Perché occorre un’Authority per gli ivestimenti esteri

Per le società estere investire in Italia è storicamente una corsa ad ostacoli tra restrizioni, burocrazia, tasse, caos normativo ed una incompetenza generalizzata delle pubbliche amministrazioni. Qualcuno dirà che, dopotutto, almeno non si svende il paese preservando così l’italianità dell’economia. Nulla di più sbagliato! Attirare investimenti e know-how arricchisce il sistema produttivo del paese e certo non lo indebolisce.

Il Belpaese ha sempre avuto la presunzione di poter fare da sé. Forse colpa di quel narcisismo e vanità intrinsechi in una Nazione che ha dalla sua parte delle eccellenze riconosciute in tutto il mondo. Arte, storia, cultura ed, ovviamente il Made in Italy.

Questa consapevolezza in qualche modo ha penalizzato l’Italia, soprattutto per quanto riguarda la scarsa apertura verso chi viene dall’estero. Sarebbe opportuno prendere spunto dalle storiche rivali come Francia, Inghilterra e Germania, oltre ad altri player internazionali di caratura minore, che hanno puntato molto sull’attrazione di investimenti esteri incassando notevoli benefici e rafforzando le proprie economie, stando al contempo vigili ed attenti a non lasciare mai che il potere decisionale passasse in mani straniere.

Negli anni In Italia si è fatto pressoché il contrario. Abbiamo assistito ad abili operazioni di mercato quasi sempre svantaggiose per le imprese italiane, dove società estere (con “spalle coperte” dagli stessi paesi di provenienza) sono riuscite a prendere il controllo su molti asset strategici. Si è trattato di veri campioni nazionali passati ormai in mani straniere, ribaltando il concetto di attrattiva in permissivismo verso la depredazione del Made in Italy. L’Italia quindi si è rivelata debole ed inefficiente in quella competizione internazionale volta all’attrazione degli investimenti esteri cosiddetti buoni, diretti a portare benefici e ricchezza, dove si è vista superare persino da competitor molto più deboli ma (occorre ammetterlo) molto più organizzati ed agguerriti. In tutti i settori. Basti pensare all’Olanda, all’Inghilterra pre-Brexit, a Malta, a Cipro e ora persino agli Emirati Arabi che si sono tutti abilmente approfittati dall’insostenibilità della pressione fiscale italiana facendo si che molte aziende, soprattutto finanziarie ed erogatrici di servizi, trasferissero sedi e filiali operative in tali paesi allettati da condizioni fiscali favorevoli e zero burocrazia.
Riguardo la delocalizzazione industriale, invece, l’elenco comprenderebbe la quasi totalità dei paesi dell’Est Europa, dove le imprese italiane usufruiscono di manodopera più vantaggiosa a parità di qualità produttiva, di una ingerenza pressoché minima dei sindacati ed, ormai inutile dirlo, di un regime fiscale agevolato e attento alle esigente di chi investe. In molte di queste nazioni l’investitore estero viene affiancato persino da un tutor statale che lo aiuta a sbrigare gli adempimenti burocratici ed amministrativi.
Infine, pur brevemente, occorre menzionale le università, una vera arma di attrazione, questa volta non di investimenti bensì di menti eccelse provenienti da altri paesi, che poi si trasformano in ricchezza nazionale. L’Italia oggi si può difendere a malapena con la Bocconi e con il Politecnico di Milano. Sono tutte chance mancate. Difficilmente recuperabili ma non perse, qualora il Governo sia deciso a cambiare il modello attuale.  Se pensiamo a quante agenzie si occupano di attrazione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy, da Invitalia a SIMEST, ICE, il Comitato Attrazione Investimenti
Esteri (CAIE) presso il MISE, colpisce la scarsezza dei risultati raggiunti.
Certo, anche tali soggetti non possono fare miracoli se prima non si procede alla sburocratizzazione, alla digitalizzazione del paese, all’alleggerimento della pressione fiscale e all’adeguamento del sistema anche guardando (e perché no? Prendendo a modello) ciò che fanno gli altri.
L’attuale governo dovrebbe seriamente prendere in considerazione una politica di concertazione della gestione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy. Ciò può avvenire attraverso la creazione di una vera e propria Authority che si occupi non solo di coordinare l’azione delle predette agenzie, ma di fare anche da tramite tra le imprese estere e tutti gli interlocutori italiani, pubblici o privati che siano, onde eliminare quell’impasse burocratico che schiaccia ogni entusiasmo ad investire in Italia.
Questo lavoro di coordinamento è fondamentale considerato che ogni impresa estera che vuole operare in Italia si imbatte in problematiche grottesche.
Un breve esempio. Una società estera (UE) che vuole operare in Italia come prima cosa costituisce una newco davanti al Notaio che provvede a registrarla presso la Camera di Commercio e segnalare l’inizio attività all’Agenzia delle Entrate. Da questo momento inizia il calvario. La società, desiderosa di cominciare a lavorare, a creare posti di lavoro, a produrre o fornire servizi, va ad aprire un conto corrente dove versare il capitale sociale. Però non si può. Se la neocostituita (di diritto italiano, regolarmente iscritta) ha più del 20% di capitale estero (ed è ovvio che sia così, si tratta di investitore estero) nessun istituto bancario italiano è disposto ad aprirle un conto. Senza spiegazioni, senza motivazioni, salvo evidenziare che trattasi della policy bancaria italiana. Nel frattempo arriva la burocrazia. La neocostituita società (il cui investitore estero ancora non ha ancora versato il capitale sociale visto che non gli aprono un conto) si scontra immediatamente con una serie di altre problematiche, tra cui l’obbligo del pagamento della bollatura dei libri sociali che nel 2022 si fa ancora per mezzo di bollettino postale cartaceo compilable a mano (Digitalizzazione? Manco a parlarne). Senza contare che i siti web istituzionali (Agenzie governative, P.A.) che contengono le linee guida, i regolamenti, le normative, elementi preziosissimi per il corretto operato amministrativo di una società, sono esclusivamente in italiano relegando le poche sezioni in inglese a informazioni parziali ed incomplete. A questo punto il malcapitato investitore estero alza comprensibilmente i tacchi e se ne va in Olanda. O a Dubai. Ovunque ma non qui.

Infine, si è sempre saputo che il grado di attrattività degli investimenti esteri si basa sulla stabilità politica di un paese. Quindi, è ovvio che fino ad oggi non abbiamo avuto molte chance. Basti come esempio ciò che è avvenuto anni fa con il Fondo del Qatar. All’invito dell’allora primo ministro italiano ad investire nel Belpaese, il Qatar ha declinato l’invito rispondendo che l’Italia non forniva garanzie di stabilità politica considerato il noto avvicendarsi di governi di breve durata. Neanche a farlo apposta dopo pochi mesi il noto epilogo del governo Letta e delle rassicurazioni di Renzi a stare sereno. L’attuale Esecutivo ha invece tutte le carte per portare a termine la legislatura e questo dovrebbe rassicurare gli investitori stranieri. Quindi è il momento di agire.  C’è un sistema paese da riformare, perché solo un paese moderno, digitalizzato, con un apparato burocratico snello e reattivo può creare le condizioni giuste per attrarre investimenti ed eccellenze verso l’Italia. Serve quindi un’Authority che coordini e affianchi tutte le agenzie attuali preposte a tale scopo, che vigili sull’operato di banche e P.A. riguardo le politiche adottate verso le società estere e crei delle regole snelle e chiare per accogliere le imprese straniere. Oltre all’esigenza di un portale unico dedicato, in inglese, con una forte connotazione anche pubblicitaria (utile anche per la promozione inversa del Made in Italy) che costituirebbe senz’altro uno strumento imprescindibile per l’attrazione degli investimenti e per la conseguente prosperità del paese.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Come difendere la qualità italiana

Questo saggio di Luisa Todini presidente del Comitato Leonardo, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Il momento estremamente difficile che il nostro Paese, unitamente alla maggior parte delle altre nazioni industrializzate, sta affrontando è del tutto straordinario ed impone riflessioni che impattano pesantemente su tutte le politiche economiche ed industriali da adottare. Va innanzi tutto considerato che l’Italia è il settimo Paese manifatturiero mondiale, con un comparto export componente irrinunciabile del Pil nazionale, contribuendo per oltre il 35% alla sua formazione, ma anche un Paese di industrializzazione relativamente recente, che ha saputo raggiungere in pochi decenni una produzione estremamente differenziata unita ad un settore agroalimentare vitale, strategico e di altissima qualità. I suoi fattori valoriali sono cambiati negli anni, e la qualità oggi ha in larga misura sostituito il prezzo del prodotto per la competitività del «Made in Italy».

Il nostro sistema industriale, sviluppatosi a cavallo del primo conflitto mondiale, solo nei primi anni Trenta inizia ad essere parzialmente competitivo a livello internazionale. Il secondo conflitto mondiale interrompe tutto ciò, ed alla fine della guerra la situazione dell’Italia è drammatica, con la produzione industriale al 30% di quella prebellica, le aziende fortemente danneggiate o obsolete, le infrastrutture carenti. La ripresa è tuttavia impetuosa: nei 15 anni dal 1945 al 1960 si passa, con una velocità sorprendente, da «l’Italia della ricostruzione» a «l’Italia del miracolo economico», col sistema industriale che è il grande protagonista di questo periodo, e trova il suo sbocco naturale nella crescente domanda interna di nuovi e più moderni prodotti, assorbendone oltre il 75% della produzione. L’export negli anni ‘50 si indirizza fondamentalmente verso mercati tradizionali e contribuisce solo per il 15% alla formazione del Pil.

Negli anni Sessanta la produzione industriale continua a crescere ed inizia ad essere in esubero rispetto alla domanda interna. L’export diventa sempre più uno sbocco essenziale per l’economia delle imprese: i mercati di riferimento rimangono quelli europei e, parzialmente, il Nord America, i punti di forza sono saldamente ancorati alle produzioni tradizionali. Tra 1960 ed il 1970, l’Italia comincia ad essere considerata la migliore produttrice di prodotti di buon gusto e fattura, la cui competitività è fondata essenzialmente sulla varietà degli stessi ed il prezzo. All’inizio degli anni Ottanta si afferma anche la qualità tecnologica dei macchinari italiani, che conquistano importati quote di mercato; ma accade ciò che condizionerà in assoluto la percezione internazionale dei nostri prodotti: esplode il boom dell’alta moda italiana. Da sempre ancillare alla moda francese, e sulla spinta di alcuni grandi stilisti – Valentino, Armani, Versace in primis – la nostra moda diventa il vero sinonimo di eccellenza, innovazione, gusto e lusso. E si inizia a parlare di Qualità Globale come elemento portante del «Made in Italy».

Quasi negli stessi anni scoppia negli Usa uno scandalo destabilizzante per tutto l’export italiano, quello dell’etanolo nei vini italiani, cui segue un crollo verticale dell’export del settore sul mercato americano e non solo. Con una decisione assolutamente innovativa viene deciso di lanciare una grande campagna promozionale, che punti non più sulla convenienza del prodotto, ma sulla qualità. La campagna ha un grandissimo successo ed influenzerà tutte le iniziative promozionali degli anni a venire: è la qualità del prodotto che viene indicata come il vero fattore vincente, a prescindere dall’elemento prezzo. Tutti questi eventi contribuiscono, in modo decisivo, a cambiare il metro di valutazione del «Made in Italy» da parte del mondo intero.

Con gli anni Novanta e la fine del bipolarismo internazionale, inizia l’era della globalizzazione e della liberalizzazione dei mercati. Sorgono nuovi competitor, che attaccano l’export italiano su quei prodotti economici o di livello medio dove il fattore prezzo rimane elemento assolutamente determinante. Le imprese italiane si trovano da un lato spiazzate per l’enorme differenza dei costi di produzione, e dall’altro costrette a trovare un riposizionamento produttivo ed un nuovo approccio commerciale sui mercati avanzati. Non basta più essere, come negli anni Settanta e Ottanta, dei buoni produttori per vendere: bisogna consolidare l’impresa e radicarsi sui mercati esteri, e questo può essere fatto solo arricchendo l’offerta con quei valori aggiunti che possono qualificare un prodotto: aumento del livello qualitativo, diversificazione in base ai mercati di destinazione, accorte politiche di vendita, servizi post-vendita, difesa del marchio. Al «Made in Italy» viene soprattutto richiesta una garanzia: lo standard di qualità dei prodotti. È in questa ottica che nasce, nel 1993, il Comitato Leonardo: un’Associazione indipendente di imprese, fondata da Confindustria e Ice, che riunisca l’eccellenza del «Made in Italy» e ne porti avanti i suoi valori fondanti: capacità innovativa, eccellenza produttiva, qualità esclusiva. Viene superato il concetto del lusso – che, al contrario, continua ad essere considerato dirimente da altri Paesi concorrenti, quali la Francia – per includere anche prodotti teoricamente «poveri», o economici, ma di totale leadership mondiale nel loro settore. Nell’intuizione italiana, il concetto di Qualità si dilata, in quanto include tutti gli altri fattori che concorrono a distinguere un prodotto: l’origine, l’innovazione, la tecnologia, lo stile, la competitività. Ecco così che questo concetto di «qualità globale» diviene il vero elemento distintivo e parte imprescindibile del «Made in Italy».

Nel nuovo secolo la concorrenza mondiale diventa più pressante: la globalizzazione porta investimenti produttivi e tecnologici anche in paesi emergenti a basso costo, l’offerta globale diviene più ampia e riguarda anche produzioni sinora considerate esclusive dei paesi avanzati. Il mercato globale si presenta molto più incerto rispetto al passato, con grandi tensioni internazionali, nuove barriere politiche e normative al libero scambio, una Brexit dalle conseguenze ancora non prevedibili, crisi economiche latenti e nuovi competitor. Emerge anche un altro forte elemento distorcente, a lungo sottovalutato, che limita pesantemente l’espansione del nostro sistema, ma anche il mantenimento di quote di mercato ormai acquisite: quello del prodotto «simil-italiano», contraffatto o ingannevole, che è stimato valere, per i soli prodotti agroalimentari, circa una volta e mezzo in più dell’intero export nazionale del settore. È una realtà difficile da contrastare, che riguarda anche altri settori, quali la moda, l’arredo, il design ed anche una parte dei beni strumentali: una vera e propria concorrenza illegale.

Se il prodotto italiano riesce a mantenere il passo della concorrenza soprattutto grazie al fattore qualità, si cominciano tuttavia a notare le prime crepe del mondo idealmente liberalizzato che era il presupposto della globalizzazione: nascono pulsioni protezionistiche, cresce l’insofferenza dei paesi meno sviluppati, sorge il protagonismo di nuovi giganti economici. In questo quadro così mutevole e potenzialmente instabile, si inserisce improvvisamente e prepotentemente la pandemia del Covid-19, diffondendosi con una rapidità inaudita in tutto il mondo creando, immediatamente, una stasi in tutte le attività economiche, ponendo quesiti sul come e quando riprendere e sui possibili scenari futuri. Appare innanzi tutto chiaro che la prima emergenza (superata, almeno parzialmente, quella sanitaria) sarà assicurare la conservazione economica e produttiva delle aziende italiane. È un aspetto questo che coinvolgerà tutti gli strumenti economici e finanziari del governo, ma che non potrà prescindere da un poderoso intervento dell’Europa, a costo della sua stessa sopravvivenza come unione politica ed economica tra Stati. Il secondo aspetto, più strettamente legato alla tematica base di questo intervento, riguarda l’esigenza di rafforzare e proteggere l’export italiano, rilanciando il concetto che comprare «Made in Italy» non significa solo acquistare un prodotto, ma soprattutto un’idea: quella qualità globale che ne è alla base conferendo ad ogni prodotto italiano una sua precisa identità, fatta di tradizione e al tempo stesso di innovazione. Anche qui occorre intraprendere iniziative finanziarie a largo respiro, che intervengano sia esternamente (sui mercati, sui consumatori, sul trade) sia all’interno delle aziende, la loro formazione e riorganizzazione, nonché su nuove politiche commerciali e promozionali.

In grande sintesi, possono essere così elencate:

  1. il primo intervento, che deve vedere il Governo assolutamente protagonista affiancandosi e coordinando anche tutte le misure decise dalla Ue, riguarda il sostegno economico alle imprese, sia sotto forma di liquidità che di garanzie, con prestiti a lungo termine ed a fondo perduto. Cancellazione parziale dell’anno fiscale. Eliminazione di quella giungla burocratica per arrivare ad una «Italia facile» che consenta alle stesse di superare la straordinaria emergenza e riprendere più forti di prima;
  2. indispensabile, con riferimento all’export, che il Governo imposti una convinta politica di sostegno dei principali settori produttivi, attraverso iniziative globali con progetti pluriennali, a forte componente mediatica, articolati con strumenti che la moderna politica di promotion può offrire e che ribadiscano come la qualità sia «il» valore assoluto del «Made in Italy»;
  3. per bloccare i prodotti imitativi o falsificati deve essere perseguita una sempre più decisa e rigorosa politica di forte contrasto, attraverso tutti gli strumenti legali e giuridici disponibili ed un convinto supporto del nostro Governo. In particolare per la difesa dell’autentico italiano è fondamentale lanciare una forte campagna di informazione e formazione del consumatore estero, che possa metterlo in grado di riconoscere il vero dal falso, la qualità del prodotto italiano dalle sue imitazioni;
  4. investire su una continua opera di educazione aziendale tesa alla convinzione che la difesa del prodotto si attua innanzitutto in casa, tramite un attento controllo dei processi produttivi e qualitativi del prodotto, che conduca anche a quella sostenibilità sempre più dirimente per i consumatori;
  5. Rafforzare ed incentivare le iniziative volte ad accelerare investimenti tecnologici ed innovativi in tutti gli aspetti del processo produttivo, gestionale e commerciale soprattutto delle piccole e medie imprese che rischiano di essere tagliate fuori dai grandi cicli di rinnovamento. È ormai chiaro che la promozione si modificherà radicalmente, almeno a breve, rispetto agli schemi tradizionali, e sarà fondamentale raggiungere direttamente il consumatore.

Un programma vasto, come si vede. Ma una crisi straordinaria come l’attuale impone un progetto altrettanto straordinario che, nella sua complessità, può essere realizzato se tutte le controparti, Imprese, Associazioni, Governo, sapranno collaborare per quella che sarà la vera sfida del nostro tempo, quella del dopo-virus: rafforzare le imprese per superare la grande crisi mondiale, sostenere e consolidare il «Made in Italy» nella sua posizione di eccellenza pronte al nuovo grande mercato post-globale che verrà.

*Luisa Todini, presidente Comitato Leonardo