IL NUOVO POTERE MONDIALE CHIAMATO”SOCIAL MEDIA”

L’assalto a Capitol Hill da parte dei sostenitori del Presidente uscente americano Trump ha concentrato l’attenzione dei media, degli analisti politici e dell’opinione pubblica mondiale su una molteplicità di argomenti come la fragilità della democrazia USA, la violenza usata per scopi politici e così via.
Anche se la notizia è stata riportata dalle principali testate, è passata in secondo piano la censura da parte di Zuckerberg (Facebook e Instagram) e di Twitter dei profili di Donald Trump. Un fatto su cui, spero, si tornerà a parlare in quanto rappresenta, a mio avviso, un avvenimento ben più eclatante dalla rivolta di qualche migliaia di esaltati supporters del presidente uscente, che va ovviamente e comunque condannata alla pari di qualunque violenza politica chiunque la professi e per qualunque motivo.
Il blocco, si temporaneo ma comunque “fino alla fine del mandato”, dei profili social di Trump, fatto con una spiazzante semplicità e corredato solamente da un comunicato dello stesso Zuckerberg sul proprio profilo Facebook, di fatto fa capire che un nuovo potere, che spesso esula da ogni regola scritta e legislazioni nazionali, è arrivato nelle nostre vite e, in modo quasi impercettibile, si è impossessato della comunicazione (e della manipolazione) geopolitica mondiale.
Non c’è stato uno scontro tra Trump e Zuckerberg & Co., non ci sono stati avvertimenti o quant’altro, ma c’è stato semplicemente il gesto di una manciata di giovani (e ricchissimi) nerd proprietari dei social più utilizzati al mondo che hanno “bannato”, premendo un pulsante, l’uomo più potente del mondo. Escludendolo, così, dall’utilizzo di quell’incredibile strumento di libera comunicazione che sono i social media. Strumento che, a differenza di quelli tradizionali dove parole e notizie vengono modificate e adattate all’orientamento politico, offre tutta l’immediatezza, la “sincerità” e la “veridicità” del messaggio che si vuole trasmettere.
Trump lo sapeva bene, tant’è che aveva impostato parte della propria campagna elettorale del 2016 e successivamente gli annunci politici durante il mandato presidenziale proprio sui social e su quei “Tweet” che gli davano la libertà di scrivere e dire quello che voleva sfuggendo ai network come CNN e FoxNews con cui è entrato in conflitto.
Cosi, la censura di Zuckerberg e compagni pone due domande entrambe caratterizzate da un limite sottile tra l’inquietante ed il rassicurante.
La prima: i fondatori di Facebook e Twitter, non sottoposti a vincoli di alcun genere nè rientranti nelle regole dei mezzi di comunicazioni tradizionali, si sono trasformati – grazie alla nostra assuefazione verso i social – negli uomini più potenti del mondo, surclassando persino il presidente degli Stati Uniti d’America? Visto che questa manciata di ragazzi, geniali ma pur sempre degli imprenditori in jeans e felpa che seguono le logiche del mercato per incrementare i profitti e le quotazioni delle proprie aziende, oggi possono con un semplice click influenzare (a pagamento o meno) elezioni, cadute di governi, persino rivoluzioni.
La seconda domanda, in chiave positiva, è se non sono proprio i social media – Facebook, Instagram, Twitter – a rappresentare oggi quel tanto rimpianto bilanciamento di potere, in versione 2.0, andato perso dopo la fine della Guerra Fredda. Perché, come da sempre teorizzato dagli studiosi di geopolitica, il nostro mondo funziona solo quando c’è un equilibrio tra leader, quando non esiste una supremazia assoluta di qualcuno bensì una contrapposizione tra diverse forze, siano esse politiche, sociali o economiche. Negli ordinamenti di ogni democrazia tale equilibrio è dato dalla separazione dei poteri dello Stato. Mentre su scala globale l’equilibrio deriva da nazioni in conflitto, da minacce alla sicurezza, da guerre economiche, dall’alta finanza. Così, il Novecento si reggeva sul conflitto tra Comunismo ed Capitalismo. Poi, dopo il 1989, c’è stato un decennio dove la supremazia mondiale era detenuta solamente dagli USA, con una Cina crescente ma non tanto da fare da equilibratore. Gli attentati dell’11 settembre 2001 fecero si che il Terrorismo divenisse l’equilibratore (e anche l’alibi) di molte dinamiche mondiali, per poi arrivare all’avvento dei Social media che, in pochi anni, hanno acquisito una forza sociale mai vista prima. Ed oggi forse sono proprio loro ad essere diventati, a nostra insaputa, il nuovo bilanciamento dei poteri, capaci di censurare persino l’uomo più potente del pianeta.
I Social e con loro Zuckerberg &Co. sono saliti sul podio degli equilibratori mondiali. Paladini di una nuova libertà o una nuova dittatura.
*Kiril K. Maritchkov, Comitato Scientifico Fondazione Farefuturo

