Identità e made in Italy. Un Paese come un brand

Nell’epoca della globalizzazione si parla sempre più di made in Italy. Tutto quello che viene prodotto in Italia rappresenta un brand riconosciuto a livello mondiale. Un marchio, quello del made in Italy, sinonimo di alta qualità, tradizione di famiglia, artigianalità, ma anche lusso ed esclusività. Parliamo di abbigliamento, scarpe, e più semplicemente di cibo e vino delle nostre bellissime regioni. Ma non solo. Il prodotto italiano fa riferimento anche ai servizi e riguarda l’industria turistica e il marketing territoriale. I nostri tour eno-gastronomici, il nostro patrimonio artistico-culturale e le tradizioni locali si vendono in tutto il mondo.

Un brand che rappresenta il suo modo di vivere, la sua storia, le sue radici culturali. La vocazione manifatturiera italiana è talmente apprezzata al mondo, da far considerare il Made in Italy uno dei brand più importanti a livello globale.

Ma c’è un modo per misurare la percezione del Made in Italy nel mondo?

Il Best Countries Report, redatto dallo US News & World Report, il BAV Group e la Wharton School of the University of Pennsylvania attraverso dei parametri quali quantitativi cerca di dare un valore a questo intangible asset.

Tale report misura il Made in Italy calcolando il valore di mercato dei 30 brand italiani più importanti, cercando di estrapolarne i punti di forza.

Nel Best Countries Report 2020, relativo all’anno 2019, l’Italia è considerata al 17° posto su una classifica di 80 Paesi. Rispetto al 2017, quando ricopriva il 15° posto, è stata superata da Singapore e Cina. Ciò che non avrebbe aiutato la posizione internazionale dell’Italia sarebbe stato, in primis, la forte instabilità politica. Quest’ultima caratteristica, strutturale nella nostra Repubblica, negli ultimi anni avrebbe determinato una crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi sviluppati. Tale fattore, insieme alla disoccupazione e al calo demografico, costituiscono gravi fonti di preoccupazione da un’ottica internazionale. A livello globale, i principali brand italiani vengono percepiti come garanzia di qualità, autenticità e stile. Questi brand fanno però riferimento ad un gruppo ristretto di imprese grandi, agili e interconnesse con una fitta rete di altre imprese di piccole/medie dimensioni. In particolare, si fa riferimento ad imprese guidate da un forte spirito imprenditoriale e caratterizzate da innovazione, internazionalizzazione e focus sulla costumer experience.

Nel 2020 il valore del brand Italia è stimato circa di 1.776 miliardi di dollari (-15,8% rispetto al 2019). Le prime 100 nazioni avrebbero perso 13.100 miliardi dollari di valore per via della pandemia.
Dall’analisi di Brand Finance traspare che vi sono alcune imprese italiane molto abili nello sfruttare la propria immagine. Ad eccezione di settori specifici come lusso, moda, design e food, il Made in Italy sembra avere un’immagine meno forte del Made in Germany, in Usa e in France.

La debolezza del brand Italia dipenderebbe per Brand Finance principalmente dalla difficoltà di fare business, dalla gestione della cosa pubblica e dalla qualità della comunicazione di privati e imprese.
A livello globale, USA, Cina, Giappone, Germania e Regno Unito risultano i brand nazionali a più alto valore aggiunto. La Cina continua a colmare il divario con gli USA; il marchio Cinese varrebbe 18.800 miliardi di dollari contro 23.700 miliardi di quello statunitense.

Ma nonostante ciò e le acquisizioni che hanno interessato il brand, il proliferare di nomi italiani nel mondo, il vero made in Italy resta ancora molto forte e riconosciuto a livello globale. La ragione è legata al concetto di rarità del brand. Le nostre materie prime sono spesso di rara qualità e si trovano solo in determinate aree geografiche (pensiamo ai nostri vini o al nostro olio). Lo stesso concetto di rarità lo ritroviamo nelle skills delle risorse umane: i lavoratori delle nostre aziende sono tecnicamente preparati, con competenze uniche e difficilmente imitabili. Sarà anche per questo che molti marchi di moda italiana hanno la loro scuola dove formano sarti e modellisti.

La strategia per mantenere positiva la percezione del Paese diventa ancora più cruciale durante la pandemia da Covid-19. Alcuni esperti suggeriscono l’istituzione di un team specifico che dovrà gestire l’immagine dell’Italia nel periodo post-crisi. Quest’ultimo non dovrà limitarsi ad un’ottima comunicazione, ma dovrebbe condurre analisi di marketing e finanziarie per stabilire lo stato attuale del marchio Italia. Attraverso tali dati, occorrerà difatti identificare i fattori su cui focalizzare la strategia con relativo impatto economico, tenendo conto dei costi e dei ritorni sugli investimenti.

Noi abbiamo tradizionalmente avuto difficoltà a fare sistema, cioè mettere a disposizione delle imprese strumenti di formazione per stare sul mercato; sistema significa mettere a disposizione delle imprese risorse e strumenti per l’innovazione e la ricerca, perché nella competizione globale un paese a costo del lavoro mediamente alto come l’Italia vince soltanto se punta sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione.

Il “Made in Italy” è un elemento centrale dell’identità culturale di questo paese.  C’è uno spessore di professionalità, di know-how, di sapere, di lavoro, di innovazione, di ricerca, di qualità, di straordinario valore. L’Italia deve essere molto più consapevole della forza economica, sociale e culturale che esprime come paese dell’estetica, del gusto, del design, dell’immagine, della identità e della storia che l’hanno da sempre accompagnata.

*Giuseppe Della Gatta, analista finanziario

La via italiana alla globalizzazione

La quinta lezione del corso di formazione della Fondazione Farefuturo ha avuto come tema la Globalizzazione. La globalizzazione è un fenomeno che investe sia l’economia ovvero il mercato dei beni e del lavoro che il mercato dei capitali. Il relatore è stato il Prof. Beniamino Quintieri ordinario di economia e finanza internazionale presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, già presidente di SACE ed ICE.

Il punto di partenza è stata l’analisi dei dati dell’economia italiana negli ultimi 20 anni, si è evidenziato come il sistema economico del nostro paese sia cresciuto meno dei diretti concorrenti europei e si è notato come tutto questo ha impattato sul reddito medio. In un clima di indicatori negativi il commercio con l’estero ha segnato una crescita costante che ha progressivamente portato in attivo la bilancia commerciale. Il “Made in Italy” ha contributo alla tenuta del PIL ed ha determinato una selezione nell’ambito del sistema industriale.

Le imprese che hanno avuto la capacità di legarsi ai mercati internazionali sono riuscite a sopravvivere e ad evolversi, quelle che sono rimaste ancorate al mercato interno hanno vissuto una fase di stagnazione. In generale appare evidente come il limite de3l sistema industriale italiano non stia nella sua capacità di esportare ma nella produttività, una variabile la cui crescita è stata limitata nel tempo. Il Prof. Quintieri ha altresì notato come esiste una correlazione tra la polverizzazione del sistema economico ed il basso livello di produttività del nostro Paese.

Tra i partecipanti è intervenuto il dott. Andrea Giordani che ha evidenziato un rischio spesso sottovalutato della globalizzazione ovvero il trasferimento all’estero dei processi decisionali. Il prof. Quintieri ha sottolineato come questa preoccupazione sia molto fondata in quanto il valore aggiunto delle produzioni con la globalizzazione dei mercati è legato alla fase di pianificazione e progettazione e alla fase di commercializzazione dei prodotti ovvero i processi a monte e a valle del processo produttivo.

VIDEO LEZIONE

*Stefano Massari, collaboratore Charta minuta

I peccati originali della globalizzazione

Di seguito il contributo di Mario Baldassarri pubblicato nel Rapporto sull’Interesse nazionale “Italia 2020”

 

Da varie parti si crede ancora in una equazione che non esiste più da molto tempo: «l’interesse
nazionale» è perseguibile solo se si ha «una sovranità nazionale» con la quale dare ai cittadini
i servizi ed i beni pubblici dei quali hanno bisogno. Certo una sovranità nazionale è necessaria
per dare ai cittadini ciò che lo Stato nazionale può e deve fornire. Sta di fatto però che, negli ultimi decenni,
fondamentali beni pubblici non sono più alla portata dello Stato nazionale che ha quindi perso la sua sovranità.
Pertanto è «interesse nazionale» fornire ai cittadini quei beni pubblici partecipando al recupero dell’unica
sovranità possibile che oggi va costruita a livello sovranazionale, con una sovranità collettiva europea ed un
governo della globalizzazione nel mondo.

Ebbene, negli ultimi venti anni l’economia mondiale e, soprattutto, quella europea hanno invece dondolato sul
baratro di due paradossi come elefanti sul filo di una ragnatela. All’inizio sta il «peccato originale» commesso
dall’Occidente: quello di consentire alla Cina di entrare nel Wto scambiando liberamente le sue merci su tutti i
mercati mondiali, ma lasciandole la libertà di decidere «politicamente» il cambio della sua moneta che i cinesi
hanno furbescamente agganciato al dollaro. Questo ha «regalato» alla Cina la garanzia di mantenere la propria
competitività verso il dollaro ed acquisirne un 50% in più verso l’Europa, a seguito del superapprezzamento
dell’euro durante l’era Trichet, fortunatamente invertita dalla presidenza Draghi alla Bce. E tutto in aggiunta
alla già dirompente competitività cinese basata su costi del lavoro «irrisori» per gli standard occidentali e su
tutte le altre condizioni di dumping sociale.

Da qui il primo paradosso. Stati Uniti ed Europa comprano prodotti cinesi; i cinesi incassano i nostri soldi
e li risparmiano accumulando imponenti fondi sovrani con i quali comprano o i titoli dei nostri debiti
pubblici o pezzi rilevanti della nostra economia produttiva. In sintesi, la Cina, con i soldi dell’Occidente, si
sta comprando l’Occidente, e poiché i soldi che le diamo sono tanti, ha già comprato anche pezzi rilevanti
dell’Africa e dell’America Latina.

Il secondo paradosso riguarda l’Europa che non c’è, cioè la mancanza di un soggetto politico Stati Uniti d’Europa.
Su almeno cinque grandi temi: difesa, sicurezza e immigrazione, politica estera, grandi infrastrutture, nuove
tecnologie, ricerca e alta formazione di capitale umano, i singoli Stati nazionali europei hanno perso per sempre
la loro sovranità nazionale. Su questi cinque temi sfido qualunque sovranista, non solo a casa nostra ma in giro
per l’Europa, a dire come fa a dare risposte serie al proprio popolo, ai cittadini del proprio Stato agendo da solo.
Dobbiamo cioè prendere atto che su almeno cinque «beni pubblici-collettivi» tutti gli Stati Europei, in testa la
potente Germania, non possono dare risposte da soli.

C’è un’unica strada obbligata per riprenderci la sovranità ed essere sovranisti sul serio difendendo in modo
concreto e non solo a parole gli interessi nazionali. Questa sovranità decisionale su ciascuno di questi cinque
temi, possiamo riprendercela solo a livello di federazione europea. Ciò implica, ovviamente, non solo un patto
istituzionale sul ruolo del Parlamento, della Commissione, su chi li vota, su chi viene eletto, ecc., ma occorre
affiancare, alla gamba della Banca Centrale Europea, il bilancio federale europeo.
Negli Stati Uniti il bilancio federale gestisce il 25% del Prodotto interno lordo americano, quindi non è che fa
tutto, il resto è agli stati, alle contee, alle città, ma il 25% del Pil è gestito dal bilancio federale. In Europa il bilancio
attuale dell’Europa intergovernativa (perché di questo stiamo parlando, di una Europa intergovernativa e non
di una Europa federale) è attorno all’1% del Pil. Pensiamo allora di andare avanti con l’1% di Pil ed il resto è
tutto agli Stati nazionali che debbono fronteggiare con la loro spesa pubblica nazionale anche quei cinque
temi rispetto ai quali non possono oggettivamente dare nessuna risposta. È allora interesse nazionale avere
comunque la sovranità di spendere (e di tassare) senza essere in grado di dare servizi e beni pubblici?
Per di più l’ultimo vertice europeo di Bruxelles dello scorso mese di febbraio sul bilancio pluriennale 2021-
2027 è fallito litigando se il totale dovesse essere pari all’1% oppure all’1,1% del Pil!!! Negli stessi giorni è esploso
in Italia e poi nel resto d’Europa e del mondo il coronavirus i cui effetti sull’economia sono dirompenti: Pil
mondiale giù del 3%, quello europeo giù del 7% e quello dell’Italia giù del 10%. Ecco perché occorre con urgenza
una proposta forte e coraggiosa. Si tratta di prendere le quote di risorse che in ogni bilancio nazionale europeo
sono già oggi assegnate a quei cinque temi, senza un euro in più, sommarli insieme e fare il bilancio federale
europeo con cinque temi e cinque ministri. Tutto il resto, per il principio di sussidiarietà, resta agli Stati
nazionali, alle regioni ed agli altri governi locali.

Questo vorrebbe dire che il bilancio federale europeo nascerebbe con circa il 9-10% del Pil, quindi ancora ben
lontano dal 25% della federazione degli Stati Uniti d’America. Ma questo sarebbe un successo storico enorme
perché non dobbiamo mai dimenticare che gli Stati Uniti per scegliere tra confederazione e federazione hanno
combattuto una guerra civile. C’è anche questa cornice storica da non dimenticare. A fronte di tutto questo il
Consiglio europeo vara una manovra europea di 550 miliardi (Mes per la sanità, Bei e fondo disoccupazione)
modesta nelle quantità e tardiva nei tempi, incartandosi sulla possibilità di un bilancio europeo «rafforzato»
con uno 0,5% in più di Pil senza sapere né quantità, né qualità di risorse attivabili (debiti degli Stati o debito
europeo mutualizzato?).

Serve invece un intervento di almeno 2.500 miliardi di euro come fatto nelle altre grandi aree del mondo.
Qui si pone una considerazione. Negli ultimi sessant’anni l’Europa per la difesa ha speso l’1,5% circa di Pil,
Gran Bretagna e Francia il 3%, gli Stati Uniti il 7%. Forse allora ha ragione Trump, nel suo modo un po’
grossolano di parlare, di dire «Cari amici europei, sono più di cinquant’anni che vi paghiamo la difesa, ma
vogliamo riequilibrare i contributi dentro la Nato?». Ha mille volte ragione. Ma questo lo puoi fare solo se hai
la federazione, la Comunità europea della difesa, in alleanza, ovviamente, nell’ambito Nato, con gli Stati Uniti.
Dall’altra parte gli Stati Uniti di Trump che chiedono più soldi all’Europa per la difesa ma come singoli paesi
aderenti e non come Stati Uniti d’Europa, perché con i singoli paesi manterrebbe l’egemonia americana dentro
l’alleanza. Nel frattempo noi ci siamo girati i pollici sull’Europa che c’è, quella intergovernativa, senza porre
un solo mattone per costruire l’Europa che non c’è, quella federale. Per tutto questo è urgente «rifondare»
l’Unione europea con un bilancio federale e dando alla Bce ed al Trattato di Maastricht «due occhi» ciascuno:
due ciechi di un occhio non fanno infatti una persona sana.

1. Lo Statuto della BCE deve considerare, insieme al controllo dell’inflazione, anche l’andamento della crescita
economica o, quantomeno, l’effetto della quotazione dell’euro sulla stessa crescita economica ed attribuire alla
Banca Centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza.

2. Maastricht deve diventare «più rigoroso e meno stupido». Occorre cioè introdurre l’obiettivo dell’avanzo
di Parte Corrente (che si chiama risparmio pubblico) e per ogni 1% di avanzo corrente (autofinanziamento)
consentire 2-3% di investimenti pubblici finanziati parzialmente in deficit. Una golden rule più rigorosa di
quella proposta oltre 50 anni fa da Robert Solow. Si tratta cioè di introdurre una solida leva finanziaria nelle
decisioni di politica economica, come fanno le famiglie quando comprano una casa, anticipando un 30% e
facendo un mutuo per il 70%, oppure le imprese quando usano i loro profitti per finanziare almeno il 30-40%
dei loro investimenti, trovando il resto a prestito sul mercato.
Gli Stati Uniti d’Europa però non servono solo dentro l’Europa, ma anche fuori per un equilibrio nel resto
del mondo. Negli ultimi due decenni, con la cosiddetta globalizzazione, oltre tre miliardi di persone hanno
abbandonato la soglia di povertà. Ovvio che nel mondo occidentale ricco questo ha determinato, a fronte di
quei tre miliardi di ex-poveri nel Terzo e Quarto mondo, trecento milioni di nuovi poveri in occidente. Ma
questo, stiamo attenti, non è colpa della globalizzazione, ma colpa delle classi dirigenti politiche, soprattutto
occidentali (cioè Stati Uniti ed Europa), che non hanno finora capito che, a fronte di questo processo storico,
si deve avere una governance della stessa globalizzazione. Molti puntano giustamente il dito contro la
globalizzazione guardando i lati negativi e cioè la formazione dei monopoli, dei poteri, della finanza, delle
grandi multinazionali e, ovviamente, delle grandi multinazionali di internet. Cosa assolutamente da mettere
in evidenza, ma la colpa non è di chi approfitta di questa globalizzazione, ma di chi non ha adeguato la
governance del mondo alla realtà del XXI secolo.

Faccio un esempio banale. Dopo venti anni e più di globalizzazione andiamo ancora avanti a fare i G7, dentro
il quale sono presenti quattro paesi europei come singoli stati ma non c’è l’Europa. Qualcuno ha addirittura
avuto la brillante idea di non invitare più la Russia, così il G8 è tornato ad essere G7. Ma ci rendiamo conto
che il G7 rappresenta un terzo del mondo dal punto di vista economico, meno di un terzo del mondo dal
punto di vista della popolazione e forse un quinto del mondo in termini di nuove generazioni, e pretende di
dettare le regole e fare il governo di «questa» globalizzazione. È ovvio che i restanti due terzi del Mondo se ne
fregano, non perché sono stupidi e cattivi, ma semplicemente perché dicono che se non sono seduti al tavolo
per decidere insieme le regole, perché mai loro dovrebbero recepirle e rispettarle? Se le regole sono fatte dal G7
che rappresenta solo un terzo del mondo, le rispettino i paesi del G7 e basta!

Ecco perché il G7 è «il passato» ed è come guidare un’auto guardando lo specchietto retrovisore. Tant’è che
suo collega un po’ maldestro è il G20, cioè il tentativo di allargare il tavolo per il governo del mondo a venti
paesi. Ma il G20 non va da nessuna parte perché fa delle bellissime conferenze che tutti noi potremmo fare
all’Università o nei circoli culturali, ma non ha la struttura per decidere ed essere il governo del mondo. Quasi
sempre appare come una riunione di condominio dove si discute molto, ci si accapiglia, ma poi non si decide
nulla. Nel frattempo il tetto del palazzo continua a perdere acqua e si minano le fondamenta dello stesso
palazzo… di tutti.

Governare la globalizzazione significa affrontare un fenomeno come quello dei fiumi, delle acque e dei laghi, lo
puoi gestire ma non lo puoi fermare, se pretendi di fermarlo ne vieni travolto, quindi lo devi governare.
Ecco allora una prima conclusione: occorre un nuovo G8 che ridefinisca le grandi istituzioni internazionali
a partire dal Wto, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Chi dovrebbe essere parte
di questo G8? Ovviamente la Cina, che è la prima economia del mondo in valore assoluto, visto che nel 2017
ha superato gli Stati Uniti d’America; secondo, gli Stati Uniti d’America; terzo, l’India; quarto, il Giappone;
quinto la Russia. Poi in questo scenario mancano due continenti: l’America Latina e l’Africa. Allora si decida
chi dell’America Latina. Qualche anno fa pensavamo al Brasile, ma poi con i problemi che sono emersi in quel
grande paese qualche dubbio si è posto. E siamo a sei. Poi l’Africa. Qualche anno fa si pensava al Sud Africa
ma il Sud Africa è molto a sud e non rappresenta l’Africa. E siamo a sette. Arriviamo in Europa. L’Europa
deve capire che a quel tavolo o c’è come Stati Uniti d’Europa o non c’è! Non possiamo pretendere di sederci al
tavolo con Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, senza neanche gli altri europei. A che titolo, con quale
voce questi quattro singoli Paesi siedono nel G7, cosa rappresentano se non se stessi visto che di fronte alla
globalizzazione sono un microcosmo, financo la potente Germania.

Ecco allora che la presenza e la costruzione di una Europa federale degli Stati Uniti d’Europa non è una scelta,
è una esigenza per recuperare «sovranità» interna e per costruire il governo della globalizzazione. Purtroppo
in questo momento si corre un grave rischio. Questo ragionamento sull’urgenza di un nuovo G8 significa dire
che per governare la globalizzazione occorre il multilateralismo, occorre cioè che gli otto grandi rappresentanti
delle grandi aree del mondo concordino insieme. Questo è «multilateralismo».
Il pericolo allora è che l’amministrazione Trump negli Stati Uniti, come ha detto molto chiaramente, vuole
seguire la strada del «bilateralismo», come gli Orazi e i Curiazi. Significa cioè fare oggi un accordo con la Cina,
poi uno con il Messico o far saltare per aria l’accordo Nafta, poi faccio saltare l’accordo sull’Iran, poi l’accordo
sul nucleare con la ex Unione Sovietica oggi Russia ecc. Ma con questo tipo di bilateralismo non si va da
nessuna parte. Si rischia invece di aggravare la frattura tra la globalizzazione che va avanti con tempi accelerati
e la mancanza di governance.

Quindi il salto verso la federazione degli Stati Uniti d’Europa è un’esigenza anche per il mondo, per l’equilibrio
nel mondo.
È utopia pensare oggi agli Stati Uniti d’Europa, però è urgente agire come se già ci fossero. Occorre subito una
federazione europea «mirata e leggera» che dia al vecchio continente un «governo europeo» su cinque temi:
difesa-sicurezza-immigrazione, politica estera, politica monetaria, grandi infrastrutture ed energia, ricerca innovazione tecnologica e formazione di capitale umano. È utopia pensare oggi ad un nuovo G8 che però
nei «pesi» economici mondiali di fatto c’è già. Senza questi nuovi ed urgenti assetti «politico-istituzionali»,
l’Europa rischia di «implodere» nella garrota di un rigore intergovernativo senza speranza o di una deriva
nazional-sovranista fronteggiata con più deficit e debito pubblico e l’economia mondiale rischia di «esplodere»
in un nuova grande crisi globale.

Tutto questo sarebbe dovuto essere chiaro ben prima del coronavirus. L’epidemia globale rischia solo di
essere il detonatore di una nuova devastante crisi economica mondiale. Imparare la lezione quindi non è
solo sconfiggere il coronavirus ma, soprattutto, costruire un assetto istituzionale in Europa e nel mondo che
consenta di «prevenire» i fuochi che accendono le crisi e non di dover agire ex post, in ordine sparso con il
rischio di esserne travolti, tutti. Ecco perché è essenziale capire la profonda differenza tra «sovranità nazionale»
ed «interesse nazionale» nel mondo del XXI secolo.

 

*Mario Baldassarri, economista, presidente Centro Studi “Economia Reale”

Dalla storia, una lezione da non dimenticare

Nel 1998 frequentai la “Scuola di Liberalismo” della Fondazione Einaudi e, ricordo, fummo invitati a riflettere sul processo di globalizzazione che allora muoveva i primi passi e sulle relative opportunità e minacce per le società libere. Oggi, a distanza di 22 anni, il tema è ancora attualissimo e molto più complesso.
In sostanza, si dibatteva allora, se le società occidentali e libere fossero in grado o meno di guidare quel processo, che avrebbe dovuto portare ad estendere, assieme alle libertà economiche, anche le libertà politiche e civili in Oriente o se, al contrario, questa apertura avrebbe rappresentato per noi e per i nostri sistemi una minaccia.
Ebbene, attualizzando quell’interrogativo con quanto accade oggi, c’è da guardare con molta attenzione alla bilancia dei rischi e delle opportunità. Non solo per la diffusione della pandemia da COVID 19, che da lì arriva, ma anche e soprattutto in ragione delle molteplici e profonde conseguenze.
Anzitutto in termini di libertà personali, le cui restrizioni sono sotto gli occhi di tutti. E’ un dato di fatto che, ormai da oltre due mesi, non possiamo più muoverci liberamente, con tutto ciò che ne consegue.
Non da meno in termini di libertà economica, dove l’impatto è stato devastante e ancora dobbiamo capire quanto devastante sarà per il prossimo futuro. Un vero e proprio lockdown che ci costa e ci costerà parecchio in termini di posti di lavoro, di prospettive di crescita, facendoci ripiombare indietro di parecchi anni.
Insomma, per tagliar corto, la società occidentale tutta, in questa fase, sta risentendo in modo drammatico della crisi sanitaria e delle sue conseguenze. Le società libere più di altre, sia in termini di contagio, sia nelle ripercussioni economiche e sociali. E tutto questo, per quanto riguarda l’Italia, senza nemmeno poter giovare di migliori interscambi con la Cina, così come era stato promesso aderendo forse troppo entusiasticamente ma senza una reale analisi preventiva, alla cosiddetta “Via della Seta”. I dati di interscambio con l’Impero Celeste, infatti, nell’ultimo periodo non solo non sono aumentati ma, al contrario, sono diminuiti. Sono cioè diminuite le nostre esportazioni e, al contrario, sono aumentate le importazioni. Ad oggi si può dire che questa “strada privilegiata” sia stata costruita a senso unico, dalla Cina verso il nostro Paese.
La domanda di fondo che dobbiamo porci è: può una società libera, ancora formalmente, come la nostra spingersi oltre la normale relazione commerciale con un gigante autoritario come la Cina, senza incorrere in rischi reali e concreti per la propria libertà? Dovremmo forse ricordarci chi siamo e dove ci collochiamo, per poter rispondere correttamente a questa domanda. Siamo italiani, fondatori dell’Europa e quindi Occidentali. Questo è il nostro campo, almeno per chi si riconosce nei valori liberali. Fuori da questo campo possiamo e dobbiamo avere relazioni amichevoli e profique, anche con la Cina. Ma ricordiamoci le parole di Virgilio: “Timeo Danaos et dona ferentes”, “temo i Greci anche quando portano doni”. Il cavallo di Troia, oggi, può chiamarsi 5G, oppure cooperazione sanitaria o qualsiasi altra forma che all’apparenza sembra un gesto di liberalità ma ricordiamoci che gli atti di liberalità appartengono, per loro natura, alle società libere. E la Cina, ad oggi, non lo è.

L’Italia nel vuoto, il vuoto d’Italia. L’azione internazionale nella stagione del ritorno degli interessi nazionali: geopolitica, economia, sicurezza

L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Center for Near Abroad Strategic Studies

Sono intervenuti: Paolo Quercia (direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies), Adolfo Urso (presidente della Fondazione Farefuturo), Alberto Negri (giornalista de Il Sole 24 Ore), Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Guido Crosetto (presidente dell’AIAD), Carlo Jean (professore), Gabriele Checchia (ambasciatore), Raffaele De Lutio (ministro plenipotenziario).