di persone che scappano dal conflitto, di certo più di molti africani. La risposta qual è stata? «Non contano». Già, sono europei. Il problema della Polonia dunque non è che non accoglie rifugiati, ma è che trattandosi di europei, cristiani, assimilabili tranquillamente allo stile di vita dei polacchi, quelli che vengono accolti non sono funzionali all’opera di destrutturazione. Ed è lo stesso motivo per il quale i buonisti che hanno sempre una parola buona per chiunque, non dicono nulla sul Venezuela e i suoi perseguitati: già, non sentiremo mai gli immigrazionisti part-time spendere una parola nemmeno per loro.
Alla fine tutto ruota attorno alla nostra identità: elemento vivificante e distintivo. Per questo Inserire un richiamo alle nostre radici classiche e cristiane come cornice e paradigma nei trattati dell’Unione Europea risulta un atto di affermazione necessario e fondamentale, non solo per dare un’anima all’architettura comunitaria ma anche per fornire uno schermo di protezione contro tutti i tentativi di colpire dall’esterno (o svuotare dall’interno) l’impianto della civiltà europea, il suo diritto al futuro. «Non si recidono le radici sulle quali si è cresciuti», esortava non a caso un gigante della storia come Giovanni Paolo II a proposito del sostrato d’Europa. Da sradicati a sottomessi, infatti, il passo è più breve di ciò che si pensi.

*Prefazione di Giorgia Meloni al Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo