Perché occorre un’Authority per gli ivestimenti esteri

Per le società estere investire in Italia è storicamente una corsa ad ostacoli tra restrizioni, burocrazia, tasse, caos normativo ed una incompetenza generalizzata delle pubbliche amministrazioni. Qualcuno dirà che, dopotutto, almeno non si svende il paese preservando così l’italianità dell’economia. Nulla di più sbagliato! Attirare investimenti e know-how arricchisce il sistema produttivo del paese e certo non lo indebolisce.

Il Belpaese ha sempre avuto la presunzione di poter fare da sé. Forse colpa di quel narcisismo e vanità intrinsechi in una Nazione che ha dalla sua parte delle eccellenze riconosciute in tutto il mondo. Arte, storia, cultura ed, ovviamente il Made in Italy.

Questa consapevolezza in qualche modo ha penalizzato l’Italia, soprattutto per quanto riguarda la scarsa apertura verso chi viene dall’estero. Sarebbe opportuno prendere spunto dalle storiche rivali come Francia, Inghilterra e Germania, oltre ad altri player internazionali di caratura minore, che hanno puntato molto sull’attrazione di investimenti esteri incassando notevoli benefici e rafforzando le proprie economie, stando al contempo vigili ed attenti a non lasciare mai che il potere decisionale passasse in mani straniere.

Negli anni In Italia si è fatto pressoché il contrario. Abbiamo assistito ad abili operazioni di mercato quasi sempre svantaggiose per le imprese italiane, dove società estere (con “spalle coperte” dagli stessi paesi di provenienza) sono riuscite a prendere il controllo su molti asset strategici. Si è trattato di veri campioni nazionali passati ormai in mani straniere, ribaltando il concetto di attrattiva in permissivismo verso la depredazione del Made in Italy. L’Italia quindi si è rivelata debole ed inefficiente in quella competizione internazionale volta all’attrazione degli investimenti esteri cosiddetti buoni, diretti a portare benefici e ricchezza, dove si è vista superare persino da competitor molto più deboli ma (occorre ammetterlo) molto più organizzati ed agguerriti. In tutti i settori. Basti pensare all’Olanda, all’Inghilterra pre-Brexit, a Malta, a Cipro e ora persino agli Emirati Arabi che si sono tutti abilmente approfittati dall’insostenibilità della pressione fiscale italiana facendo si che molte aziende, soprattutto finanziarie ed erogatrici di servizi, trasferissero sedi e filiali operative in tali paesi allettati da condizioni fiscali favorevoli e zero burocrazia.
Riguardo la delocalizzazione industriale, invece, l’elenco comprenderebbe la quasi totalità dei paesi dell’Est Europa, dove le imprese italiane usufruiscono di manodopera più vantaggiosa a parità di qualità produttiva, di una ingerenza pressoché minima dei sindacati ed, ormai inutile dirlo, di un regime fiscale agevolato e attento alle esigente di chi investe. In molte di queste nazioni l’investitore estero viene affiancato persino da un tutor statale che lo aiuta a sbrigare gli adempimenti burocratici ed amministrativi.
Infine, pur brevemente, occorre menzionale le università, una vera arma di attrazione, questa volta non di investimenti bensì di menti eccelse provenienti da altri paesi, che poi si trasformano in ricchezza nazionale. L’Italia oggi si può difendere a malapena con la Bocconi e con il Politecnico di Milano. Sono tutte chance mancate. Difficilmente recuperabili ma non perse, qualora il Governo sia deciso a cambiare il modello attuale.  Se pensiamo a quante agenzie si occupano di attrazione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy, da Invitalia a SIMEST, ICE, il Comitato Attrazione Investimenti
Esteri (CAIE) presso il MISE, colpisce la scarsezza dei risultati raggiunti.
Certo, anche tali soggetti non possono fare miracoli se prima non si procede alla sburocratizzazione, alla digitalizzazione del paese, all’alleggerimento della pressione fiscale e all’adeguamento del sistema anche guardando (e perché no? Prendendo a modello) ciò che fanno gli altri.
L’attuale governo dovrebbe seriamente prendere in considerazione una politica di concertazione della gestione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy. Ciò può avvenire attraverso la creazione di una vera e propria Authority che si occupi non solo di coordinare l’azione delle predette agenzie, ma di fare anche da tramite tra le imprese estere e tutti gli interlocutori italiani, pubblici o privati che siano, onde eliminare quell’impasse burocratico che schiaccia ogni entusiasmo ad investire in Italia.
Questo lavoro di coordinamento è fondamentale considerato che ogni impresa estera che vuole operare in Italia si imbatte in problematiche grottesche.
Un breve esempio. Una società estera (UE) che vuole operare in Italia come prima cosa costituisce una newco davanti al Notaio che provvede a registrarla presso la Camera di Commercio e segnalare l’inizio attività all’Agenzia delle Entrate. Da questo momento inizia il calvario. La società, desiderosa di cominciare a lavorare, a creare posti di lavoro, a produrre o fornire servizi, va ad aprire un conto corrente dove versare il capitale sociale. Però non si può. Se la neocostituita (di diritto italiano, regolarmente iscritta) ha più del 20% di capitale estero (ed è ovvio che sia così, si tratta di investitore estero) nessun istituto bancario italiano è disposto ad aprirle un conto. Senza spiegazioni, senza motivazioni, salvo evidenziare che trattasi della policy bancaria italiana. Nel frattempo arriva la burocrazia. La neocostituita società (il cui investitore estero ancora non ha ancora versato il capitale sociale visto che non gli aprono un conto) si scontra immediatamente con una serie di altre problematiche, tra cui l’obbligo del pagamento della bollatura dei libri sociali che nel 2022 si fa ancora per mezzo di bollettino postale cartaceo compilable a mano (Digitalizzazione? Manco a parlarne). Senza contare che i siti web istituzionali (Agenzie governative, P.A.) che contengono le linee guida, i regolamenti, le normative, elementi preziosissimi per il corretto operato amministrativo di una società, sono esclusivamente in italiano relegando le poche sezioni in inglese a informazioni parziali ed incomplete. A questo punto il malcapitato investitore estero alza comprensibilmente i tacchi e se ne va in Olanda. O a Dubai. Ovunque ma non qui.

Infine, si è sempre saputo che il grado di attrattività degli investimenti esteri si basa sulla stabilità politica di un paese. Quindi, è ovvio che fino ad oggi non abbiamo avuto molte chance. Basti come esempio ciò che è avvenuto anni fa con il Fondo del Qatar. All’invito dell’allora primo ministro italiano ad investire nel Belpaese, il Qatar ha declinato l’invito rispondendo che l’Italia non forniva garanzie di stabilità politica considerato il noto avvicendarsi di governi di breve durata. Neanche a farlo apposta dopo pochi mesi il noto epilogo del governo Letta e delle rassicurazioni di Renzi a stare sereno. L’attuale Esecutivo ha invece tutte le carte per portare a termine la legislatura e questo dovrebbe rassicurare gli investitori stranieri. Quindi è il momento di agire.  C’è un sistema paese da riformare, perché solo un paese moderno, digitalizzato, con un apparato burocratico snello e reattivo può creare le condizioni giuste per attrarre investimenti ed eccellenze verso l’Italia. Serve quindi un’Authority che coordini e affianchi tutte le agenzie attuali preposte a tale scopo, che vigili sull’operato di banche e P.A. riguardo le politiche adottate verso le società estere e crei delle regole snelle e chiare per accogliere le imprese straniere. Oltre all’esigenza di un portale unico dedicato, in inglese, con una forte connotazione anche pubblicitaria (utile anche per la promozione inversa del Made in Italy) che costituirebbe senz’altro uno strumento imprescindibile per l’attrazione degli investimenti e per la conseguente prosperità del paese.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

La dimensione strategica della sicurezza energetica in Italia.

Come ogni anno, con l’inverno che entra nel vivo, l’Italia è chiamata a fare i conti con la prevedibile crescita della domanda di energia. Accanto alle perduranti criticità che cronicamente si trascinano e riguardano lo squilibrio degli approvvigionamenti di gas naturale, quest’anno per la prima volta si sono palesate le difficoltà della transizione ecologica, il ritorno dell’inflazione (in parte indotta proprio dal prezzo dell’energia), tensioni geopolitiche (Russia e Kazakhistan) e le strozzature della catena del valore. Questi cinque fattori, che pure presi singolarmente erano in grado di esercitare una notevole pressione sulle condizioni di debolezza intrinseca dell’Italia, si sono combinati dando luogo ad un fenomeno distruttivo su scala internazionale di cui ancora facciamo fatica ad intuire la portata.

È noto che il nostro paese ormai da un trentennio pecchi dal punto di vista programmatico delle ampie vedute che avrebbero potuto, almeno in parte, correggere la rotta. Fattori esogeni ed endogeni si sommano mettendo a dura prova linee di difese, la cui sola concezione richiederebbe anni di pianificazione da un punto di vista strategico. Appurata l’assenza di quest’ultima su scala Europea, quasi tutti gli Stati membri sono stati costretti, ancora una volta, ad affidarsi a tatticismi improvvisati senza una regia affidabile affidabile, che spesso nascondono le vere responsabilità imputabili a chi, con grande miopia, ha apparentemente privilegiato gli interessi del proprio universo produttivo (è il caso paradigmatico della Germania), ricavandone tuttavia molto meno di quanto pianificato per una serie di errori (tra cui l’abbandono del nucleare), frutto di immaturità decisoria, che si ripercuotono su tutta l’Unione.

