Questo saggio di Agostino Carrino, è stato pubblicato sul Rapporto Italia 2020 della Fondazione Farefuturo
Vorrei cominciare con una premessa: il principio dell’interesse nazionale non è un’ideologia. Esso segnala piuttosto una prassi politica, un modo oggettivo di intendere e fare la politica, la cui scomparsa negli ultimi decenni è alle origini di gravi criticità, a partire dalle crescenti e sempre più insopportabili diseguaglianze sociali, causa anche del cosiddetto «populismo». La prassi dell’interesse nazionale deve significare innanzitutto cura e attenzione per le fasce deboli (nella globalizzazione sempre più ampie e sempre più deboli) della società: la nazione è lo shibbòleth che individua tra le varie possibilità una classe politica e un programma che vogliono garantire un minimo di giustizia sociale per coloro che fanno parte di una nazione (concetto storico) di contro ai «diritti» astratti dei singoli individui generici, diritti che nella loro fase retorica contribuiscono, più che a tutelare i singoli, a sfasciare le comunità, a sfarinare il sentimento di reciproco riconoscimento, a dissolvere il senso del dovere e dell’obbligo. L’idea dell’interesse nazionale è anche il contraltare della presunta «universalità» dei diritti, che si impongono incuranti delle specificità culturali e storiche delle singole nazioni.
La cura dell’interesse nazionale presuppone quindi, non a caso, una visione classica della politica, che ricomprende in primis la politica estera di una nazione. Detto questo, che tipo di organizzazione statuale potrebbe preconizzare una politica fondata sull’interesse nazionale (nel senso sopra precisato)? Parto dalla centralità della decisione e dall’urgenza della concreta capacità di decisione. È oramai almeno un quarto di secolo che l’Italia si avvita e marcisce nella crescente difficoltà di decidere, dove per decisione non intendo certo i recenti «decreti» del Presidente del Consiglio dei ministri relativi anche a libertà fondamentali dei cittadini, la cui legittimità costituzionale è più che dubbia, ma una capacità decisoria organica e legittima sui tempi lunghi e sulla base di princìpi-guida. Non voglio dire che un governo democratico debba fare a meno del compromesso, che resta un carattere distintivo delle moderne democrazie cosiddette costituzionali; ogni sistema politico deve fondarsi però sia sul compromesso sia sulla decisione. Persino un teorico della democrazia liberale come Hans Kelsen ha voluto distinguere nella forma democratico-parlamentare di governo i momenti propriamente «democratici» e quelli «autocratici» (e viceversa anche nelle autocrazie i momenti democratici). Una democrazia sana e funzionante intesa come governo politico ha bisogno di entrambe le fasi. Che la volontà, ma anche la possibilità stessa di decidere siano oggi carenti è evidente. All’imperativo etico di responsabilità della decisione si preferisce l’ipocrisia del rinvio: esemplare l’ennesimo spostamento relativo alle «clausole di salvaguardia», sulle quali un governo degno di questo nome, a mio avviso, avrebbe scelto di aumentare l’iva sui prodotti, distinguendo però tra chi acquista una Maserati per fare colpo sull’amante e chi un litro di latte per il proprio figlio; o anche, più recentemente, le problematiche connesse con i decreti sull’epidemia virale, la quale avrebbe richiesto una più chiara e rapida decisionalità sulle questioni fondamentali relative sia al contrasto alla diffusione del virus sia alla tutela dell’economia.
Tutti sappiamo quanto in questa vicenda del Covid-19 ordinanze, decreti e via dicendo siano stati confusi e contradditori tra centro e periferie, regioni e comuni, dove è mancata la chiarezza di una filiera di comando, di legittimazione e di responsabilità. Ma dove la politica manca prevale appunto il rinvio, la nondecisione, l’apertura dei cosiddetti «tavoli», la creazione di decine di comitati di esperti veri o presunti, di «task force» raccogliticce; semmai la furbizia del continuare a prendere surrettiziamente a prestito, come nel caso delle clausole di salvaguardia, o la fede nella provvidenza, come all’inizio nel caso dell’epidemia. Ugualmente emblematica, da più punti di vista, la vicenda del «fondo salva stati», dove si è mentito con spudoratezza anche a livelli alti, quando non si è dato prova di incompetenza e di ignoranza delle norme vigenti. Si diffonde l’idea che si possa «decidere» con una chiacchiera telefonica o via social, con totale dispregio del diritto e delle forme giuridiche. Chiedere una centralità della decisione (fondata sull’etica della responsabilità) impone inevitabilmente una seria riflessione sulla auspicabilità di una Nuova Repubblica e quindi di una nuova Costituente in grado di riformare la struttura dello Stato e il suo sistema di governo, di partecipazione e di amministrazione, un progetto per il quale è tanto necessario lottare quanto, purtroppo, illusorio immaginare che si possa realizzare, se non dopo una catastrofe (può esserlo l’epidemia nella quale ci troviamo, che sembra in alcuni casi aver compattato la nazione?). Tuttavia, essendo la politica anche l’arte del possibile, l’etica politica impone di fare delle proposte che possano aiutare a tenere meno oscillante il timone della nave pubblica. E dunque, a princìpi costituzionali vigenti (volendo operare entro la costituzione del 1948), quali proposte di revisione sono ipotizzabili che possano comunque andare verso una nuova repubblica? Indubbiamente, una prima svolta potrebbe certamente essere costituita dalla elezione diretta del Presidente della Repubblica in quanto Capo dello Stato (modificando l’art. 83 cost.). Già attualmente il Capo dello Stato ha poteri tutt’altro che irrilevanti e soprattutto egli rappresenta l’unità della nazione (art. 87 cost.). Operando su questo attributo, eleggere direttamente il Capo dello Stato significherebbe ristabilire un primo contatto –assolutamente necessario – tra il «corpo elettorale» (la nazione in senso giuridico) e un decisore fondamentale, considerando che la crisi della politica è causa/effetto di uno scollamento oramai insopportabile tra la gente e il «palazzo», tra il paese reale e il paese legale. Ho segnalato altrove alcune possibili criticità di questa riforma, che a mio avviso dovrebbe poi portare a due altre riforme connesse: 1) la riforma della Corte costituzionale e dei poteri attribuiti a giudici che decidono in ultima istanza tendenzialmente sempre più non in base a norme giuridiche positive – che dovrebbero mediare la volontà generale della nazione – ma in base a princìpi (anche sovranazionali o «umanitaristi»); 2) la riforma del bicameralismo. Su quest’ultimo punto credo che l’abolizione del Senato quale camera politicamente legislativa sia urgente, non avendo più senso un organo nato in rappresentanza del potere monarchico di contro al (e di freno del) potere rappresentativo della borghesia rivoluzionaria in ascesa. Ugualmente, di converso, una seconda Camera ha senso in rappresentanza di enti statuali, quindi in uno Stato federale come la Germania o gli Stati Uniti, sicché l’alternativa qui è: un’Italia federale (che si giustificherebbe a condizione di intendere il federalismo come unificazione del diverso e non frantumazione dell’uno) o una rappresentanza non politica, territoriale o categoriale, facendo della seconda camera ciò che originariamente – sul precedente del Consiglio dell’Economia della costituzione di Weimar – doveva essere il Cnel (e quindi trasferendo ad essa le sue competenze). Ciò, semmai, riprendendo le proposte già avanzate al tempo della Costituente da Costantino Mortati, che suggeriva una rappresentanza in Parlamento delle Regioni, intese come «centro unitario di interessi organizzati da far valere unitariamente e in modo istituzionale» (AC IV, 2920).
V’è tuttavia una terza possibilità: partendo proprio dalla crisi della politica, si potrebbe immaginare una seconda camera anch’essa politica, ma senza la funzione di fiducia al governo e con una rappresentanza proporzionale. Una prima camera, dunque, eletta con sistema maggioritario a collegio uninominale e con ulteriore premio di maggioranza per la lista che conquista la maggioranza relativa (al fine di garantire la governabilità e ricostituire il nesso elettore/eletto garantendo la minoranza parlamentare), una seconda camera che non dia la fiducia, ma possa fare proposte legislative in materia economica e istituzionale, sulla base di una discussione ed eletta con metodo proporzionale in modo da garantire e suscitare il confronto delle idee). Come che sia, il principio dell’interesse nazionale, da far valere non solo, come prima della riforma del 2001, rispetto all’attività delle Regioni, ma soprattutto per quanto concerne il ruolo dell’Italia nell’Unione europea (in quella esistente e in una riformata) è un principio dirimente per un’Italia che voglia, in politica interna e in politica estera, tornare ad essere un soggetto rispettato e protagonista. Da questo punto di vista la crisi causata dall’epidemia ha rivelato in tutta la sua gravità lo stato pre-agonico dell’Unione europea, del tutto priva di una linea unitaria in quanto unione e soggetta invece a spinte centrifughe, con la paradossale presenza al proprio interno, per esempio, di Stati (Olanda, Lussemburgo, Irlanda) che sono dei veri e propri paradisi fiscali che a causa del profit shifting fanno perdere all’erario italiano ogni anno quasi sette miliardi di euro, che pure gli spetterebbero. Rivendicare l’interesse nazionale, date queste premesse, non è solo una rivendicazione «particolaristica», ma deve anche significare, a ben vedere, ristabilire un rapporto di equità tra gli Stati che compongono l’Unione europea, nella prospettiva della fondazione di una nuova Europa.
