Come l’Europa può affrontare la disinformazione

La prosecuzione delle ostilità in Ucraina da parte della Russia è destinata ad esporre per lungo tempo l’Unione Europea all’incessante attività di disinformazione di Mosca. Questo genere di minacce asimmetriche sono anche le uniche praticabili, insieme agli attacchi hacker, da un paese prostrato dalla guerra ed economicamente allo stremo. Oltre a richiedere risorse inferiori rispetto ad altre attività destabilizzanti infatti, sfruttano una profonda conoscena della materia che risale ai tempi dell’Unione Sovietica e che è stata sapientemente adattata dalle agenzie russe per operare nelle piattaforme digitali.

La cifra per comprendere lo sforzo messo in atto da Mosca e il suo impatto sui paesi occidentali, è rappresentata dal rapporto costi-benefici estremamente favorevole, basato sull’uso massiccio dei grandi social network. In assenza di disposizioni specifiche per la disinformazione, il rischio è che i processi di autoregolazione si concentrino solo sul temi affini al mare magnum del politicamente corretto. Di conseguenza, una minaccia asimmetrica come quella russa verrebbe ignorata o peggio inquadrata sotto categorie diverse, lasciando gli utenti finali in balia di contenuti fuorvianti e ingannevoli.

Acconsentire a soluzioni alternative, che permettono alla disinformazione di russa di circolare in libertà, arrivando ad inquinare il nostro universo informativo, è una pura follia. Altrettanto ipocrita è invece fare affidamento sulla sola consapevolezza degli utenti, notoriamente assente, nella distinzione delle notizie false.

Il dibattito non ruota infatti sulla correttezza o meno della dottrina del “free speech”, rapportata al pluralismo delle idee tipico di una società complessa come quella contemporanea. Nel caso Russo siamo di fronte ad uno sforzo massiccio e deliberato, che accompagna quello bellico e mira a destabilizzare l’opinione pubblica occidentale, minando la fiducia nelle istituzioni democratiche, a vantaggio di una guerra di aggressione perpetratata ai danni dell’Ucraina.

Questo genere di attività spiccatamente asimmetriche non consentono una risposta adeguata da parte dei paesi interessati. La Russia infatti ha accentuato negli ultimi anni la sua postura autoritaria, esercitando un controllo diretto sull’intera sfera mediatica a cui è dedicato un intero apparato repressivo. Al contrario Mosca ha potuto usare piattaforme digitali sviluppate negli Stati Uniti per diffondere nella più totale impunità i propri contenuti, che è chiaro vadano oltre la semplice propaganda politica altrimenti permesssa.

Durante la pandemia è stata alimentata in modo surretizio e ingannevole la sfiducia di vaste fasce della popolazione verso i vaccini per il Covid19, sostenendo sia l’efficacia superiore di preparati come Sputnik, che la pericolosità degli stessi farmaci. In alcuni paesi come Bulgaria e Romania, nei quali le istituzioni faticano a riscuotere consenso, l’inquinamento mediatico è stato tale che milioni di cittadini sono stati portati a non vaccinarsi, con conseguenze sul piano sanitario catastrofiche. Se siamo dinanzi ad un nuovo paradosso della tolleranza, il concetto può essere sintetizzato così: la difesa della libertà di espressione e di opinione alla base delle democrazie occidentali, rischia di porsi come una paradossale debolezza nell’era delle piattaforme digitali.

Oggi i tradizionali pilastri su cui si reggono le nostre istituzioni, sono minacciati sia da un uso a dir poco disinvolto di tecnologie concepite in paesi autoritari, come la Cina, che dalla massiccia diffusione di fake news, destinate a condizionare i processi democratici e le stesse forze politiche. Ancor di più quelle che incautamente stringono rapporti con alleati purtroppo solo “apparenti”.

Non siamo però privi di difese: lo strumento di cui l’Unione Europea si è dotata per regolare le piattaforme come Facebook e Twitter, il Digital Services Act (DSA), è stato concepito prima dell’aggressione all’Ucraina. Il testo finale, non ancora pubblicato, è frutto di un paziente lavoro di mediazione e non deve soprendere dunque il carattere compromissorio. Le soluzioni a cui perviene tuttavia, sono in grado fin da subito di affrontare la minaccia dell’infodemia, imponendo precisi obblighi di condotta alle piattaforme digitali: in primis queste saranno tenute ad essere più trasparenti nei processi interni, con precise responsabilità nelle modalità di rimozione dei contenuti illeciti, compresa dunque la filiera della disinformazione. Gli obblighi rimarranno comunque di natura preventiva o volontaria e sono privi della “specialità” richiesta da una situazione di crisi come quella in Ucraina, ma vanno nella giusta direzione e non è escluso che la Commissione Europea riesca ad ottenere nuovi poteri.

Anche l’approccio scelto dal Regno Unito nella lotta alla disinformazione è degno di nota. Originariamente infatti Londra prevedeva che un’autorità dedicata fosse dotata di poteri sufficienti per esercitare vere e proprie ingerenze nella gestione delle piattaforme, sindacando direttamente le scelte di rimozione dei contenuti illeciti. Questa decisione, duramente osteggiata per i rischi che avrebbe comportato alla libertà di espressione, è stata abbandonata e il nuovo Online safety Bill si concentrerà, non tanto sui processi interni dei social network, ma sul potenziale danno che può provocare ciascun contenuto, indipendentemente dalla sua illiceità. Ciò si traduce in un’analisi individuale e meticolosa delle attività degli utenti, che richiderà ingenti risorse economiche per assicurare un controllo effettivo sulla disinformazione, i cui confini sono labili e difficili da distinguere con l’uso dei soli algoritmi.