Giulio Terzi: Le vie della seta per il neo-imperialismo della Cina comunista

Diplomatico dall’intensa carriera, già Ministro degli Affari Esteri, l’Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata è osservatore privilegiato dei mutamenti geopolitici nel mondo.

D. Tra Est ed Ovest sembra tornare a prendere forma una nuova “guerra fredda”, qual è la sua visione della mappa geopolitica?
R. Giorni fa leggevo un rapporto sulla percezione del potere mondiale, sviluppato da una pluralità di centri di ricerca; una graduatoria basata su indicatori quali economia, crescita, soft power, capacità d’influire su Paesi terzi, potenza militare, nuove tecnologie. Gli Stati Uniti sono ancora al primo posto, la Russia emerge dal punto di vista politico-militare nonostante un’economia inferiore a quella italiana che corrisponde a circa un decimo di quella cinese, la Cina viene considerata da tutti gli osservatori come grande antagonista della potenza americana con un elevato ritmo di crescita ed un sistema Paese estremamente autoritario, minaccioso e temibile, che mira ad obiettivi imperiali. Per quanto riguarda la Russia, lo spirito di Pratica di Mare con cui si sperava di porre le basi per una vera “sicurezza cooperativa” in Europa – tra Est ed Ovest – si è rivelato, nei pochi anni seguiti a quell’incontro del 2003, una speranza incompiuta: a causa delle azioni di forza della Russia di Putin nel suo “vicino estero” e delle polemiche sull’allargamento della Nato verso Paesi che erano stati membri del Patto di Varsavia. Con la Cina, di “sicurezza cooperativa” non si è in realtà mai riusciti a discuterne in forma sistematica, nonostante l’attivazione di canali di comunicazione a livello militare tra Washington e Pechino. Diversamente da quanto avvenuto tra USA e Russia, e tra Nato e Patto di Varsavia sino a quando esso è esistito, nessuna intesa è stata raggiunta tra Cina e Paesi Occidentali in tema di limitazione di armamenti strategici e convenzionali, o per un regime di notifiche, verifiche, misure di fiducia che hanno invece caratterizzato, talvolta impedendo che degenerasse la “guerra fredda” tra Est ed Ovest, anche negli anni seguiti alla caduta del Muro di Berlino.
Nonostante gli sforzi fatti ancora durante la presidenza Trump di coinvolgere Pechino in un negoziato sulla limitazione delle armi strategiche, insieme alla Russia, Xi Jinping ha sempre fatto orecchie da mercante, interessato soprattutto ad accelerare il suo riarmo nucleare. Anche sotto questo profilo il degradarsi del rapporto tra Stati Uniti e Cina preoccupa, specialmente l’Europa, così esposta alle strategie espansioniste degli “assets” militari e strategici cinesi nei principali porti del Mediterraneo: chi garantisce che navi cinesi a Taranto, Vado Ligure o Trieste non operino per rafforzare lo spiegamento, strategico-nucleare incluso, della Marina Cinese? Quali trattati sulle verifiche abbiamo negoziato con Pechino, per escluderlo?
D. Il maturare di questo antagonismo sempre più evidente, tra Stati Uniti e Cina, come si connota e che altre differenze ha rispetto alla guerra fredda che vedeva l’Alleanza Atlantica da una parte e la Russia dall’altra?
R. La Cina si sta affermando in poco tempo come potenza globale. Nel giro di poco tempo potremmo assistere al consolidamento di una sorta di duopolio tra USA e Cina in campo economico, politico e militare. Un’altra differenza con la Russia protagonista della precedente guerra fredda, è che attorno alla Cina non c’è un’alleanza militare come quella che esisteva nel Patto di Varsavia e non c’è neanche un’alleanza di natura ideologica; ci sono esercitazioni militari congiunte, con la Russia, c’è un accordo di difesa con la Corea del Nord, ma non un collante come quello che aveva il comunismo russo nella primazia con i propri Stati satelliti. La Cina, da ormai vent’anni, utilizza una tattica diversa per espandersi verso il mondo esterno: il soft power. E mentre la Russia non ha mai realizzato un modello di sviluppo economico, la Cina ha un sistema Paese che le consente di crescere sempre di più economicamente, restando tuttavia profondamente arretrata sul piano della democrazia e dei diritti umani.
D. La Cina dove pratica la sua espansione e come attua il suo soft power?
R. Lo scacchiere è tracciato dalle Vie della Seta: basta vedere la carta geografica e registrare i corridoi ti terra e di mare dove Pechino ha deciso e imposto i suoi investimenti. L’approccio ha una natura predatoria ovunque il Partito Comunista Cinese decida di esser presente, anche se nella prima fase la Cina si presenta come Paese benefattore. C’è l’esempio di Paesi che si sono anche ribellati o hanno cercato di fare passi indietro, come il Myanmar, lo Sri Lanka, il Pakistan, dove la leva finanziaria per investimenti infrastrutturali è stata applicata con metodi di usura: nei momenti in cui si sono verificate condizioni d’insolvenza sui mutui concesso, la Cina ha tradotto le clausule d’insolvenza nell’appropriazione di enormi fasce di territori, o di spropositate concessioni minerarie, per valori esponenzialmente superiori al valore dei mutui non onorati. Un’altro esempio è l’Africa, soprattutto nelle aree minerarie, dove l’insolvenza cinese è stata pagata attraverso la concessione di miniere che valgono fino a cinquanta volte l’ammontare del mutuo elargito. Se il Piano Marshal è stato un piano di sviluppo generoso e destinato a Paesi democratici e liberi, la Via della Seta è stata concepita e viene attuata con il preciso obiettivo di arricchire le aziende cinesi statali o private integrate nel sistema del PCC, e di restringere la sovranità e l’indipendenza politica, economica, tecnologica delle democrazie occidentali. Con l’ascesa del presidente Xi, le vie della seta sono proliferate come elemento di espansione globale. C’è la via della seta terrestre: linee, snodi e stazioni ferroviarie costruite esclusivamente da cinesi, con manovalanza cinese, e tecnologia sottratta illecitamente ad aziende europee e dunque anche italiane. Lo stesso modello si ripete per la via della seta marittima su cui Pechino punta per affermarsi come grande potenza navale, per noi più inquietante perché tocca i porti di Taranto, Trieste, Vado Ligure. Particolarmente pericolosa è la via della seta informatica, su cui la Cina ha manifestato la propria volontà di dominio nelle attività e nelle regolamentazioni cyber, arrivando ad ottenere alla guida dell’ITU (l’Unione internazionale delle telecomunicazioni) Houlin Zhao che, per sua stessa dichiarazione è promotore degli interessi cinesi prima che degli interessi della comunità internazionale che in tale sede dovrebbe rappresentare. Pechino, inoltre, manifesta la propria volontà di dominio in tutti gli organismi internazionali dove riesce ad avere una guida diretta, come alla FAO con Qu Dongyu, o come all’OMS dove comunque trova una dominante capacità d’influenza attraverso un Direttore Generale etiope teleguidato da Pechino.
D. Qual è stato il momento in cui Pechino ha pensato di potersi esprimere prepotentemente verso l’esterno?
R. Con l’ascesa di Xi nel 2012, ai vertici del Partito Comunista Cinese, è emerso il convincimento che fossero maturati i tempi per investire pesantemente sulla marina militare. Un convincimento derivato sia dalle disponibilità finanziarie e tecnologiche raggiunte, sia dal visibile indebolimento della controparte (gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei) assopitasi persino nelle più importanti aree strategiche dello scacchiere geopolitico. C’è un punto di svolta che si è materializzato in rapporto al convincimento della Cina: l’inizio della crisi siriana nel 2012, nel 2013 e nei primi mesi del 2014. Nel 2012, Paesi occidentali come gli Stati Uniti, Francia, Inghilterra, in parte l’Italia, seppur preoccupati dalla crisi siriana non mostravano reattività nei confronti di Bashar Al-Assad che utilizzava ripetutamente le sue armi chimiche verso quelle fasce di popolazione siriana che si ribellavano chiedendo riforme democratiche. Una cruciale fase dove si è avvertita drammaticamente la mancanza di una posizione da parte dell’Occidente. La “Linea Rossa” dichiarata da Obama, contro l’utilizzo delle armi chimiche in quell’area, fu ripetutamente infranta nell’assenza di risposte chiare da parte di americani ed europei; soprattutto nell’estate del 2013 con le stragi di migliaia di siriani sotto le bombe chimiche sganciate dagli aerei russi in dotazione all’aviazione siriana. Si è così acceso un semaforo verde per il protagonismo militare di Mosca e Pechino. Lo dimostra la cronologia dei fatti. A inizio 2014 la Russia decide di attaccare la Crimea violando tutti gli accordi internazionali; contemporaneamente, o quasi, Pechino lancia un programma frenetico di militarizzazione per appropriarsi di una vasta fascia dell’Oceano Pacifico ricca di risorse economiche, in totale violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e senza volersi attenere alle decisioni della Corte internazionale di giustizia. Dinnanzi alle prove di debolezza, ancora, da parte dell’Occidente, la Cina capisce di poter dare avvio alla propria espansione imperiale.
D. L’Italia, nell’Alleanza Europea ed Atlantica, che posizione vive?
R. Nel nostro Paese ci sono alcune personalità di Governo che pensano di poter rassicurare sia una parte sia l’altra, ma nei fatti c’è una gran confusione. Non giova certo a darci un minimo di credibilità internazionale. L’Italia deve essere molto accorta nel rassicurare, non solo a parole ma con i propri comportamenti, i partner europei, gli Stati Uniti, e tutti gli altri, di non essere il cavallo di Troia della dominazione cinese, ad esempio sul tema di cyber: controllo e sicurezza delle reti informatiche, metadati, intelligenza artificiale, calcolo quantistico. Assistiamo nei fatti ad aperture e rassicurazioni – ad esempio sul 5G – ad aziende come Huawei e ZTE che sono impegnate da due leggi del Governo cinese (sulla sicurezza informatica del 2016 e sull’intelligence del 2017) a contribuire agli obiettivi del proprio Governo in quella che viene chiamata “intelligence economica”. Ad inizio mese, esattamente nello stesso momento in cui il Segretario di Stato statunitense, già capo della CIA, Mike Pompeo era a Roma e incontrava il Ministro degli Esteri italiano, Huawei lanciava con arrogante clamore un importante manifestazione pubblica: per inaugurare il centro di ricerca per la cyber security sviluppato in collaborazione con gli Enti pubblici e le principali università italiane impegnati nel settore. L’immagine che l’Italia da di sé, di ambiguità e sottomissione ai desideri del regime cinese, è davvero inquietante.

