Libia, Afghanistan…fallimento del modello “state building”?

Con questo articolo di Emmanuel Gout sul futuro dell’Europa, continua la collaborazione tra la Fondazione Farefuturo e la Fondazione francese Geopragma . Gout è nel Comitato scientifico della nostra Fondazione e membro del COS in Geopragma. 
L’articolo viene pubblicato in contemporanea dalla due fondazioni. 

Il Ministro degli Affari Esteri Di Maio aveva, ad inizio agosto, appena concluso il suo viaggio diplomatico in Libia per tentare di ridare all’Italia un ruolo da protagonista, quando, molto più ad oriente, precipitava la fine del regime afghano. Poco più di due settimane dopo fuggiva di fatto il presidente Ghani – ultima marionetta americana – una fuga meno discreta del re Luigi XVI…

Poco in comune però tra la rivoluzione francese portatrice di ideali di libertà e di diritti, e il regime talebano che avevamo potuto osservare anni fa, come parentesi Jihadista , tra l’invasione sovietica e lo sbarco americano dell’inizio secolo. Sono tornati, forse diversi – sarà da giudicare sui fatti – e il capo del partito dello stesso ministro degli affari esteri, Conte,  invita al dialogo con questa possibile nuova versione talebana, versione XXI secolo.

In premessa, non c’è dubbio che un “fondamentale” della diplomazia è di mantenere il dialogo, un filo conduttore con tutti, in particolare con i potenziali nemici. In tal senso, Conte ha probabilmente ragione, come lo fanno Cina, Russia, Emirati…che mantengono la loro ambasciata…ma la vigilanza e la coerenza con i propri valori devono essere una priorità nel stabilire o mantenere il dialogo.

Certo che la storia afghana è soprattutto la storia di un fallimento, quello dello “state building”, una versione politically correct della colonizzazione. Si prendono modelli e principi occidentali, politici, culturali, religiosi, economici e si pensa potere applicarli dovunque senza pensare alla realtà delle identità e dei popoli, convinti di un potenziale “tutto si compra”. Già la tappa successiva si mette in ordine di marcia, e mentre la fuga è in atto, fioriscono le minacce di prossime sanzioni, di privare il paese di una banca centrale e così di far valere la nostra forza di convincimento, ormai umiliata, fallita sul terreno. L’analisi dei benefici – illusori – del sistema “sanzione” dovrebbe invece spingerci ad identificare altre vie a supporto delle nostre politiche internazionali.

Peggio, sono centinaia di miliardi andati in fumo – non per tutti – e soprattutto centinaia di vita di soldati europei e americani che oggi si domandano perché sono morti. Domani saranno nuovi flussi migratori in Europa – certo non finiscono negli USA – flussi che interpellano doveri umanitari e capacità del nostro vecchio continente a gestire questa crisi.

In Afghanistan, il sistema “tribale”, di “clan”, di etnie,  sono una componente essenziale del paese, in Libia il sistema tribale è LA componente del paese. In Afghanistan era nato un embrione di stato, fantoccio e corrotto, ma  la progressiva urbanizzazione della società consentiva premesse di cambiamenti culturali, in particolare per le donne.

In Libia non esistono tradizione di uno stato articolato, strutturato e lo stesso Gheddafi sapeva di dover gestire le diverse realtà tribale per meglio presidiare il paese e la “sua rivoluzione”. La Libia è rimasta lacerata dell’intervento voluto dalla presidenza Sarkozy. Oggi in alcun casi le tribu sono diventate mafie locali che “gestiscono” il dramma dei flussi migratori.

In Afghanistan, gli USA, aprendo direttamente negoziati con i taliban – senza alcun rappresentanza del loro neo stato afghano – hanno consegnato di fatto il paese ai talebani (tra l’altro anche le armi), sostenuti dal Pakistan. Ci sarà sicuramente da riflettere sulla gestione americana dell’Afghanistan, dalle torri gemelle ad oggi.

In Libia, oggi sul terreno diplomatico, dopo l’ultimo tentativo fallito del maresciallo Haftar di prendere Tripoli, i protagonisti sono più i Turchi e i Russi, che gli Italiani o i Francesi. Si profilano elezioni programmate dal mondo occidentale per fine anno. Lo stesso Haftar corre dietro alla riconquista di una legittimità internazionale, validando il processo delle elezioni caldeggiate dal suo rivale di Tripoli.

In Afghanistan, si profila l’organizzazione di una possibile resistenza, dal numero due di Ghani al figlio di Massud; c’è da scommettere che il fossoyeur della Libia, Bernard Henri Lévy, si farà, insieme a quest’ultimo,  presto fotografare.

La lezione viene quindi di non credere che la nascita di un stato non radicato, improvvisato,  possa essere una garanzia per l’occidente e per i diritti stessi delle persone.

L’Italia è davanti una sfida quasi epocale della sua diplomazia: paesi che hanno avuto legami stretti con l’Italia, parte della Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia e in fine come già detto la Libia sono in situazione di forte instabilità: conflitti, elezioni, crisi economiche, migratorie… Non bastano le diplomazie dell’ENI o di Leonardo, occorre che l’Italia, paese della cultura degli equilibri possa ritrovare un ruolo da protagonista, lontano da manicheismi distruttori o di soli interessi economici. 

L’Italia, alleato fedele degli USA, ha sempre saputo mantenere un legame forte con la Russia. Dispone quindi di una storia diplomatica in grado di potere pensare ad un suo rinascimento, solo se la quotidianità della politica italiana potrà lasciare spazio ad una nostra visione della diplomazia e i principali protagonisti essere all’altezza del ruolo dell’Italia nel mondo.

*Emmanuel Goût, componente il Comitato scientifico Fondazione Farefuturo e componente del COS in Geopragma

 

Negri: l’Italia ha perso ogni peso politico internazionale

Raggiungiamo telefonicamente Alberto Negri senior advisor sul Medio Oriente e Nord Africa dell’ISPI per capire come l’Italia abbia reagito nei confronti del vertice di Abu Dhabi tra al-Sarraj e Haftar.

 

L’attivismo della Francia rischia di isolare l’Italia. È di pochi giorni infatti l’annuncio dell’ONU sull’accordo tra al-Sarraj e Haftar sulle elezioni. Lei crede siamo arrivati davvero alla svolta in Libia?

Credo che dobbiamo partire da una considerazione: all’attivismo della Fracia corrisponde quasi sempre una passività dell’Italia basti vedere che nelle settimana precedenti quando il generale Haftar ha preso il controllo dei pozzi dell’ENI nel Sud della Libia, nessuno qui ha fatto neanche una dichiarazione come se fosse un non evento. Chiaramente la passività italiana conduce a delle svolte. L’Incontro di Abu Dhabi che c’è stato tra al-Sarraj e Haftar è il primo e probabilmente ci sarà un altro incontro a Parigi.  In questo incontro negli Emirati, non sono state indicate le date dell’elezioni e questo significa che forse Haftar ha ancora spazi di manovra per guadagnare ulteriore terreno. Bisogna però capire anche quali sono i progetti di Haftar e della Francia. Se il loro progetto è arrivare a un compresso con Serraj questo è possibile. Ma probabilmente non è tanto semplice con le altre fazioni di Tripoli. Non è detto che i francesi in qualche modo vogliano arrivare ad un accordo con Sarraj che escluda le altre fazioni per poi avere campo libero di dare il via libero ad una vera e propria azione militare anche nei confronti della capitale libica.

 

L’Italia e il suo rapporto, a volte privilegiato, con le tribù libiche è sempre stato considerato un nostro vantaggio in questo Paese. Lei pensa che il nostro governo abbia giocato bene le sue carte ?

Da quando è scoppiata la questione libica nel 2011, sento in Italia sempre lo stesso ritornello: siamo il paese più informato sulla Libia. Strano però che quando fu deciso il bombardamento della Libia nel 2011 nessuno ci abbia fatto neppure una telefonata. Talaltro fu presa una decisione fatale perché dopo i bombardamenti franco-inglesi e statunitensi non  ci siamo limitati in qualche modo a contenere i danni ma ci siamo addirittura accodati ai bombardamenti della NATO. Quindi dire che abbiamo dei rapporti privilegiati oggi, sembra anche un po’ paradossale, quasi ironico. Noi eravamo il Paese che aveva il miglior rapporto con Libia. Eravamo il suo principale partner commerciale. Avevamo l’interfaccia con Gheddafi. Ma allo stato attuale dire che abbiamo un rapporto privilegiato con Libia mi sembra abbastanza limitante, forse anche ottimistico. A Tripoli non va dimenticato che non ci siamo solo noi come potenza straniera, e ciascuna di esse fa il suo gioco come ad esempio la Turchia. Senza considerare che l’ascesa del Generale Haftar ci ha in un certo senso, confinati con un governo tripolino che pur essendo riconosciuto dalla comunità internazionale in realtà nelle mani di Saraj è una sorta di ectoplasma.

Dalla nostra ex-Colonia oltre ad arrivare buona parte del nostro fabbisogno energetico, arrivano anche numerosi clandestini. Lei pensa che con le annunciate elezioni la situazione umanitaria possa migliorare?

Diciamoci la verità. Sulle elezioni non c’è ancora nessun accordo sulla data e non sappiamo neanche il modo con cui saranno svolte. Ho l’idea che questa sia una dichiarazione più politica che non effettiva. In realtà il flusso dei migranti si è fermato con la misura della chiusura dei porti. Che ha in qualche modo contribuito a rallentare il fenomeno. Un provvedimento che naturalmente è stato giudicato dalle parti politiche in maniera molto diversa a volte opposta. Forse non è una soluzione perché noi siamo come Italia a capo di quella famosa Operazione “Sophia” che prevede tra l’altro perfino incursioni a terra sulla costa libica per contrastare il traffico dei migranti. Ne ha vista qualcuna lei? Io non ne ho mai vista nessuna! Come sempre quindi, noi usiamo un atteggiamento difensivo, calcolatorio del problema dei migranti ma non attacchiamo l’origine del problema. Questo infatti, non è un problema soltanto italiano ma di tutta l’Europa. Inoltre ritengo che sia inaccettabile avere dei campi profughi in Libia che sono dei veri e propri lager. Questo è un problema che si riproporrà periodicamente per noi e per tutta la comunità internazionale. Anche perché è bene ricordarlo a otto anni dalla caduta di Gheddafi, la Libia non ha ancora riconosciuto la convenzione di Ginevra sui rifugiati. Questo significa che chiunque entra in territorio libico, anche se ha diritto alla protezione umanitaria, è automaticamente considerato un clandestino. Quindi l’Italia e tutta la Comunità Internazionale dovrebbero premere perché la Libia aderisca a questa Convenzione Internazionale.

 

Quali spazi di manovra oggi per il nostro Governo per garantire nono solo la sicurezza energetica ma sopratutto la sicurezza nazionale che è a rischio visto il caos libico?

I nostri governi, non soltanto questo, hanno fatto quello che potevano fare sul fronte dei migranti cercando di tamponare l’effetto di una delle più devastanti ondate migratorie che si siano mai viste nel Mediterraneo dal dopoguerra in poi. Da questo punto di vista i governi italiani stanno lavorando e hanno lavorato. Ma il problema è un altro: L’Italia ha perso ogni peso politico internazionale. Quindi non è più in grado di indirizzare, in qualche modo, quello che accade oggi in Libia. La cosa è stata evidente anche dopo il vertice EU-Lega Araba di Sharm el-Sheikh, Praticamente il generale al-Sīsī (presidente dell’Egitto) è stato investito del ruolo di custode del Sud del Mediterraneo. Con il quale però il nostro Paese è in rotta di collisione per il caso Regeni. Ma anche sulla Libia essendo al-Sīsī, sostenitore di Haftar ed interessato ad avere un’influenza molto estesa in Cirenaica. Quindi noi non affrontiamo solo la Francia nel rebus libico. Oltretutto non affrontiamo quello che è il problema fondamentale. In Libia non c’è solo il problema delle risorse energetiche, il problema è la questione politica. Infatti l’avanzata di Haftar sostenuta dal fronte Russia-Francia-Egitto significa che si punta a quei “fratelli mussulmani” e a quei gruppi islamisti che sono molto attivi in Tripolitania e nella stessa capitale. Perché questi sono risultati perdenti dalle “Primavere Arabe”. Quindi un vasto fronte internazionale vuole eliminarli definitivamente dall’area. Questo è il problema politico. In Libia non c’è soltanto un problema di migranti, di petrolio ma c’è anche questo problema prettamente politico che l’Italia evita di affrontare ed esaminare.

 

L’Italia decidendo di non affrontare i nodi politici all’origine della questione libica rischia nuovamente di ritrovarsi al seguito di accordi fatti da altre potenze. Ricordiamo che la Fondazione Farefuturo ha organizzato un meeting giorno 5 marzo prossimo, di approfondimento dal tema “Francia VS Italia: addio Libia?”. Sarà certamente un’occasione importante per approfondire questi temi complessi ma che riguardano la nostra sicurezza nazionale.

*Intervista con Alberto Negri senior advisor Ispi, di Mario Presutti, collaboratore Charta minuta

 

 

Francia vs Italia: addio Libia?

La Conferenza di Palermo sulla Libia è stata celebrata dal Premier Conte come un grande successo italiano per la stabilizzazione della nostra ex Colonia. Ma è davvero cosi? Dalle ultime notizie si potrebbe dire che la Total avanza mentre l’Italia guarda!

In Libia non è solo in gioco il prestigio internazionale dell’Italia e la tutela degli interessi delle tante società che operano nel territorio libico ma è in gioco la nostra sicurezza nazionale. Lo scontro tra due governi rivali: uno guidato dall’uomo forte della Cirenaica Haftar, sostenuto dalla Francia nonché dalla Russia e dagli Emirati Arabi, l’altro il cosiddetto Governo di Accordo Nazionale, sostenuto dall’ONU e dal governo Italiano, presieduto da Fayez al-Sarraj ha trasformato questa area in un centro di anarchia in prossimità delle coste italiane. Tale situazione dovrebbe suggerire al nostro governo di considerare ogni opzione sul campo.

Ma facciamo un passo indietro. Anzi due. La Libia come entità statuale è una creazione recente essendo sorta dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il Paese sotto la guida del re Idris I al Senussi prese le sembianze di una monarchia costituzionale a “ispirazione federale”, confermando il ruolo delle tribù quali autorità politiche a livello locale. Ma a causa della neutralità assunta dal monarca nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni, alla fine si giunse  ad un colpo di Stato militare guidato da Gheddafi, che portò alla proclamazione della Repubblica. A sostegno del nuovo regime intervenne Gamal Nasser e il suo Egitto che mandò i sui funzionari a partecipare attivamente alla riorganizzazione dello stato libico. Ne uscì un’organizzazione fortemente centralizzata, ideologizzata  con l’obbiettivo di rivoluzionare la struttura tribale del potere nel Paese. A tale scelta interna corrispose sul piano internazionale la ricollocazione della Libia sul fronte del panarabismo, che mise fine alla politica filo-occidentale della fase monarchica.

Per consolidare la legittimità del suo potere, Gheddafi rinfocolò l’ostilità anti-italiana, essendo questo un tema di riscossa molto gradito a tutti i gruppi tribali del Paese. A questo seguì un caso unico nei rapporti di un Stato europeo e una sua ex colonia: l’istituzione della “giornata della vendetta”, che sanciva la commemorazione annuale dell’espulsione degli italiani, e la rivendicazione di un nuovo risarcimento per i danni arrecati alla Libia a partire dal 1911. Tra sfide plateali e trattative sottobanco con Roma il Colonnello continuò a consolidare il suo potere interno  e sebbene teorizzò lo smantellamento della società libica tradizionale fu molto attento nel compensare il primato delle tribù della Tripolitania nelle posizioni di governo e negli apparati amministrativi redistribuendo anche una discreta ricchezza con i sussidi statali che elargiva su tutto il territorio. Dopo la fase calda del 1969-1970, fecero seguito le intese stipulate dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti nel 1972, che garantirono il ritorno di alcune società italiane in territorio libico. La funzione “stabilizzante” della Libia di Gheddafi non fu mai rinnegata dal governo italiano neanche durante la crisi diplomatico-militare del 1986. Dopo questo evento, la Libia rimase sostanzialmente isolata e trovò nell’Italia il suo unico interlocutore occidentale. Il primo tentativo volto a chiudere definitivamente il contenzioso ereditato dall’epoca coloniale fu avanzato dal primo governo di Romano Prodi nel 1998 anche se non fu mai ratificata dal parlamento perché non prevedeva alcun cenno ai beni confiscati agli italiani nel 1970. Come si può notare un elemento di continuità della nostra politica estera è sempre stata avere una “relazione privilegiata” con la nostra ex colonia. Nel 2003 con l’incontro del presidente Silvio Berlusconi ci fu la svolta nelle relazioni tra Libia e Italia. Accordi poi confermati dal secondo governo Prodi e ribaditi anche in un incontro del novembre 2007 tra il ministro degli Affari esteri Massimo D’Alema, il suo omologo Abdelrahm Shalgam e il rais.  All’intensificarsi delle relazioni politiche seguirono anche l’intensificarsi dei rapporti commerciali ponendo l’italiana ENI in una posizione di forza difficilmente attaccabile nel settore del gas libico.

Nel 2011, poi, abbiamo assistito inermi alle cosiddette “Primavere Araba” che di primavera alla fine non ebbero quasi niente. Quella libica in particolare si caratterizzò subito con connotati distinti. Infatti i clan opposti ai Gheddafi sostenuti dalla Francia in particolar modo ma anche da UK, Turchia, Qatar, Emirati Arabi e  alla fine anche dalla Clinton cavalcarono l’effetto snowballing delle proteste indotte e si riunirono in un Consiglio Nazionale di Transizione. Gheddafi alla fine fu ucciso il 20 ottobre catturato solo grazie ai bombardamenti francesi. La Francia infatti, si appellò al “principio di ingerenza umanitaria” formulato nel 1999 per la missione in Kosovo, per bombardare il Paese. Inoltre gli Stati Uniti con la presidenza Obama spostarono l’attenzione dal Medio-Oriente al quadrante Asia-Pacifico con il “pivot to Asia” e lasciarono di fatto campo libero ai loro alleati nelle zone non considerate più strategiche. L’Italia nel periodo compreso tra febbraio e l’aprile 2011 ebbe un atteggiamento orientato alla prudenza. Questo tentennamento italiano si confrontò e scontrò con l’atteggiamento spregiudicato della Francia e dell’UK  che portò alla fine una guerra civile a 300Km da Lampedusa. L’ONU varò a quel punto la missione “Usmil” nata con l’obbiettivo di stabilizzare il paese e traghettarlo verso un rilancio economico. Nel frattempo il nuovo inquilino della Casa Bianca, Trump, non offrì alcuno appoggio concreto, se non di facciata, al presidente al-Sarraj che di fatto ha avuto difficoltà persino a controllare la capitale Tripoli. La posizione del governo italiano è quella di continuare a sostenere il Governo di Accordo Nazionale presieduto da al-Serraj così come confermato dal Premier Conte in questi giorni, a Sharm el-Sheik a margine del primo summit UE-Lega Araba. Sul campo però, la situazione ci sta sfuggendo di mano.

E’ notizia del 12 febbraio che l’Esercito Nazionale Libico di cui Haftar è comandante, ha annunciato di aver preso il controllo del più importante giacimento petrolifero libico. Dopo aver occupato Sheba, e il campo petrolifero di Sharara, ha occupato anche l’area gestita da ENI “El Feel” senza bisogno di combattere. Haftar sostenuto dalla Russia e dalla Francia sta cercando con il suo esercito di riportare l’ordine nella regione ed ergersi a unificatore della Nuova Libia in vista delle prossime elezioni. Il  momento è molto delicato perché per la prima volta sembra esserci una road map molto concreta: Conferenza Nazionale, referendum e emendamenti costituzionali e infine elezioni. Tutto questo entro l’anno. Le mosse del Generale Haftar rischiano di bloccare tutto questo processo e  rischiano anche di estromettere l’ENI  a favore della francese TOTAL.  Il governo italiano quindi, sembra essere preso in contropiede dalle mosse dell’uomo forte della Cirenaica anche se il nuovo ambasciatore, Giuseppe Buccino, si è messo subito al lavoro incontrando nei giorni precedenti l’inviato dell’ONU, Salamé, e il generale Haftar per colloqui sugli sviluppi della situazione nella regione meridionale del Fezzen. Il problema però è che il Governo di Accordo Nazionale è privo di un reale e incisivo supporto da parte del governo italiano e quindi Haftar continua l’avanzata senza una adeguata resistenza. Si può dire quindi che gli obbiettivi strategici della Francia, che come abbiamo visto nel 2011 iniziò a sottrarre all’Italia l’influenza sulla Libia, sembrano andare avanti senza nessun ostacolo concreto.  Sarebbe opportuno a questo punto che il governo italiano agisca  immediatamente prima che Haftar sfrutti l’imminente Conferenza Nazionale della Libia per mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto. E’ necessario quindi, rendersi conto che l’Italia ha bisogno di garantirsi gli approvvigionamenti energetici (prendiamo dalla Libia 1/5 del fabbisogno petrolifero e 1/3 di quello di gas), ed è necessario mantenere la Libia unita evitando una “balcanizzazione”. L’Italia si trova ad un bivio: o concede un reale supporto, anche strategico/militare,  ad al-Serraj e alle locali tribù Tebu (che sono in ottimi rapporti con l’Italia e sono le uniche che si sono realmente opposte ad Haftar) oppure sarà il caso di cambiare strategia.

Per fare questo il nostro Paese deve necessariamente dialogare con gli attori internazionali che sostengono Haftar e dunque principalmente con la Francia e la Russia. Se con Macròn è attualmente molto complesso immaginare un dialogo non solo per l’atteggiamento che l’Eliseo ha avuto nei nostri confronti fin dal 2011 ma anche visto gli ultimi scontri diplomatici a causa del caso “sui gilet gialli”. Con Putin invece,  potrebbero esserci maggiori possibilità di collaborazione. Le preoccupazioni di una parte degli osservatori, che vedono il coinvolgimento di Putin paragonabile a quello in Siria e del tutto pretestuoso perché Mosca in questo caso, da grande esclusa del dopo Gheddafi, intende solo far valere i propri interessi nell’ambito di una mediazione piuttosto che nel proseguimento di una escalation militare. Si potrebbero sfruttare i buoni e consolidati rapporti con la Russia in funzione anti francese per cercare un obbiettivo comune strategico sulla Libia, e riportare Haftar a più miti consigli. Altro elemento importante è l’alleanza tra i due giganti degli idrocarburi, ENI e Rosneft, che potrebbe esserci molto utile. Per anni ENI con il suo cane a sei zampe, è stata una sorta di monopolista dell’estrazione libica e la Russia avrebbe tutto l’interesse a non andare contro un partner fondamentale per il gas nel Mediterraneo, visto anche l’intreccio egiziano.

Alla luce di questo l’Italia potrebbe sfruttare il suo capitale di fiducia con alcuni attori tripolini  per mediare un accordo intra-libico con Mosca.  In questo modo si potrebbe spingere, grazie all’asse con Putin, la comunità internazionale a stabilizzare il Paese, cosa per noi strategica non solo a tutela dei nostri interessi economici ma anche per impedire un asse fra Mosca e Parigi che per noi sarebbe un colpo durissimo.

Almeno ché l’Italia non intenda inviare soldati a sostegno di al-Saraj è indispensabile trovare subito un accordo diplomatico con la Russia. Se il governo invece continuerà a lusingarsi delle vuote parole di Trump sulla Libia e a non capire il neo-isolazionismo statunitense, allora possiamo dire addio al gas e al petrolio libico e aspettarci con l’arrivo dell’estate nuove ondate migratorie dalla Libia. Infatti sullo sfondo di questo rebus di interessi geopolitici resta la questione migratoria per noi cruciale, sia in termini di ordine pubblico che in termini umanitari, e sulla quale dobbiamo agire con prospettiva e coraggio.

In conclusione, non possiamo sottrarci alle responsabilità che derivano dalla Libia né tanto meno ignorare che in quel Paese c’è in ballo una questione di sicurezza nazionale quindi tutte le opzioni dovrebbero essere prese in considerazione. Il rischio altrimenti, è subire come nel 2011, scelte di altri paesi che evidentemente sono a noi ostili. Ogni riferimento alla Francia è puramente voluto.

*Mario Presutti, collaboratore Charta minuta

 

In Libia – col vuoto dell’Italia – si rischia il caos incontrollato"

Il 27 agosto scorso in Libia è scoppiato nuovamente il caos. La settima Brigata guidata da Salah al-Badi ha attaccato Tripoli, città difesa dalle milizie di Fayez al-Serraj, il cui governo è riconosciuto dall’ONU e appoggiato dall’Italia. L’attacco delle truppe di al-Badi è avvenuto per volontà del generale Khalifa Haftar, comandate della Cirenaica e appoggiato da Egitto e dagli Emirati Arabi, con l’obiettivo di prendere il comando di tutta la Libia.
L’Italia, che insieme ad altre nazioni ha condannato fermamente la ripresa degli scontri, pur essendo storica alleata di al-Serraj, per iniziativa del premier Giuseppe Conte, si è mostrata disponibile ad aprire un dialogo con il generale Haftar, finalizzato a condurre il Paese verso una stabilizzazione duratura prima delle elezioni. Tuttavia il presidente francese Macron, remando nella direzione opposta, spinge affinché il popolo libico voti prima possibile un nuovo esecutivo.
A pochi giorni di distanza dal momentaneo accordo, firmato lo scorso 5 settembre davanti all’inviato dell’ONU Ghassan Salamè, Paolo Quercia, esperto di monitoraggio e analisi geopolitica e di rischio Paese, rispondendo alle domande di Charta Minuta, paventa, in Libia, «il passaggio da un caos controllato ad un caos incontrollato».
Professor Quercia, che cosa sta accadendo in Libia dopo gli scontri di fine agosto? La situazione è stabile dopo l’accordo firmato davanti all’inviato dell’ONU Salamè?
È successo che in Libia sta avvenendo un rimescolamento dei rapporti di forza e delle alleanze, in particolare all’interno dell’ampia e frammentata coalizione che sostiene il debole esecutivo di unità nazionale guidato da Fayez al-Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite e su cui ha puntato anche L’Italia. Rischiamo il passaggio da un caos controllato ad un caos incontrollato. Il processo è ancora confuso e gli esiti incerti: se si dovessero rimettere in gioco gli equilibri di potere, a Tripoli, ciò potrebbe portare al rafforzamento delle componenti più islamiste che sono radicate in Tripolitania ma che sono state penalizzate negli equilibri di governo e nella gestione delle rendite.  Se ciò accadesse potrebbero crescere ulteriormente le divisioni con i secolaristi che hanno il potere in Cirenaica e che sono sostenuti da Egitto e Russia. Ma potrebbe anche semplicemente portare ad un circolo vizioso di instabilità che creerebbe altra instabilità, e il dilagare dei signori della guerra che, nello scenario libico, altro non sono che capi di associazioni criminali.
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha dichiarato che dietro al caos scoppiato in Libia c’è la mano del presidente francese Macron, è vero?
Direi che è vero per quanto riguarda l’inizio del caos, ossia l’intervento contro Gheddafi e contro l’Italia del 2011. Oggi, invece, non credo che i francesi abbiano il controllo della Libia né che abbiano più di tanto la capacità di destabilizzare la situazione. Più che alla Francia guarderei alla debolezza dell’Italia, che non vuole assumersi responsabilità più importanti sulla Libia, nonostante siamo il Paese maggiormente interessato. Vedo questa debolezza come un chiaro segno del declino della politica estera italiana e delle sue ambizioni. È questo vuoto dell’azione dell’Italia che altri paesi concorrenti – e la Francia è uno di questi – possono tentare di sfruttare.
Quale dovrebbe essere l’approccio, anche in chiave commerciale, dell’Italia in relazione alla questione libica?
Sostenere l’unità nazionale, decuplicare gli sforzi per la ricostruzione della guardia costiera libica, investire massicciamente nei centri di accoglienza e rimpatrio dei migranti illegali in Libia in modo che si possano creare dei safe haven sotto controllo UN dove sbarcare coloro che vengono salvati nella acquee SAR libiche. E poi, aprire al dialogo con Khalifa Haftar ed avviare una interlocuzione con i rappresentanti della fratellanza mussulmana, con cui l’Italia ha sempre mantenuto canali sotterranei di contatto. In particolare l’Italia in Libia dovrebbe essere la capofila di quello che io chiamo lo “statebuilding dal mare”, ossia creare meccanismi di blue growth (crescita dell’economia legata ai servizi e ai prodotti del mare e delle sue risorse) adattandoli però ad un contesto di failing state.
Considerate le nuove tensioni in Libia, i flussi migratori potrebbero subire un aumento a discapito dell’Italia?
La questione migratoria è molto complessa. Il governo italiano precedente aveva a lungo lasciato mano libera ai trafficanti, perché – tra le altre cose – questa politica aiutava a stabilizzare la Tripolitania, area di nostro interesse che ha molto beneficiato da questi flussi. Ma ora la situazione è cambiata e quell’approccio è insostenibile, sia perché l’Europa non ce lo perdonerebbe più, sia perché ciò si è rivelato un enorme pull factor ed una grande vulnerabilità per l’Italia. Oggi la situazione è migliorata ma la pressione demografica attraverso la Libia resta enorme; il rischio è che un riacutizzarsi del conflitto romperebbe i precari equilibri e metterebbe a rischio quei progressi che sono stati fatti nell’ultimo anno, anno e mezzo. I traffici organizzati hanno bisogno di una stabilità relativa per funzionare e produrre guadagni molto importanti per i due cartelli che li gestiscono. Il rischio con la situazione attuale potrebbe essere quello di un proliferare di piccoli gruppi di trafficanti e soprattutto l’utilizzo dello strumento migratorio come forma di ricatto verso l’Italia per condizionarne politiche e scelte. Occorre dunque essere estremamente vigili in questa nuova fase fluida che si sta aprendo nella situazione interna libica.

*Alessandro Boccia, collaboratore Charta minuta

Una visione neoconservatrice "continentale" per salvare l’Europa

In un continente e in una aggregazione di Stati quali l’Ue, divenuta oramai amorfa quasi e priva di ogni strumento per affrontare le sfide del presente (figuriamoci quelle del futuro) deve emergere una nuova coscienza, l’unica che potrebbe rimetterla nella giusta carreggiata: un nuovo conservatorismo non nazionale, bensì europeo. Un conservatorismo che tragga le fondamenta da tutti i principi comuni ai 27 Paesi e che dia slancio alla comunità partendo dalla salvaguardia e dalla tutela proprio di questi valori: l’origine cristiana testimoniata dalle nostre chiese e cattedrali, il pensiero laico frutto dell’Illuminismo e la difesa dei diritti civili e della democrazia, conquistati a duro prezzo in modo particolare dal dopo guerra ad oggi. Un conservatorismo, quindi, che non divida e frammenti le nazioni europee ma che le saldi e che possa dare avvio vero ad una unione sotto l’aspetto della difesa, della politica estera, della fiscalità.
Con gli Usa sempre meno presenti nel territorio europeo e mediterraneo, soltanto con una Europa unità su più fronti si potranno risolvere situazioni spinose quali l’immigrazione di massa dall’Africa, il terrorismo islamico che ci colpisce a casa nostra, la crescita economica che ci permetta di non essere terra di conquista dei magnati cinesi e arabi. Partendo da questi temi sarà presentato martedi 28 novembre, ore 17,30, presso la Casa dell’Aviatore – Circolo Ufficiali Aeronautica Militare “The Wall. Saggio inchiesta sull’Europa dei muri” del siciliano Nunzio Panzarella.
Il libro, nello specifico un saggio di attualità, fa una panoramica chiara e dettagliata su tematiche dell’Italia di oggi: quali la caduta dei regimi in nord Africa nel 2011 con le Primavere arabe e l’ondata migratoria in apparenza irrisolvibile, la “guerra” commerciale a suon di sanzioni tra Ue e Federazione Russa in seguito al referendum della Crimea del 2014 che ha decretato l’annessione di Sebastopoli a Mosca, sino ai rischi che l’Europa correrebbe se vi fosse l’ingresso della Turchia nell’Ue. Vengono, inoltre, tratteggiati con esaustività le defaillance e i deficit della politica estera europea, in affanno nel risolvere problemi vitali quali immigrazione e lotta al terrorismo.
Attraverso uno studio ben approfondito e tramite interviste chiave ad autorevoli soggetti quali l’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa Vincenzo Camporini, testimone diretto delle operazioni di guerra che nel 2011 videro anche l’Italia contro la Libia di Gheddafi, o l’Ambasciatore Armando Sanguini grande conoscitore del mondo arabo già direttore della Farnesina per l’Africa e ambasciatore in Tunisia e Arabia Saudita, si riescono a cogliere informazioni e fatti sempre taciuti dai media mainstream quali tv e giornali.
Ad arricchire il dibattito nel corso della presentazione romana del libro vi saranno come relatori: l’ex Ministro per il Commercio Estero Adolfo Urso, attualmente presidente del think tank Fare Futuro; il Prof. Sebastiano Bavetta, accademico ed economista, attualmente Ordinario di Economia Politica all’Università di Palermo e Visiting Professor all’University of Pennsylvania; l’On. Fabrizio Bertot, Presidente della Fondazian Kian, esperto di rapporti politici col mondo russo ed Osservatore per conto dell’UE nel referendum in Crimea del 2014.
In quella sede, i riflettori saranno puntati particolarmente sulla difficoltà dei recenti governi italiani nel risolvere la questione migranti, ma anche sui danni cagionati dalle sanzioni russe al nostro settore agroalimentare e su quello che sta accadendo ad Est, sia nei paesi del gruppo di Visegrad che al di là dell’Ue, nel Donbass russo. Infine, sarà analizzata anche l’importanza di un ritorno a visioni politiche ispirate al conservatorismo di Reagan e Thatcher, che sappiano mettere al primo posto gli interessi nazionali e dell’Ue, soprattutto per quanto concerne gli aspetti del commercio internazionale e della politica di sicurezza, non dimenticando che il Bel Paese è cuore e crocevia del mondo euro-mediterraneo per la sua posizione geografica.

*Marco Marconi, collaboratore Charta minuta