II. Premesso, dunque, che il principio dell’interesse nazionale è elemento costitutivo non di una «ideologia» (che qualcuno definirebbe semmai «sovranista»), ma carattere distintivo di un modo ontologico di pensare e fare la politica, a partire da quella estera, c’è un ambito cui non si pensa con immediatezza, apparendo tema diverso e finanche, semmai, per specialisti: intendo il problema del potere giudiziario e delle «reti giudiziarie», cioè del fatto e della pratica, sempre più radicati, di costruire connessioni tra le corti giudiziarie – ordinarie, supreme e costituzionali – al fine di scambiarsi idee e opinioni, ma anche, di fatto, nella convinzione che possa esistere un «diritto globale» che si ponga al di sopra degli Stati nazionali e alle cui decisioni la politica interna dovrebbe prima o poi adeguarsi e sottomettersi. Evidente, questa tendenza, nella Relazione per il 2020 dell’attuale Presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia. Si tratta di un fenomeno che tutti i giuristi conoscono in particolare per quanto riguarda il diritto di famiglia, ma che si estende sempre più non solo per l’affermarsi di organismi sovranazionali (per esempio l’Unione Europea), ma anche per il moltiplicarsi di «dichiarazioni» e «carte» relative ai diritti dell’uomo (o, meglio, di status: di colore, donna, «migrante», apolide, «diverso», e via aumentando). Qui si afferma in particolare una metodologia sia di indagine sia di redazione che parte pregiudizialmente dall’idea di uomo (si può ancora dire?) e non di cittadino, sicché le conseguenze portano ad un primato del concetto astratto di uomo rispetto alla sua concreta manifestazione quale ente di cultura in determinate, specifiche realtà storicamente e territorialmente determinate. L’ideologia globalista impone che i giudici guardino sempre più non al diritto positivo vigente nel loro paese, ma al diritto quale viene costruito, prodotto, creato dalle corti. Una sentenza della Corte costituzionale tedesca può essere punto di riferimento per una sentenza del Conseil constitutionnel francese, così come la Corte costituzionale del Sud Africa (in questo caso la facoltà è costituzionalmente prevista dall’ordinamento sudafricano) deve adeguarsi ai princìpi «progressivi» posti da corti straniere.
In altri termini, l’ideologia globalista, quello che ho definito «giusumanismo», ovvero un’ideologia giuridica che colloca i diritti non solo al di sopra della politica, ma del diritto in quanto ordinamento positivo, costruisce un complesso di «princìpi» che si vogliono giuridicamente vincolanti. I princìpi, che giuristi come Zagrebelsky, Modugno e altri ritengono – sulla scorta delle teorie del filosofo del diritto americano Ronald Dworkin – essere superiori alle regole, cioè alle norme positive dell’ordinamento quale prodotto sia della storia sia della volontà politica, producono un insieme giuridico fondato sulle decisioni giudiziarie che si pone quale diritto immediatamente valido, fondato sulla morale, un diritto moralizzato, quindi superiore al diritto posto da un legislatore statale (donde la critica alla «statualità» e alla sovranità). Il «dialogo tra giudici» non è dunque solo un omologo «specializzato» dell’Unione Interparlamentare (anche questa ha tra i suoi campi di studio i «diritti umani»), ma qualcosa di più, perché si fonda nient’affatto su una determinata competenza tecnica, bensì su una specifica ideologia politica, rappresentata dal primato del diritto (e specificamente dei «diritti umani») sulla politica. Mi si consenta di citare un autore che ha scritto con competenza sui rischi della «giuristocrazia», non solo a livello domestico ma anche internazionale, R. Hirschl: «L’espansione della provincia delle corti nel determinare risultati politici a spese dei politici, dei funzionari pubblici e/o della popolazione si è allargata non solo più che mai prima d’ora a livello planetario; questa provincia si è anche espansa fino a diventare un fenomeno plurale, dalle molte facce, che si estende ben al di là del concetto ora usuale della politica fatta dai giudici tramite la giurisprudenza dei diritti costituzionali e il disegno dei confini legislativi da parte dei giudici. La giudizializzazione della politica include ora il trasferimento all’ingrosso alle corti di alcune delle controversie politiche più pertinenti e conflittuali che una società politica democratica può contemplare. Quello che è stato genericamente definito «attivismo giudiziario» si è evoluto al di là delle convenzioni esistenti che si trovano nella dottrina costituzionale normativa. Un nuovo ordine politico – la giuristocrazia – si è rapidamente imposto nel mondo» (Towards Juristocracy , 2004, p. 222).
L’ampliarsi del «dialogo tra giudici» a livello internazionale deve dunque allarmare la politica tanto quanto l’attivismo giudiziario a livello domestico. Non si tratta di entrare nel merito delle opinioni, che possono nel concreto essere buone o cattive, ma nelle conseguenze di una metodologia che indebolisce sempre più la politica e la sua autonomia riducendo a niente il principio dell’interesse nazionale. Il problema del ruolo dei giudici è stato posto male a partire da Tangentopoli, perché si è confusa una tendenza propria dello Stato costituzionale di diritto (ma ora, appunto, «post-costituzionale») con un fenomeno contingente determinato da volontà, interessi e maneggi particolari; la questione è radicale e chi oggi voglia non solo rimettere al centro il tema dell’interesse nazionale e della sua difesa deve porsi, insieme con la questione della forma di governo (presidenzialismo, cancellierato o altro), anche il problema del rapporto tra politica e giustizia, questione antica che oggi ha acquistato un rilievo e un’importanza centrali. Non è un caso che l’Unione europea si è costruita, prima di diventare terreno di pascolo di comitati e burocrazie anonime, proprio grazie alla Corte di giustizia, che di fatto ha «costituzionalizzato» un processo che avrebbe dovuto essere prima politicizzato (con una sovranità europea e non con la mera devoluzione delle sovranità nazionali a fantomatiche entità finalizzate poi alla costituzione di un «ordine mondiale») che «giuridificato». Che si tratti della Corte del Lussemburgo o della Corte tedesca di Karlsruhe a questo punto la differenza è irrilevante: c’è sempre un giudice da qualche parte che pretende di essere il depositario non più solo della «giustizia», ma proprio della sovranità politica. Si tratta dunque di porre con serietà e competenza il problema dei limiti della giustizia costituzionale, che significa poi, alla fine, ridare senso e dignità al diritto e ai suoi operatori in quanto tecnici e conoscitori del diritto positivo e non di vaghe e pallide idealità senza storia e senza terra. Ridare senso al diritto significa per me anche ridare dignità alla politica, intesa come governo della polis e quindi della nazione, non mera amministrazione al servizio di entità anonime cosiddette «sovranazionali». Finisco perciò citando un noto esperto proprio della giustizia costituzionale, L. Favoreau (Gouvernement des juges et démocratie, 2001, p. 213): «Ciò conferma che il vero problema del governo dei giudici non si pone a livello nazionale, ma a livello europeo. Dal momento che i giudici europei controlleranno le decisioni delle corti costituzionali nazionali, senza che sia possibile smentirle. Per me, il vero governo dei giudici comincia quando è impossibile smentire la decisione del giudice, quando il potere costituente non può “riprendere la parola”».
Il governo dei giudici è l’antitesi dell’interesse nazionale quale prassi politica, è la fine della politica o anche, se si vuole, l’inizio di un modo cripto-«elitario» di fare politica: emblematica la mossa recente della Corte costituzionale italiana, la cosiddetta «apertura» della Corte alla società civile, che rischia – se non è una mossa intenzionale – di fare del giudice costituzionale il legislatore «sacralizzato» del mondo post-moderno, non più il custode, ma il padrone della costituzione.
Agostino Carrino, professore ordinario di Diritto pubblico Università Federico II, Napoli