Questo saggio dell’ambasciatore Sergio Vento, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo
L’area balcanica, con particolare riferimento alla direttrice che dall’altopiano carsico percorre il litorale adriatico orientale fino a Corfù, ha rappresentato una costante naturale dell’azione politicodiplomatica italiana fin dagli albori dello Stato unitario. Un breve richiamo ai precedenti storici nel XX secolo sarà utile ad inquadrare le dinamiche degli eventi e delle iniziative che hanno accompagnato la ricerca dell’interesse nazionale nel più ampio spazio tra l’Adriatico, l’Egeo ed il Mar Nero. Ricerca spesso accompagnata da forzature e velleitarismi sfociati spesso nell’isolamento politico-diplomatico ovvero, ancor peggio, nell’ alleanza, peraltro competitiva, con la Germania nella Seconda guerra mondiale. Infatti la nozione di interesse nazionale non è immune da percezioni errate o da sproporzione tra ambizioni e risorse per realizzarle. L’eredità della storica proiezione della Repubblica di Venezia in Dalmazia e verso l’Egeo si innestava sul processo di graduale erosione dell’Impero ottomano nella Regione ad opera della Russia, dell’Austria e della Gran Bretagna e nelle successive, diffuse rivendicazioni slave ed italiane nei confronti dell’Impero Asburgico fino al momento del suo collasso nel 1918.
In realtà, già in occasione della Terza Guerra di indipendenza nel 1866, la disfatta navale di Lissa aveva stroncato il tentativo del neonato Regno unitario di acquisire una supremazia marittima nell’Adriatico. Nel 1912 la conquista della Libia contro la Turchia aveva avuto come corollario l’acquisizione di Rodi e del Dodecanneso, aprendo al tempo stesso un contenzioso con la Grecia, destinato ad accentuarsi nel 1939 con la conquista dell’Albania e con quella della stessa Grecia nel 1941.
Il Trattato di Saint Germain del 1919, che aveva sancito la fine dell’Impero asburgico a conclusione della Prima guerra mondiale, portava all’annessione dell’Istria e di altri territori abitati da circa 400.000 croati e sloveni, malgrado l’isolamento alla Conferenza di Versailles dell’Italia che rivendicava il rispetto delle promesse anglofrancesi sulla Dalmazia, contenute nel Patto di Londra del 1914 ma duramente respinte da Wilson. In realtà soprattutto la Francia diventava la Potenza di riferimento del nuovo Regno jugoslavo nell’ambito della cosiddetta Piccola Intesa, ridimensionando così gli obiettivi italiani.
Dopo l’effimera annessione di Lubiana e della Dalmazia tra il 1941 ed il 1943 ed il collasso dell’8 settembre fu la Gran Bretagna ad accordare credibilità internazionale al movimento di Tito ed alle rivendicazioni territoriali jugoslave: un «investimento» strategico sfociato nell’eresia titoista del 1948, utile anche per lo sradicamento della guerriglia comunista in Grecia. Si tratta di un processo geostrategico con il quale gli «alleati» anglo-americani dell’Italia archivieranno definitivamente talune residue velleità «revisioniste» di quest’ultima nel corso della Guerra Fredda e dopo la sua fine, quando nel 1991 la Jugoslavia si disintegrerà con l’esplicito incoraggiamento della Germania riunificata. In quest’ultima circostanza, il tentativo italiano, in parte condiviso da Francia e Gran Bretagna, di evitare la creazione di un enorme bacino di instabilità, insicurezza ed illegalità alle nostre frontiere, terrestri e marittime, fu indebolito dal processo che condusse al Trattato di Maastricht, dalla crisi latente nelle nostre istituzioni e dalle tendenze centrifughe delle regioni del Nordest contigue a Slovenia e Croazia ed egualmente sensibili all’influenza economica dell’Austria e della Baviera.
L’onda lunga delle dure lezioni della prima metà del XX secolo e la polarizzazione, interna ed internazionale, della Guerra Fredda hanno infatti indotto nella cultura e nel dizionario del mainstream politico italiano per oltre 50 anni la rinuncia a nozioni quali interesse nazionale, geopolitica, politica di difesa e di sicurezza. L’ampia delega delle medesime all’approccio multilaterale condensato nel trittico Onu-Nato-Integrazione europea è stata probabilmente un’opzione saggia e consapevole dei limiti «sistemici» del Paese, già descritti da Dante, Machiavelli e Guicciardini, ma al tempo stesso aleatoria per l’evidente rischio che un pigro multilateralismo si traducesse in «esportazione di responsabilità ed importazione di influenze». Le gerarchie di potenza sono una realtà indiscutibile delle relazioni internazionali, ma la presenza negli organismi multilaterali, aldilà della connessa retorica, richiede tenacia e dinamismo, preparazione e capacità di manovra nel tessere intese e varare iniziative alla ricerca di legittime contropartite. In altri termini, il multilateralismo va inteso quale un’estensione della politica estera bilaterale attraverso gli strumenti autonomi della collaborazione economica, della difesa e della sicurezza nel perseguimento dell’interesse nazionale.
Solo più recentemente l’Italia ha riscoperto quelle nozioni di interesse nazionale, geopolitica ed intelligence economica. Si tratta di esigenze che si sono imposte con crescente intensità dopo la fine del bipolarismo della Guerra Fredda e la modifica degli equilibri europei: la caotica disintegrazione della Jugoslavia e l’improvvisazione del processo di Maastricht ne sono state le prime manifestazioni. Successivamente l’allargamento della Nato e dell’Unione Europea ad est hanno prodotto asimmetrie economiche, la crisi ucraina, con un recupero di influenza russa sugli equilibri politici europei e mediterranei, nonché il fenomeno di Visegrad. Dal canto suo, l’emarginazione della Turchia ha generato un risveglio «neo-ottomano», manifesto in Siria ed in Libia ma latente anche nei Balcani, dalla Bosnia Erzegovina fino all’Albania e al Kossovo.
Più recentemente l’affermazione di spinte unilaterali sono venute dalla Francia (Libia ed i prevedibili controproducenti effetti sul Sahel, ma anche il veto ad Albania e Macedonia), dalla Brexit e dagli stessi Stati Uniti con la presidenza Trump. Altri fenomeni largamente originati nel, o attraverso il, nuovo mosaico della penisola balcanica, cerniera tra Medio Oriente ed Europa, quali la lotta al terrorismo e il contrasto alla criminalità organizzata con i suoi traffici multiformi, hanno assorbito l’attenzione degli organismi competenti. Nel frattempo scarsa attenzione hanno purtroppo ricevuto processi di origine globale, lesivi dell’interesse nazionale, quali la speculazione finanziaria ed il passaggio di imprese sotto controllo straniero anche per effetto di un lunghissimo ciclo recessivo, purtroppo facilitato da penalizzanti vincoli europei. In linea generale, una media potenza quale l’Italia prospera in un contesto di stabilità e di collaborazione. Allorché viceversa la parola passa alla destabilizzazione ed ai rapporti di forza affiora il rischio dell’emarginazione ovvero quello di essere relegata a ruoli ancillari di scarsa visibilità, magari all’insegna dell’inefficace totem virtuale dell’Onu. L’esperienza storica evidenzia come la tutela dell’interesse nazionale, nell’area balcanica come in altri teatri (dalla Libia al Golfo fino al Corno d’Africa), postuli 4 requisiti:
– preliminare identificazione dei suoi effettivi contenuti, al riparo da emotività mediatiche o influenze interessate;
– correlazione tra obiettivi e risorse;
– forti piattaforme di coesione nazionale;
– costruzione di credibili e solide intese bilaterali con partner autorevoli.
*Sergio Vento, ambasciatore, già vice rappresentante permanente OCSE