Identità e made in Italy. Un Paese come un brand

Nell’epoca della globalizzazione si parla sempre più di made in Italy. Tutto quello che viene prodotto in Italia rappresenta un brand riconosciuto a livello mondiale. Un marchio, quello del made in Italy, sinonimo di alta qualità, tradizione di famiglia, artigianalità, ma anche lusso ed esclusività. Parliamo di abbigliamento, scarpe, e più semplicemente di cibo e vino delle nostre bellissime regioni. Ma non solo. Il prodotto italiano fa riferimento anche ai servizi e riguarda l’industria turistica e il marketing territoriale. I nostri tour eno-gastronomici, il nostro patrimonio artistico-culturale e le tradizioni locali si vendono in tutto il mondo.

Un brand che rappresenta il suo modo di vivere, la sua storia, le sue radici culturali. La vocazione manifatturiera italiana è talmente apprezzata al mondo, da far considerare il Made in Italy uno dei brand più importanti a livello globale.

Ma c’è un modo per misurare la percezione del Made in Italy nel mondo?

Il Best Countries Report, redatto dallo US News & World Report, il BAV Group e la Wharton School of the University of Pennsylvania attraverso dei parametri quali quantitativi cerca di dare un valore a questo intangible asset.

Tale report misura il Made in Italy calcolando il valore di mercato dei 30 brand italiani più importanti, cercando di estrapolarne i punti di forza.

Nel Best Countries Report 2020, relativo all’anno 2019, l’Italia è considerata al 17° posto su una classifica di 80 Paesi. Rispetto al 2017, quando ricopriva il 15° posto, è stata superata da Singapore e Cina. Ciò che non avrebbe aiutato la posizione internazionale dell’Italia sarebbe stato, in primis, la forte instabilità politica. Quest’ultima caratteristica, strutturale nella nostra Repubblica, negli ultimi anni avrebbe determinato una crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi sviluppati. Tale fattore, insieme alla disoccupazione e al calo demografico, costituiscono gravi fonti di preoccupazione da un’ottica internazionale. A livello globale, i principali brand italiani vengono percepiti come garanzia di qualità, autenticità e stile. Questi brand fanno però riferimento ad un gruppo ristretto di imprese grandi, agili e interconnesse con una fitta rete di altre imprese di piccole/medie dimensioni. In particolare, si fa riferimento ad imprese guidate da un forte spirito imprenditoriale e caratterizzate da innovazione, internazionalizzazione e focus sulla costumer experience.

Nel 2020 il valore del brand Italia è stimato circa di 1.776 miliardi di dollari (-15,8% rispetto al 2019). Le prime 100 nazioni avrebbero perso 13.100 miliardi dollari di valore per via della pandemia.
Dall’analisi di Brand Finance traspare che vi sono alcune imprese italiane molto abili nello sfruttare la propria immagine. Ad eccezione di settori specifici come lusso, moda, design e food, il Made in Italy sembra avere un’immagine meno forte del Made in Germany, in Usa e in France.

La debolezza del brand Italia dipenderebbe per Brand Finance principalmente dalla difficoltà di fare business, dalla gestione della cosa pubblica e dalla qualità della comunicazione di privati e imprese.
A livello globale, USA, Cina, Giappone, Germania e Regno Unito risultano i brand nazionali a più alto valore aggiunto. La Cina continua a colmare il divario con gli USA; il marchio Cinese varrebbe 18.800 miliardi di dollari contro 23.700 miliardi di quello statunitense.

Ma nonostante ciò e le acquisizioni che hanno interessato il brand, il proliferare di nomi italiani nel mondo, il vero made in Italy resta ancora molto forte e riconosciuto a livello globale. La ragione è legata al concetto di rarità del brand. Le nostre materie prime sono spesso di rara qualità e si trovano solo in determinate aree geografiche (pensiamo ai nostri vini o al nostro olio). Lo stesso concetto di rarità lo ritroviamo nelle skills delle risorse umane: i lavoratori delle nostre aziende sono tecnicamente preparati, con competenze uniche e difficilmente imitabili. Sarà anche per questo che molti marchi di moda italiana hanno la loro scuola dove formano sarti e modellisti.

La strategia per mantenere positiva la percezione del Paese diventa ancora più cruciale durante la pandemia da Covid-19. Alcuni esperti suggeriscono l’istituzione di un team specifico che dovrà gestire l’immagine dell’Italia nel periodo post-crisi. Quest’ultimo non dovrà limitarsi ad un’ottima comunicazione, ma dovrebbe condurre analisi di marketing e finanziarie per stabilire lo stato attuale del marchio Italia. Attraverso tali dati, occorrerà difatti identificare i fattori su cui focalizzare la strategia con relativo impatto economico, tenendo conto dei costi e dei ritorni sugli investimenti.

Noi abbiamo tradizionalmente avuto difficoltà a fare sistema, cioè mettere a disposizione delle imprese strumenti di formazione per stare sul mercato; sistema significa mettere a disposizione delle imprese risorse e strumenti per l’innovazione e la ricerca, perché nella competizione globale un paese a costo del lavoro mediamente alto come l’Italia vince soltanto se punta sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione.

Il “Made in Italy” è un elemento centrale dell’identità culturale di questo paese.  C’è uno spessore di professionalità, di know-how, di sapere, di lavoro, di innovazione, di ricerca, di qualità, di straordinario valore. L’Italia deve essere molto più consapevole della forza economica, sociale e culturale che esprime come paese dell’estetica, del gusto, del design, dell’immagine, della identità e della storia che l’hanno da sempre accompagnata.

*Giuseppe Della Gatta, analista finanziario

Le nuove rotte sono sul Pacifico

Questa pandemia sta portando e ha portato con sé innumerevoli cambiamenti all’interno del contesto mondiale. Oltre ad aver stravolto radicalmente rapporti sociali e lavorativi, ha fatto venir meno un dogma: l’Occidente come centro del mondo. Un mondo, appunto, che ruotasse intorno all’Europa, ai suoi retaggi, alle sue tradizioni e molto spesso intorno anche ai suoi capricci.

Questa pandemia ha acceso riflettori su aree geografiche ben lontane da questo Occidente. Questa luce, sta illuminando aree rimaste prive di attenzione, isolate da molto tempo.

Tutto ciò sta facendo intravedere scenari geopolitici ben differenti rispetto a quelli solitamente visibili.

L’attenzione si sta spostando inevitabilmente sull’area Indo-pacifica ed in particolare modo sull’Oceano Pacifico. Ne è testimone il Quadrilateral Securityy Dialogue, in breve Quad, che dimostra come quattro paesi, Giappone, Australia, India e Stati Uniti, stiano collaborando per opporsi con decisione ai tentacoli della Belt and Road initiative dell’Impero Celeste.

Gli equilibri si stanno spostando e mutando, diversamente dalla prima guerra fredda, con estrema velocità.

Ne è esempio, il pubblico sberleffo che il Presidente indiano, Narendra Modi, manifestò alla Cina, dopo che bloccò con l’esercito la costruzione di infrastrutture promosse dai cinesi in Bhutan. Il tutto si risolse in modo pacifico, ma la contrapposizione non finì li. Sulle coste del Mar d’Arabia, infatti, si presentò Shizo Abe, presidente giapponese, con il quale Modi stipulò un accordo sugli Shinkansen, i treni ad alta velocità, l’agreement oltre ad essere un progetto ferroviario era un chiaro manifesto attraverso il quale la seconda e la terza potenza economica asiatica cercano un legame sempre più stretto, per contenere l’avanzata della prima e programmi – “imperialisti” agli occhi di Tokyo e Nuova Delhi – come la Nuova Via della Seta, promossa dalla Cina.

Tale intesa si sarebbe tradotta successivamente nel Quad. Nel quale entrarono, in un secondo momento, anche Usa e Australia. Quest’ultimo si staglia fortemente contro l’ultimo accordo internazionale promosso dalla Cina, al quale l’india si è prontamente sfilata all’ultimo.

Tale accordo, il RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership, è l’accordo commerciale più grande della storia, contando oltre un terzo della PIL mondiale e ben quindici stati (Cina, Indonesia, Cambogia, Brunei, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Sud Corea, Tailandia, Vietnam, Giappone, Australia e Nuova Zelanda.

Entrambi gli accordi dimostrano come l’attenzione della geopolitica internazionale si stia spostando in questa area strategica e direttrice commerciale fondamentale. E anche se Wang Yi, ministro degli esteri cinese, definì il Quad “schiuma di mare”, Tokyo ha incrementato la politica di aiuti allo sviluppo, oltre 15,5 miliardi di dollari nel 2019, e ancora, Abe si è fatto garante di promuovere la Transpacific Partnership (TPP), accordo commerciale con 11 paesi del bacino del Pacifico. Ribadendo come il Quad sia ‘’il diamante della sicurezza democratica in Asia” e dimostrando la vocazione imperiale concorrenziale a quella della Cina.

Ciò denota come gli Stati Uniti rafforzeranno l’alleanza con l’India e ancor di più con il Giappone. Dando così, una priorità all’Asia, abbassando il valore strategico dell’Unione Europea.

Alla luce di ciò merita riflettere sul ruolo geopolitico e strategico europeo; se effettivamente questo spostamento dell’asse commerciale e strategico si concretizzasse all’interno del Quad, che destino attenderà l’Europa?

L’Europa sarà pronta a rispondere in modo compatto a questo cambiamento e a dimostrare all’America che solo un’intesa euroamericana ha la forza di bilanciare il potere cinese?

Solo un’Europa unità potrà veramente contare qualcosa nel prossimo futuro, ahimè attualmente questo sembra solamente un sogno o quanto meno un’idea ancora, purtroppo, molto lontana.

Ma se l’Europa non vuole essere schiacciata dai due iceberg che si stanno stagliando sull’orizzonte europeo, sarà bene che si sbrighi a cambiare rotta, sempre che non voglia far la fine del Comandante Edward John Smith.

*Riccardo Maria Vitali Casanuova, collaboratore Charta minuta