L’inchiesta. L’Onu è prigioniera del suo stesso anacronismo

Volgere, oggi, lo sguardo verso il Palazzo di Vetro di New York rischia di essere oltremodo impietoso. Troppe sono le contraddizioni e gli enigmi irrisolti che avvolgono le Nazioni Unite. La crisi di credibilità e di legittimità dell’ONU, che ha raggiunto il culmine nell’incapacità d’intervenire con successo nelle sanguinose guerre inter-etniche che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia, si ripercuote negativamente nell’intero sistema delle relazioni diplomatiche. Da un lato persiste, pragmaticamente, la volontà di mantenere una sorta di forum, di consesso mondiale che possa fungere da centro di contatto permanente fra gli attori internazionali. Dall’altro, montano le perplessità – e talvolta lo sconcerto – nel vedere l’ONU e le sue Agenzie Specializzate impaludarsi in una progressiva politicizzazione che ne mina l’imparzialità e ne favorisce l’impopolarità nell’opinione pubblica.

Permane, alla base, una criticità fondamentale: l’ONU, così come concepito nel secondo dopoguerra, non rappresenta l’odierno scenario internazionale. Esso è prigioniera della sua stessa natura di organizzazione intergovernativa che, al di là degli aulici scopi e dei principi elencati pedissequamente negli articoli 1 e 2 dello Statuto, nasceva con l’obiettivo primario di mantenere lo status quo geopolitico risultato dalla Seconda Guerra Mondiale. Questa mission risultava evidente nella ratio che sottintendeva l’organo esecutivo più importante per il funzionamento dell’organizzazione, il Consiglio di Sicurezza, composto dalle 5 nazioni vincitrici della Seconda Guerra Mondiale – Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina – dotate del potere di veto e dunque di bloccare qualsiasi decisione sostanziale, e da altri 6 Stati a rotazione. Si pensi che l’unica riforma di rilievo risale al lontano 1963, quando l’aumento da 51 a 117 degli Stati dell’ONU in seguito al processo di decolonizzazione portò da 6 a 10 il numero dei membri non permanenti – eletti dall’Assemblea Generale con mandato biennale – del Consiglio di Sicurezza. Paradossalmente, accanto al Consiglio troviamo un altro organo, l’Assemblea Generale, che al contrario risponde ad un discutibile principio di eguaglianza giuridica: a prescindere dal peso politico, economico o demografico, ogni Stato esprime un solo voto. A rendere ancor più surreale questa architettura istituzionale, è la possibilità da parte dell’Assemblea Generale di eleggere – su proposta del Consiglio di Sicurezza – il Segretario Generale, che di fatto non può imporre alcuna decisione che non sia in grado di superare il veto dei membri permanenti.

Da allora, poco è cambiato all’interno del Palazzo di Vetro e molto, invece, al di fuori. La fine della Guerra Fredda, l’emersione di nuovi attori regionali e internazionali, la globalizzazione e i suoi conflitti, le minacce del terrorismo islamico non hanno trovato nell’ONU la necessaria dinamicità e prontezza operativa. Si è assistito, piuttosto, ad inediti attivismi – con conseguenti imbarazzi – delle Agenzie Specializzate: si pensi alle risoluzioni dell’UNESCO palesemente provocatorie nei confronti di Israele, o alla nomina di un rappresentante dell’Arabia Saudita a capo del Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. In sostanza, l’immagine contemporanea dell’ONU è quella di una sorta di grande bazar della diplomazia internazionale, dove all’azione si preferiscono imbarazzanti do ut des di poltrone e scambi di pedoni, mentre le mosse più importanti sullo scacchiere geopolitico vengono decise in altri contesti e, spesso, in maniera unilaterale. Vi sono stati, dagli anni Novanta, dei tentativi di portare al centro del dibattito la necessità di riformare la governance delle Nazione Unite. Tre, in particolare, sono i blocchi che si confrontano. Il primo è il cosiddetto G4 che comprende Germania, Giappone, India e Brasile che si supportano nella reciproca ambizione di diventare membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Il secondo, di cui fa parte anche l’Italia, fa capo al gruppo denominato Uniting for Consensus, favorevole all’aumento del numero dei membri a rotazione del Consiglio, ma nettamente contrario alle richieste del G4. Il terzo, infine, è il blocco dei Paesi africani, che chiedono più riconoscimento nel Consiglio di Sicurezza in entrambe le categorie dei membri.

V’è, tuttavia, un problema strutturale e giuridico che pare insormontabile e rende molto difficile una possibile riforma. Gli articoli 108 e 109 dello Statuto dell’ONU, infatti, prevedono che eventuali emendamenti e modifiche allo Statuto siano ratificati da due terzi dei membri delle Nazioni Unite, compresi “tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza”. Ecco, dunque, che la vera domanda da porsi non è “qual è la riforma migliore?” bensì se una riforma sia effettivamente possibile. Forse sarebbe più saggio consegnare questo organismo alla Storia, e attivarsi per creare un’alternativa che non sia prigioniera del suo stesso anacronismo.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta