La fine del MoVimento, la nascita del Partito??

Quello che Grillo e Casaleggio hanno provato a realizzare, e in parte ci sono riusciti, era un’utopia. Un’utopia talmente visionaria e audace da spingere molti, moltissimi italiani a credere, appassionarsi e partecipare. Un’utopia che, nel momento della massima disillusione verso la vecchia politica diventata più che mai lontana dalla gente, corrotta, attaccata alle poltrone e ai privilegi, voleva testare, come in un laboratorio, la possibilità di un modello diverso e la possibilità che questo potesse funzionare.

La nascita dei 5 stelle, pur travestita da movimento di protesta e così presentato di fronte agli elettori, in realtà era quindi un epocale esperimento politico-sociale, che doveva mettere in difficoltà il sistema politico tradizionale fino allo stravolgimento totale di tutte le teorie dei partiti tradizionali consolidatisi dal Dopoguerra ad oggi. Si voleva dimostrare che fosse possibile, con un meccanismo iper-democratico, a chiunque – a prescindere dalla propria formazione, estrazione sociale e background lavorativo – diventare un politico semplicemente presentando la propria candidatura su una piattaforma on line e conseguentemente essere votato e persino eletto nelle amministrazioni locali, regionali, in Parlamento ed infine, paradossalmente, sedersi sui banchi del Governo per guidare la Nazione.

Un’innovazione che stravolgeva tutte le teorie più illustri dei geni della scienza del governo, da Aristotele e Platone passando per Machiavelli, Mosca e Pareto, Weber e così via. E che, guidata dalla summenzionata disillusione popolare verso la politica tradizionale ha persino funzionato alla grande per un po’ di tempo. Ha portato l’utopico movimento a diventare per un po’ la formazione più votata alle elezioni, ha fatto eleggere sindaci ed amministratori.

La politica, però, quella vera, che ha mosso l’umanità sin dai tempi antichi ad oggi, non è un hobby, non è un gioco ne un passatempo. È uno dei mestieri più difficili, complessi e delicati che esistono, da cui dipendono le sorti di milioni di persone, di nazioni, di intere aree geopolitiche. E ogni deviazione dei modelli consolidati è destinato (direi “purtroppo”) al fallimento. È come se all’improvviso si rinnegasse la medicina tradizionale introducendo la sola omeopatia. Qualcosa curerà, ma alla fine servirà sempre la prima.

Si era già capito, sin dai tempi in cui i 5 Stelle avevano raggiunto i picchi massimi di consenso, che il MoVimento non avrebbe mai potuto governare da solo perché non avrebbe mai superato la soglia di voti necessaria. Perché comunque era qualcosa fuori dagli schemi. Ed era chiaro che i pentastellati sarebbero stati condannati a breve alla trasformazione o all’estinzione. Però una cosa è certa. Pur destinato a scomparire – nella forma in cui era stato ideato all’origine, il MoVimento entrerà nei libri di storia, verrà studiato nelle facoltà di Scienze Politiche e sarà citato nelle teorie sui partiti e nei saggi di sociologia di massa. Perché è stato la prima prova concreta e non semplicemente ipotizzata dagli studiosi che le dinamiche e le regole della politica e dell’arte di governo rimarranno le stesse e che non sono modificabili artificialmente, per quanto forte possa essere l’impulso propulsivo.

Sintetizzando, quindi, i risultati del test socio-scientifico chiamato MoVimento 5 Stelle, le conclusioni, puramente accademiche, possono essere riassunte in tre punti.

Il primo è che ogni movimento o corrente alternativa ai classici modelli politico-sociali prima o poi si integra con il sistema diventando essa stessa un partito tradizionale, sottomettendosi spontaneamente a tutte le regole e meccanismi della politica pur di guadagnarsi la sopravvivenza. I fatti recenti, con i negoziati per il governo giallo-rosso, hanno mostrato inequivocabilmente che il M5S ormai è un partito tradizionale a tutti gli effetti, oltretutto alla vecchia maniera, disposto – in nome della conservazione del proprio stato di potere –  a scendere a patti con coloro che fino a ieri erano gli avversari e persino coalizzarsi con loro per preservare la posizione politica acquisita.

È stato significativo sentire le dichiarazioni di Luigi di Maio che, al Quirinale, subito dopo l’incontro con il Presidente Mattarella, annuncia la trovata intesa con il PD. E non per i contenuti, bensì per il linguaggio. Roba che aveva l’odore di quella politica vecchia, obsoleta ed inflazionata che sapeva di presa in giro dei cittadini e che si sperava di non sentire mai più. Parole banali che diventavano ancora più tristi pronunciate da un ragazzo giovane che ha fatto sognare molti illudendo di aver portato un cambiamento.

Il secondo punto riguarda il capitale umano, ossia quegli attivisti del MoVimento che non si sono limitati solo ad appoggiarlo e a votare, ma ambiscono a diventare sindaci, parlamentari e ministri. Questo ha fatto emergere tutte le gravi conseguenze dovute alla carenza di formazione, competenze, professionalità ed esperienza a governare. Trattasi di un punto insuperabile, quello della preparazione, che forse è stato il vero fallimento dell’esperimento utopico di Grillo e Casaleggio. La politica come professione, teorizzata per secoli, ha insegnato che non è possibile proiettare al governo della cosa pubblica soggetti non formati, altrimenti si è condannati al fallimento. E non basta la mera onestà, come proclamavo i pentastellati alla nascita del movimento. Tempo fa lessi una frase che descriveva appieno l’assurdità di tali parole. La domanda era “Vi fareste operare da uno che non è un chirurgo ma è molto onesto”? La risposta è ovvia.

Infine c’e il terzo punto che più che politico è strettamente sociologico. Tanto divertente quando drammatico. Gli attivisti visionari delle prime ore, pronti a cambiare le regole del gioco, scandalizzati dalla vecchia politica della “Casta” e le sue regole, della lontananza dai cittadini e dalla vita reale, si sono trasformati in poco tempo in burocrati attaccati alle poltrone. Talmente attaccati da scendere a patti con chiunque pur di non perderle. Il MoVimento si è rivelato un enorme ammortizzatore sociale per disoccupati o infelicemente occupati che, trovandosi miracolosamente ai posti di potere per amministrare comuni, regioni e persino la nazione, hanno deciso di approfittare anche dei benefici che tali incarichi portano, hanno mollato le abitudini sbandierate sugli social di andare a lavorare in autobus e bicicletta e ormai nessuno di loro vorrebbe tornare la da dov’e partito. Ed alcuni nemmeno di restituire quella parte dello stipendio che aveva fatto tanta leva propagandistica durante l’ascesa pentastellata.
Per non parlare della trovata del “Mandato Zero”, l’escamotage per raggirare l’autoimposto divieto di un’unica legislatura. Quindi, anche i “cittadini dediti alla politica per il bene comune”, che hanno raccolto milioni di voti di protesta contro la politica tradizionale, si sono trasformati in politici tradizionali, calpestando i propri proclami, le idee e le battaglie che sono state alla base di in ormai dimenticato successo elettorale. Ma si sa, l’uomo è uomo, e la natura umana non si cambia.

Stiamo assistendo in questi giorni alla fine dell’esperimento. L’antipolitica si è trasformata in politica, l’antipartito è diventato un partito tradizionale e i rivoluzionari si sono rivelati attaccati alle poltrone e pronti a chinare la testa nel nome del potere, sebbene condiviso. Dimostrando che l’arte suprema di governare non si può stravolgere, che le sue regole prevalgono sia sulla volontà dei singoli che sulle formazioni più ampie e che il sistema politico tradizionale prima o poi sottomette ogni corpo sociale estraneo o altrimenti lo macina e distrugge fino al totale annientamento.

Scientificamente provato dal MoVimento 5 stelle.