Altro capitolo degno di nota è quello dell’editoria e della televisione, che diffondono anch’esse un notevole flusso di disinformazione. In questo caso però è l’Italia a fare eccezione: siamo l’unico tra gli Stati fondatori dell’Unione in cui è concepibile ospitare, nelle reti più importanti e in prima serata, opinionisti direttamente legati agli apparati di sicurezza russi, se non addirittura lo stesso Ministro degli Esteri senza contraddittorio.  L’anomalia italiana apre interrogativi inquietanti perché va oltre il mezzo punto di share conteso per la raccolta pubblicitaria dai conduttori. Individuati come anello debole dell’Europa, da diversi mesi siamo avvolti da un cordone infodemico in nome di una mai chiarita affinità con Mosca, che mette nel mirino il sostegno all’Ucraina del Governo e che dovrebbe propiziare un allontanamento dalle posizioni occidentali. Questa ambiguità di fondo è ormai assimilata anche dal pubblico, che non si sorprende neppure dei bizzarri piani di pace presentati con istinto velleitario da leader che sostengono la maggioranza.

Il doppio livello in cui opera la disinformazione Russa, sia nella società che ai vertici della politica, è un indice di grande debolezza, che si riscontra solo nei paesi in via di sviluppo con istituzioni facilmente condizionabili. Non basta dunque regolare le piattaforme o le modalità di selezione degli ospiti televisivi, se è la stessa politica a veicolare con irresponsabilità messaggi fuorvianti.

Oggi più che mai centrosinistra e centrodestra devono avviare un percorso di rinnovamento delle rispettive classi dirigenti, che elimini gli spazi di ambiguità esistenti con la Russia. Il voto del 2023 sarà uno spartiacque della futura collocazione dell’Italia in Europa e il contesto internazionale non permette indecisioni o tentennamenti. Solo chi respingerà con risolutezza le interferenze di Mosca potrà pensare di far parte a pieno titolo dell’area di governo e guidare il Paese in una nuova fase per l’Occidene, dove non troverà spazio la doppiezza figlia di una “dottrina del ricatto” a cui abbiamo tristemente scelto di sottostare in passato.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Ottaviani: brigate russe in azione, oggi

Una guerra subdola, impalpabile, all’apparenza meno invasiva dell’orrore a cui stiamo assistendo in Ucraina, ma che sul lungo termine procura danni irreparabili. Un Paese, l’Italia, che per motivi storici ed economici viene percepito dai russi come particolarmente appetibile e malleabile e che adesso si trova davanti il rischio concreto di vedere il voto politico del 2023 influenzato indirettamente da Mosca. Marta Ottaviani nel suo libro Brigate Russe (edito da Ledizioni e pubblicato un mese prima lo scoppio della guerra in Ucraina) ha spiegato cosa sia la guerra non lineare e perché nessun Paese possa dirsi al sicuro.

Marta Ottaviani, come potremmo definire la guerra non lineare russa?

Riassumendo al massimo, si tratta di un insieme di misure volte a destabilizzare il nemico senza che questo se ne accorga, o lo faccia solo quando è troppo tardi. Le caratteristiche della guerra non lineare sono sostanzialmente due: la prima è che non si ferma mai, va avanti anche in apparente tempo di pace, la seconda è che è difficilissima da attribuire con esattezza in tempi rapidi, perché viene portata avanti soprattutto sulla rete, che è il campo dell’anonimato per eccellenza.

Quali sono queste misure?

Attacchi hacker, sciami di troll che hanno il compito di inquinare il dibattito pubblico, un sistema di soft power particolarmente aggressivo e, solo in alcuni casi, l’impiego di truppe non regolari. Sottolineo non regolari perché in Crimea nel 2014 sono riusciti a camuffare invasione proprio così. Ci sono voluti anni per capire quello che era successo veramente.

Perché dobbiamo interessarci alla guerra non lineare russa?

In questi mesi stiamo assistendo a una guerra di tipo convenzionale, novecentesca, scellerata, che sta trascinando in un gorgo l’Ucraina, la Russia e tutta la comunità internazionale. La guerra non lineare però è la guerra del futuro e dobbiamo davvero imparare a farci i conti perché sarà sempre più invasiva e sempre più difficile da individuare in tempi brevi.

Pensa che sia a rischio anche l’Italia?

L’Italia in questo momento è sotto un violento attacco di infowar, che non ha precedenti nel nostro Paese. Dall’analisi degli interventi degli ospiti nei talk show, l’attivismo sui social dell’Ambasciata russa e l’aumento degli account sulle varie piattaforme proprio in occasione di questa guerra mi fa pensare che ci sia una strategia precisa.

Quale?

Portare il nostro Paese dalla parte di Mosca e, se possibile, influenzare anche il voto politico del 2023, sul modello di quanto fatto negli Stati Uniti nel 2016 e in occasione del referendum sulla Brexit dello stesso anno. In Ucraina la Russia sta bombardando innocenti, con la guerra non lineare si bombardano le menti delle persone.

Come ci si difende?

In tanti modi, a partire da una corretta educazione digitale, che secondo me dovrebbe essere insegnata a scuola alle nuove generazioni per le quali i social e il metaverso diventeranno realtà con cui si confronteranno sempre di più. In secondo luogo, si parla giustamente del diritto all’informazione, ma troppo poco spesso del fatto che, nel momento un cui diffondiamo una notizia che abbiamo letto e che troviamo vera, diventiamo parte attiva. Quindi informarsi in modo corretto e approfondito, evitando fakew news, teorie complottiste o le uscite dell’opinionista improvvisato di turno, adesso è anche un dovere. E soprattutto tenere presente una cosa: per noi la libertà di informazione è un valore sacro e irrinunciabile, per la Russia di Putin un ventre molle in cui colpire. Va difesa con la censura, ma con la consapevolezza che qualcuno usa l’informazione per fare la guerra. Le parole d’ordine quindi sono approfondimento e selezione.

O SI (RI)FA’ IL CENTRODESTRA O SI MUORE

“Dall’Alpi a Sicilia”, prima delle fatidiche politiche del ’23 ci saranno svariate competizioni elettorali: Genova, Palermo, Messina, Verona, Padova, Parma ect; ci saranno anche appuntamenti importanti come le regionali della Sicilia.

Il titolo di questo articolo che rievoca un momento storico fondamentale per il nostro Paese non è stato scelto a caso per incutere scalpore ma dovrebbe essere, sperando di riuscirci, il punto di sintesi di un ragionamento articolato.

Prima la pandemia e ora la guerra in Ucraina ci hanno messo di fronte al fatto che l’Italia ha necessità di un nuovo risorgimento – volendo usare lo stesso termine usato qualche giorno fa in una bellissima conferenza – non più procrastinabile. Ciò che doveva animare lo spirito delle alleanze in questi “appuntamenti minori” – che dovrebbero essere il banco di prova delle politiche (e si è ancora in tempo per redimersi) – doveva essere l’esigenza di rivedere il concetto di coalizione di centrodestra. Si imponeva una maggiore responsabilità anche nel risparmiare al proprio elettorato i teatrini che non onorano una classe dirigente che dovrebbe occuparsi dei veri problemi del Paese; sia quelli attuali sia quelli che devono essere risolti nel futuro da una programmazione oculata per ridare dignità al popolo Italiano. Vi è la necessità di sentir parlare di programmi, programmi autorevoli supportati da cifre e non sentire slogan e libri dei sogni. C’è chi lo ha capito e ha orientato le proprie vele in quella direzione, ma ancora non è sufficiente. Rifare (o fare) il centrodestra non è questione di incollare fazioni per vincere elezioni, ma è questione vitale trovare il collante in un programma scritto a monte. Per fare tutto ciò è necessario individuare la  cometa politica da seguire. Può mai esserci interesse a perpetuare l’assistenzialismo in Italia? Lo statalismo mascherato da buonismo? Possibile ancora saziare la ingordigia famelica dei burocrati? I dati sono chiari: escludendo le pensioni, le voci più corpose del bilancio dello Stato riguardano il mantenimento della macchina pubblica inefficiente ed inefficace e un welfare improduttivo spezzettato in mille rivoli che hanno l’odore di mance elettorali. E’ palese che gli investimenti per la scuola, l’università e i lavori pubblici per le opere utili al Paese sono insufficienti. Altro tema importante: quanti enti inutili e dispendiosi supporta il contribuente italiano? Quante società partecipate fatte solo da consiglieri di amministrazioni deve supportare il contribuente italiano? Occorrerebbe (salvando le aziende che trattano la sicurezza Nazionale) privatizzare tutte quelle aziende – e nel contempo liberalizzare – che oggi sono macigni per l’Italia e che invece potrebbero divenire realtà per una maggiore produzione italiana; è chiaro che bisogna aggiustare anche il tiro sulle privatizzazioni perché in Italia vi è lo strano “vizio” di privatizzare gli utili e socializzare le perdite – una sorta di capital comunismo – e questo, come direbbe un esimio professore e Senatore della Repubblica che risponde al nome di Basini, è peggio del comunismo stesso.

Inoltre, la CGIA di Mestre ha stimato che in Italia la burocrazia costa al sistema circa 100 miliardi di euro l’anno – metà PNRR – e questo non può più essere tollerabile né per le imprese italiane né per le imprese straniere che potrebbero avere interesse ad investire nel nostro Paese. Oggi sorvoliamo sulla giustizia.

I punti focali ( e tanti altri ve ne sarebbero) che dovrebbero essere motivo di confronto tra le forze politiche della coalizione di centrodestra dovrebbero essere questi perché si deve assolutamente scongiurare un futuro con governi di sinistra o governi di responsabilità nazionale come quello che ci sta governando adesso. Non oso immaginare i danni sociali ed economici che possono derivare ( in un momento di “ripresa sotrica”) se dovessero vincere le elezioni politiche i sinistri insieme a quel che rimane dei cinque stelle. Ovviamente i punti di partenza si dovranno limare in base alle varie peculiarità dei partiti, trovando la sintesi migliore.

È fondamentale che questa grande lungimiranza abbia continuità territoriale e che lo schema strategico sia unico su tutto il suolo Italiano; ed è fondamentale perché l’elettorato di centrodestra ( liberali, imprenditori, commercianti, giovani sognatori) non ha la stessa caratteristica dell’elettorato di sinistra che è più un apparato di sistema. Capita spesso, infatti la storia ne è testimone, che per la scelleratezza politica del centrodestra l’elettore non va a votare perché non percepisce una reale e pragmatica soluzione ai suoi problemi quotidiani. I “sinistri” vanno sempre invece, anche se piove.

Quindi, concludendo, ci deve essere una cometa politica a destra ed essa deve essere seguita e per vincere e per risultare incisivi nella risoluzione dei problemi; a tal proposito non posso non pensare ad un  intervento del professor Carlo Pelanda che potrebbe, anzi dovrebbe, essere di ispirazione. I suoi insegnamenti e le sue ricerche soddisfano anche i liberisti più accaniti perché danno prova di un equilibrio razionale risolutore. È chiaro che bisogna sburocratizzare, dare spazio al mercato e accrescere il capitalismo di massa come è chiaro che non si può abbandonare il bisognoso e l’infermo; ma non si può pensare di continuare a dare sussistenza a giovani solo per lasciarli fuori dal mercato del lavoro. Il reddito di cittadinanza sta producendo innumerevoli problemi sia economici che sociali perché è percepito in larga parte da potenziale “forza lavoro” che si è rassegnata e abituata al divano e si tolgono pure risorse economiche non indifferente da capitolo più produttivi. Se proprio deve esserci sussistenza che sia almeno proficua, attivando dei seri percorsi extra scolastici (e non la formazione che siamo abituati a vedere) anche all’interno delle aziende  che consentano alla fine di questi percorsi di immettere nel mercato del lavoro tutti questi giovani (e meno giovani).

Quanto ciò scritto è il reale bisogno di un Paese che ha smarrito se stesso e nel medio-lungo periodo ha bisogno di ritrovarsi.

*Antonio Moscato, imprenditore

Cominciamo a riformare l’ONU

Lo avevamo intuito già all’indomani del fatidico 24 febbraio, inizio dell’aggressione russa in Ucraina.Ed oggi dopo aver vissuto, anche soltanto attraverso i media, questi ultimi 43 giorni di guerra ce ne convinciamo sempre di più.
Siamo ad un punto di svolta nella storia, un passaggio epocale.
Il mondo che sognavamo non c’è più, e forse non c’era nemmeno prima!
A questa conclusione siamo giunti applicando la conseguenza logica degli orrori del fronte, di una riprovazione internazionale mai vista, di gravi sanzioni che fanno male a chi le applica prima che a chi le subisce, dell’uso degli epiteti e aggettivi personali più infamanti, delle minacce durissime paventate da ambo le parti.
Tutto ciò porta ahimè ad una pratica irreversibilità della situazione, la certezza, più che il timore, che nulla sarà più come prima.

E se è vero che questo “prima” ha contribuito a portare il mondo sull’orlo del baratro di missili nucleari ormai a “sicure disinserite”, è anche vero che bisognerà assolutamente cambiare il sistema che dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale ha condizionato  il mondo.
Oggi ho finalmente concordato in pieno-e non mi succede spesso-con Zelensky quando ha affermato che chi siede nel consiglio di sicurezza dell’ONU non può macchiarsi di crimini contro l’umanità e quando ha chiesto a gran voce una nuova Norimberga: due temi a me cari.
Il primo sull’ONU, che io considero  la madre di tutte le ingiustizie.

Nonostante occorra dare atto al coraggio della diplomazia italiana che provò a riformarlo nella metà degli anni 90, ad opera del compianto Ambasciatore Francesco Paolo Fulci, senza che gli ex “five winners” abbiano mollato l’odiosa e ormai  anacronistica rendita di posizione imposta come fece Brenno con la sua spada.
Il secondo tema proviene dal non poter dimenticare le atrocità dei bombardamenti a tappeto con cui i sedicenti alleati hanno ucciso migliaia di inermi civili nostri connazionali (anche lì c’erano donne e bambini)  e raso al suolo le nostre città, patrimonio dell’umanità. Per non parlare poi delle bombe atomiche americane sganciate per provarne l’efficacia su centinaia di migliaia di giapponesi, ormai distrutti e pronti ad una resa incondizionata.

Gli enormi errori geostrategici commessi dal sistema “post war two” sono molteplici,impressionanti nelle loro conseguenze e meriterebbero il contributo di tutto un mondo realmente libero e svincolato dagli interessi di questa o quella parte. È questa la sola utopia che può salvarci dall’ auto annientamento? Non so, intanto cominciamo a rimettere in discussione l’ONU.

*Carmelo Cosentino, ingegnere, presidente ASE spa

Il Copasir aveva denunciato l’aggressività della Russia

Pubblichiamo il testo dell’intervento del 1° marzo  del senatore Adolfo Urso in occasione del dibattito in Aula sulla posizione dell’Italia sulla guerra in Ucraina

Signor Presidente, intervengo per la prima volta in quest’Aula da quando sono stato eletto Presidente del Copasir, utilizzando il tempo che mi è stato concesso dal mio Gruppo per evidenziare innanzitutto proprio quanto il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica abbia fatto in questi mesi proprio sulle questioni che ora dovremo necessariamente affrontare, in un clima di emergenza sull’onda della guerra nella nostra Europa. Sarà poi il senatore La Russa, in sede dichiarazione di voto, a esporre la posizione del Gruppo.

In questi mesi, con gli altri colleghi del Copasir abbiamo svolto un’intensa attività, come prescrive la legge, in vincolo di segretezza, con indagini, audizioni e analisi di cui abbiamo dato conto in relazioni specifiche al Parlamento – queste sì – pubbliche. In esse abbiamo evidenziato, tra l’altro, con estrema chiarezza proprio la postura aggressiva della Russia, non solo in Ucraina e nell’Europa orientale, ma in ogni area di interesse strategico italiano ed europeo: dai Balcani al Caucaso, dal Mediterraneo al Sahel, secondo una strategia volta al mantenimento della supremazia energetica, al controllo delle materie prime, anche al fine di accerchiare la nostra Europa.

Avevamo segnalato anche cosa stava accadendo in Bielorussia con il referendum costituzionale; le nuove minacce che si alzano in Bosnia e in Kosovo; il rafforzamento del dispositivo militare russo in Siria; la presenza dei mercenari della Wagner in Libia e i golpe militari – sei – nel Sahel, alla frontiera del nostro Mediterraneo allargato, che spianano la strada proprio alla Wagner. Significative peraltro le manovre navali militari congiunte di Russia, Cina e Iran svoltesi in gennaio nel Golfo dell’Oman.

Avevamo anche indicato con chiarezza la necessità di predisporre una vera difesa europea, come ha indicato il Presidente del Consiglio oggi, complementare alla NATO, per aumentare la difesa dell’Alleanza atlantica nel nostro continente e nel Mediterraneo allargato. Tra breve consegneremo la relazione sullo spazio, come fattore geopolitico su cui proprio Italia, sesta potenza spaziale civile al mondo, può giocare un importante ruolo. Difesa e spazio saranno peraltro oggetto delle decisioni che l’Europa dovrà assumere in marzo con lo Strategic compass e il progetto di autonomia strategica spaziale, oggi più che mai necessario. Abbiamo però già evidenziato nella recente relazione annuale come appariva già del tutto inadeguato il progetto di difesa europea, che allo stato prevede una forza di intervento rapido di appena 5.000 militari, quando la sola Italia ha un dispositivo di 9.200 militari in missioni internazionali. Agli asseriti impegni declamati in conseguenza della sciagurata ritirata dall’Afghanistan non è infatti corrisposto un maggiore impiego di risorse; anzi, nel nuovo bilancio europeo le risorse destinate ai diversi progetti di difesa europea sono state di fatto dimezzate.

Ora appare chiaro a tutti che occorre cambiare, perché l’Europa è sotto minaccia e noi sapremo come fare. Proprio per questo il nostro primo pensiero oggi va alla resistenza ucraina, alle famiglie nei rifugi che sui social chiedono aiuto; alle ragazze che confezionano le bottiglie molotov; agli operai che scavano le trincee per rallentare l’avanzata dei carri armati.

Il nostro pensiero va ai giovani che imbracciano un fucile pur non avendo mai fatto il servizio militare, a chi rientra in patria per difendere le proprie famiglie e la propria terra, a un popolo eroico che ha scoperto di essere finalmente una vera Nazione senza distinzione di lingue e di religione, come mai nella propria martoriata storia.  Loro ci ricordano oggi, con il sacrificio della lotta, quali siano i nostri valori, risvegliando loro le nostre coscienze intorpidite. Putin ha fatto un azzardo che ha ottenuto l’effetto di sollevare l’opinione pubblica mondiale, unita come mai si era vista prima. Persino all’interno della stessa Russia c’è chi protesta rischiando il carcere e la repressione. Questa è la prima importante lezione, un monito per chiunque nel mondo pensi che anche la libertà abbia un prezzo, che sia misurabile in rubli, in dollari o in renminbi; un monito a chiunque nel mondo pensi che si possa togliere la libertà senza sollevare la reazione unanime di chi, come noi, crede e vive nella libertà.

La resistenza eroica degli ucraini segna una prima e un dopo nel conflitto globale tra le democrazie occidentali e i sistemi autoritari, un punto di svolta che sarà segnato nel calendario della storia. Quanto accaduto ci deve essere finalmente da lezione per affrontare tematiche che abbiamo da decenni accantonato, come se riguardassero altri, mentre riguardano noi e soprattutto i nostri figli che ne pagheranno il prezzo se non interveniamo subito.

Gli investimenti per la difesa sono certamente necessari, come ha appena fatto la Germania, ma lo sono anche gli investimenti in ricerca, tecnologia, formazione, nell’economia digitale e nell’intelligenza artificiale, nello spazio e nel cyber, per la sovranità energetica e la tutela degli asset strategici, senza cui nessuna autonomia e indipendenza si può più preservare.

Il Copasir ha presentato in questa legislatura sei relazioni tematiche e una relazione annuale in cui ha appunto affrontato ciò di cui oggi si discute. Cari colleghi, nessuna di queste relazioni è stata però ancora esaminata in modo compiuto dal Parlamento, anche se alcuni interventi importanti da noi indicati sono stati poi realizzati, dal sistema della golden power all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale che colma un ritardo decennale. Lo stesso destino nel vuoto hanno avuto le altre relazioni presentate nelle precedenti legislature, così come le relazioni annuali della Presidenza del Consiglio. Siamo stati troppo distratti sui temi della sicurezza nazionale, ora occorre prenderne atto. È necessario che si svolga presto una sessione del Parlamento, come abbiamo espressamente chiesto nel nostro documento inviato alle Camere prima che la situazione precipitasse.

Quanto sta accadendo ci fa capire infatti quanto importante sia la sicurezza della Repubblica e quanto ciò debba essere considerato in ogni decisione che prendiamo, anche quando affrontiamo i temi dell’energia o dell’economia digitale, della tecnologia, dell’intelligenza artificiale, dello spazio come dell’acciaio, degli asset infrastrutturali come delle filiere industriali, ben sapendo che i nostri avversari sistemici, cioè i sistemi autoritari, li utilizzano appieno nel loro confronto con le democrazie occidentali. Tutto questo fa parte di quello che viene chiamato guerra ibrida. A tal proposito, abbiamo evidenziato la necessità di disporre di un’intelligence economica al servizio del sistema Italia, che sia proattiva a tutela della scienza e della tecnologia e degli asset produttivi del Paese.

Sì, è vero, le sanzioni stanno producendo i loro effetti devastanti, ma occorre anche fermare le armi, rispondendo alle accorate richieste di aiuto di chi è minacciato nella vita e negli affetti, come stanno facendo persino Paesi che sono stati sempre storicamente neutrali come la Svizzera e la Svezia. Ora è il momento delle scelte di campo per tutti. Certo, anche noi pagheremo i costi delle sanzioni, soprattutto come conseguenza del prezzo dell’energia o – se permettete, cari colleghi – come conseguenza delle nostre scelte energetiche errate che ci hanno resi più vulnerabili di altri partner europei.

Proprio sulla sicurezza energetica abbiamo presentato in gennaio una relazione al Parlamento, in cui abbiamo evidenziato le criticità del sistema e le sue pericolose vulnerabilità, sia a fronte della necessaria transizione ecologica, sia a fronte dell’azione egemonica degli attori statuali. In quella relazione individuavamo già alcune soluzioni che in queste ore sono state oggetto della decretazione d’urgenza e concludevamo come fosse necessario realizzare un piano di sicurezza energetico che riducesse la dipendenza dall’estero e soprattutto dalla Russia, con l’obiettivo dell’indipendenza energetica e dell’autonomia produttiva e tecnologica, in collaborazione con i partner europei occidentali, anche in considerazione dei fattori e dei rischi geopolitici sempre più evidenti già allora.

