Come l’Europa può affrontare la disinformazione

La prosecuzione delle ostilità in Ucraina da parte della Russia è destinata ad esporre per lungo tempo l’Unione Europea all’incessante attività di disinformazione di Mosca. Questo genere di minacce asimmetriche sono anche le uniche praticabili, insieme agli attacchi hacker, da un paese prostrato dalla guerra ed economicamente allo stremo. Oltre a richiedere risorse inferiori rispetto ad altre attività destabilizzanti infatti, sfruttano una profonda conoscena della materia che risale ai tempi dell’Unione Sovietica e che è stata sapientemente adattata dalle agenzie russe per operare nelle piattaforme digitali.

La cifra per comprendere lo sforzo messo in atto da Mosca e il suo impatto sui paesi occidentali, è rappresentata dal rapporto costi-benefici estremamente favorevole, basato sull’uso massiccio dei grandi social network. In assenza di disposizioni specifiche per la disinformazione, il rischio è che i processi di autoregolazione si concentrino solo sul temi affini al mare magnum del politicamente corretto. Di conseguenza, una minaccia asimmetrica come quella russa verrebbe ignorata o peggio inquadrata sotto categorie diverse, lasciando gli utenti finali in balia di contenuti fuorvianti e ingannevoli.

Acconsentire a soluzioni alternative, che permettono alla disinformazione di russa di circolare in libertà, arrivando ad inquinare il nostro universo informativo, è una pura follia. Altrettanto ipocrita è invece fare affidamento sulla sola consapevolezza degli utenti, notoriamente assente, nella distinzione delle notizie false.

Il dibattito non ruota infatti sulla correttezza o meno della dottrina del “free speech”, rapportata al pluralismo delle idee tipico di una società complessa come quella contemporanea. Nel caso Russo siamo di fronte ad uno sforzo massiccio e deliberato, che accompagna quello bellico e mira a destabilizzare l’opinione pubblica occidentale, minando la fiducia nelle istituzioni democratiche, a vantaggio di una guerra di aggressione perpetratata ai danni dell’Ucraina.

Questo genere di attività spiccatamente asimmetriche non consentono una risposta adeguata da parte dei paesi interessati. La Russia infatti ha accentuato negli ultimi anni la sua postura autoritaria, esercitando un controllo diretto sull’intera sfera mediatica a cui è dedicato un intero apparato repressivo. Al contrario Mosca ha potuto usare piattaforme digitali sviluppate negli Stati Uniti per diffondere nella più totale impunità i propri contenuti, che è chiaro vadano oltre la semplice propaganda politica altrimenti permesssa.

Durante la pandemia è stata alimentata in modo surretizio e ingannevole la sfiducia di vaste fasce della popolazione verso i vaccini per il Covid19, sostenendo sia l’efficacia superiore di preparati come Sputnik, che la pericolosità degli stessi farmaci. In alcuni paesi come Bulgaria e Romania, nei quali le istituzioni faticano a riscuotere consenso, l’inquinamento mediatico è stato tale che milioni di cittadini sono stati portati a non vaccinarsi, con conseguenze sul piano sanitario catastrofiche. Se siamo dinanzi ad un nuovo paradosso della tolleranza, il concetto può essere sintetizzato così: la difesa della libertà di espressione e di opinione alla base delle democrazie occidentali, rischia di porsi come una paradossale debolezza nell’era delle piattaforme digitali.

Oggi i tradizionali pilastri su cui si reggono le nostre istituzioni, sono minacciati sia da un uso a dir poco disinvolto di tecnologie concepite in paesi autoritari, come la Cina, che dalla massiccia diffusione di fake news, destinate a condizionare i processi democratici e le stesse forze politiche. Ancor di più quelle che incautamente stringono rapporti con alleati purtroppo solo “apparenti”.

Non siamo però privi di difese: lo strumento di cui l’Unione Europea si è dotata per regolare le piattaforme come Facebook e Twitter, il Digital Services Act (DSA), è stato concepito prima dell’aggressione all’Ucraina. Il testo finale, non ancora pubblicato, è frutto di un paziente lavoro di mediazione e non deve soprendere dunque il carattere compromissorio. Le soluzioni a cui perviene tuttavia, sono in grado fin da subito di affrontare la minaccia dell’infodemia, imponendo precisi obblighi di condotta alle piattaforme digitali: in primis queste saranno tenute ad essere più trasparenti nei processi interni, con precise responsabilità nelle modalità di rimozione dei contenuti illeciti, compresa dunque la filiera della disinformazione. Gli obblighi rimarranno comunque di natura preventiva o volontaria e sono privi della “specialità” richiesta da una situazione di crisi come quella in Ucraina, ma vanno nella giusta direzione e non è escluso che la Commissione Europea riesca ad ottenere nuovi poteri.

Anche l’approccio scelto dal Regno Unito nella lotta alla disinformazione è degno di nota. Originariamente infatti Londra prevedeva che un’autorità dedicata fosse dotata di poteri sufficienti per esercitare vere e proprie ingerenze nella gestione delle piattaforme, sindacando direttamente le scelte di rimozione dei contenuti illeciti. Questa decisione, duramente osteggiata per i rischi che avrebbe comportato alla libertà di espressione, è stata abbandonata e il nuovo Online safety Bill si concentrerà, non tanto sui processi interni dei social network, ma sul potenziale danno che può provocare ciascun contenuto, indipendentemente dalla sua illiceità. Ciò si traduce in un’analisi individuale e meticolosa delle attività degli utenti, che richiderà ingenti risorse economiche per assicurare un controllo effettivo sulla disinformazione, i cui confini sono labili e difficili da distinguere con l’uso dei soli algoritmi.

Altro capitolo degno di nota è quello dell’editoria e della televisione, che diffondono anch’esse un notevole flusso di disinformazione. In questo caso però è l’Italia a fare eccezione: siamo l’unico tra gli Stati fondatori dell’Unione in cui è concepibile ospitare, nelle reti più importanti e in prima serata, opinionisti direttamente legati agli apparati di sicurezza russi, se non addirittura lo stesso Ministro degli Esteri senza contraddittorio.  L’anomalia italiana apre interrogativi inquietanti perché va oltre il mezzo punto di share conteso per la raccolta pubblicitaria dai conduttori. Individuati come anello debole dell’Europa, da diversi mesi siamo avvolti da un cordone infodemico in nome di una mai chiarita affinità con Mosca, che mette nel mirino il sostegno all’Ucraina del Governo e che dovrebbe propiziare un allontanamento dalle posizioni occidentali. Questa ambiguità di fondo è ormai assimilata anche dal pubblico, che non si sorprende neppure dei bizzarri piani di pace presentati con istinto velleitario da leader che sostengono la maggioranza.

Il doppio livello in cui opera la disinformazione Russa, sia nella società che ai vertici della politica, è un indice di grande debolezza, che si riscontra solo nei paesi in via di sviluppo con istituzioni facilmente condizionabili. Non basta dunque regolare le piattaforme o le modalità di selezione degli ospiti televisivi, se è la stessa politica a veicolare con irresponsabilità messaggi fuorvianti.

Oggi più che mai centrosinistra e centrodestra devono avviare un percorso di rinnovamento delle rispettive classi dirigenti, che elimini gli spazi di ambiguità esistenti con la Russia. Il voto del 2023 sarà uno spartiacque della futura collocazione dell’Italia in Europa e il contesto internazionale non permette indecisioni o tentennamenti. Solo chi respingerà con risolutezza le interferenze di Mosca potrà pensare di far parte a pieno titolo dell’area di governo e guidare il Paese in una nuova fase per l’Occidene, dove non troverà spazio la doppiezza figlia di una “dottrina del ricatto” a cui abbiamo tristemente scelto di sottostare in passato.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

La sicurezza della Repubblica per fronteggiare la “guerra ibrida”

Pubblichiamo il testo dell’intervento in Aula del 15 marzo del senatore Adolfo Urso in occasione del dibattito sulla relazione annuale del Copasir

Signor Presidente, cari colleghi, intervengo per la seconda volta in quest’Aula da quando sono stato eletto Presidente del Copasir nel giugno dell’anno scorso. L’ho fatto solo durante le comunicazioni del Governo sulla guerra in Ucraina, per dar conto proprio degli allarmi che il Comitato aveva espresso nelle sue relazioni sulla postura aggressiva della Russia in Ucraina e, più in generale, in Europa e nel Mediterraneo allargato, nei Balcani, in Libia e nel Sahel, in Africa; una minaccia accresciuta nel tempo, tesa ad accerchiare l’Europa, anche attraverso il controllo dell’energia e delle materie prime, pronta a utilizzare ogni mezzo in una moderna, terribile e pervasiva guerra ibrida.

Avevamo evidenziato il dispiegamento militare russo intorno all’Ucraina, così come le conseguenze del referendum costituzionale in Bielorussia, che avrebbe cancellato la neutralità di quel Paese, permettendo, quindi, alle truppe russe di agire, anche con dispositivo nucleare, dalla Bielorussia.

Avevamo evidenziato nel tempo, anche nelle precedenti relazioni, l’azione di spionaggio e di reclutamento russo nel nostro Paese; la pervasività della penetrazione russa in Europa, tesa a condizionare le istituzioni democratiche; l’azione aggressiva realizzata nei nuovi domini bellici, nello spazio e nel cyber e l’uso sistematico dei mercenari della Wagner, non soltanto in Africa.

Avevamo scritto, tra l’altro, e cito testualmente: «(…) un’escalation militare in Ucraina potrebbe comportare un ulteriore peggioramento della situazione, che risulterebbe rovinosa anche e soprattutto per l’Italia, che deve a Mosca oltre il 40 per cento delle importazioni» di gas. L’avevamo scritto.

Peraltro, proprio sulla sicurezza energetica il Copasir ha realizzato una specifica relazione al Parlamento il 13 gennaio di quest’anno, al termine di oltre sei mesi di indagine conoscitiva. In quella relazione abbiamo evidenziato la necessità di affrancarci dalla dipendenza estera, tanto più da Paesi come la Russia, che utilizzano l’energia quale fattore di potenza.

In quella relazione indicavamo alcune soluzioni, che sono poi quelle che ora il Governo si appresta a varare incalzato dall’emergenza. Già allora parlavamo della necessità di raddoppiare la produzione nazionale di gas, di diversificare le fonti, di utilizzare il potere sostitutivo dello Stato per gli impianti solari ed eolici che erano bloccati. Già allora parlavamo del nucleare di quarta generazione e dell’ipotesi di fusione nucleare, che il presidente Draghi ha citato pochi giorni fa alla Camera dei deputati. Erano tutte indicazioni già contenute nella nostra relazione sulla sicurezza energetica.

Così come, nella conclusione della relazione, abbiamo indicato con chiarezza l’assoluta necessità di realizzare un piano nazionale di sicurezza energetica al fine di raggiungere un’autonomia strategica, tecnologica e produttiva nel quadro europeo occidentale, di cui finalmente si parla a fronte dell’emergenza.

Cari colleghi, oggi finalmente discutiamo in modo compiuto di sicurezza nazionale sulla base della relazione annuale del Copasir del 9 febbraio. È una novità importante. Onorevoli colleghi – come abbiamo detto nell’incipit della relazione – in passato non è mai accaduto che una relazione annuale del Copasir o una relazione annuale della Presidenza del Consiglio fossero esaminate in Assemblea. La legge n. 124 del 2007, di quindici anni fa, prevede queste due relazioni che non sono state mai esaminate in Parlamento, né in Assemblea, né in Commissione. Per tale ragione, a nome del Comitato, ringrazio la Presidenza e i Gruppi parlamentari di averne condiviso la necessità – come spero accada ogni anno – con una specifica sessione parlamentare. Era questo ciò che chiedevamo nella premessa della nostra relazione annuale; una sessione parlamentare come quella che si svolge ogni anno sulla giustizia, con conseguenze poi legislative.

In questi anni in Assemblea si è svolto soltanto un dibattito su un argomento di competenza del Copasir, nel 2009, con l’allora presidente Rutelli. Si trattava del caso delle intercettazioni su cui peraltro – guarda caso – tanti anni dopo, il 21 ottobre dello scorso anno, siamo stati costretti a fare noi stessi una relazione al Parlamento. Nella nostra relazione sul sistema di intercettazioni abbiamo denunciato come perduri una situazione di assoluta discrezionalità sulle modalità e i criteri con cui vengono affidati i mandati a eseguire le intercettazioni giudiziarie anche in merito alla conservazione o alla distruzione delle stesse.

Ricordo a tutti che siamo sotto procedura di infrazione europea, perché le procure non intendono attuare quanto previsto in una precisa direttiva europea e quanto stabilito dalla legge italiana. Aspettiamo che il Ministro della giustizia mantenga quel che si era impegnato a fare nel corso dell’audizione.

In altri casi, invece, alle nostre relazioni sono seguite azioni concrete. Mi riferisco – per esempio – alla sicurezza cibernetica, che è stata oggetto della nostra prima relazione al Parlamento a inizio legislatura. Essa ha portato all’estensione del golden power al settore delle telecomunicazioni, alla realizzazione del perimetro nazionale sulla sicurezza cibernetica, alla nascita, seppure solo nel giugno scorso, con oltre dieci anni di ritardo, dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Non è stato dato seguito, invece, alla nostra richiesta di allora volta a individuare una fattispecie di reato che consentisse di perseguire gli autori degli attacchi in modo adeguato e di predisporre una difesa attiva; cosa di cui ovviamente si parlerà nei prossimi giorni.

In questa relazione evidenziamo a tal proposito anche la necessità di realizzare al più presto il cloud nazionale della pubblica amministrazione, la rete unica a controllo pubblico, una politica strategica per la connessione marittima, l’autonomia tecnologica e produttiva europea nell’economia digitale.

Purtroppo – cari colleghi – non vi è stata sufficiente attenzione nemmeno quando notavamo che la Russia è lo Stato più attrezzato nella guerra cibernetica e oggi dobbiamo pensare a come eliminare le criticità che possono emergere dal fatto che software antivirus russi siano utilizzati come cavalli di Troia. In queste ore il Governo – ovviamente anche dietro nostra sollecitazione – prenderà altre necessarie misure di cui siamo stati correttamente informati – come sempre accade – in un confronto pieno e leale tra gli organi istituzionali. Lo stesso vale – anzi di più – per la tecnologia cinese, di gran lunga più pervasiva, come abbiamo ampiamente dimostrato tre anni fa e ribadito in questa relazione, chiedendo, purtroppo senza successo, di inibire l’uso della tecnologia cinese nel sistema delle telecomunicazioni.

Altre indicazioni del Comitato sono state recepite e ne diamo conto in questa relazione, per esempio con l’estensione del golden power al settore finanziario e bancario e ad altri importanti asset strategici del Paese, anche alla filiera sanitaria; o con la norma penale che punisce la detenzione di materiale a fini terroristici. Penso altresì all’indicazione contenuta nella nostra relazione su come contrastare la radicalizzazione islamica e le nuove forme di terrorismo jihadista, che abbiamo presentato a seguito della caduta di Kabul nel regime talebano. Questa indicazione è stata di recente recepita dalla Commissione affari costituzionali della Camera e, quindi, abbiamo fatto un passo in avanti.

Sicuramente vi è molto altro da fare. Nella nostra relazione annuale abbiamo evidenziato quali siano alcuni asset strategici del Paese di cui ci siamo occupati nella nostra attività annuale: dalla ricerca all’università, alla tutela dei brevetti della tecnologia, dall’economia digitale alle infrastrutture portuali, dalla filiera siderurgica a quella automobilistica, dai semiconduttori alle batterie, dall’idrogeno al riciclo dei minerali preziosi, dalla nuova competizione duale sullo spazio all’industria della difesa. Sullo spazio come fattore geopolitico – oggi si parla di guerra interspaziale – e sulla difesa europea stiamo per concludere, dopo mesi di indagini, due apposite relazioni che vi presenteremo nei prossimi giorni; indagini che non a caso abbiamo attivato dopo la sciagurata ritirata dall’Afghanistan.

Nella relazione annuale, però, vi abbiamo già anticipato alcune osservazioni sulla difesa europea. Nello specifico, vi abbiamo anticipato come già a noi appariva insufficiente, ben prima dell’invasione russa in Ucraina, una previsione di appena 5.000 militari come forza rapida europea, a fronte del fatto che solo l’Italia impiega 9.200 militari in missioni internazionali. Anche in questa relazione vi abbiamo anticipato come ci sono apparse del tutto inadeguate le risorse previste nel quadro finanziario pluriennale dell’Unione europea; risorse che sono state dimezzate rispetto a quanto prevedeva il precedente bilancio. Ora ovviamente tutto cambierà sotto l’incalzare della guerra – come ha fatto la Germania – e, se lo ha fatto la Germania, capite che dobbiamo farlo anche noi.

Chiediamoci però se la minaccia russa non sia anche frutto della distrazione europea, del nostro non voler vedere quello che accadeva. Non possiamo più permettercelo. Anche per questo un ampio capitolo della relazione riguarda l’intelligence economica, tanto più importante a fronte della guerra ibrida che è in corso da anni, non da oggi, e di cui il principale terreno di contesa è proprio il nostro Mediterraneo allargato. Si tratta di una guerra ibrida in cui sistemi autoritari (Cina e Russia in testa, ma non solo) aspirano alla supremazia tecnologica ed economica anche attraverso il controllo delle risorse energetiche e alimentari del pianeta, dal gas all’acqua, di materie prime, minerali preziosi e terre rare, di tutto ciò che serve all’economia digitale ed ecologica – lo dobbiamo assolutamente realizzare – che però sta cadendo sotto il loro controllo.

Chi non ha notato (noi lo abbiamo notato) che negli ultimi mesi si sono svolti sei golpe militari, di cui cinque riusciti, in quattro Paesi del Sahel, in due dei quali ovviamente hanno chiamato i mercenari della Wagner?

Intelligence economica e intelligence cibernetica si legano l’una all’altra. Per sottoporlo alla vostra attenzione, abbiamo condotto un confronto con alcune democrazie occidentali, con le nostre democrazie occidentali, Stati Uniti, Francia, Giappone, Svezia, che da tempo hanno sviluppato una intelligence economica, per capire cosa si possa fare, di più e meglio, nei Paesi democratici, a tutela della nostra tecnologia e delle nostre imprese, della nostra scienza e creatività, della nostra società e, quindi, delle nostre libertà.

Qualcosa è stato fatto a normativa vigente, su nostra richiesta pienamente condivisa dal Governo, e ne diamo atto anche al sottosegretario Gabrielli, come abbiamo fatto nella nostra relazione. Ma è necessario fare ancora di più, con apposite modifiche legislative, perché quanto è stato fatto finora è a legislazione vigente. Cambiare la legge è compito del Parlamento.

In questo contesto, abbiamo evidenziato come lo strumento del golden power sia utile, necessario, ma non sufficiente. Serve anche una politica industriale che punti a preservare e, se possibile, rafforzare gli asset strategici del Paese. Lo stesso strumento del golden power, notevolmente rafforzato in questi anni, è ancora poco usato. Guardate le relazioni al Parlamento sul golden power. Lo diciamo perché, talvolta, il Parlamento è distratto. Lo stesso strumento del golden power, notevolmente rafforzato in questi anni proprio su impulso del Comitato, va ulteriormente adeguato alle evidenze emerse nella sua applicazione. Il caso di Alpi Aviation, una piccola impresa ad alto contenuto tecnologico, che abbiamo esaminato e di cui vi diamo conto nella nostra relazione, sulla quale il Governo è recentemente intervenuto, bloccando la vendita a una società cinese statale, ci ha determinato nel chiedere che lo strumento del golden power contempli anche un’azione preventiva di monitoraggio, a tutela proprio delle piccole e medie imprese ad alto contenuto tecnologico, come accade in altri Paesi, come ad esempio gli Stati Uniti. Questo è nella nostra relazione.

La nostra relazione ha sempre un preciso metodo di lavoro empirico: parte da un caso specifico, come quello sopracitato e dà conto delle nostre sollecitazioni al Governo ad agire nei limiti della legislazione vigente. Ciò avviene nel corso di audizioni (guardate il numero di audizioni fatte lo scorso anno, soprattutto nella seconda parte dell’anno) oppure attraverso note informative specifiche alle autorità competenti (leggete le note informative specifiche che abbiamo inviato e a chi le abbiamo inviate). Infine, attraverso le relazioni al Parlamento, sollecitiamo il legislatore a intervenire.

Ad esempio, nel campo del controllo sull’operato del comparto, cioè dell’Intelligence, sul quale c’è un intero capitolo e che è compito precipuo del Comitato, abbiamo riscontrato il caso Marco Polo Council. La nostra attività in proposito ha consentito all’autorità del comparto di predisporre un primo provvedimento sulla incompatibilità dei vertici dell’Intelligence dopo la cessazione del servizio. Provvedimento pubblicato in via straordinaria nella Gazzetta Ufficiale, affinché terzi ne fossero a conoscenza.

Ora occorre migliorare l’impianto legislativo, il che è compito del Parlamento. Così come, verosimilmente, mi auguro facciano anche altri organi dello Stato per quanto di loro competenza.

Nella parte conclusiva della relazione forniamo pertanto alcune indicazioni su ciò che riteniamo necessario modificare nella legge 124. Una legge ottima, ma approvata nel 2007, quindici anni fa, quando la guerra ibrida non era nemmeno immaginabile, quando la Russia sostanzialmente era ancora nello spirito di Pratica di Mare.

Nella relazione diciamo che è necessario fare già da subito una cosiddetta manutenzione ordinaria, ma assolutamente necessaria, e vi elenchiamo anche i punti in cui occorre intervenire.

Nel contempo, però, abbiamo evidenziato come la normativa abbia bisogno di una revisione più significativa anche per quanto riguarda l’architettura e le competenze delle agenzie di intelligence. Per tale motivo, abbiamo preannunciato che, nella prossima e conclusiva relazione di fine legislatura, al termine di ulteriori approfondimenti, forniremo le nostre relative informazioni in un confronto preventivo al Copasir con il Governo. Tra l’altro, abbiamo affrontato una tematica, emersa sia in questa legislatura che nella precedente, relativa alla composizione del Comitato nel momento in cui muta la collocazione parlamentare maggioranza-opposizione.

Nella precedente legislatura si era supplito con una leggina transitoria, incrementando il numero dei parlamentari componenti il Comitato: ce lo siamo dimenticato? Ebbene, noi non lo abbiamo dimenticato; ragion per cui abbiamo proposto in questa relazione una soluzione normativa che consenta ai Presidenti delle Camere di intervenire quando cambia la ripartizione maggioranza-opposizione per regolare l’attività del Comitato che di fatto, nei primi sei mesi dello scorso anno – si veda il numero di audizioni e di interventi – si era praticamente ridotto a un numero esiguo, quasi paralizzandosi rispetto a quello che abbiamo fatto nella seconda parte dell’anno. Non si può paralizzare l’attività del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica; non lo si può fare, ovviamente, tantomeno oggi.

Cari colleghi, leggendo il combinato disposto della relazione annuale e della relazione sulla sicurezza energetica, qualcuno ha scritto che il Copasir aveva previsto quel che sarebbe accaduto – alcuni giornalisti si sono sbizzarriti su questo – con l’aggressione militare in Ucraina. Qualcosa di significativo avevamo detto nei modi in cui potevamo dirlo, ovviamente, sulla base delle audizioni segretate che avevamo tenuto e, quindi, delle informazioni che noi stessi ricevevamo, perché la nostra fonte di informazione sono le audizioni: l’Intelligence, il Governo, le autorità che convochiamo, non altro, a scanso di equivoci.

Ora occorre reagire, consapevoli che siamo a un punto di svolta nella storia, a un passaggio epocale. Il mondo che sognavamo non c’è più e forse non c’era nemmeno ieri; vi è un prima e un dopo, e non serve a nulla recriminare o rinfacciare, o peggio ancora mettere in difficoltà l’avversario o l’alleato per quello che aveva dichiarato in altri tempi, in un’altra epoca storica, quando aveva altre informazioni. Questo è un gioco al massacro che non serve al Paese.

È il momento dell’unità e della responsabilità, come si sono realizzate (unità e responsabilità) nella risoluzione che definisce quale debba essere la posizione dell’Italia sulla guerra in Ucraina: una guerra che ci riguarda, perché è una parte della guerra ibrida che, con mezzi anche diversi, ma altrettanto devastanti, i sistemi autoritari hanno sviluppato nei confronti delle democrazie occidentali per sottometterci e, se volete, anche in qualche misura per toglierci le nostre libertà.

È un problema che riguarda anche l’Occidente. Vi pongo un esempio che deve essere chiaro a tutti, perché la tecnologia si sviluppa, e oggi la tecnologia consente agli algoritmi – attraverso il riconoscimento facciale e solo attraverso quello – di capire quali siano le opinioni politiche del cittadino che viene sottoposto al riconoscimento facciale, senza altre informazioni. Capite bene cosa ciò significhi rispetto a Paesi in cui è prevalente il controllo sociale del dissenso e in Paesi come il nostro in cui è fondamentale la privacy e le libertà degli individui, delle comunità e delle Nazioni.

Per questo mi auguro che la stessa unità e la medesima responsabilità si realizzino ogni qualvolta affrontiamo le tematiche della sicurezza della Repubblica, che non è soltanto il controllo sull’Intelligence; lo dico a scanso di equivoci.

Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, già nella sua denominazione, che il Parlamento ha scelto nel 2007, a differenza del Copaco precedente, non si limita al controllo dell’Intelligence – fa anche quello, ovviamente – e non si limita nemmeno agli apparati dello Stato, perché non parliamo di sicurezza dello Stato.

Nella denominazione si parla di sicurezza della Repubblica, che è qualcosa di più e di diverso – il legislatore è stato lungimirante – rispetto al controllo sull’intelligence o anche semplicemente al controllo sulla sicurezza dello Stato.

Per questo ci siamo occupati di relazioni tematiche: ne abbiamo fatte sei in questa legislatura, di cui tre negli ultimi sei mesi. Gli argomenti appaiono poco pertinenti a chi non guarda nell’ottica della sicurezza nazionale, ma oggi sappiamo quanto è importante la relazione che abbiamo fatto sulla sicurezza finanziaria e del sistema assicurativo del nostro Paese, a fronte delle decisioni che – per esempio – l’Europa e il mondo occidentale hanno dovuto assumere in materia di sanzioni finanziarie nei confronti della Russia. Allo stesso modo, ci rendiamo conto di quanto importante sia stata la relazione sulla sicurezza cibernetica di tre anni fa, rispetto alla possibilità che ci sia un attacco cibernetico nel nostro Paese e alle misure che devono essere prese per evitare che, attraverso il cavallo di Troia della tecnologia, si possano espropriare le nostre informazioni o, peggio ancora, scatenare una guerra cibernetica nel nostro Paese.

Mi auguro, quindi, che la stessa unità e la medesima responsabilità si realizzino ogniqualvolta parliamo di sicurezza alla Repubblica e che finalmente ogni anno si svolga una relazione, con una sessione con risoluzioni finali, in cui vengano esaminate e comparate la relazione della Presidenza del Consiglio che viene svolta ogni anno a febbraio e la relazione annuale del Copasir, in modo che il Parlamento e il Paese si possano rendere conto di come cambiano, rispetto ovviamente a quanto accade in ogni contesto internazionale, le necessità della sicurezza della Repubblica. Credo che questo sia utile al Parlamento per predisporre poi le misure necessarie.

Ritengo che in questo caso noi potremmo dire davvero di aver risposto alle necessità del Paese.

Concludo, cari colleghi, dicendo che dobbiamo renderci conto che non possiamo fuggire dalla storia, anche se forse lo vorremmo. Non possiamo fuggire dalla storia e la storia oggi ci impone di prendere da subito le misure necessarie per quanto riguarda la nostra difesa, la nostra sicurezza e gli asset strategici del nostro Paese per fronteggiare, insieme alle altre democrazie occidentali, nella nostra Unione europea e nella nostra Alleanza Atlantica quello che abbiamo di fronte.

Non possiamo fuggire dalla storia, possiamo però cambiare la storia.

*Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica

I referendum alla prova della democrazia

Come è noto la Corte Costituzionale si è finalmente espressa riguardo alle recenti proposte referendarie e ha deciso, nel senso di rendere ammissibili 5 degli 8 quesiti proposti dai diversi comitati, escludendo omicidio del consenziente, stupefacenti e responsabilità civile dei magistrati.

Giova notare che, a dispetto delle nubi che si addensavano sull’istituto del referendum ormai da anni alle prese con i limiti del quorum, la diversa natura dei quesiti e le varie sensibilità politiche rappresentate dai diversi comitati sono senz’altro il sintomo di una notevole spinta partecipativa, forse ignorata se non disattesa.

Un fiume carsico che, pur non raccogliendo la trasversalità delle battaglie dei promotori rimasti su posizioni antitetiche, è riuscito ad intercettare le aspirazioni democratiche di una parte di opinione pubblica sostanzialmente esclusa dalle dinamiche politiche tradizionali. È facile immaginare il dibattito alimentato da temi etici come nel caso dell’eutanasia, di politica criminale quanto alla legalizzazione del consumo delle droghe leggere e il più generale tema della giustizia, ormai divenuto ciclico.

Le aspirazioni dei promotori tuttavia sono rimaste in larga parte frustrate dalla dichiarazione di inammissibilità, che ha colpito i quesiti di più grande impatto nei confronti dell’opinione pubblica e una riforma dell’ordinamento giudiziario, destinata all’approvazione nei prossimi mesi, potrebbe presto rendere superflua perfino la convocazione dello stesso referendum.

Sino a che punto si può parlare di un disallineamento tra lo scrutinio della Consulta e le legittime istanze partecipative dei cittadini ?

Sicuramente da simili dinamiche non può chiamarsi fuori neanche quell’ala del Parlamento, tradizionale sostenitrice del referendum, che invoca la “fiducia” sulla proposta di riforma della giustizia licenziata dal Consiglio dei Ministri. Così su un tema cruciale per le istituzioni democratiche, dopo aver congelato il dibattito nelle urne, verrebbe inevitabilmente sacrificato anche quello parlamentare. Facile intuire le conseguenze che ingenererebbe sull’astensione un’ulteriore delegittimazione delle Camere, unita all’impossibilità conclamata per i cittadini di esercitare il proprio diritto di voto.

Pensare ad uno scenario diametralmente opposto, con l’accoglimento di tutti i quesiti, sarebbe stato nondimeno complicato dinanzi a problemi insormontabili di ammissibilità di quelli “etici”. È verosimile che in quel caso l’affluenza prevista avrebbe potuto superare il quorum, trainata dall’emotività che temi come il suicidio assistito e il consumo di sostanze stupefacenti innescano in larghe fasce della popolazione, oggi solita a disertare le urne.

In un simile quadro, la natura abrogativa del referendum non avrebbe lasciato i tradizionali spazi di manovra, intervenendo radicalmente anche nel caso della separazione delle carriere e della responsabilità civile dei magistrati: un effetto domino che avrebbe pregiudicato quindi eventuali azioni “riformatrici” che altre forze politiche potrebbero ora proporre nella aule parlamentari.

D’altro canto la mossa della Corte ha stroncato ogni ipotesi al riguardo: sia il quesito sul suicidio assistito che sugli stupefacenti non si sono nemmeno avvicinati al risultato prefissato, ed è facile capire come la Consulta abbia potuto giustamente dichiararli inammissibili: una norma incriminatrice troppo astratta da abrogare, come l’omicidio del consenziente, sarebbe andata ben oltre il concetto di eutanasia, nei confronti del quale rimane una sostanziale apertura di credito della Corte. Il rischio sarebbe stata un accoglimento quasi indiscriminato del suicidio assistito, non potendo l’abrogazione di una norma come quella in esame plasmare a discrezione del comitato promotore una disposizione del Codice Penale con tutt’altro significato, che richiederebbe un esame parlamentare ben più maturo e corposo. Quanto alle sostanze stupefacenti il problema insiste su gravi lacune giuridiche nella formulazione del quesito, imprecisioni ripetute che hanno, secondo i giudici, condizionato irrimediabilmente l’aspetto sostanziale, non potendo la Corte riformulare o peggio correggerne il contenuto letterale.

A conti fatti è evidente che la bocciatura avrà pesanti conseguenze sull’affluenza alle urne, i tre quesiti più rappresentativi e in grado di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica, sono stati messi da parte restringendo notevolmente l’ambito di interesse, ora monotematico pur in assenza del tema più importante per la giustizia. La riqualificazione del quesito sulla responsabilità civile dei magistrati come additivo e non abrogativo, come noto, ha permesso di dichiararlo inammissibile dando adito a dubbi e polemiche. Giova ricordare che dopo la triste vicenda di Enzo Tortora, fu proprio su questo terreno che si giocò il primo grande strappo tra politica e magistratura, dopo gli anni di reciproca convivenza sotto il segno delle leggi speciali degli anni di piombo.

La decisione della Corte, sia essa interpretabile come politica o giuridica, è riuscita a fare breccia nei due schieramenti dei comitati promotori, dividendoli più di quanto non lo fossero già. Da un lato, cancellando giustamente i quesiti su omicidio del consenziente e stupefacenti, ha stroncato sul nascere ogni possibile obiezione del centrodestra sul mancato accoglimento di quello sulla giustizia, dall’altro il mondo laico, che con le sue divisioni non è più attento come in passato alle battaglie garantiste dei Radicali, ne esce sconfitto quasi totalmente, non avendo portato a casa neanche uno dei due quesiti proposti. Fa eccezione tuttavia quella parte del centrosinistra meno attenta a questioni valoriali, che può ora esultare per lo “scampato pericolo” dell’abrogazione delle norme sulla responsabilità civile indiretta e spingere con decisione per neutralizzare i quesiti rimanenti, usando la riforma Cartabia come grimaldello.

Un’operazione molto politica e forse poco democratica, che contribuirà alla delegittimazione dell’istituto referendario e alimenterà il senso di impotenza dei cittadini, riversando sul Ministro della Giustizia le tensioni di una rischiosa accelerazione che si palesa come una corsa contro il tempo, in un crescendo di scontri interni alla maggioranza di Governo.

 

*Giovanni Maria Chessa, comitato scientifico Fondazione Farefuturo

UN’AMMINISTRAZIONE DA RIFORMARE. LEZIONI DALL’EMERGENZA CORONAVIRUS

Questo saggio di Salvatore Sfrecola, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

In questo Paese, nel quale i cittadini sono chiamati assai spesso alle urne per assicurare la rappresentanza popolare nelle assemblee legislative delle istituzioni territoriali, lo Stato, le regioni, i comuni, vincere le elezioni, come ripeto da tempo, può essere relativamente facile, difficile è governare, come dimostra la ricorrente, mancata realizzazione di parti significative dei programmi di governo. Le ragioni vanno ricercate essenzialmente nella inadeguatezza dell’indirizzo politico delineato da una classe politica estremamente modesta che, tra l’altro, non tiene conto della capacità delle strutture amministrative di dare attuazione alle politiche pubbliche. Che è, in ogni caso, responsabilità della politica che detta le regole legislative e amministrative. Infatti, l’amministrazione pubblica italiana, che pure si avvale in ogni settore di riconosciute eccellenze professionali, è, complessivamente considerata, assolutamente inadeguata rispetto al ruolo che dovrebbe svolgere.

L’organizzazione dei ministeri, la normativa sostanziale da applicare, quella procedimentale, la professionalità degli addetti, esigono una profonda revisione. L’esperienza insegna, infatti, che i programmi governativi spesso sono frustrati da normative confuse, delle quali al momento dell’approvazione non sono stati evidentemente simulati gli effetti. Il Parlamento, inoltre, sovente ricorre a leggi di delegazione, spesso generiche («in bianco»), con l’effetto che i provvedimenti di attuazione, i decreti legislativi, tardano ad essere emanati, come dimostra il decreto «milleproroghe», di anno in anno sempre più corposo. Non di rado il giudizio sulla legittimità di quelle norme, spesso scritte male, finisce dinanzi ai tribunali amministrativi o alla Consulta. Ad esempio, il mancato rispetto della delega è vizio di costituzionalità.

Le responsabilità di questa situazione sono diffuse e risalenti nel tempo ma progressivamente aggravate, come dimostra la vicenda attuale dell’epidemia da coronavirus, con incertezze nella individuazione delle attribuzioni e delle competenze tra Stato e regioni, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, decisa dalle sinistre nel 2001 con una maggioranza di tre voti, e, a cascata, nell’adozione dei provvedimenti necessari per far fronte all’emergenza. Responsabilità della classe politica, innanzitutto, nella quale sempre più spesso mancano competenze ed esperienze, com’è sotto gli occhi di tutti. Ma anche dei sindacati del pubblico impiego, promotori di ripetute istanze di slittamento verso l’alto di fasce di dipendenti attuato con riconoscimento di «mansioni superiori» quasi mai effettivamente esercitate, ma benignamente «attestate» dai capi degli uffici. Una politica del pubblico impiego che, quanto alla dirigenza, si è basata sulla moltiplicazione dei posti di funzione che ha fatto perdere di vista il senso della funzionalità delle strutture amministrative, quanto a competenze e numero degli addetti, e della stessa responsabilità dei dirigenti. Il loro numero è enormemente cresciuto nel tempo, con l’effetto di parcellizzazione degli apparati con soddisfazione dell’antica aspirazione dei detentori del potere politico al divide et impera, una regola dagli effetti perversi in presenza di una classe di governo estremamente modesta. Ministri che si sentono autorevoli di fronte ad un dirigente dimezzato, che loro hanno nominato e da loro attende la conferma.

Quale indipendenza, dunque, per la dirigenza statale? Inoltre, lo spoil system, immaginato per inserire nei ministeri professionalità «non rinvenibili nei ruoli dell’Amministrazione» (art. 19, comma 6, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), è stata la strada per assicurare un posto di lavoro ai portaborse dei politici o a funzionari «di area» che non erano riusciti a superare il concorso a dirigente. Con l’effetto di mortificare i funzionari vincitori di carriera che hanno visto precluse prospettive che un tempo potevano costituire una importante aspettativa professionale. Insomma, occorre una profonda riforma per governare. Come gli italiani hanno potuto verificare nell’occasione drammatica del contrasto all’epidemia da Covid-19, nell’affrontare la quale il Governo ha dimostrato assoluta incapacità di assumere rapidamente le occorrenti decisioni. È sufficiente qualche breve considerazione sui tempi della risposta all’allarme pervenuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) il 30 gennaio 2020, con la dichiarazione dello stato di «emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus» (Pheic). E qui c’è la prima falla nella organizzazione statale.

L’Italia ha un suo rappresentante nell’O.M.S. Bisognava attendere la dichiarazione ufficiale per un virus denominato n. 19, cioè scoperto nel 2019? Perché il nostro rappresentante non ha allertato il governo? O l’ha fatto e il presidente del Consiglio ed il ministro della Salute hanno sottovalutato il pericolo? Sta di fatto che il 31 gennaio il Consiglio dei Ministri dichiara, per sei mesi, «lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili», avendo evidentemente presente che la situazione di pericolo avrebbe avuto una durata almeno corrispondente. Eppure il Governo, che nel frattempo non si è preoccupato di fare una ricognizione delle occorrenze, mascherine e apparati di ventilazione polmonare, presumibilmente occorrenti, per verificarne l’esistenza nelle strutture ospedaliere o per predisporne l’acquisto, attende il 23 febbraio per adottare un provvedimento di urgenza «con forza di legge» con poche norme, al quale seguirà una serie di decreti legge mai vista prima. Mentre le disposizioni di dettaglio vengono adottate dal presidente del Consiglio con propri decreti di dubbia costituzionalità per le gravi limitazioni all’esercizio di diritti personali costituzionalmente garantiti: uno tra tutti, il diritto di circolazione. Decreti «incostituzionali», come li ha bollati Sabino Cassese, giurista insigne ed ex giudice della Corte costituzionale, che non si sa neanche chi li abbia scritti, tra comitati e task force, una pletora di oltre 450 «esperti», come se l’amministrazione pubblica non ne avesse. E non esistesse il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), organo «di consulenza delle Camere e del Governo» (art. 99, comma 2, Cost.).

Quanto ai decreti legge, vengono convertiti dal Parlamento senza che sia possibile discutere ed emendare il testo, ricorrendo il Governo al voto di fiducia, con evidente emarginazione delle due Camere. E mentre il virus sembra aver attenuato la propria pericolosità e si guarda alla «fase due» per cercare di dare ossigeno all’economia bloccata in tutti i settori, l’incapacità dell’Amministrazione di rispondere alle esigenze del momento apre la strada ad una normativa straordinaria la quale fa intravedere, tuttavia, un nuovo, per certi versi, più grave pericolo: quello che la logica dell’emergenza (niente gare, niente controlli) estenda i suoi effetti oltre il tempo strettamente necessario per proporsi come regola per il futuro. Semplificare necesse est, naturalmente, ma… est modus in rebus. Nel segno della legalità e della trasparenza.

*Salvatore Sfrecola, Presidente Associazione Italiana Giuristi di Amministrazione, già presidente di Sezione della Corte dei Conti

Draghi, Meloni e le generazioni future

L’incarico a Mario Draghi – da molti preconizzato – è maturato dopo le convulsioni della maggioranza del “Conte bis” e ha sparigliato il quadro politico, tagliando trasversalmente le alleanze tra i partiti.

La sciabolata improvvisa del Presidente Mattarella ha gettato nello scompiglio l’alleanza giallorossa.  PD e M5S avevano coltivano l’illusione di poter fare a meno di Italia Viva per andare avanti con la rinnovata formula politica di centro-sinistra saldata dalla figura di Giuseppe Conte, magari attraverso l’utilizzo dei miliardi del Recovery Fund. Sino alla conclusione dell’esplorazione di Roberto Fico i partiti della vecchia maggioranza si sono mostrati sin troppo sicuri che sarebbero riusciti a varare un “Conte ter” con l’aiuto dei soliti “responsabili”. Invece, come spesso accade in politica, si è imposta una realtà differente da quella immaginata ed è improvvisamente crollato il castello di carte di chi pensava di aver costruito – anche con l’uso mediatico dell’emergenza pandemica – il nuovo orizzonte strategico della sinistra di governo giallorossa.

Ma anche nel campo del centrodestra non sono tardate le divaricazioni. Alcune erano ampiamente previste, come quella che riguarda Forza Italia e la sua adesione ad ipotesi di governi tecnici o istituzionali, che potessero consentire il superamento della formula di governo giallorossa.

Altre, invece, erano sicuramente meno prevedibili, come quella derivante dalla disponibilità della Lega a partecipare ad un Governo di unità nazionale presieduto da Draghi.

L’unica eccezione alla grande alleanza per affrontare la crisi pandemica e provare a rilanciare l’Italia con l’utilizzo del prestito europeo del Recovery Plan è, dunque, quella di Fratelli d’Italia. Solo Giorgia Meloni ha volontariamente declinato l’invito del Presidente Mattarella, non chiudendo, tuttavia, la porta ad un concreto sostegno parlamentare su singoli provvedimenti nell’interesse della Nazione.

Anche questa scelta ha suscitato perplessità e un acceso, ma interessante dibattito nei circuiti politici, culturali ed editoriali della destra italiana. Da un lato, chi sostiene che in periodo di guerra (ormai consueta metafora dell’emergenza pandemica) nessuno dovrebbe sottrarsi alle istanze di una solidarietà politica nazionale, espressa con un corale appoggio al “Gabinetto bellico”.

Con il suo celebre “Whatever it takes” e con l’invenzione del Quantitative Easing l’ex Presidente della BCE ha salvato la moneta europea dalla speculazione internazionale e ha imposto, esponendosi agli anatemi dei rigoristi teutonici, un primo importante cambio di passo rispetto alle cieche politiche economiche depressive, fondate sull’ossessione tedesca per la stabilità monetaria.

Inoltre – last, but not least – il sostegno a Mario Draghi avrebbe potuto mettere in soffitta, definitivamente, i tentativi di riedizione, sotto mentite spoglie, del vecchio “arco costituzionale”. La conventio ad excludendum della destra, infatti, nella strategia del PD zingarettiano varrebbe ad imporre il ritorno ad una “democrazia bloccata” e il conseguente restringimento dell’area di governo al perimetro di un centro-sinistra con tonalità giallorosse.

Nell’interesse del Paese e non solo dei partiti che si collocano a destra dell’arco parlamentare, è fondamentale disinnescare questo grave rischio, la cui concretizzazione riporterebbe le lancette della democrazia italiana indietro di trent’anni. Si deve, tuttavia, riconoscere che l’ingresso in maggioranza della Lega di Salvini renderà spuntata quest’arma di delegittimazione rispetto a chi intendesse utilizzarla contro chicchessia e, a maggior ragione, nei confronti del partito nazionale che esprime il presidente dei Conservatori e riformisti europei.

D’altra parte, non mancano le ragioni a sostegno di quello che inizialmente è apparso come un “gran rifiuto” di Giorgia Meloni, ma che, con il passare delle ore, è stato messo a fuoco nei termini di una “opposizione patriottica”. La crescita progressiva di Fratelli d’Italia si spiega anche con una linea di rigorosa coerenza e con una visione dell’interesse nazionale (dalla economia agli assetti istituzionali, dal modello di sviluppo alla collocazione geo-politica del nostro Paese) non sempre espresse, con altrettanta organicità, da altre componenti del centro-destra. Probabilmente è vero che la visione “nazionale” di Fratelli d’Italia avrebbe faticato ad esprimersi con un governo di emergenza, magari sottoposto ai veti delle componenti grilline, democratiche e post-comuniste. La scelta, dunque, quella di convergere con la maggioranza che sosterrà il Governo Draghi, se e quando giungeranno in Parlamento indirizzi di politiche pubbliche coerenti con un disegno di riscossa dell’Italia e dell’Europa condivisibile per la destra identitaria e popolare.

Archiviato, dunque, il fisiologico, quanto utile dibattito interno su una scelta fondamentale per il destino del Paese (come si conviene ad un partito che possa dirsi veramente tale e non un mero coacervo di interessi elettorali), si tratta adesso di percorrere sino in fondo la via della “opposizione patriottica”.

Occorre, innanzi tutto, smascherare la falsa narrazione oppositiva tra europeisti e (presunti) antieuropeisti. Nessun europeo può e vuole oggi dire no all’Europa; ma ogni europeo può pretendere che il progetto di integrazione avanzi verso un modello di unione politica confederale. Una Unione che si regga sulle radici di una identità bimillenaria e sia capace di proiettarsi, non solo economicamente, nello scenario globale come potenza continentale. Una confederazione europea fondata sulla partecipazione politica dei suoi cittadini e sulla eguaglianza delle opportunità nell’intero suo territorio. Una comunità di Stati che sappia difendere i suoi ceti produttivi dall’economia finanziaria e dalla concorrenza sleale dei liberi battitori dei mercati internazionali. Un ordinamento sovrastale che, riavviando il processo di integrazione, restituisca le scelte monetarie e gli indirizzi di politica economica e fiscale alla sovranità di istituzioni politiche continentali, democratiche e rappresentative.

Del resto, proprio il “Whatever it takes” di Mario Draghi ha tutti i caratteri di una potente affermazione di sovranità rispetto alle dinamiche adespote dell’economia finanziaria globale. Una decisione politica anomala e in un certo senso paradossale, perché assunta da una autorità tecnica e “non politica”, che ha però dimostrato come, anche nel mondo globalizzato, non si possa fare a meno di istituzioni di governo dell’economia.

Un disegno, in definitiva, profondamente diverso dall’attuale Unione europea, troppo spesso concepita quale fonte di legittimazione tecnocratica e non, invece, come proiezione politica continentale di una concreta comunità democratica di cittadini e di Stati.

In questo senso, i conservatori possono essere, al contempo, europei e sovranisti. Nella tradizione del diritto pubblico europeo, infatti, al contrario rispetto a quanto sostenuto da alcune superficiali narrazioni, la sovranità è democrazia e partecipazione, universalismo inclusivo di cittadini, di comunità intermedie, di imprese e di lavoratori, nel quadro unificante di comuni principi di civiltà.

Una visione “patriottica europea”, dunque, può ben conciliarsi con la tutela degli interessi nazionali. Anche sul piano interno, quindi, l’opposizione costruttiva potrà esprimere il suo sostegno a tutte le iniziative di modernizzazione del Paese fondate sull’utilizzo razionale dell’enorme massa finanziaria del Recovery Plan. La risposta alla crisi indotta dalla pandemia ha, infatti, determinato un primo momento di rottura rispetto alle politiche rigoriste che rifiutavano l’idea di un debito comune per alimentare la solidarietà politica, sociale ed economica dell’Europa.

Un piano che dovrà sostenere, in Parlamento e nel Paese, il rilancio infrastrutturale dell’Italia e la ricucitura delle distanze fra il Nord e il Sud, con il potenziamento delle reti e con la valorizzazione delle identità territoriali. Un programma di supporto per assicurare nuova libertà di azione al genio nazionale sul piano della cultura, dell’impresa, dell’arte, della tecnica, della ricerca e dell’innovazione, da troppo tempo strozzato dalle rigidità burocratiche o dalle false rappresentazioni di una possibile “decrescita felice”. Un progetto di rilancio che sprigioni le energie individuali e collettive della nazione con il sostegno dello Stato e dell’Europa, garanti delle regole del gioco e delle infrastrutture strategiche. Una visione di competizione aperta al mondo nei termini della migliore tradizione dell’universalismo europeo, anziché sulla fiducia ingenua e incondizionata nel mercato globale.

In questo scenario dovrà misurarsi il contributo della maggioranza che sosterrà il Governo Draghi e il ruolo dell’opposizione costruttiva della destra italiana, con il pensiero rivolto alle generazioni future.

*Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Catania

DEMOPATÌA, IL MALESSERE CONTEMPORANEO DELLE DEMOCRAZIE

Da anni – o forse da sempre – la democrazia liberale è considerata un regime in crisi. Il suo essere plurale e aperta la rende facilmente bersaglio di interpretazioni critiche e di profezie nefaste circa la sua prossima fine. Abbiamo letto di “tramonti dell’Occidente” e di democrazie decadenti lungo tutto il Novecento, almeno fino al crinale storico del 1989. Proprio la caduta del muro di Berlino sembrava aver segnato la fine delle alternative, la “fine della storia” per dirla con Fukuyama.

I regimi liberaldemocratici avevano vinto, non c’erano più reali competitor tra i sistemi politici. Eppure, proprio aver creduto che quel prodotto tipicamente occidentale e moderno, quella democrazia liberale e fondata sul libero mercato e sul capitalismo, fosse ormai un regime invincibile e destinato a essere esportato come benchmark per ogni comunità politica si è rivelato un grave errore. Un errore prima di tutto concettuale: quello cioè di aver considerato la politica come un terreno ormai neutro, regno della razionalità strumentale, della governance intesa come better regulation, dei governi come amministrazioni di condominio. Il regno dell’ordinaria amministrazione e delle scelte di policy basate su criteri scientifici. La fine delle polarizzazioni ideologiche e il trionfo del New Public Management. Oggi possiamo dire che non è andata proprio così, non tanto per la comparsa di nemici esterni, quanto per la riproposizione di problemi interni, tutti nostri, occidentali. Esiste un malessere attuale, contemporaneo, delle democrazie occidentali che non era stato previsto in quegli anni. Il malessere di oggi è prima di tutto una crisi di accountability: il gap tra le aspettative del popolo (il demos) e le risposte dei governi (il kratos) tende ad aumentare da diversi decenni. I sintomi di questo malessere sono numerosi.

Recentemente ho provato a isolarne alcuni:1 calo tendenziale della fiducia nei partiti, nei politici di professione e nelle istituzioni rappresentative; riduzione della partecipazione elettorale; aumento della volatilità elettorale; incremento del numero dei partiti; nascita e morte (politica) repentina di innumerevoli nuovi partiti; intensificazione dell’uso dei referendum ad hoc; riduzione della durata media in carica dei governi; diffusione di stile e atteggiamento populisti. Alcuni di questi sintomi sono ambivalenti nell’interpretazione. Ad esempio, una maggiore volatilità elettorale può essere letta come una più ampia libertà di scelta per l’elettore. Allo stesso modo l’incremento dell’uso dei referendum – e delle consultazioni popolari, anche online – sembrerebbe un buon sintomo democratico, non un sintomo di crisi. Tuttavia, anche questi due fenomeni, se letti guardando al big picture, ossia incrociando i dati con quelli degli altri sintomi, ci dicono altro: l’elettore più che libero sembra totalmente disorientato nelle sue scelte, spesso improvvisate, di impulso e “disperate”; i referendum risultano sempre più spesso un modo per ridare “lo scettro al popolo”, da parte di una classe politica progressivamente delegittimata e timorosa di compiere scelte impopolari.

Tutti questi sintomi descrivono una democrazia indebolita (specie sul suo versante liberale), con un demos partecipe a intermittenza, apatico e perennemente insoddisfatto, sempre più spesso mosso da quelle che possono essere definite le tre “i”: istinti, istanti e immaginario. E che sostituisce frequentemente il cosiddetto “voto di opinione” con il “voto di impulso”, una quarta “i”. Nella letteratura politologica recente si possono ritrovare numerosissimi “colpevoli”, gli agenti patogeni del malessere: la crisi dei partiti e della rappresentanza, la mediatizzazione della politica, la personalizzazione/leaderizzazione, la fine delle ideologie, l’arrivo della postverità e dei populismi e tanti altri fenomeni, ognuno dei quali ha ovviamente il suo peso e costituisce un problema reale. Tuttavia, se tutti questi agenti sono reali e sono diffusi praticamente in ogni regime democratico, deve esserci qualcosa di più profondo. E, andando in profondità, si arriva alla base, ossia al popolo. I nostri mutamenti come cittadini sono alla base dei mutamenti del sistema politico. Se la democrazia è malata, lo è perché si è ammalato il demos. In questo senso è una “demopatìa”.

Nello specifico, si tratta di una sorta di patologia autoimmune e degenerativa, nel senso che si è prodotta a seguito di mutamenti fortemente voluti in tutto l’Occidente e che proseguono e si intensificano nella contemporaneità. Il malessere democratico deriva, cioè, dalla lunga transizione alla postmodernità (o, per alcuni, all’ipermodernità): individualizzazione, fine delle grandi narrazioni, perdita del senso sociale, crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive, nuove percezioni e concezioni del tempo e dello spazio, sindrome consumistica e logica dell’“usa e getta”, crisi delle identità e fine delle comunità solide, narcisismo, incremento dei non luoghi e delle gratificazioni istantanee, ritorno a logiche di “folla” più che di massa. Se la società diventa prima di tutto psicologica, egocentrata e individualizzata, ogni settore della nostra esistenza ne risente: dall’economia, alla cultura, alla politica. Ciò non vuol dire che la politica non sia esente da colpe.

Tuttavia, le sue responsabilità vanno lette all’interno di una riflessione ampia, di una serie di mutamenti sistemici che per certi versi la “obbligano” a essere colpevole. Lo stesso ragionamento può essere fatto per i mass media. Le innovazioni tecnologiche sono i grandi motori di questi cambiamenti antropologici. Ogni innovazione è un medium e ci cambia, a prescindere dall’utilizzo che se ne fa: questa era la tesi di McLuhan, racchiusa nella celebre formula “il mezzo è il messaggio”. Concentrandoci sui mass media, il passaggio dall’era tipografica a quella televisiva ha comportato determinate conseguenze. Quello dall’era televisiva a quella digitale ne comporta altre. Tutte però vanno nella stessa direzione: incrementano la velocità e l’accumulazione di informazioni premiando la sintesi, e riducono conseguentemente la concentrazione e l’approfondimento; valorizzano “istinti e istanti” e allontanano la logica e il ragionamento; esaltano l’immagine e penalizzano il testo scritto; ricercano il sensazionalismo “a frammenti” per catturare l’attenzione e alimentano l’incoerenza nel discorso pubblico; ipersemplificano e banalizzano ogni argomento; elevano a notizia fenomeni irrilevanti (ma pop) e tengono fuori dall’agenda mediatica reali priorità (non pop perché complesse) e così via. In questo senso, la demopatìa ha luogo sia per ragioni storico-culturali (la modernità che produce “inevitabilmente” la postmodernità) che per ragioni tecnologiche (la transizione dall’era tipografica a quella digitale), entrambe legate a doppio filo: tutte le innovazioni tecnologiche recenti e vincenti sono strumentali e funzionali alla filosofia moderna. La accompagnano e ne costituiscono un derivato.

Questo mutamento è totale perché cambia il nostro modo di percepire le cose, di pensare e di comportarci. Quella che oggi definiamo digital transformation è a tutti gli effetti una transizione antropologica, fondata sulle innovazioni tecnologiche e sorretta dalla società dei consumi. In sintesi, potremmo dire che oggi il consumatore ha sostituito il cittadino, anche in politica. Il pubblico è sempre più individualizzato; è composto da elettori-consumatori via via più insoddisfatti e alla ricerca di nuovi stimoli forti e spiazzanti (che è esattamente la logica di base della società dei consumi), di istanti pieni di dopamina, di gratificazioni immediate e di acquisti d’impulso. Ciò che noi chiediamo alla politica di oggi non è più un modello di riforma sociale (tipico dell’era del voto ideologico, del Novecento pieno, del “secolo breve”) o un insieme di soluzioni di policy che riteniamo praticabili e vincenti (come era previsto invece subito dopo il 1989, nell’era del presunto voto di opinione). Noi cerchiamo fondamentalmente emozioni forti e conferme delle nostre convinzioni, peraltro sempre più instabili. Cerchiamo sintonia emotiva, pillole psicoterapeutiche per le nostre insicurezze, storie da comprare che siano il più possibile tarate sulla nostra. Eroi individuali come appigli salvifici, come nuove scorciatoie cognitive che hanno sostituito i simboli, le ideologie e la rappresentanza “solida” del Novecento. Ciò fa sì che la politica performante, in un’ottica di cattura del consenso, sia sempre più quella che plasma la propria offerta in base ai desiderata della domanda, cioè del pubblico. Ecco perché si può definire la leadership contemporanea come followship: i leader vincenti di oggi sono quelli che meglio degli altri si sintonizzano sulle oscillazioni continue dell’opinione pubblica. Non ci guidano verso idee loro, convincendoci che siano le migliori.

Ci vendono idee nostre come fossero loro. Questo facilita l’ottenimento del consenso, ovviamente. Specie nel brevissimo periodo, che è ormai l’unico che conta, in un diluvio di stimoli quotidiano che finisce per favorire l’oblio immediato e l’incoerenza come virtù. Tuttavia, nonostante questi accorgimenti tattici e funzionali, i governi durano mediamente meno di prima e l’insoddisfazione del demos continua a crescere perché entra in gioco quella che Christian Salmon ha definito la “cerimonia cannibale”. Per catturare la nostra attenzione e il nostro consenso, i leader-follower sono costretti a seguire la logica dei media: devono fare sensazione, altrimenti non li percepiamo neanche, all’interno dell’oceano di informazioni nel quale siamo immersi. Per fare sensazione devono promettere “mari e monti” e farlo con un piglio fortemente volontaristico (voglio dunque posso, volere è potere) e con un taglio personale (quasi biopolitico, di intimate politics). Quando però si è chiamati a mettere in pratica le promesse (ossia una volta al governo), subentrano tutte le difficoltà: la complessità del reale e dei fenomeni che si affrontano; le risorse limitate; le opposizioni che hanno carta bianca per riposizionarsi su ogni tema, mentre chi governa deve decidere e dunque essere più coerente e lineare, per definizione; le cose buone che non fanno notizia, mentre quelle negative sì e dunque l’opinione pubblica fatica a percepire cambiamenti positivi e spesso li considera come “atti dovuti” e magari tardivi; la personalizzazione che rende i governanti di turno più precari di un tempo, perché l’immagine di una persona è più vulnerabile di quella di un’ideologia o di un partito (basti pensare a quanto oggi sia un attore politico decisivo la magistratura inquirente); la neofilia, la voglia di novità del consumatore che semplicemente si stanca e ha bisogno di nuovi stimoli. E dunque cestina in tempi sempre più rapidi l’ultimo leader di turno che gli ha fatto battere il cuore. L’eroe diventa presto capro espiatorio, prima di sparire nell’oblio totale. E il volontarismo (impotente) si trasforma in velleitarismo e continua ad alimentare l’insoddisfazione verso la politica in generale perché questa “cerimonia” si situa in un inevitabile vortice, in un trend necessariamente crescente di stimoli, promesse, sensazioni, emozioni.

Quello che si configura, in termini di rendimento democratico, è indubbiamente un vicolo cieco. Perché tutti i settori e le variabili coinvolte spingono verso la stessa direzione: società (dei consumi), mass media, opinione pubblica e politica sono avviluppate entro logiche tra loro coerenti, ma che conducono esattamente nel punto in cui siamo. Ecco perché a oggi nessuno possiede una terapia valida. Ogni ipotesi che provi a cambiare singoli pezzi del puzzle, per quanto ambiziosa, non può funzionare. Perché la malattia è più profonda, riguarda ognuno di noi nel suo quotidiano, nel suo essere cittadini, consumatori, elettori, persone. Tuttavia, prendere coscienza della profondità del malessere, per quanto a suo modo deprimente, può già costituire un punto di partenza “terapeutico”. Per dirla con Giorgio Agamben, «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio». Chi vede solo le luci – invertendo per certi versi il mito platonico della caverna – è solo accecato da una quotidianità febbrile e satura di stimoli, da cui di fatto è agito. Per salvare la democrazia, dobbiamo fare i conti con noi stessi. A partire dal nostro buio, individuale e collettivo.

*Luigi Di Gregorio, docente di Comunicazione politica, pubblica e sfera digitale all’Università della Tuscia, Viterbo

Governance pubblica su Autostrade e fibra ottica

“Autostrade e fibra ottica sono due asset strategici di interesse nazionale, peraltro recentemente inseriti proprio nel perimetro della “golden power”. Proprio per questo il governo deve vigilare su come sarà realizzata la partecipazione dei fondi esteri  garantendo comunque la governance pubblica delle società”: è quanto rileva in una interrogazione il sen. Adolfo Urso, di Fratelli d’Italia, vicepresidente del Copasir. “Ció riguarda sia il negoziato su Atlantia, laddove sembra profilarsi la presenza maggioritaria dei fondi «Blanckstone», americano, e «Macquarie», australiano, sia la realizzazione della Rete a fibra ottica in cui una parte significativa potrebbe averla ancora una volta Macquarie, il quale a sua volta intenderebbe far partecipare altri investitori stranieri nella compagine”. Il profilo del fondo australiano è peraltro tale da considerare la massima prudenza proprio perché ha fama di agire a fini meramente speculativi: sarebbe «famoso per garantire ottimi rendimenti ai suoi investitori ma non altrettanti servizi agli utenti», al punto da essere ribattezzato dagli australiani «la fabbrica dei milionari», e dagli inglesi «il canguro vampiro»;

Inoltre, dalle analisi e ricostruzioni giornalistiche sono emersi ulteriori elementi poco chiari in ordine alle «preziose consulenze» pagate a uno studio di ex politici ed ex amministratori pubblici, tra i quali proprio gli ex vertici dei soggetti in causa, che potrebbero far emergere conflitti d’interesse e comunque una contiguità o commistione di interessi pubblici e privati, sulla quale è opportuno adottare ogni possibile approccio prudenziale al fine di scongiurare ogni rischio di esposizione dei nostri asset pubblici strategici nazionali a possibili operazioni speculative;

Il senatore di Fratelli d’Italia chiede pertanto  “di sapere

a) se il Governo, in relazione al processo di costituzione della società della rete unica nazionale necessaria per l’accelerazione dello sviluppo digitale dell’Italia, e alla recente offerta avanzata dal fondo australiano Macquariea Enel, abbia svolto o ritenga di poter svolgere un’attenta valutazione in ordine alla qualità, sicurezza e provenienza degli investimenti in campo e alle finalità e continuità di gestione.

b) se il Governo abbia valutato le possibili conseguenze sulla governance di Autostrade della circostanza che i fondi esteri assumerebbero una partecipazione maggioritaria in Aspi, e in tal caso, come pensa di garantire il ruolo guida di Cassa Depositi e prestiti, gli investimenti in manutenzione e il costo per gli utenti, anche in relazione alle recenti osservazioni della Autorità di settore”;

c) quali indispensabili interventi ritenga di poter adottare al fine di garantire la messa in sicurezza degli assetstrategici dello sviluppo economico e infrastrutturale del nostro Paese, ponendoli al riparo da qualsivoglia operazione speculativa internazionale e preservando l’interesse nazionale”.

*Enrico Sicilia, collaboratore Charta minuta

Strategia della Tensione o Tensione Strategica?

Oggi il Governo Conte fa un uso della comunicazione spietatamente strumentale alla necessità di nascondere la pochezza organizzativa e la mancanza di programmazione del Governo stesso. Infatti sin dall’inizio della pandemia, il capo del Governo ha adottato la tecnica del discorso alla Nazione, azione che fino a qualche tempo fa era ad appannaggio solo del Capo dello Stato in occasione degli auguri di fine anno agli italiani.

Ora più che mai questi discorsi ad orologeria, accompagnati dall’emanazione dei vari D.P.C.M., non solo hanno cambiato autore, ma hanno cominciato a generare qualche perplessità e un minimo di confusione, in particolare in coloro che per anni attribuivano all’intervento a reti unificate un valore positivo e soprattutto di ottimismo verso l’immediato futuro grazie all’auspicio augurale del Presidente della Repubblica. Ecco che con tattica disperata il Premier Conte si affanna a fare prima l’annuncio del discorso, poi il discorso alla Nazione. Azione che all’inizio ha creato curiosità, poi col proseguo ha generato incertezza, poi preoccupazione, oggi ansia, sconcerto e rabbia. Ebbene sì, molti non se ne sono accorti, ma i discorsi prima annunciati, poi rinviati, poi trasmessi da tutte le reti televisive, radiofoniche e della carta stampata, hanno ottenuto il risultato sperato dal Governo PD-5S: nascondere il pressapochismo e la inesistenza di un serio progetto politico a medio e lungo termine.

A tutto ciò hanno giocato un ruolo di importante rilievo strategico tutte le testate giornalistiche del mainstream che giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, ci hanno tempestato di bollettini di covid-19 molto simili ai bollettini di guerra. Questi bollettini sanitari insieme agli annunci delle ore 20:00 si sono trasformati in un mix micidiale con serie ripercussioni sociali e psicologiche. Strategia della tensione? Forse sì, ma questa volta in forma diversa e ad opera del Governo. Ricordo che dalla fine degli anni ’60 fino agli inizi degli anni ’80 la strategia della tensione aveva un carattere eversivo e si basava su una serie preordinata e ben congegnata di atti terroristici con la finalità di spaventare il popolo e la Nazione. Per paura molti rinunciavano a muoversi nelle zone ad alta frequentazione e venivano colpiti gli snodi ferroviari e le vie di comunicazione con l’obiettivo di indebolire il potere politico-economico.

Oggi, sembra che sia invece il Governo in primis ad attuare la strategia della tensione incutendo paura alle persone, paura di un virus del quale ancora oggi non si dice tutto. Ma allora perché questo atteggiamento da parte del Governo? Con questo tipo di comunicazione a colpi di annunci e spot, da un lato, riescono a coprire e mascherare una serie di problematiche che questo Governo fa molta fatica a gestire e risolvere. Se solo pensiamo al problema dell’immigrazione, mai diminuita e foriera di ulteriori problemi, vedi i recenti accadimenti in Austria e Francia, al MES quasi dimenticato dai media, alla disoccupazione e alle centinaia di aziende per le quali è aperto (per ognuna) un tavolo di crisi, (tutti ancora irrisolti), dei quali quasi non se ne parla più. Dall’altro lato, gli annunci servono a confondere e convincere le persone che ciò che stanno facendo è tutto ciò che deve e può essere fatto, ma la realtà è che stanno procedendo confusi e a tentoni. Qui sta l’inganno, una nuova forma di strategia del terrore attuata per mezzo degli strumenti di comunicazione che nasconde l’inerzia di mesi nei quali avrebbero dovuto pensare, programmare ed attuare strategie di contenimento dell’epidemia e della pandemia. Nulla di tutto ciò, al contrario, hanno gestito l’informazione gridando al lupo al lupo, generando panico e tensione, quel panico e tensione che hanno portato molta gente alle porte degli ospedali per fare i controlli e i tamponi.

Ecco il mix micidiale, panico e tensione, paura e rassegnazione, al punto tale che l’italiano medio accetti passivamente ogni decisione governativa. Qui viene in mente la storia della rana bollita, che inizialmente apprezza il tepore, poi sopporta il caldo, ma quando l’acqua comincia a bollire non ha più la forza di saltare fuori dalla pentola e viene cotta. E’ quello che sta succedendo al popolo italiano grazie al Governo che a colpi di D.P.C.M., lockdown, chiusure si chiusure no, prima zone verdi poi gialle, arancioni o rosse porta l’economia allo sfacelo e milioni di italiani in difficoltà e senza lavoro.

Ma questa strategia della tensione che terrorizza e mette a dura prova la psiche di giovani e meno giovani presto presenterà un conto molto salato in termini di altre patologie e di strascichi irreparabili nell’economia della Nazione. Questa è una subdola guerra mediatica dove la comunicazione gioca un ruolo determinante come arma di distrazione di massa, una comunicazione così voluta ed attuata può portare l’economia italiana nel baratro, proprio il contrario di quella che deve essere fatta: propositiva, incentivante ed ottimistica per risollevare le sorti di tutti. Serve assolutamente un cambio al timone, serve capacità e competenza e soprattutto un Governo credibile che dia fiducia, perché questa è la miglior comunicazione da fare ai cittadini. Solo così si uscirà vincenti dalla pandemia per rilanciare l’economia.

*Stefano Lecca, dirigente A.I.A.

Non è tempo di piagnistei!

Non è tempo di piagnistei! Piero Bargellini, allora sindaco di Firenze, pronunciò questa frase nella Galleria degli Uffizi, con il fango sino alle ginocchia nel novembre 1966, quando l’Arno aveva tracimato facendo danni incalcolabili. Una frase semplice che provocò una svolta e si passò in poche ore dal dolore per il disastro nella Città del Giglio al lavoro entusiasta per la ricostruzione.
E’ una frase che vorrei ripetere, a gran voce, agli amici del centro destra. Basta con le geremiadi perché le proposte non vengono ascoltate da chi ha la responsabilità di governare. Le lamentale non fanno mai bene a nessuno e soprattutto non infondono coraggio ai potenziali elettori. Non bisogna neanche farsi soverchie illusioni su “gli stati generali dell’economia”, una passarella fuorviante inventata, pare, dalla fervida mente del portavoce della Presidenza del Consiglio, l’ing. Rocco Casalino.
Il centro destra dovrebbe cogliere con entusiasmo, invece, l’opportunità offerta su un vassoio d’argento dall’Unione europea (Ue). E’ in arrivo un vero fiume di denaro per facilitare il rilancio dell’economia italiana, con particolare riguardo alle piccole e medie imprese ed ai ceti più deboli. Gli aiuti, però, sono soggetti a “condizionalità”: la predisposizione di un programma non solo di come verranno spesi ma anche e soprattutto di come verrà rimessa in sesto l’economia.
Gli obiettivi di tale programma e, quindi, della “condizionalità” europea si possono, per il momento, dedurre dalle raccomandazioni al nostro Paese pubblicate dalla Commissione un paio di settimane fa. In breve, l’Italia dovrebbe assicurare: a) politiche di bilancio tali da permettere una ripresa economica a medio termine e la sostenibilità del debito della pubblica amministrazione; b) aumentare gli investimenti pubblici e privati; c) migliorare il coordinamento tra Stato centrale e Regioni; d) rafforzare la sanità; e) sostenere la fasce deboli più colpite dalla crisi; f) mitigare la disoccupazione con politiche attive del lavoro; g) rafforzare istruzione e formazione a distanza tramite strumenti digitali; h) fare giungere liquidità all’economia reale soprattutto alla piccole e medie imprese ed alle imprese innovative; i) porre l’accento su investimenti “verdi” e digitali; e soprattutto l) migliorare l’efficienza del sistema giudiziario e  l’efficacia della pubblica amministrazione.
Sono obiettivi ineccepibili. Chiaramente il Governo ha difficoltà ad articolarli in un programma con contenuti e scadenze monitorabili (gli aiuti, infatti, verranno erogati a rate, a misura che il programma verrà attuato). Si pensi ad esempio alle profonde differenze tra Partito Democratico (PD) e Movimento 5 Stelle (M5S) emerse in queste ultime settimane su aspetti fondanti della giustizia e della scuola. Oppure alle divergenze sulle grandi opere.
Gli stessi “Stati generali dell’economia” sembrano un diversivo per ritardare una inevitabile resa dei conti su punti chiave del programma richiesto.
L’opposizione potrebbe redigere, e pubblicare, un programma in linea con gli obiettivi indicati. Non si dovrebbe produrre un voluminoso “libro dei sogni” ma un programma triennale di sviluppo dell’economia di 30-40 pagine, con alcune tabelle chiave e se possibile schemi di provvedimenti (decreti legge, disegni di legge, proposte di legge) condivisi tra i partiti del centro destra. Se il Governo non ne tiene conto, l’opposizione dovrebbe utilizzare la propria sponda al Parlamento Europeo per portarlo alle autorità dell’Ue. Che dovrebbero giudicare della solidità delle proposte del Governo (ove vengano presentate ed escano dalla nebuloso di questi mesi) e di quelle di chi oggi siede sui banchi dell’opposizione e si prepara a governare un domani non troppo lontano.

Leo: per un fisco dello sviluppo

Intervista di Antonio Coppola al Prof. Maurizio Leo, candidato alla Camera dei Deputati – Collegio Roma Centro

Esperto di diritto tributario dal vasto curriculum, già in Parlamento dove si è distinto nelle più importanti Commissioni; un profilo ideale per sfidare Gualtieri nel difficile Collegio Roma 1. Come sta vivendo questa campagna elettorale?

Mi sto occupando di temi tecnici, di fiscalità in particolar modo, in virtù della mia lunga esperienza professionale. Ho cercato di intercettare i problemi dei contribuenti, che ho modo di osservare e conoscere da vicino, al fine di poter elaborare risposte concrete.

 

In politica economica la sua visione è opposta a quella del Governo, mi può dare una panoramica?

Il Governo nella legge di bilancio ha inasprito il carico fiscale a carico dei contribuenti. Basti pensare alla stretta sulle compensazioni, agli appesantimenti per i contratti d’appalto, al cuneo fiscale che non mostra nulla in favore dei lavoratori dipendenti, dei pensionati, degli incapienti. La mia visione è diversa perché penso nella necessità di abbattere il carico fiscale, soprattutto in favore delle fasce di reddito che vanno dai 28.000 ai 55.000 euro, a cui può aggiungersi la flat tax sui redditi incrementali, per poter dare ossigeno a lavoratori e imprese, trovando in parte le coperture economiche dalle risorse destinate al costo del reddito di cittadinanza.

 

Cosa pensa dell’Italia nell’attuale contesto economico internazionale?

I principali organismi internazionali di settore fotografano l’Italia ultima in Europa, penultima nel mondo OCSE. La crescita prevista oscilla tra lo 0,2 – 0,3% con un rapporto deficit/PIL verso il 2,4%, che renderà certamente necessaria una manovra correttiva entro aprile.

 

Il crescente decadimento del centro storico fa male a chi ama Roma, dove in Campidoglio amministra il Movimento 5 Stelle ed in Municipio il Centrosinistra. Crede che i suoi avversari di Collegio possano sottrarsi da questa responsabilità? 

Degrado urbano, abusivismo e micro criminalità prendono sempre più spazio e non è accettabile nel centro storico della capitale d’Italia. Il Movimento 5 Stelle che amministra il Comune ed il Centrosinistra che amministra il I Municipio non possono sottrarsi dal fallimento delle loro gestioni.

 

*Antonio Coppola, collaboratore di Charta minuta