È una grande occasione anche per la Chiesa

La profonda divisione sociale che la sinistra ed i 5 Stelle hanno portato nel Paese dopo anni di politiche sbagliate, dalla gestione dell’immigrazione al reddito di cittadinanza ed alla difesa dei diritti delle cosiddette minoranze Lgbtq+, ha contribuito ad accelerare anche il processo della secolarizzazione, ossia il progressivo allontanamento dai valori cristiani racchiusi nei tre pilastri storici, Fede, Religione e Chiesa.

Autoproclamatasi paladina dei deboli, la sinistra ha puntato per anni su una propaganda (con l’indiscusso appoggio dell’Unione Europea) concepita male e comunicata ancor peggio. Anziché unire, tale indottrinamento esasperato ha prodotto nella società tradizionale (termine descrittivo, non me ne vogliate) quasi un rifiuto dei concetti sacrosanti come inclusione, accoglienza ed equità (almeno davanti a Dio) intrinsechi nella Chiesa, ma sottratti dalla sinistra. E tutto ciò ha ancor più allontanato il popolo dalla religione, non riconoscendo più il clero né come guida né come difensore naturale dei deboli e degli emarginati.

Nel corso degli ultimi anni i governi succedutisi sono riusciti a mettere in atto un’accoglienza senza regole dei flussi immigratori che ha aumentato, anziché ridurre, la tratta degli esseri umani facendo lucrare trafficanti di uomini ed organizzazioni criminali. Il reddito di cittadinanza anziché aiutare i bisognosi ha creato per intere fasce sociali cosiddette deboli un disinteresse verso il mondo del lavoro. Le comunità LGBTQ+ si sono viste ancor più emarginate perché il messaggio che la sinistra faceva passare non era di uguaglianza, come dovrebbe essere, bensì di diversità e conseguente necessità di imposizione forzata di regole. E mentre il pontefice parlava, come è giusto che sia, di fratellanza, di lotta alle disuguaglianze e della povertà, principi profondamente radicati nella religione cristiana, nei cittadini cresceva quel pericoloso sentimento di rifiuto verso tali valori in quanto non corrispondenti alla realtà che li contornava.

Poi è arrivata Giorgia Meloni qui il suo” Dio, Patria, Famiglia”. È stata ferocemente criticata, aggredita, denigrata dagli intellettuali radical-chic nella loro solita confusione teorico-ideologica. A detta loro, quella della leader dei Fratelli d’Italia era un’affermazione che sapeva di dittatura. Secondo altri, Giorgia non poteva nemmeno parlare di famiglia in quanto ha una figlia senza essersi mia sposata, oltre ad una lunga serie di altre affermazioni contrastanti persino con le stesse teorie della sinistra. Ma lo scopo era colpire l’avversario, non essere obbiettivi.

Nonostante tutto, il messaggio di Giorgia è stato fortissimo e profondo. E’ arrivato nel cuore delle persone. Ha resuscitato la voglia di ritrovare quell’identità perduta per colpa del mondo globalizzato, recuperare i valori, i riferimenti, l’appartenenza. E ritrovare Dio, inteso come fede, come speranza nel futuro e, perché no, come religione. Perché parlare di Dio non è dittatura. È libertà, è spiritualità. Io sono nato e cresciuto in una dittatura. Quella comunista. La sì che era vietato parlarne di Dio, entrare nelle chiese, pregare.

Quel dichiararsi cristiana da parte di Giorgia Meloni, rappresenta anche una grande occasione della Chiesa per recuperare terreno, riavvicinarsi alla gente, rallentare la secolarizzazione e ritornare ad essere quel punto di riferimento spirituale smarrito nel caos propagandistico della sinistra degli ultimi anni. Lo sa bene il segretario di Stato Pontificio Parolin che pochi giorni fa ha già teso la mano al nuovo governo.

Per molti sarà difficile digerire un riavvicinamento tra lo Stato e la Santa Sede, in cui scorgeranno l’incubo del rafforzamento di quei valori cristiani storicamente radicati nella destra e odiati dalla sinistra. Solo gli intellettualmente onesti comprenderanno, invece, l’importanza storica di tale sintonia che potrà aiutare a trascrivere i valori cristiani in un contesto contemporaneo, equo e bilanciato, preservandoli per le future generazioni anziché condannarli all’oblio.

Durante quello che mi auspico possa essere un governo che durerà a lungo, la Meloni avrà davanti a sé innumerevoli sfide. Dalla gestione della crisi energetica alla rimessa in moto dell’economia fino alla valorizzazione del ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo. A ciò, però, va aggiunto anche un altro delicato compito, poco consono ai leader politici di oggi. Quello di far riavvicinare il proprio popolo a quei valori smarriti in anni di propaganda di sinistra, alla fede ed alle origini cristiane, sempre nello spirito della tolleranza, dell’accoglienza e della fratellanza. Sarà dura ma sono sicuro che Giorgia Meloni ce la farà.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Effetti collaterali

Fanno brutti scherzi gli effetti collaterali della terza dose del vaccino anticovid. Mi provocano allucinazioni, immagini assurde attraversano la mente. Ho creduto di sentire il Capo dello Stato intrufolarsi in qualche modo nella cornice del Festival di Sanremo, e – quel che è più assurdo – mi è sembrato vedere il Papa, come fosse la Littizzetto o un Burioni qualsiasiospite in un talk show della terza rete.

Segno tutto questo della mia età che avanza assieme alla demenza. Per non parlare degli incubi che turbano le mie notti. Se per cena indulgo in una pepata di cozze d’antipasto più una carbonara che al massimo raggiunge i due etti e per secondo tre peperoni farciti con pancetta e pecorino, il tutto bagnato da pochi calici di un leggero amarone, draghi e fantasmi si divertono poi a tormentare il mio sonno fino all’alba.

L’altra notte, pensate un po’ho sognato di essere sul punto di morire.  Ma non era questo l’evento più agghiacciante dell’onirica tragedia. Peggio: ho sognato che sarei morto democristiano. Ad accompagnarmi all‘altro mondo non era però quella familiare Dc di un tempo, quella degli Andreotti, Fanfani, Forlani, di quei democristri che furono in grado di governare e di fare anche qualcosa di buono per il Paese. No, nell’incubo prendeva corpo un’ incredibile dc dei tempi nostri, con leader improbabili eppure possibili: Di Maio, Conte, Renzi, Toti accompagnati da nipotini di Berlusconi. Insomma un’inedita balena bianca che era riuscita ad impossessarsi di un drago, anzi leggi al plurale: un Draghi, sì proprio di Mario Draghi. 

Si era concretizzato nel mio incubo il progetto neocentrista, a coronamento dell’epico disinballaggio dei cartoni già da tempo pubblicizzati e pronti a essere trasferiti dal Quirinale nella casa in affitto. 

In verità non avevano fatto tutto da soli i centristi novelli assieme al Letta minore. Una mano gliel’aveva data un irriducibile rivoluzionario barbuto, forse affascinato da un futuro libero dall’assillo inquietante di una donna che lo aveva fatto sentire come un uomo di  secondo piano,  un capitano sì, ma della riserva.

Nel mio incubo il resuscitato centro impossessandosi di Dragli, con l’aiuto della sinistra e l’astensione di qualche altro, aveva vinto le elezioni del ’23.   Confermati a vita il presidente del consiglio e Mattarella al Quirinale fino all’ottantasettesimo compleanno e, perché no – non mettiamo limiti alla provvidenza – fino al novantaquattresimo. Poi chi vivrà vedrà, ne vedrà delle belle. 

Basta con le cozze e i peperoni a cena. Basta con gli incubi.  Voglio sognare. Giorgia, fammi sognare.

*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

LA VARIANTE DI SINISTRA (contro la Meloni)

Un urlo nella notte, il volto della disperazione, lascia un’angoscia nell’animo il dipinto di Munch. Mi rattrista e mi riporta alla memoria un’immagine di anni fa. Una mattina di sole in Costiera Amalfitana. Su un muretto che costeggia un precipizio sul mare un uomo gridava il suo tormento. Inveiva contro la vita o una donna. Minacciava di buttarsi giù. Era disperato, era l’immagine non dipinta ma vivente della disperazione. Quel giorno lo salvarono l’aspirante suicida.

Chissà quale fu poi il suo destino. In lui rimase forse per sempre la disperazione, che è morte, morte dentro. Da allora ho sempre avvertito un senso di cristiana pietà di fronte a chi ha nel volto o nei comportamenti il dramma della disperazione. Così quando ho ha appreso da un post di Lettera22 la sortita di uno storico dell’Università di Siena, pupillo del Pd, già assessore di una giunta rossa. Ebbene questo fine intellettuale si è esibito in una trasmissione radiofonica, assieme ad altri complici consenzienti, con volgari insulti nei confronti di Giorgia Meloni ” Vacca, scrofa, rana dalla bocca larga… ecc.ecc.” Uno dei tanti esempi di odio viscerale da parte di esponenti di sinistra. Odio che genera reazioni. “Ė un pezzo di m….” il mio primo commento nel post. Più tardi l’ho cancellato. No non merita neppure commenti quel povero professore. È in preda alla disperazione, lui come tutta la sinistra. Sono disperati, meritano un cristiana compartecipazione.

Me lo immagino, misero professore, lui che fin da ragazzo aveva creduto magari in buona fede nella sinistra e ora la vede annegare nella melma. E allora urla, si dispera, odia quella donna che contribuisce a mettere in ginocchio quei votati al fallimento. Squallido professore che preso poi dalla paura chiede scusa. Compassionevole professore, che tuttavia ha ha avuto il merito di svegliare Mattarella, il Presidente sempre così attento nei confronti del Pd, questa volta neppure lui ha potuto fare l’indifferente ed ha espresso con una telefonata la sua solidarietà a Giorgia Meloni. La disperazione, appunto, brutta bestia. Quella del professore, del Pd dei CinqueStelle. Pensate che dolore per il buon Zingaretti, per il suo consigliere Bettini, per gli stellati orfani di Conte e per tutti quelli dell’arco incostituzionale contrario alle elezioni. Con un colpo d’ingegno si erano inventato l’Intergruppo della vecchia maggioranza parlamentare senza accorgersi che un eventuale Intergruppo della nuova e vera maggioranza del Paese, quella di centrodestra, avrebbe fatto loro mangiare la polvere. E che dire di Leu? Tre parlamentari, una scissione e un ministro in premio. Un’alchimia che la scissione dell’atomo a confronto sembrerebbe un gioco da ragazzi. La disperazione dei vili trova sfogo sempre in una donna.

Nella vita come in politica. Cosi un altro storico di sinistra, un negazionista delle foibe, anch’egli raffinato uomo di cultura democratica e antifascista ha licenza di definire “zocc…” la Meloni. A proposito, ma la Boldrini non si indigna? Ma no, povera Boldrini, non si è accorta questa volta delle offese a una donna, solo perché stavolta la donna è di destra. Povera Boldrini, forse anche lei è in preda alla disperazione almeno quanto la Gruber come appare ogni sera in tv. Anche la stampa democratica e liberista si unisce al coro facendo ironia becera su una bambina che ha la colpa di essere la figlia di GIorgia Meloni.

Poveracci, sono seminatori di odio a loro insaputa, perché l’odio lo hanno dentro e ora gli si rivolta contro. Non basta nemmeno il Covid a tenerli ancora a galla. Ormai sono in coma colpiti da una variante, la variante di sinistra.

*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

Draghi, Meloni e le generazioni future

L’incarico a Mario Draghi – da molti preconizzato – è maturato dopo le convulsioni della maggioranza del “Conte bis” e ha sparigliato il quadro politico, tagliando trasversalmente le alleanze tra i partiti.

La sciabolata improvvisa del Presidente Mattarella ha gettato nello scompiglio l’alleanza giallorossa.  PD e M5S avevano coltivano l’illusione di poter fare a meno di Italia Viva per andare avanti con la rinnovata formula politica di centro-sinistra saldata dalla figura di Giuseppe Conte, magari attraverso l’utilizzo dei miliardi del Recovery Fund. Sino alla conclusione dell’esplorazione di Roberto Fico i partiti della vecchia maggioranza si sono mostrati sin troppo sicuri che sarebbero riusciti a varare un “Conte ter” con l’aiuto dei soliti “responsabili”. Invece, come spesso accade in politica, si è imposta una realtà differente da quella immaginata ed è improvvisamente crollato il castello di carte di chi pensava di aver costruito – anche con l’uso mediatico dell’emergenza pandemica – il nuovo orizzonte strategico della sinistra di governo giallorossa.

Ma anche nel campo del centrodestra non sono tardate le divaricazioni. Alcune erano ampiamente previste, come quella che riguarda Forza Italia e la sua adesione ad ipotesi di governi tecnici o istituzionali, che potessero consentire il superamento della formula di governo giallorossa.

Altre, invece, erano sicuramente meno prevedibili, come quella derivante dalla disponibilità della Lega a partecipare ad un Governo di unità nazionale presieduto da Draghi.

L’unica eccezione alla grande alleanza per affrontare la crisi pandemica e provare a rilanciare l’Italia con l’utilizzo del prestito europeo del Recovery Plan è, dunque, quella di Fratelli d’Italia. Solo Giorgia Meloni ha volontariamente declinato l’invito del Presidente Mattarella, non chiudendo, tuttavia, la porta ad un concreto sostegno parlamentare su singoli provvedimenti nell’interesse della Nazione.

Anche questa scelta ha suscitato perplessità e un acceso, ma interessante dibattito nei circuiti politici, culturali ed editoriali della destra italiana. Da un lato, chi sostiene che in periodo di guerra (ormai consueta metafora dell’emergenza pandemica) nessuno dovrebbe sottrarsi alle istanze di una solidarietà politica nazionale, espressa con un corale appoggio al “Gabinetto bellico”.

Con il suo celebre “Whatever it takes” e con l’invenzione del Quantitative Easing l’ex Presidente della BCE ha salvato la moneta europea dalla speculazione internazionale e ha imposto, esponendosi agli anatemi dei rigoristi teutonici, un primo importante cambio di passo rispetto alle cieche politiche economiche depressive, fondate sull’ossessione tedesca per la stabilità monetaria.

Inoltre – last, but not least – il sostegno a Mario Draghi avrebbe potuto mettere in soffitta, definitivamente, i tentativi di riedizione, sotto mentite spoglie, del vecchio “arco costituzionale”. La conventio ad excludendum della destra, infatti, nella strategia del PD zingarettiano varrebbe ad imporre il ritorno ad una “democrazia bloccata” e il conseguente restringimento dell’area di governo al perimetro di un centro-sinistra con tonalità giallorosse.

Nell’interesse del Paese e non solo dei partiti che si collocano a destra dell’arco parlamentare, è fondamentale disinnescare questo grave rischio, la cui concretizzazione riporterebbe le lancette della democrazia italiana indietro di trent’anni. Si deve, tuttavia, riconoscere che l’ingresso in maggioranza della Lega di Salvini renderà spuntata quest’arma di delegittimazione rispetto a chi intendesse utilizzarla contro chicchessia e, a maggior ragione, nei confronti del partito nazionale che esprime il presidente dei Conservatori e riformisti europei.

D’altra parte, non mancano le ragioni a sostegno di quello che inizialmente è apparso come un “gran rifiuto” di Giorgia Meloni, ma che, con il passare delle ore, è stato messo a fuoco nei termini di una “opposizione patriottica”. La crescita progressiva di Fratelli d’Italia si spiega anche con una linea di rigorosa coerenza e con una visione dell’interesse nazionale (dalla economia agli assetti istituzionali, dal modello di sviluppo alla collocazione geo-politica del nostro Paese) non sempre espresse, con altrettanta organicità, da altre componenti del centro-destra. Probabilmente è vero che la visione “nazionale” di Fratelli d’Italia avrebbe faticato ad esprimersi con un governo di emergenza, magari sottoposto ai veti delle componenti grilline, democratiche e post-comuniste. La scelta, dunque, quella di convergere con la maggioranza che sosterrà il Governo Draghi, se e quando giungeranno in Parlamento indirizzi di politiche pubbliche coerenti con un disegno di riscossa dell’Italia e dell’Europa condivisibile per la destra identitaria e popolare.

Archiviato, dunque, il fisiologico, quanto utile dibattito interno su una scelta fondamentale per il destino del Paese (come si conviene ad un partito che possa dirsi veramente tale e non un mero coacervo di interessi elettorali), si tratta adesso di percorrere sino in fondo la via della “opposizione patriottica”.

Occorre, innanzi tutto, smascherare la falsa narrazione oppositiva tra europeisti e (presunti) antieuropeisti. Nessun europeo può e vuole oggi dire no all’Europa; ma ogni europeo può pretendere che il progetto di integrazione avanzi verso un modello di unione politica confederale. Una Unione che si regga sulle radici di una identità bimillenaria e sia capace di proiettarsi, non solo economicamente, nello scenario globale come potenza continentale. Una confederazione europea fondata sulla partecipazione politica dei suoi cittadini e sulla eguaglianza delle opportunità nell’intero suo territorio. Una comunità di Stati che sappia difendere i suoi ceti produttivi dall’economia finanziaria e dalla concorrenza sleale dei liberi battitori dei mercati internazionali. Un ordinamento sovrastale che, riavviando il processo di integrazione, restituisca le scelte monetarie e gli indirizzi di politica economica e fiscale alla sovranità di istituzioni politiche continentali, democratiche e rappresentative.

Del resto, proprio il “Whatever it takes” di Mario Draghi ha tutti i caratteri di una potente affermazione di sovranità rispetto alle dinamiche adespote dell’economia finanziaria globale. Una decisione politica anomala e in un certo senso paradossale, perché assunta da una autorità tecnica e “non politica”, che ha però dimostrato come, anche nel mondo globalizzato, non si possa fare a meno di istituzioni di governo dell’economia.

Un disegno, in definitiva, profondamente diverso dall’attuale Unione europea, troppo spesso concepita quale fonte di legittimazione tecnocratica e non, invece, come proiezione politica continentale di una concreta comunità democratica di cittadini e di Stati.

In questo senso, i conservatori possono essere, al contempo, europei e sovranisti. Nella tradizione del diritto pubblico europeo, infatti, al contrario rispetto a quanto sostenuto da alcune superficiali narrazioni, la sovranità è democrazia e partecipazione, universalismo inclusivo di cittadini, di comunità intermedie, di imprese e di lavoratori, nel quadro unificante di comuni principi di civiltà.

Una visione “patriottica europea”, dunque, può ben conciliarsi con la tutela degli interessi nazionali. Anche sul piano interno, quindi, l’opposizione costruttiva potrà esprimere il suo sostegno a tutte le iniziative di modernizzazione del Paese fondate sull’utilizzo razionale dell’enorme massa finanziaria del Recovery Plan. La risposta alla crisi indotta dalla pandemia ha, infatti, determinato un primo momento di rottura rispetto alle politiche rigoriste che rifiutavano l’idea di un debito comune per alimentare la solidarietà politica, sociale ed economica dell’Europa.

Un piano che dovrà sostenere, in Parlamento e nel Paese, il rilancio infrastrutturale dell’Italia e la ricucitura delle distanze fra il Nord e il Sud, con il potenziamento delle reti e con la valorizzazione delle identità territoriali. Un programma di supporto per assicurare nuova libertà di azione al genio nazionale sul piano della cultura, dell’impresa, dell’arte, della tecnica, della ricerca e dell’innovazione, da troppo tempo strozzato dalle rigidità burocratiche o dalle false rappresentazioni di una possibile “decrescita felice”. Un progetto di rilancio che sprigioni le energie individuali e collettive della nazione con il sostegno dello Stato e dell’Europa, garanti delle regole del gioco e delle infrastrutture strategiche. Una visione di competizione aperta al mondo nei termini della migliore tradizione dell’universalismo europeo, anziché sulla fiducia ingenua e incondizionata nel mercato globale.

In questo scenario dovrà misurarsi il contributo della maggioranza che sosterrà il Governo Draghi e il ruolo dell’opposizione costruttiva della destra italiana, con il pensiero rivolto alle generazioni future.

*Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Catania

Un’opposizione di alto profilo

Fratelli d’Italia sceglie di stare all’opposizione del governo Draghi. Una posizione, l’unica a ben vedere, “fuori dal coro” unanime di media e resto della politica che, improvvisamente, si scoprono da sempre militanti inconsapevoli del partito di Draghi. La competenza, la preparazione e la capacità manageriale dell’ex presidente della Banca d’Italia non sono certo in discussione, e non potrebbero esserlo. Ciò che davvero dovrebbe far riflettere, in particolare quei settori dell’opinione pubblica – se così si può definire – che su Giorgia Meloni hanno fatto cadere la solita volgare pioggia di provocazioni e derisioni, è la reale bontà di questa operazione politica eterodiretta dal Quirinale. Sebbene, di fatto, la mossa sia stata necessaria – considerata l’incapacità del governo precedente –, per Mario Draghi non sarà facile arrivare ad una sintesi programmatica fra forze politiche così diverse; e tale sintesi, molto spesso, rischierà di trasformarsi di volta in volta in un compromesso che virerà sempre più al ribasso. La flat tax, che era uno degli elementi portanti del programma condiviso del centrodestra, è già stata tolta bruscamente dal tavolo delle trattative. Fratelli d’Italia, in questa fase politica delicatissima per il Paese, non ha intenzione di andare sull’Aventino: questo è ciò che si è maldestramente tentato di descrivere. Al contrario, Fratelli d’Italia interpreterà un ruolo tanto prezioso quanto fondamentale: se il presidente della Repubblica, giustamente, ha auspicato un governo di alto profilo, è giusto aspettarsi che tale governo abbia anche un’opposizione di alto profilo. Fratelli d’Italia farà un’opposizione responsabile e autorevole, di alto profilo appunto, attenta all’interessa nazionale, priva d’ostruzionismi ma anche senza la piaggeria che sta contraddistinguendo altre forze politiche. Si può essere costruttori rimanendo fedeli alle proprie idee. Una sentinella, come l’ha definita Giorgia Meloni, che vigilerà sull’azione del nuovo esecutivo e non mancherà di metterne in evidenza le criticità quando necessario. E dovrà fornire contributi preziosi e impegnarsi in battaglie importanti: la tutela dei non garantiti (partite IVA, autonomi, freelance), il potenziamento del piano di vaccinazione e del sistema sanitario, la trasformazione digitale delle imprese e la formazione dei giovani. Anche senza reclamare una poltrona di governo, Fratelli d’Italia farà la sua parte. Senza la necessità – magari impellente per altri – di trovare legittimazione in un immaginario “arco costituzionale” al quale, secondo bizzarre teorie, si viene ammessi solo previa acritica dichiarazione di fede verso Bruxelles. Giorgia Meloni è già da tempo presidente dei Conservatori europei, gruppo parlamentare del parlamento europeo del quale fa parte stabilmente Fratelli d’Italia, e il partito è già sufficientemente legittimato dai milioni di voti ricevuti dagli italiani in questi anni. Tanto da essere l’unica formazione politica che, da quando si è presentata per la prima volta alle urne, è sempre cresciuta in tutte le elezioni seguenti, a livello nazionale e locale. Probabilmente è proprio questo aspetto che preoccupa.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

 

 

 

Le ragioni di Giorgia Meloni

«Le forme costituzionali non sono, per me, che dei mez­zi tecnici come ogni altro apparato. Sarei stato felice di schierarmi al fianco del sovrano contro il parlamento, se solo egli fosse stato un politico, o avesse dato segno di volerlo diventare».
Max Weber, 1917

I.

Non conosco il Prof. Mario Draghi, economista monetario col quale l’unica cosa che potrei condividere per mia inferiorità è forse la conoscenza del tedesco, ma sono convinto che al di là dei convenevoli e delle cortesie la sola persona, tra quelle incontrate in questi giorni, che può aver riscosso rispetto e comprensione agli occhi dell’allievo di Caffè e di Modigliani sia stata Giorgia Meloni, le cui ragioni nel negare la fiducia al nuovo governo non solo non hanno invece trovato condivisione in molti commentatori – compreso un politologo che ha evocato, con poco senso storico, una presunta “sindrome della fogna”, e con poca eleganza un’altrettanto presunta “lavatrice Draghi” nella quale lavare panni ritenuti evidentemente sporchi –, ma anche in suoi sostenitori o simpatizzanti, quali per esempio i componenti del Comitato scientifico della Fondazione Farefuturo.

Ritengo invece, a titolo del tutto personale, che l’on. Meloni abbia non tanto confermato un percorso di coerenza politica quanto, con molta etica della responsabilità, fatto valere ragioni politiche tese a sanare, sia pure sul medio periodo, una serie di ferite inferte alla democrazia italiana negli ultimi dieci anni e forse più, ferite profonde che riguardano, al di là della decadenza del sistema istituzionale parlamentare nato con la costituzione del 1948, il tema della partecipazione politica, del rapporto tra rappresentanza e corpo elettorale, in sostanza della dignità della politica e direi anche del rispetto del Politico e della sua autonomia dall’Economico.

Ciò che è in gioco con il governo Draghi è infatti un primato: il primato della politica o per lo meno la sua non completa sudditanza alle ragioni dell’economia. Non voglio dire che il prof. Draghi non abbia presente la necessità di dare risposte politiche alla crisi italiana, ma in quanto economista e proprio per la dichiarata mission che gli è stata affidata (redazione del piano di risanamento e piano vaccinale) nessuna prospettiva autenticamente politica potrà caratterizzare il suo governo. Chi parla di “occasione perduta” per la destra, di “ultimo treno” mancato da Giorgia Meloni non ha colto il senso profondo della decisione, credo sofferta, presa dalla leader di FdI, di rinunciare ad una tavola imbandita per tutti in nome di una prospettiva forse anche solitaria, piena di rischi, ma tesa a dare al paese una chance alternativa nel caso che proprio il governo del prof. Draghi si riveli incapace di ricucire le lacerazioni profonde che infettano la vita italiana.

Non si tratta, a mio avviso, di non avere stima per un economista di vaglia, quanto di saper cogliere i limiti oggettivi di una iniziativa che nasce sulla disperazione e sul ricatto, da un lato, e sulla paura, dall’altro: la paura dell’Unione europea e in particolare della Germania di veder fallire il tentativo di legare definitivamente al carro di questa Europa, a egemonia tedesca, l’economia italiana, in una posizione di sudditanza e di servizio; la disperazione delle forze politiche esistenti, che si agitano impotenti per incompetenza e ignavia del tutto al di sotto delle loro spropositate ambizioni, e il ricatto di vedere andare altrimenti al governo i partiti della destra, ritenuti dall’establishment più radicato (quello che si muove per esempio intorno alla Presidenza della Repubblica), disomogenei ad un progetto politico di natura globalista e spacciato come ‘europeista’.

Non è un caso che il governo Draghi sia oggettivamente il prodotto dell’azione di un personaggio che ha inquinato definitivamente i pozzi della politica italiana già a partire da quel progetto di pseudo-costituzione che mirava a dare e a perpetuare tutto il potere nelle mani del governo allora esistente. Non si capisce la decisione di Giorgia Meloni se non si capisce che ci si trova dinanzi ad una strategia politica che coraggiosamente si svincola da una tattica che al momento sembra aver catturato tutti, da Grillo a Berlusconi.  Posso sbagliarmi, ma io non vedo nel governo Draghi il famoso “dittatore commissario” del diritto romano, quanto un agnello sacrificale che deve tappare una serie di buchi aperti dal prevalere dell’interesse privato sull’interesse pubblico. Immaginare che un governo appoggiato da tutte le forze presenti in parlamento, sempre soggette al ricatto del bullo di Firenze, detto non a caso Matteo d’Arabia, possa progettare una rinascita nazionale, in un confronto necessario con tutti i “grillini” che siedono nelle commissioni, è pura utopia. Potrà anche fare qualche “scelta di destra”, ma che senso può avere una gestione – ecco, appunto: gestione – dell’esistente malato quando occorre avere invece una prospettiva politica di lungo respiro per il risanamento sia delle istituzioni sia dell’economia?

Draghi sa quello che sa Meloni e fingono invece di ignorare  o forse veramente ignorano i politologi, che danno lezioni non richieste: sanno che i fondi del “Next Generation EU” non sono regali in moneta (sia i debiti che ci consentono o ci impongono di contrarre, sia anche i cosiddetti “fondi perduti”) bensì una specifica pratica politica mirata a salvare il principale socio economico di fatto della Germania, ovvero l’Italia, che se sprofondasse porterebbe con sé nel baratro anche il sistema produttivo tedesco, come ben sanno e scrivono anche i giornali tedeschi (ne ho parlato tempo addietro in un articolo su La Verità). Il senso del governo Draghi sta tutto in questo intreccio internazionale, che non è in sé perverso, ma esprime nel suo complesso una politica diversa e altra rispetto a quella dell’interesse nazionale: si tratta di una politica che – forse anche a ragione – non solo non ha fiducia nell’Italia come soggetto autonomo, ma punta a sterilizzarla come appendice diciamo così ‘museale’, senza una propria politica industriale, senza una propria politica estera, ma a rimorchio degli interessi, certo legittimi, dei paesi che si sono finora sottratti alla decadenza di civiltà in cui è sprofondata l’Italia. Per questo Draghi potrebbe anche “far bene” sul brevissimo periodo e c’è da augurarselo per esempio sul tema dei vaccini (se riuscirà a mandare a casa l’onnipresente Arcuri: ma ci riuscirà?), ma sul medio-lungo periodo si rischia di rinunciare preventivamente ad ogni piano di rinascita nazionale entro un’Europa rinnovata e caratterizzata in senso politico. Anche per questo Giorgia Meloni ha dimostrato non tanto il coraggio di un azzardo politico, quanto la consapevolezza che in questa fase va conservata al paese una via d’uscita, una sorta di carta di riserva per il futuro dell’Italia. Sono convinto che in ciò ha trovato la comprensione intellettuale dello stesso Mario Draghi.

II.

Ho parlato di pratica politica imposta dall’Europa: trattandosi appunto di pratica politica e non di un gioco sul salvadanaio non aveva senso che a gestirla fossero lasciati Conte, Arcuri e i loro “tecnici”; giustamente il loro piano è sembrato al prof. Giovanni Tria una scenetta da “scherzi a parte”. Occorreva una persona  all’altezza della partita, una persona come Draghi, che ha il compito specifico certo di organizzare un piano vaccinale (questo per qualche mese) ma anche e soprattutto di approntare un Recovery Plan (questo per qualche anno) funzionale al recupero dell’Italia e quindi a garantire l’economia tedesca (o, se volete, europea). Si tratta di una prospettiva alla quale il Presidente Mattarella si preparava da qualche giorno, scommettendo sul fatto che Renzi avrebbe mandato tutto a carte quarantotto, raggiungendo il suo piano: togliere di mezzo Conte e la sua idea balzana di gestire da solo, illustre sconosciuto che aveva vinto una lotteria senza nemmeno aver comprato il biglietto, non solo i 209 miliardi del Recovery, ma anche quelli del Sure e tutti gli scostamenti di bilancio interno, che altro non sono che soldi a debito ma gestiti dagli stessi soggetti (con tutte le fantasticherie note: dai banchi a rotelle alle lotterie ai premi e altre costosissime scemenze del genere).

Draghi è stato costretto ad accettare perché pressato, indubbiamente dalla propria coscienza di italiano, ma certo anche dalle insistenze delle presidenze e delle cancellerie europee, spaventate non tanto ora da un governo delle destre, ma dal fatto che l’Italia si apprestava (e al momento ancora di appresta) a precipitare in un burrone. Se questo è il compito, del resto non presunto ma dichiarato dallo stesso Presidente incaricato, la domanda che occorre porsi è: cosa impone di fare l’etica di chi si è messo al servizio del Politico? Badate bene: non dico, come direbbe qualcuno, “al servizio del paese” nel senso che “la politica è servizio” (una betise ritornante), ma proprio del Politico, ovvero di quella dimensione essenziale dell’esistenza irriducibile a tutte le altre dimensioni pure fondamentali dell’esistere: dall’economia alla morale. Se un politico deve essere coerente con l’autonomia del Politico è alla logica interna del Politico che deve rispondere, non ad altre forme di ragionamento, pure legittime entro la loro sfera di competenza,

Secondo me, Giorgia Meloni ha fatto benissimo a dire al Prof. Draghi che non avrebbe dato la fiducia al suo governo, perché non è certo con l’economista esperto che è andata a dialogare, ma con chi era stato investito di una funzione istituzionale mirata a specifici obiettivi e in quella veste aveva già dichiarato quale sarebbe stato il suo compito: organizzare il Recovery Plan. Non si trattava – mi attengo qui alle dichiarazioni di Draghi all’atto di accettazione con riserva dell’incarico – di disegnare un progetto per la società italiana secondo un’idea politica per i prossimi almeno dieci anni, ma qualcosa di molto più limitato, anche dal punto di vista temporale e ciò anche sulla base di quanto detto dal Presidente Mattarella al momento di annunciare la “scelta di alto profilo”. Detto in poche parole: si tratta di partecipare alla decisione su come spendere dei soldi le cui finalità sono state già predeterminate da soggetti diversi dall’Italia. Non voglio dire che queste finalità sono cattive, anzi, probabilmente, sarebbero buone se attuate con intelligenza, ma proprio perché la discrezionalità è per così dire puramente tecnica voler partecipare a tutti i costi non è espressione di una volontà e di un progetto politici “intelligenti”, quanto, piuttosto, di un retropensiero spartitorio dal quale l’on. Meloni si è semplicemente sottratta proprio in nome della autonomia del Politico.

Cosa sarebbe infatti un governo a guida Draghi con “tutti dentro”? Draghi è un Presidente del Consiglio, un primus inter pares, il cui compito è quello di dirigere la politica del governo, che dunque deve essere una politica omogenea e coerente. Io non vedo coerenza nello stare insieme al governo, Meloni, Salvini, Renzi, Di Maio, Boldrini e Zingaretti, quando il governo è dichiaratamente un governo funzionale ad un progetto apparentemente tecnico ma in realtà inevitabilmente politico, dove l’indirizzo politico è però predeterminato da condizioni e rapporti esistenti e quindi si sottrae pregiudizialmente a ciò che caratterizza il Politico e l’azione politica: la scelta responsabile.

A chi critica la Meloni per aver detto “no”, ricordo che in questo “no” ci sono molte altre negazioni: del compromesso deleterio, della rinuncia alle proprie idee, dell’abbandono della politica e anzi del suo sacrificio sull’altare dell’utile momentaneo (che poi alla fine cosa sarebbe: dirigere un ministero e spartirsi qualche finanziamento?), soprattutto della sovranità del popolo italiano. A me non piacciono gli slogans, nemmeno quello sulla sovranità del popolo, ma al di là dello slogan il punto è di sostanza, perché riguarda le forme e le procedure di scelte sostanziali fatte dalla costituzione italiana. Si tratta della decisione politica che sta sotto e a fondamento della costituzione e quindi dell’ordinamento giuridico, una decisione politica fondamentale che non può essere sospesa. La pandemia è un grave problema, ma proprio perché grave deve essere affrontato – come in tutti gli altri paesi europei – da un governo all’altezza della sua natura di governo in quanto esito della volontà popolare.

Sono state avanzate ragioni di merito, sulle quali ho detto quel che penso, ma anche di metodo; qui trovo che ha sempre avuto ragione Meloni a dire che ove manchi una maggioranza coesa che in Parlamento corrisponda minimamente alla volontà espressa, ma anche reale, del corpo elettorale sarebbe necessario tornare alle urne, come avviene in tutte le democrazie parlamentari quando non si riesce a trovare una siffatta maggioranza (tanto più se si considera quel parlamentarismo razionalizzato che è alla base della costituzione repubblicana). Per cui o Meloni ha sempre avuto torto oppure hanno torto quelli che pur essendo d’accordo prima oggi dicono che bisognerebbe invece stare con Draghi e andare al governo con Zingaretti e Di Maio. Cercare di avere ragione tutte e due le volte non risponde ai princìpi della logica, anche in contesti solo apparentemente diversi.

Il governo Draghi sarà un governo tendenzialmente tecnocratico, o almeno con aspirazioni del genere. Non sarà un governo politico nel senso esistenziale del termine, cioè come prodotto di una lotta politica entro il quadro costituzionale, di quella lotta politica che potrebbe portare aria nuova nelle stanze delle ammuffite istituzioni italiche. Indipendentemente dalla volontà e dalle intenzioni di Draghi, il suo governo sarà un governo pregiudizialmente anti-politico, che vorrà fondarsi sui pur evidenti fallimenti della politica per metterla da parte. Rispetto a questo governo, pericoloso proprio dal punto di vista della democrazia, essendo ogni anti-politica, anche la migliore, una cattiva politica, Giorgia Meloni ha fatto valere le ragioni del Politico, di contro a quelle dell’Economico. Per questo io sto apertamente e dichiaratamente dalla parte della Meloni, non contro il Professor Draghi, ma contro quello che egli oggettivamente rappresenta e che se può essere momentaneamente un sollievo per i cittadini e una panacea per i Grillo, i D’Alema e via dicendo porterà alla fine ad un aggravamento della crisi italiana, che da trent’anni si trascina stancamente alla ricerca di una classe politica all’altezza delle sfide.

*Agostino Carrino, professore ordinario di Diritto pubblico, Università Federico II Napoli

 

 

 

 

 

Dopo le regionali: cinque punti-chiave

L’Emilia-Romagna rimane al centrosinistra, la Calabria cambia e sceglie il centrodestra: questi i verdetti della prima tornata elettorale dell’anno, sorta di “aperitivo” di quella più ampia che a fine maggio vedrà coinvolte altre sei regioni (Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana e Veneto). Vediamo cinque punti-chiave per capire gli orientamenti che sono emersi da queste consultazioni.

 

Il disfacimento del Movimento 5 Stelle. Fiaccato dalle dimissioni da capo politico di Luigi Di Maio e alle prese con una crisi interna conclamata, nel Movimento sembra già arrivata l’ora del “liberi tutti”. Emergono chiaramente tre schieramenti: una parte vorrebbe allearsi stabilmente con il Partito Democratico, una seconda vorrebbe riabilitare la vecchia linea “autonomista”, una terza continua ad avere nostalgia di Salvini. E se è vero che i grillini non hanno mai brillato alle elezioni amministrative, è altresì vero che si è ormai consolidato un trend negativo che ha portato alla smobilitazione in Emilia-Romagna come in Calabria: in quest’ultima regione il Movimento è addirittura fuori dal consiglio regionale, non avendo superato lo sbarramento dell’8% previsto dalla legge elettorale calabrese. In Emilia-Romagna la maggior parte degli ormai ex elettori grillini ha votato per Bonaccini, incidendo in maniera decisiva sulla sua vittoria (che anche in virtù di tale fattore è risultata essere più ampia delle previsioni).

La sconfitta (?) di Salvini. Può un leader che porta il proprio partito a raggiungere quasi il 32% nella regione politicamente più ostile – e ad aumentarne il consenso di quasi 200 mila voti rispetto alle ultime elezioni politiche – essere bollato come “il grande sconfitto” di questa tornata elettorale? Sì, perché la politica non è una scienza esatta e spesso risponde più alle emozioni che ai numeri. Quel 32% appare come una sconfitta perché le aspettative erano altre: e paradossalmente era stato proprio Salvini a crearle. La “nazionalizzazione” – e l’eccessiva personalizzazione – della campagna elettorale hanno pagato solo parzialmente in una delle poche roccaforti rosse rimaste. Rimane qualche utile lezione per le campagne future: prima fra tutte, la necessità di allargare le coordinate del voto leghista, che non riesce ancora a sfondare nelle grandi città; in secondo luogo, la necessità di diversificare lo stile comunicativo.

Forza Italia e il partito del Sud. Un imbarazzante 2,5% in Emilia-Romagna, il 12,3% in Calabria dove esprime il nuovo governatore, Jole Santelli: qual è la “vera” Forza Italia? La risposta è semplice se si osservano i trend delle ultime elezioni politiche, europee e amministrative. Come lo stesso Silvio Berlusconi ha affermato in una recente intervista, Forza Italia si sta caratterizzando come “partito del riscatto del Sud”. E non può che essere così, considerato che nelle regioni del Nord Forza Italia è praticamente sparita. Questo, tuttavia, è un problema per tutto il centrodestra: il mancato apporto in termini numerici di Forza Italia per Lucia Borgonzoni è stato un altro fattore determinante per la vittoria di Bonaccini. All’orizzonte ci sono le regionali in Campania, dove Forza Italia si appresta a sostenere un “suo” uomo, Stefano Caldoro, ma anche le regionali in Toscana, dove il partito esprime ottimi amministratori locali e dove il centrodestra non deve fare l’errore di partire già sconfitto.

La crescita costante di Fratelli d’Italia. Non è più una novità: anche in Calabria ed Emilia-Romagna il partito di Giorgia Meloni gode di ottima salute, raggiungendo percentuali intorno al 10% e ponendosi stabilmente come seconda forza della coalizione. Fratelli d’Italia continua a giovarsi da un lato della debolezza di Forza Italia, dall’altro del logoramento di Matteo Salvini dovuto alla sua sovra-esposizione mediatica: è probabile che nei prossimi mesi la percentuale del partito continui a crescere, considerato che Giorgia Meloni intende esprimere le candidature a governatore per le regionali in Puglia e nelle Marche. La concreta possibilità che venga varata una legge elettorale proporzionale aumenta la competizione all’interno del centrodestra, e Giorgia Meloni è attualmente la più in forma, come mostrano i sondaggi che la danno al primo posto in termini di gradimento.

La “vittoria” del Partito Democratico. La vittoria in Emilia-Romagna è, più che del partito, la vittoria di Stefano Bonaccini e del suo team di comunicazione, che ha saggiamente rinunciato a posizionare il simbolo del PD accanto al candidato e ne ha “rinfrescato” l’immagine. Bonaccini non si è lasciato trascinare nelle vicende romane e ha impostato una campagna elettorale prettamente territoriale, imperniata sulla presentazione dei buoni risultati dell’amministrazione uscente. C’è poi da ricordare che il campo di battaglia era l’Emilia-Romagna, che sta al PD come il Veneto sta alla Lega, dunque la vittoria era il minimo sindacale. Il bilancio finale di queste tornata elettorale, in verità, segna per il centrosinistra la perdita di un’altra regione, la Calabria: ora il centrodestra governa in 13 regioni, il centrosinistra in 6. Rimane interlocutorio il rapporto con le Sardine il cui apporto, come già evidenziato nella precedente analisi, è stato decisivo per contrastare Salvini sul piano identitario e per risvegliare una parte dormiente dell’elettorato di centro-sinistra: ma il dialogo con il Partito Democratico è solo all’inizio.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Farefuturo attore della strategia della destra

Punto di svolta della nuova veste meloniana (e anche del 10% in Umbria) è la fase di allargamento di FdI ad associazioni e realtà locali, in grado di drenare voti e ampliare il partito oltre lo zoccolo duro romano

Come nasce il 10% di Fratelli d’Italia in Umbria? Non solo dagli arrivi nella squadra di Giorgia Meloni di vari esponenti locali, da Forza Italia o dal centro. Ma è il frutto di una strategia ragionata per allargare un movimento che, agli inizi della sua fondazione, era nato chiuso in modo particolare sullo zoccolo duro romano e sul “mondo Fuan”. E che in virtù di quel grande mutamento genetico nel panorama della destra italiana che si chiama salvinismo ha avuto la necessità di decidere (tatarellianamente) cosa fare da grande, anche grazie agli spunti valoriali di esponenti come Guido Crosetto e l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata. Oggi lo scenario appare più armonico, soprattutto al sud e su temi sensibili come la cyber security, l’atlantismo e il dossier energetico.

LA DESTRA AI TEMPI DEL SOVRANISMO

La candidatura lo scorso inverno di un esponente di FdI in Abruzzo (dove già governa il Comune dell’Aquila), il senatore Marco Marsilio, è stato un esperimento, riuscito, di mescolare classe dirigente affiatata con una nuova fase nei territori: ed il risultato è giunto, per il partito di Giorgia Meloni, che adesso punta evidentemente alla casella di vice premier, nonostante in molti continuino a far circolare l’ipotesi di sua corsa per il Campidoglio. Ma l’ex ministra della Gioventù, dopo aver lavorato pancia a terra a una ridefinizione strategica del partito, ha messo nel mirino il governo nazionale. Il 10% raggiunto in Umbria (anche se risultato locale) si avvicina a quel 12% che fece “grande” Alleanza Nazionale dopo Fiuggi e oggi sta aprendo interrogativi, anche al di fuori dei confini nazionali, su come potrà delinearsi la politica della destra nell’era del sovranismo in alleanza/convivenza col leghismo.

LE STRATEGIE

La fase della alleanze, avviata un anno fa, ha visto le interlocuzioni con una serie di soggetti sui territori italiani: tutte finalizzate sì a ricomporre un mondo ma al contempo a riallacciare fili programmatici e umani con sacche di consenso. È il caso del Movimento Nazionale per la Sovranità dell’ex sottosegretario all’ambiente, il triestino Roberto Menia, che il prossimo 7 dicembre sancirà il passaggio ufficiale tra i meloniani dopo il patto federativo per le elezioni europee. Lo stimolo è quello di costruire un’alternativa di governo “che ridia dignità allo Stato”, con la nascita di uno schieramento di centrodestra radicalmente nuovo, “imperniato sulle idee sovraniste di difesa intransigente dell’interesse nazionale”. In questo schieramento “deve crescere la forza della componente più legata alla tradizione della destra italiana, all’idea di Unità nazionale e ai valori fondamentali del nostro popolo, una forza capace di difendere le ragioni del Sud quanto quelle del Nord” osserva Menia.

IL CASO DELLA PUGLIA

Altro caso quello del Movimento Politico Mediterraneo voluto da Pinuccio Tatarella in Puglia e guidato dall’ex senatore biscegliese Francesco Amoruso, in una regione dove pare proprio che FdI potrà esprimere il candidato governatore, visto che FdI ha dato l’ok alla Lega per la presidenza del Copasir a Raffaele Volpi (mentre a Forza Italia dovrebbero andare Calabria e Campania). Pochi giorni fa infatti alla Camera i consiglieri regionali pugliesi di Direzione Italia, la formazione politica lanciata qualche anno fa da Raffaele Fitto (attualmente co-presidente del gruppo europeo Ecr-FdI al Parlamento europeo), hanno formalizzato l’ingresso in FdI, alla presenza di Giorgia Meloni, dello stesso Fitto e di Amoruso. E per la corsa alla successione di Michele Emiliano circolano i nomi in area FdI proprio di Fitto ma anche del giornalista e intellettuale Marcello Veneziani.

LA POSTURA ESTERA

Ma quale postura avrà il nuovo corso di FdI su temi scottanti anche di politica estera, come Cina, dossier energetico, infrastrutture e atlantismo? Una interessante linea di intenti si ritrova nella ritrovata Fondazione Farefuturo, guidata dal senatore Adolfo Urso, attuale numero due del Copasir e già sottosegretario al commercio estero, che ha nuovamente ripreso le attività del think thank (sotto la direzione generale di Mario Ciampi) tarando report e meeting sui temi di stretta attualità internazionale come jihadismo, cyber sicurezza, immigrazione ed energia.

Proprio la cyber security è stata oggetto alcuni giorni fa di un intervento in Aula di Urso, che ha messo l’accento su una serie di elementi di merito, contribuendo a rendere chiara la sensibilità atlantista del partito sul tema. In occasione della discussione del decreto ad essa dedicato in Senato infatti Urso ha parlato di “quarta rivoluzione industriale mondiale, quella digitale, che potrebbe comportare il crollo dell’occidente e la prevalenza dell’oriente”.

In questo contesto “il prezzo che l’Italia rischia di pagare è troppo alto per non avere da parte del governo una risposta convinta e decisa a tutela della sicurezza nazionale: il provvedimento in esame, comunque importante, non basta se non vi è anche la piena consapevolezza della sfida in corso e della necessità di intervenire senza titubanze e con tempestività”.

*fonte “Formiche.net”

Urso: Orban vince su immigrazione ed economia

Le grandi manovre in vista del prossimo Parlamento europeo hanno già una scadenza importante, quella del 20 marzo quando l’assemblea del Ppe dovrà decidere se espellere Fidesz, il partito del premier ungherese Viktor Orban, per il suo palese attacco alla politica della Commissione Europea guidata da Junker, anche lui popolare. Orban potrebbe unirsi all’Ecr, il gruppo dei Conservatori e riformisti di cui fanno già parte il partito del premier polacco, Jaroslaw Kaczynski, e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Adolfo Urso, senatore di FdI, è appena tornato da incontri avuti a Budapest con il presidente del Parlamento Röver Laszló, il ministro degli Affari Europei, Szabolcs Takäcs e il presidente della Fondazione Századveg, il principale think thank sovranista d’Europa.

 

Senatore Urso, gli ungheresi hanno già deciso di uscire dal Ppe o ci sono margini di trattativa?

Loro non vogliono cedere assolutamente e daranno battaglia fino alla fine. Nel frattempo stanno preparando un’alternativa, in modo trasparente, ragionando sull’ingresso nel gruppo Ecr che, con l’uscita di conservatori inglesi, è oggi guidato dai polacchi. L’accusa all’Unione europea è di non aver difeso i confini esterni e Orban spesso ha detto che l’Italia è stata lasciata sola.

 

Anche lei ha detto che il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania rischia di far esplodere l’Unione.

Anche su questo ci siamo trovati pienamente d’accordo. Anche loro pensano che francesi e tedeschi vogliono dominare l’Europa che invece deve tornare a essere l’Europa dei popoli e degli Stati, e accusano la Commissione europea di comportarsi come se fosse un altro Stato alleato di Berlino e Parigi. Anche noi di Fratelli d’Italia siamo d’accordo sul fatto che bisogna tornare all’Europa delle origini, quella fondata con i Trattati di Roma da Germania, Francia e Italia che allora erano in posizioni paritarie. Serve una alleanza tra le Nazioni dell’Europa centrale, oggi raccolte in Visegrad e le nazioni dell’Europa mediterranea, con Italia in prima fila, per riequilibrare il predominio tedesco e, sui temi culturali, quello dei Paesi scandinavi e del Benelux che hanno trasformato l’Unione in una scatola vuota. Il vulnus nasce quando la Convention di Parigi rifiutò di affermare le radici giudaico cristiane d’Europa.

 

La Lega alla fine aderirà a questo blocco sovranista?

È possibile che ciò avvenga, peraltro Matteo Salvini e già stato a Varsavia, ma il disegno riguarda anche partiti di altri Paesi come gli spagnoli di Vox e i francesi di Nicolas Dupont-Aignan.

 

Alle elezioni, dunque, si scontreranno due visioni opposte di Europa: quella franco-tedesca e quella dei partiti di destra sovranista.

Si, certamente. Sarà una contrapposizione sul futuro dell’Europa tra chi ha una visione burocratica dell’Unione funzionale alla Grande Germania e chi ritiene, invece, che occorre riaffermare l’Europa dei valori, casa comune delle Nazioni. Nel contempo, si rafforza l’asse occidentale, come ha dimostrato l’intervento di Giorgia Meloni a Washington, insieme a Ronald Trump, alla Cpac, la grande convention dei conservatori statunitensi. Non è solo un tema europeo, ma globale. E Fratelli d’Italia si trova nella principale famiglia della destra occidentale.

 

Silvio Berlusconi difende Orban e lo invita a non uscire dal Ppe. In chiave di voto italiano alle elezioni europee, alla fine passerà un messaggio basato sui valori di chi vuole difendere il Ppe o quello più rigido dei sovranisti?

Nel Partito popolare Orban è difeso dagli italiani e dagli spagnoli che vorrebbero spezzare anch’essi l’alleanza con i socialisti; ancora una volta, però, la decisione è nelle mani dei tedeschi. Nell’Italia di oggi e in gran parte d’Europa, c’è più appeal verso la destra di governo sovranista, che difende la cultura e la civiltà cristiana e occidentale, piuttosto che la vecchia immagine del Ppe, subordinato al predominio francese e tedesco che ha snaturato l’Unione.

 

Il tema dell’immigrazione sarà ancora una volta decisivo? Orban ha difeso l’Italia, ma non ha mai accettato le quote di immigrati da ricollocare.

Le elezioni si decideranno su due temi: immigrazione e sicurezza da un lato, economia dall’altro. In entrambi, il modello di Orban appare vincente: l’Ungheria ha difeso la frontiera terrestre dell’Unione, così come l’Italia sta difendendo la frontiera mediterranea, in ogni caso nell’assenza dell’Unione. Ancora più evidente, il successo della politica economica di Orban, in questo caso davvero incontestato: l’Ungheria segna il tasso di crescita più elevato d’Europa, con la stessa ricetta che era nel nostro programma elettorale, purtroppo dimenticato dalla Lega quanto sottoscrisse il suo Contratto di governo: flat tax al 15 per cento; tassa massima su impresa 9 per cento, se reinveste gli utili solo il 4,5; la disoccupazione è sotto al 4 per cento, cioè sotto alla soglia fisiologica, e quindi la piena occupazione è già raggiunta; il reddito ungherese aumenta del 10 per cento l’anno: c’è una forte politica di sostegno alle famiglie e alla natalità. Il Sole 24 ore ha appena scritto che un’impresa italiana al giorno va in Ungheria. Mentre noi siamo in recessione quello è il modello che funziona: l’economia sarà un tema più importante dell’immigrazione. Anche Salvini dovrà rivedere i suoi conti.

 

*Intervista di Stefano Vespa con Adolfo Urso pubblicata su Formiche

Fitto: la destra in Europa nel gruppo decisivo

“Il Gruppo dei Conservatori Riformisti sarà decisivo per qualsiasi alleanza futura nel Parlamento     Europeo”: è quanto ci dice subito l’On. Raffaele Fitto  che abbiamo incontrato nella hall di un albergo romano appena rientrato dai sui numerosi impegni per l’Italia in vista delle prossime elezioni europee, per parlare della nuova sfida che Fratelli d’Italia lancia nell’area del centro-destra italiano per un nuovo soggetto politico conservatore e sovranista.

On. Fitto a Foggia insieme con FDI avete dato vita a un patto sancito dallo slogan “Insieme per Cambiare l’Europa”. E’  un semplice patto elettorale o un progetto politico molto ambizioso per la destra italiana? Ci può spiegare il senso politico vero e gli obbiettivi di questo patto federativo?

Se avessimo fatto un semplice patto elettorale avremmo fatto una cosa sbagliata e giustamente le critiche avrebbero un senso invece Giorgia Meloni a settembre a lanciato, nella tradizionale festa di Atreju, un messaggio per dare vita a un nuovo soggetto politico e in questo contesto noi siamo stati i primi ad accoglierlo perché siamo convinti che bisogna cambiare completamente marcia a questo centro-destra per avere un nuovo centro-destra che non guardi al passato ma che invece guardi al futuro. Tutto questo è reso credibile anche dai passaggi internazionali che ci sono stati in questi mesi. Giorgia Meloni subito dopo, a Bruxelles, ha aderito al gruppo dei Conservatori Riformisti che è la terza grande famiglia politica europea e questo a mio avviso è stato un passaggio molto importante. Inoltre, proprio oggi (21.02 per chi ci legge) ci sarà a Roma il Consiglio del Partito dei Conservatori Riformisti che approverà l’ingresso di Fratelli d’Italia nel partito, proprio come conseguenza dell’adesione al gruppo del parlamento europeo. A seguire daremo una pubblica manifestazione con i vertici del partito di cui sono il vice-presidente. Il fatto che domani il Consiglio del partito con trenta delegazioni di 30 diversi paesi sia a Roma per accogliere Giorgia Meloni all’interno della grande famiglia dei conservatori penso che sia un segnale chiaro che dia anche l’idea di quanto sia credibile e di prospettiva il ragionamento che noi stiamo mettendo in piedi per dare vita ad un soggetto conservatore e sovranista che sia nelle condizioni di avere più forza e credibilità in Europa difendendo le ragioni del nostro paese. Aggiungo solo che il gruppo dei Conservatori sarà inevitabilmente decisivo per qualsiasi alleanza futura nel parlamento europeo. Quindi essere parte di questa famiglia europea significa per noi essere in grado di incidere in modo ancora più forte a  tutela delle posizioni del nostro paese.

Quindi i rapporti di contatto con il gruppo Visegrád su cui FDI ha fatto un buon lavoro, potrebbe prospettare anche una sorta di “internazionale sovranista” secondo lei?

Nel gruppo di Visegrád chiaramente ci sono partiti che hanno posizioni politiche simili ma che sono collocati in gruppi europei diversi. Caso più emblematico è Orban che è collocato nel partito Popolare Europeo. Detto questo Fratelli d’Italia con questo nuovo progetto entra in una dimensione che oggi è più che consolidata a livello europeo e che quindi può rafforzare queste posizioni dialogando con questi partiti e provando a costruire, dopo il 26 maggio, un’alleanza che auspicabilmente veda il Partito Popolare abbandonare questa attuale maggioranza esistente in Europa aprendosi ad un rapporto con le altre realtà a partire da noi Conservatori e anche con gli altri gruppi che dovessero costituirsi alle nostra destra.

La prossima campagna elettorale europea probabilmente per la prima volta dopo nove tornate elettorale pone questioni realmente di politica europea e le prime dispute sembrano essere tra due modelli rappresentati da Salvini da un lato e da Macròn da un altro. Quale ruolo quindi per i Conservatori Riformisti nella prossima competizione elettorale? E quali i temi chiave della tornata elettorale europea?

Io capisco che c’è una semplificazione giornalistica nel dare l’idea che c’è da una parte Salvini e dall’altra Macròn ma non è così. Penso invece che da un lato sicuramente ci saremo noi con un ruolo certo perché il gruppo dei Conservatori è innanzitutto il terzo gruppo al parlamento europeo, è presente in diciotto paesi diversi, ha un partito che è presente in trenta paesi, ha una sua credibilità, ha un programma serio e credibile e credo su queste basi solide ci sia una buona  prospettiva di crescita. Poi per carità verificheremo il consenso che non mancherà per Salvini e ci si confronterà su questo. Se però guardiamo anche il giusto “movimentismo” di Salvini per trovare una collocazione europea, questo ci dà l’idea di quanto sia rilevante questo aspetto e noi oggi non dobbiamo girare per l’Europa per trovare una collocazione. Noi oggi abbiamo una collocazione netta e questo dà molta forza al nostro progetto politico.

La Lega di Salvini sembra essere un perno fondamentale della prossima Europa che uscirà fuori da queste elezioni. Ma resta il nodo di questa anomalia che di fatto pone la Lega al governo con chi corteggia, salvo poi smentire, chi invoca colpi di stato come il caso dei gilet gialli. Inoltre, in molte regioni il Centro-Destra rappresenta una formula vincente confermata anche in Abruzzo e i sondaggi ci indicano che anche in futuro questa coalizione è destinata a vincere. Alla luce di questo Lei che idea si è fatto di questa anomalia? E cosa pensa rispetto alla possibilità da parte della Lega di fa cadere il governo dopo le europee?

La Lega farà le sue valutazioni e noi non staremo ad aspettare cosa faccia rispetto al governo. Il dato è semplice: la politica estera di questo paese è semplicemente imbarazzante. Non mi vengono altri termini. A partire dalla posizione sul Venezuela, al rapporto dei cinque stella con i gilet gialli e potrei continuare. Quindi questo è sicuramente un tema imbarazzante.Ritornando poi alla Lega, oggi si trova in una posizione che non penso possa reggere molto. Ha dato vita ad un governo, ha una sua crescita oggettiva impugnando la bandiera dei temi identitari, dall’immigrazione alla sicurezza, temi sui quali anche noi ci riconosciamo e su questo ha lucrato molto consenso. Dall’altra parte, però, adesso rischia di iniziare a condividere con l’alleato di governo i temi di carattere economico come ad esempio la sciagurata idea del reddito di cittadinanza, le previsioni non di mancata crescita ma di decrescita che il nostro paese avrà nei prossimi mesi, le politiche economiche per gli investimenti. Penso alla vicenda TAV che le racchiude in un modo abbastanza clamoroso. Tutte questo insieme di cose ed altre ancora, danno l’idea chiara di quanto siano totalmente sbagliate e distanti dal programma del centro-destra le politiche economiche che questo governo porta avanti. Credo che l’elettorato della Lega nel Nord del paese in particolare, comincia ad essere in movimento e comincia anche a manifestare un dissenso netto rispetto a queste scelte. Dal canto nostro osserviamo ma andiamo avanti perché dobbiamo dare vita ad una nuova formazione politica che sia nelle condizioni di poter essere il perno della ricostruzione del centro-destra e poter andare ad elezioni su un programma chiaro, coerente, convinto e non certamente con un “pastrocchio” che sui temi economici rischia di far andare a sbattere il nostro paese nei prossimi mesi.

La sfida elettorale al cosiddetto “contratto di governo” sembra lanciata!

 

Intervista di Mario Presutti con Raffaele Fitto, vicepresidente del gruppo Conservatori e riformisti