Nella relazione annuale per la messa in sicurezza della rete cyber. Ieri peraltro l’Agenzia ha lanciato un allarme particolarmente significativo, anche perché la Russia è lo Stato meglio attrezzato al mondo per la guerra cibernetica. Per completare questa linea difensiva abbiamo richiamato la necessità di realizzare al più presto il cloud nazionale della pubblica amministrazione e la rete unica a controllo pubblico.

Cari colleghi, la Russia si è preparata da tempo al confronto con l’Occidente. Sono dieci anni che investe sulle due armi che possiede: le risorse energetiche e le forze armate. Punta al controllo delle materie prime e delle frontiere d’Europa, a sottomettere l’Ucraina oggi, per sottomettere domani le Repubbliche baltiche, la Georgia e la Moldova. Ora tutti sappiamo perché e dobbiamo elevare il livello di difesa, anche a fronte di un mondo in cui emergono altri attori altrettanto aggressivi, innanzitutto la Cina, primaria potenza tecnologica e produttiva, capace, essa sì davvero, di aspirare alla supremazia globale. Non possiamo fuggire dalla storia, però possiamo cambiarla. Con la risoluzione unitaria che voteremo oggi cominci davvero una nuova fase nella vita politica del Paese, che ci veda sempre uniti quando è in gioco la sicurezza della Repubblica e, con essa, i valori fondamentali della nostra civiltà.

*Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica

Le incertezze di una guerra alle porte dell’Europa

Il protrarsi delle ostilità in Ucraina da parte della Russia rappresenta oggi un evento singolare e di eccezionale gravità, quanto ad effetti sul piano economico e umanitario, destinato a mettere alla prova le previsioni formulate nei paesi occidentali sullo scoppio e l’andamento del conflitto. Ben prima che si materializzasse la decisione dell’uso della forza, una progressiva escalation politica e poi militare ha spinto i vari governi e le cancellerie, sino agli Stati Uniti, a concepire soluzioni in grado di sciogliere insieme alla Russia il nodo gordiano alla base del conflitto, che appare invece ancora più stretto dopo mesi di frustranti e infruttuose trattative. La crisi, che è ormai assurta alla dimensione di una guerra di aggressione condotta su più fronti ai danni dell’Ucraina, con l’esplicito obiettivo del suo annichilimento politico e territoriale, non figurava come una priorità nelle agende dei principali leader e ora sconta il vuoto di chi potrebbe quanto meno candidarsi a governarla. La decisione della Russia di raggiungere manu militari i propri obiettivi, con un impeto novecentesco, ha colto alla sprovvista chi prefigurava una sostanziale condizione pacifica dell’Europa, non più teatro di offensive su larga scala contro una nazione sovrana, ma anche chi all’opposto immaginava un’operazione tanto rapida quanto di successo per Mosca. Nessuna delle due previsioni si è avverata e oggi . È evidente che l’andamento del conflitto sin dalle prime ore ha tradito le aspettative di chi confidava in una facile vittoria, lasciano spazio ad una serie di valutazioni sulle conseguenze del protrarsi delle ostilità sul piano militare ed economico.

Se è vero che l’Ucraina ha scontato sin dalle prime ore una radicale asimmetria sul piano tattico, le forze armate Russe non sono state in grado di sfruttare la loro superiorità per una serie di fattori: in primis contrariamente alla narrazione diffusa l’esercito di Kiev non somiglia più ad una compagnia di sbandati, ricordo sbiadito del 2014. Dopo 8 anni di combattimenti nel Donbass e un piano di riarmo con il supporto dei paesi occidentali, l’Ucraina schiera delle truppe altamente motivate e ben equipaggiate, con una notevole esperienza bellica sostenuta in patria, sia in teatri urbani che in campo aperto, a cui si è aggiunto il prezioso contributo dell’addestramento americano in tecniche di combattimento in grado di ostacolare azioni offensive come quelle Russe. Gli ultimi mesi inoltre hanno visto un grande afflusso di aiuti militari, specialmente armi anticarro e antiaeree, che a fronte del costo relativamente esiguo sono in grado di infliggere perdite rilevanti e neutralizzare mezzi ben più dispendiosi e soprattutto difficilmente sostituibili ad un ritmo accettabile, se il conflitto dovesse perdurare per diverse settimane. L’esercito Russo al contrario oltre ad essere parso demotivato e smarrito, è sembrato incapace di sfruttare appieno le proprie dotazioni, finendo impantanato in clamorosi errori logistici ripetuti nel corso del tempo, che chiamano in causa l’intera catena di comando. Ci si potrebbe chiedere legittimamente come le decine di migliaia di coscritti inviati al fronte da Mosca dalla tundra siberiana possano prendere l’iniziativa, in una guerra che se è vero che è apparsa tanto insensata alle gerarchie Bielorusse da farle desistere dal partecipare alle operazioni, è altrettanto intuibile quanto possa interessare ai nativi dalle aree più remote del Paese. Meno inclini a fraternizzare con gli Ucraini con cui si scontrano per la prima volta, anche per differenze linguistiche ed etnoculturali, ma non per questo meno restii dei loro connazionali a combattere per conquistare Kiev, che dista pur sempre 5000 chilometri dalla Buriazia. Le débâcle dei primi giorni pongono la questione di quante siano effettivamente le truppe russe addestrate secondo i criteri dell’Alleanza Atlantica. Probabilmente meno di diecimila: un numero di gran lunga insufficiente per prevalere senza rinforzi, contro un nemico che padroneggia il terreno alla perfezione e che sembra disposto a resistere sino in fondo anche in contesti urbani.

L’impatto delle sanzioni economiche invece, è destinato a produrre i suoi effetti nel medio e lungo periodo, ma non è escluso che misure più radicali come una rimozione pressoché totale della Russia dal sistema di pagamenti SWIFT o l’embargo americano sugli idrocarburi, in particolare il petrolio, possano risultare insostenibili già nell’immediato. Decapitare un flusso di cassa di 800 milioni di dollari che giornalmente si riversano nell’erario di Mosca per garantire quel minimo livello di benessere accettabile dal popolo Russo, potrebbe avere contraccolpi altrettanto severi in Europa per la ormai arcinota dipendenza energetica, ma anche gli stessi Stati Uniti verrebbero investiti da una ulteriore fiammata inflazionistica “indotta” dalla crescita del prezzo dell’energia. Mosca potrebbe incorrere in una crisi del debito sovrano, come già accaduto in diverse circostanze ai tempi di Yeltsin, e potrebbe tentare di rimborsarlo in rubli anche in presenza di altri compratori dei suoi titoli di stato, come la Cina e in misura nettamente minore l’India. In assenza di altri paesi esportatori di greggio, l’Arabia Saudita (che sconta notevoli incomprensioni con la Casa Bianca) e l’OPEC rimangono maldisposte ad incrementare la produzione di petrolio e con il Venezuela e l’Iran ben lontani da un accordo politico maturo con gli USA, è facilmente intuibile le ripercussioni che una simile mossa avrebbe sulla ripresa post-covid e sulla tenuta sociale, che nelle democrazie occidentali è sicuramente più a rischio rispetto ad un paese autoritario come la Russia e di quest’ultimo particolare a Mosca sono ben consapevoli. È importante tenere a mente che il prezzo del petrolio si colloca intorno al 6% del PIL in Italia e la soglia della recessione si materializza al 7%, non è difficile intuire che ad Aprile la congiuntura diventerà negativa se il trend fosse confermato.

L’incognita rimane tuttavia comprendere come incideranno i due fattori, militare ed economico in rapporto all’arco di tempo di un conflitto che sembra voler durare abbastanza a lungo da dissanguare l’aggressore. Il supporto ancorché indiretto della NATO gioca un ruolo fondamentale nel contribuire ad infliggere notevoli perdite ai Russi, sia nelle divisioni corazzate che nelle forze aeree, così da distruggere le residue speranze di un blitzkrieg vittorioso. Una situazione di logoramento non potrà avvenire a queste condizioni, perché sarebbe per la Russia semplicemente insostenibile da un punto di vista economico sopportare intensità di un conflitto troppo alte per un paese che conta meno di un decimo della spesa militare degli Stati Uniti e poco più del Regno Unito, non potendo già adesso che impiega la quasi totalità degli effettivi nelle operazioni, rimpiazzare la totalità delle perdite senza sguarnire o depauperare le proprie forze armate al di fuori dell’Ucraina.

Uno stallo destinato a prolungarsi nei prossimi giorni che potrebbe aprire giocoforza lo spazio delle trattative, uno scenario ancora incerto con diversi attori che si affacciano con aspiranti ruoli di mediazione. In Europa Macron, Presidente di turno del Consiglio dell’UE, tiene i fili con il Cremlino forse per emulare il suo predecessore Sarkozy che dalla medesima posizione negoziò nel 2008 il cessate il fuoco in Georgia con Putin e Saakashvili. La Germania paga le consuete contraddizioni energetiche con la Russia, alimentate a vario titolo dagli ultimi cancellieri e si trova a dover prendere frettolosamente le distanze da un passato recentissimo. Se alcune voci autorevoli rimpiangono la leadership di Angela Merkel, ne dimenticano le sue responsabilità nel comportamento ambivalente che Berlino ha in un certo senso imposto all’Europa sulle forniture di gas naturale e nei tentennamenti mostrati davanti ad una crisi che dura ormai da 8 anni e che è parsa per tutto questo tempo una sorta di commedia degli equivoci, oscillante tra proclami internazionalisti e arrocchi mercantilisti. La Turchia gioca una sua partita autonoma dalla NATO, non applicando le sanzioni alla Russia con cui mantiene buoni rapporti, ma vendendo droni all’esercito Ucraino e ribadendo la propria primazia sugli stretti. Erdogan prova ad apparire come l’unico leader abbastanza equidistante da entrambi i contendenti sia da un punto di vista geografico che politico, così da poter promuovere una svolta, quantomeno apparente, nelle trattative in corso ed alimentare una presunta fama di risolutore di conflitti. I legami economici con la Russia poi pendono a suo favore e le recenti intese con Mosca in Siria trovano la diplomazia turca preparata a raggiungere un accordo. Anche Israele sembra apparentemente in grado di inserirsi e sfruttare i legami etnici e culturali che la legano ad ambedue le parti, ma l’eventualità di un successo sconta i limiti di una mediazione forse ancora non matura dal punto di vista temporale, che appare ancora oggi incerta e difficile da concretizzare. Chi si staglierà nei prossimi giorni come possibile paciere è la Cina: maggiore sarà la durata le conflitto, maggiori saranno le difficoltà Russe che potrebbero facilitare una soluzione orientale dalla quale Mosca uscirebbe doppiamente sconfitta. Sul piano militare perché costretta ad invocare l’intervento salvifico di Pechino da una guerra che non sembrerebbe più in grado di controllare autonomamente e su quello economico dove si troverebbe a brandelli, a fronte di conquiste territoriali dal discutibile valore strategico, con la certezza di finire nell’orbita cinese su interni settori produttivi: banche, energia e semiconduttori.

La reazione di Putin dinanzi ad un insuccesso militare, ancorché momentaneo, che si presenterebbe come l’anticamera di quella che fu la guerra in Afghanistan per l’Unione Sovietica, potrebbe spingere la Russia ad innalzare l’intensità dello scontro con uno scenario diametralmente opposto ad una trattativa lampo. Una vittoria di Pirro non è da escludere se l’impegno di Mosca fosse tale da rendere le forze Russe così soverchianti rispetto a quelle Ucraine, da portarle ad una sconfitta sicuramente dolorosa per entrambi o quantomeno da imporre una trattativa a senso unico che ha come precondizione la conquista delle grandi città, a cominciare dalla capitale. Se le perdite fossero eccessive persino in questo scenario, il modello che Putin potrebbe adottare è quello di Grozny, il che presupporrebbe rinunciare al combattimento urbano classico per radere al suolo con l’artiglieria le principali città ucraine in una sorta di riedizione della guerra in Cecenia, nella misura ritenuta sufficiente ad imporre un cessate il fuoco a Kiev, che si ritroverebbe a patire numerosissime vittime civili senza l’evacuazione con i corridoi umanitari. Facile intuire le finalità dal lato Russo di una misura apparentemente rivolta a mettere al riparo i civili, che darebbe il via libera al fuoco indiscriminato dell’artiglieria sui centri abitati, per altro già in corso in sprezzante contrasto con le convenzioni internazionali. Le perdite economiche sarebbero in quest’ultimo caso enormi, Mosca non risulterebbe in grado di colmarle ricostruendo i centri abitati e le infrastrutture. Ciò che rimarrebbe dell’Ucraina somiglierebbe ad una striscia di terra di nessuno devastata che ben si presta alla teoria dello stato cuscinetto più orientato verso l’annichilimento che l’equidistanza.

Un’escalation con il clima arroventato diventerebbe così più probabile, Le tensioni latenti, unite a quelle che un’ulteriore crescita del livello dello scontro sul piano economico e militare possono innescare, formano un mix esplosivo in grado di ipotecare sostanzialmente ogni residua aspettativa di pace nel breve periodo. Le modalità di escalation e di de-escalation sono speculari e spesso non dipendono fino in fondo dalla volontà dei contendenti: la NATO per esempio potrebbe anche istituire una no fly-zone nell’ovest del paese per assicurare il deflusso dei profughi ma al di là dell’aspetto provocatorio, le difficoltà dell’aviazione Russa, martoriata dagli stinger e spinta al volo notturno, renderebbero una  simile misura inutile contro gli attacchi portati avanti con artiglieria e missili cruise, che i caccia sarebbero difficilmente in grado di intercettare. Si aprono allora interessanti prospettive rispetto alla dichiarazione Russa di cobelligeranza, è qui che potrebbero nascere i presupposti per un’improvvisa accelerazione del conflitto: in assenza di un’invasione dal confine Bielorusso, che finora non ha avuto seguito, una Russia esausta con caccia e tank braccati da Kiev con le armi NATO, potrebbe pensare di colpire i trasferimenti degli aiuti militari al confine qualora risultassero così decisivi per le sorti del conflitto da portarla alla sconfitta. Questo in che misura possa interessare i membri dell’alleanza atlantica ancora non è chiaro e ovviamente dipenderebbe dall’area geografica interessata da un potenziale attacco. L’articolo 5 del trattato non contribuisce a sciogliere i dubbi e la stessa definizione di “attacco armato” si presta a diverse interpretazioni in assenza di una prassi applicativa. Lo stesso accadrebbe con la messa a disposizione dell’Ucraina delle infrastrutture aeroportuali in Polonia, avendo la Russia distrutto la quasi totalità degli aeroporti di Kiev, e di alcuni vecchi caccia MIG da trasferire, la cui utilità però appare dubbia in considerazione della scarsa importanza che l’aviazione ha avuto in questo conflitto. Contrariamente a quanto si crede, i bombardamenti aerei hanno avuto un impatto relativamente ridotto rispetto al loro potenziale e anche per i diversi errori di Mosca nelle prime fasi del conflitto l’Ucraina sembra conservare ancora una piccola parte delle proprie difese aeree che non ha esitato ad impiegare con successo.

Anche le sanzioni infine potrebbero influire su scenari inaspettati: non sarebbe difficile immaginare le conseguenze che una rimozione totale della Russia dallo SWIFT unita all’embargo dagli idrocarburi produrrebbero sulla leadership Russa, che appare sotto pressione in tutti i casi e che per questo potrebbe essere portata a compiere scelte avventate. La debolezza è spesso una caratteristica connaturata agli Stati autoritari e il paradosso di un Putin sempre più debole potrebbe essere il rafforzamento interno delle forze armate, non più semplice strumento di proiezione di una flebile potenza imperiale ma ormai le vere indiziate di questo conflitto, che le ha viste finora prevalere sul blocco di potere dei servizi di sicurezza che in Russia è da sempre dominante. La vera incognita potrebbe presto riguardare il ruolo nascosto dei generali, pronti a tessere la trama di uno scontro interno al Cremlino dove a prevalere sarebbero i falchi più che le colombe.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

 

 

 

L’Italia nel vuoto, il vuoto d’Italia. L’azione internazionale nella stagione del ritorno degli interessi nazionali: geopolitica, economia, sicurezza

L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Center for Near Abroad Strategic Studies

Sono intervenuti: Paolo Quercia (direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies), Adolfo Urso (presidente della Fondazione Farefuturo), Alberto Negri (giornalista de Il Sole 24 Ore), Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Guido Crosetto (presidente dell’AIAD), Carlo Jean (professore), Gabriele Checchia (ambasciatore), Raffaele De Lutio (ministro plenipotenziario).