*Kiril Maritchkov

Luigi Di Maio e il cerino bruciato: ecco l’apprendista "disastro"

Giù la maschera. È durato fin troppo il tentativo di Luigi Di Maio, ancora fresco d’accredito a Cernobbio, di mostrare il presunto lato moderato del Movimento 5 Stelle. Questi due mesi – e più – di stallo sono stati utili per mettere alla prova i grillini ai tavoli delle trattative e saggiarne la vera natura. Un minuto dopo la chiusura delle urne, Di Maio ha provato a riscrivere le regole del gioco, convinto di poter imporre i propri desiderata agli italiani e all’intero Parlamento. Un comportamento che, vale la pena ricordarlo, era già sfociato in un’inusuale visita al capo dello Stato prima delle elezioni per consegnare la lista dei ministri di un ipotetico governo monocolore a 5 Stelle. Un atto che è sembrato una ridicola intimidazione e che, post-elezioni, è stato declinato in toni perennemente presuntuosi e arroganti verso gli interlocutori. 
L’illustre Di Maio, dopo cinque anni di insulti e di minacce di processi pubblici nei confronti della classe dirigente, si è detto non solo “disponibile a parlare con tutti” per formare un governo, ma ha restaurato la vecchia politica dei due forni tanto di moda nei “panifici” della Prima Repubblica. Davvero curioso per un bellicoso movimento anti-sistema che ambiva ad aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. Il problema, per il giovane apprendista, è non aver compreso che per ottenere un pane di qualità occorre rispettare gli ingredienti e saperli impastare con pazienza. Altrimenti, si rischia non solo di ottenere un prodotto scadente, ma di rimanere scottati. Il 5 aprile annuncia solennemente: “Noi non proponiamo un’alleanza di governo ma un contratto di governo per il cambiamento dell’Italia. È un contratto sul modello tedesco e che noi proporremo perché vogliamo che le forze politiche si impegnino di fronte agli italiani sui punti da realizzare”. In sostanza, Di Maio pretendeva i voti di altre forze politiche in Parlamento senza tuttavia cedere alcuna poltrona. Credeva che gli altri partiti dovessero andare, in pellegrinaggio, capo chino e battendosi il petto, presso la Casaleggio Associati. 
Così, maldestro, Luigi Di Maio ha trascorso qualche settimana a ricattare Matteo Salvini, convinto che sarebbe caduto nella trappola: lasciare la tanto agognata leadership del centrodestra per diventare un subalterno. Ma dalle parti di via Bellerio non hanno abboccato, e non è riuscito il piano – tentato sino all’ultimo secondo – di spaccare il centrodestra. Iniziano, allora, gli insulti a Forza Italia e a Silvio Berlusconi, e la quotidiana rivendicazione della guida del governo. Ripetono come un mantra di essere il primo partito, tentando così di delegittimare il vero vincitore delle elezioni, la coalizione di centrodestra, che ha ottenuto la maggioranza dei voti e dispone di una maggioranza di seggi ben più ampia di quella grillina. 
Quella di sedere a palazzo Chigi diventa una vera e propria ossessione, tanto che Di Maio chiude il forno con Salvini e apre al Partito Democratico. Una piroetta degna del miglior Baryšnikov e sicuramente coerente con la storia del Movimento 5 Stelle. Quelli che fino a ieri venivano definiti in modo sprezzante “PDioti” e impresentabili collusi con la mafia, divengono improvvisamente dei potenziali alleati. Ma anche in questo caso, Di Maio vuole di dettare legge in casa d’altri: esige non solo un’alleanza, ma un’alleanza con un Partito Democratico de-renzizzato. L’ex sindaco di Firenze, che di fatto controlla ancora la maggioranza dei parlamentari democratici, riesce a far saltare il dialogo già avviato da Franceschini e Orlando.
A questo punto, Di Maio e il suo cerchio magico si trovano da soli, con il classico cerino in mano. E allora, ecco che ne emerge la reale personalità: quella dei bambini capricciosi e impertinenti che perdono la testa e prendono a sfasciare tutto. Iniziano le urla scomposte, i toni da fine dal mondo, le minacce al presidente della Repubblica. Gridano al golpe, vogliono le elezioni anticipate a fine giugno, anzi no a luglio, rievocano il referendum per uscire dall’euro. Questa è l’affidabilità degli “onesti”. Questa è l’affidabilità di chi vuole governare l’Italia.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta