Giovani e lavoro

Uno studio svolto appena qualche mese fa dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro riguardo il tasso di occupazione dei giovani nel mondo del lavoro ha fatto emergere che l’ Italia risulta essere la nazione con la più bassa percentuale di occupati al disotto dei 40 anni (esattamente il 32% contro la media del 41% in Europa).

Questa generazione di giovani  chiamati pandemials sono coloro i quali  hanno vissuto due crisi sociali (la crisi finanziaria iniziata nel 2008 e la pandemia del Covid 19)  che hanno inciso profondamente nelle loro aspettative di vita, tutto ciò ha pregiudicato inevitabilmente

l’accesso nel mondo del lavoro. Inoltre l’Italia ha registrato nel 2016  con il suo 21,4 % il tasso più alto dei NEET, nella fascia di età compresa tra i15 e i 24 anni rispetto ai paesi appartenenti all’Unione Europea la cui incidenza media si aggira intorno al 12% e cioè quei giovani che non studiano, non lavorano e non svolgono alcun tipo di formazione professionale perchè sfiduciati da quelle che possano essere le prospettive di inserimento nel mercato del lavoro. I giovani NEET tra i 15 e 29 anni sono passati dal 22,1% del 2019 al 23,3% nel 2020 . Tutto ciò ha determinato inevitabilmente fenoeni di frustazione ed isoltamento sociale.

Altro dato negativo è rappresentato dalle statistiche demografiche, piuttosto ridotte negli ultimi due anni ad opera soprattutto della pandemia. La mancanza di prospettive concrete lavorative è uno degli aspetti fondamentali che limitano le nuove generazioni a formare una famiglia.

Nel 2021 nel  settore industriale e dei servizi il numero dei posti  di lavoro per cui non è stata trovata forza lavoro adeguatamente formata è stato di oltre 230.000 unità. Questo dato è piuttosto emblematico perchè ci fa compredere che l’offerta di lavoro è presente nel nostro Paese, ma la forza lavoro esistente spesso non è dotata della giusta formazione professionale per ricoprie i profili lavorativi richiesti.

In Italia c’e’  una scarsa offerta di formazione tecnica non adeguata con quelli che sono gli standar richiesti dalle aziende  rispetto al resto d’Europa.  Nel territorio nazionale il numero degli istituti tecnici superiori conta poco più di 18mila studenti ogni anno. Il PNRR dovrebbe contribuire a migliorare la qualità della formazione ed incrementare il numero degli iscritti migliorando l’offerta formativa degli istituti , dotando queste scuole ad indirizzo tecnico e le istituzioni universitare tecnico scientifiche di tutti quegli strumenti necessari atti a creare figure idonee a soddisfare le richiete  aziendali. I tecnici informatici , delle telecomunicazioni e gli  operai specializzati sono considerate ad oggi figure professionali difficili da reperire.

I principali strumenti  attraverso i quali i giovani entrano nel mondo del lavoro al termine di un percorso di studi sono i tirocini ed i contratti di apprendistato.

I contratti di apprendistato attivati nel 2021 in Italia sono stati 370 mila . Questo è un dato piuttosto basso rispetto al totale della tipologie contrattuali di avviamento al lavoro. Se consideriamo che a partire dalla metà degli anni 80 ad oggi gli interventi su questa disciplina contrattuale sono stati diversi e l’ultimo è stato attraverso il d.lgs 15 giugno 2015 n. 81 che ha ridisegnato la disciplina normativa del Testo Unico del 2011 (d.lgs. 14 settembre 2011, n.167) . Attraverso questa ultima riforma le competenze regionali in materia di conratto di apprendistato sono riemerse in maniera considerevole e se da un lato questo è un aspetto positivo perchè responsabilizza le regioni attraverso percorsi formativi adeguati in stretta sinergia con le realta industriali del territorio (questo è quanto si verifica nel nord est esempio in Lombardia, Trentino Alto Adige,Veneto Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia)  dall’altro crea una “regionalizzazione deleteria” nelle aree più depresse della penisola italiana, e cioè nel centro sud  in cui l’esiguità delle risorse a disposizione già in gran parte assorbite dalla spesa sanitaria, oltre che la quasi totale  assenza di uno spirito cooperativistico tra le principali istituzioni locali  non consentono adeguate misure di investimento formativo vanificando lo spirito normativo che il contratto di apprendistato si prefige di conseguire.

Per questo occorre “snellire” l’ampio dedalo di norme fatte di regolamenti regionali, richiami normativi, rinvii alla contrattazione collettiva che rischiano di rendere farragginosa l’applicazione delle diverse tipologie del contratto di apprendistato che non assolve più  alla sua funzione primaria di formazione e ingresso nel mondo del lavoro delle giovani generazioni.

Inoltre se consideriamo che molte risorse sono impiegate a garantire  il reddito di cittadinanza che al contrario potrebbero essere destinate attraverso “precise regole di ingaggio” alle aziende per investire nella formazione avremmo sicuramente più benefici  che piuttosto un improduttivo assistenzialismo.

Altra considerazione riguarda i tirocini, spesso poco considerati , che rappresentano forse il primissimo ingresso reale nel mondo del lavoro al termine di un percorso di studi, e che ancora oggi meritano  una migliore regolamentazione. La Direzione Centrale del Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha emanato una nota a fine marzo u.s. in cui vengono enunciati dei chiarimenti in merito alle disposizioni introdotte dalla l. 234/2021 già vigenti, in riferimento all’erogazione delle indennità, al ricorso fraudolento del tirocinio con lo scopo di eludere reali rapporti contrattuali di lavoro ed infine agli obblighi della sicurezza del lavoratore.

Le aspettative per il futuro non sono delle migliori, gli effetti del conflitto russo ucraino, l’inflazione in continuo aumento e la contrazione della crescita rischiano di accentuare una profonda conflittualità sociale . Per questo le scelte programmatiche in materia di politiche attive del lavoro compiute attraverso i fondi del PNRR dovranno avere una visione prospettica d’insieme e riallacciare compiutamente il mondo dell’impresa alle  giovani generazioni.

*Roberto Aprile, dipendente P.A.

 

Fermare la nuova diaspora dei giovani

Questo saggio della nostra redazione è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.
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La grande recessione 2008-2015 ha riaperto la strada dell’emigrazione italiana. Erano più di trent’anni che le porte verso l’estero sembravano essersi richiuse per i nostri lavoratori. Il fenomeno ha destato, da un paio di anni, interesse e clamore, ha generato disagio, imbarazzo. Nulla è stato fatto. Forse trattenuti da una sorda consapevolezza che le parole, spesso, non corrispondano ai pensieri, ai veri sentimenti: chi può, chi ha le risorse, se ne va; in tanti, tra i giovani, desiderano trovare altrove un percorso, un progetto di vita. Troppo poco lavoro, concorsi troppo difficili, percorsi impervi per stipendi modesti.
La nuova diaspora è stata denominata, giornalisticamente, la «fuga dei cervelli». Una formula superficiale, forse fuorviante. Ma di vero, qualcosa c’è. L’Istat segnala che nell’aggregato cumulato 2009-2018 di 816 mila cancellazioni anagrafiche (che come si vedrà non corrispondono affatto agli effettivi espatriati), ben 182 mila sono laureati, una quota ben superiore alla composizione media della nostra popolazione. Di vero c’è una composizione a maggioranza giovanile; una quota femminile molto maggiore che in passato; una provenienza ben distribuita geograficamente, con la Lombardia in testa, seguita da Veneto, Sicilia, Piemonte, Lazio. Rispetto ai primi anni del nuovo secolo – periodo 1999-2008 – sono raddoppiate le cancellazioni anagrafiche (il cumulato era di 428 mila) e sono diminuiti i rimpatri da 380 a 333 mila. La serie storica dell’ultimo decennio ci fa vedere un fenomeno che inizia in sordina nel 2009 (cancellazioni dall’anagrafe 65 mila circa, di cui 39 mila cittadini italiani), nel 2011 si sale a 82,4 mila (di cui 50 mila italiani); nel 2012 si superano per la prima volta i 100 mila (106.210), con un balzo nel 2013 si giunge a 125,7 mila (di cui 82 mila italiani), e poi 136 mila nel 2014, 147 mila nel 2015 (con gli italiani che salgono oltre i 100 mila); 157 mila nel 2016, 155 mila nel 2017 e di nuovo 157 mila nel 2018, con una quota di italiani di 116,7 mila.
Si è usata la definizione tecnica di «cancellazioni anagrafiche» coniata dall’Istat, perché basta dare un’occhiata ai numeri delle registrazioni all’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), pubblicate dal Ministero dell’Interno, per rendersi conto che il fenomeno della nuova emigrazione ha dimensioni ben maggiori. Se nel 2003, l’AIRE segnalava una diaspora di cittadini italiani registrati poco superiore a 3 milioni, negli anni successivi si assiste a una crescita molto rapida che in quindici anni supera i due milioni (3,6 milioni nel 2007; 4,1 nel 2011; 4,5 nel 2014; 4,8 nel 2016; 4,9 nel 2017, 5,1 nel 2018).
Il professor Enrico Pugliese, nel suo illuminante saggio di maggio 2018, intitolato «Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana» ha attinto ad indagini sulla sanità britannica e lo Statistisches Bundesamt per evidenziare un significativo disallineamento dei dati. In Germania – nei cinque anni dal 2012 al 2016 – risultano nuove iscrizioni di cittadini italiani (essenziali per iscrizione all’università, tessera sanitaria, abbonamenti nei trasporti) per un totale di 274.284 unità, contro le 60.700 cancellazioni registrate dall’Istat verso la Germania. Quasi cinque volte tanto! Allo stesso modo, nella meta preferita dagli italiani, e cioè il Regno Unito, risultano in entrata (dai dati del servizio sanitario) 158.400 persone rispetto alle 39.278 della banca dati Istat. Anche per la Svizzera, Enrico Pugliese cita stime che ipotizzano un numero di nuovi emigranti italiani circa doppio rispetto a quello registrato.
L’incongruenza è spiegabile su base comportamentale. Molti espatriati infatti, non decidono subito di spostare all’estero la propria residenza; preferiscono sperimentare in loco la situazione del mercato del lavoro; magari studiano e dunque non decidono subito di abbandonare il «campo base». Gran parte degli espatriati è dunque, almeno in una prima fase, reversibile, soprattutto perché si muovono prevalentemente all’interno dell’Unione europea. In ogni caso, la dimensione quantitativa del fenomeno, e quindi la sua rilevanza, è ben superiore ai dati ufficiali. Certamente più del doppio. Gli emigrati sono per oltre il 50% giovani, in gran parte donne, per un 30% laureati, vengono da tutte le regioni ma in primo luogo da Lombardia, Veneto Lazio, Piemonte e Sicilia. Anche i diplomati sono rappresentati in percentuali superiori alla media nazionale. La quota meno qualificata cerca lavori nel settore della ristorazione e turismo. È sempre più significativo il settore sanitario (infermieri, tecnici, ma anche medici). Esiste una componente di popolazione anziana che cerca una residenza in luoghi con clima favorevole e basso costo della vita, modesta tassazione (Marocco, Portogallo, Tunisia). In riduzione la «sun migration» verso il nostro Paese, con nuovi fenomeni di ricongiungimento da parte di anziani da Sud verso i figli e nipoti emigrati al Nord, a causa di paesi spopolati e senza servizi per anziani.
Lo studio dei meccanismi sociali di questa nuova emigrazione è solo allo stadio iniziale. Maria Luisa Stazio ha tentato un primo approfondimento motivazionale sugli emigrati a Berlino. Il venir meno delle antiche catene migratorie e delle comunità regionali già insediate all’estero rende più difficile l’aggregazione dei nuovi emigrati. L’emigrazione italiana del dopoguerra ha vissuto varie fasi e diversi modelli (quello contrattuale in Germania e Svizzera senza una vera prospettiva di assimilazione; quello repubblicano in Francia); la vecchia emigrazione aveva una prevalenza operaia, partiva da una situazione di eccesso di manodopera e di intensa crescita demografica nelle aree di origine. Si sostanziava in un forte contributo finanziario in forma di rimesse; trainava la scolarizzazione e la qualità del capitale umano delle terre di origine; generava turismo di ritorno; fu anche fenomeno di arricchimento sociale. L’attuale migrazione non sembra generare flussi visibili di rimesse. Anzi, si segnalano flussi di rimesse al contrario, dal Mezzogiorno al centro Nord e al Nord Europa in caso di giovani che studiano, ma anche di lavoratori in fase di inserimento. Questo fenomeno va ad aggravare la situazione demografica già gravemente recessiva. Le previsioni Istat al 2065 fanno pensare che si tratti di un esodo strutturale, che si stabilizzerà su un flusso di emigrazione annuale di circa 130 mila unità.
Se il sistema nazionale riuscisse a trattenere con occasioni di lavoro adeguate queste risorse umane, già verrebbe annullata la previsione di riduzione di 6,5 milioni di residenti al 2065. Esiste una prima fase di emigrazione che non è stabile, ma connessa per esempio al conseguimento di titoli di studio di alto valore all’estero. Si potrebbe tentare di incidere su questo specifico segmento, indirizzando offerte e bandi mirati. Per far questo, lo sforzo attualmente dispiegato dal sistema nazionale appare largamente insufficiente. Prima di tutto, servono più borse di studio. Si tratta di una grave disapplicazione del dettato costituzionale. Ma si tratta di raggiungere in tempi rapidi dimensioni adeguate al fenomeno, ovvero alcune migliaia di borse di studio ogni anno per finanziare iscrizioni a titoli post-doc, ma anche per titoli tecnici e professionalizzati (ITS per esempio). Sarebbe opportuno richiedere alle fondazioni ex bancarie un impegno massivo e prioritario, coordinato tra di loro, per aumentare il volume di attività in questa direzione. Sarebbe necessario ripensare la programmazione dei programmi per il diritto allo studio delle Regioni in funzione più mirata ai bisogni degli studenti, in modalità immediatamente monetizzabili (meno edilizia e più borse di studio). Sono certamente da prendere a modello bandi per borse di studio con meccanismo contrattuale di rientro in Patria. Le Regioni a maggiore percentuale di espatri dovrebbero utilizzare le loro agenzie per programmi permanenti per assistere con servizi e assistenza lavoratori e studenti trasferiti all’estero, per garantire loro un contatto con il luogo di origine. Il momento di contatto della fornitura del servizio dovrebbe avvenire al momento della cancellazione anagrafica e dovrebbe essere seguita da un flusso di informazioni, offerte di assistenza, servizi linguistici, monitoraggio dell’esperienza concreta dell’espatriato da parte di operatori specializzati.