È pur vero che individuare il principale “colpevole” del momento rischia di essere uno sforzo puramente teorico. La complessità del mondo globalizzato unita alle peculiarità del mercato dell’energia, soprattutto dal lato dell’offerta, fanno sfumare i confini delle responsabilità. È noto già da prima che i pochi pozzi propagandistici di Mattei fiorissero nella Pianura Padana, che l’Italia non sia mai stata un importante produttore di idrocarburi e in generale si trovi nella difficile condizione di chi è privo di importanti materie prime. Per questa ragione, anche volendo i volumi di metano estratti nell’Adriatico non potrebbero superare i 5 miliardi di metri cubi in un arco di tempo almeno triennale, che permetta di riallineare la produzione con gli investimenti necessari mai effettuati. Questi ultimi per essere programmati necessitano di un quadro regolatorio omogeneo che garantisca gli operatori dalle giravolte improvvisate della politica, senza certezza del diritto le trivelle rimarranno ferme. Con la liberalizzazione dei mercati dell’energia, l’Italia ha rinunciato ad attrarre considerevoli investimenti di imprese estere dell’oil&gas per le attività di prospezione mineraria: una filiera virtuosa, con il pregio di garantire una piccola protezione nei confronti di tempeste geopolitiche e che avrebbe contribuito ad integrare l’ottimo meccanismo di stoccaggio di cui il nostro paese si è dotato e che con l’autoproduzione ai minimi è destinato ad operare a metà.

Esulano dal destino dei pozzi dell’Adriatico e del canale di Sicilia le scelte attuate su scala Europea che hanno condotto l’Unione nelle mani della Russia. Una condizione di assoluta debolezza, fonte di numerosi interrogativi, che ha visto una crescita dei suoi profili di criticità in corrispondenza delle crisi geopolitiche degli ultimi 15 anni. L’UE oggi ha scelto consapevolmente di vestire i panni del vaso d’argilla e con le tensioni in Ucraina e Bielorussia si trova alla mercè degli eventi: alla prospettiva scongiurata di sanzioni sul gasdotto Nord stream 2, ancora in attesa delle autorizzazioni nonostante la fine dei lavori, si aggiunge la totale indisponibilità dell’Unione ad accodarsi agli Stati Uniti per imporre ulteriori sanzioni alla Russia sull’export di idrocarburi.

Non è paradossale immaginare anzi, che in caso di escalation in Ucraina possa essere Mosca a ridurre o tagliare le forniture, facendo piombare l’Europa in una crisi energetica simile a quelle che negli anni 70’ costarono all’Italia il tracollo dell’industria chimica e il ricorso ad un prestito del Fondo Monetario Internazionale, un MES ante litteram.

Se il ragionamento degli Stati Uniti si inserisce nella convinzione diffusa che il completamento del Nord stream 2 possa più agevolmente compromettere la stabilità economica dell’Ucraina, legata a doppio filo al transito del gas, che verrebbe facilmente aggirata e privata dei mezzi di sostentamento, è tutto da dimostrare l’assunto che la Russia disponga di una produzione di idrocarburi artificiosamente calmierata per scatenare una guerra dei prezzi: Mosca paga lo scotto delle sanzioni imposte durante la prima crisi Ucraina che hanno danneggiato l’industria estrattiva di Stato, già gravata da croniche inefficienze e scarsamente propensa ad attuare quegli investimenti la cui mancanza viene avvertita anche in altri paesi esportatori che, al contrario della Russia, hanno potuto contare su scambi di tecnologia mineraria pressoché illimitati con gli Stati Uniti e l’Europa.

Tutti gli sforzi diplomatici profusi dalle amministrazioni americane per contrastare il progressivo incremento della dipendenza energetica dell’Unione Europea nei confronti della Russia sono falliti e c’è da aspettarsi che presto le valvole del Nord stream 2 verranno aperte, non appena arriverà l’imprimatur amministrativo. Anche il suo gemello meridionale, il South stream in cui Eni giocava un ruolo fondamentale, è riemerso sotto mentite spoglie nel Turkstream che ha comportato un’ipoteca sull’autonomia energetica dei paesi balcanici e cementato i legami tra un ambiguo paese NATO e il più importante fornitore di gas naturale dell’Unione Europea.

C’è da chiedersi se la miopia pianificatrice che ha interessato lo sviluppo dei nuovi gasdotti sia il concorso di più fattori di carattere politico ed economico e delle presunte connivenze che, lungi dall’essere dimostrate, ne hanno accompagnato la realizzazione e da cui nemmeno le voci contrarie possono dirsi immuni.

Oggi il quadro energetico europeo appare irrimediabilmente compromesso. L’inflazione indotta dall’aumento dei prezzi di petrolio e gas naturale rischia di alzare significativamente il livello di scontro sociale e portare all’esasperazione un continente stretto ancora nelle morse della pandemia, ogni tentativo di invertire la rotta o di alzare i toni con Mosca si è tradotto in un simbolico aiuto Americano consistente in una flotta di navi gasiere che coprono appena il consumo giornaliero dell’Unione. In caso di scontro armato tra Russia e Ucraina è l’UE a rischiare le conseguenze peggiori e la consapevolezza di questa ambiguità ormai instillata nelle agende di Capi di Stato e di Governo va al passo con l’inettitudine di istituzioni prive di legittimazione decisionale.

Tutte le soluzioni valutate come compatibili con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica sono state colpevolmente accantonate o sono risultate dei parziali correttivi: il gasdotto TAP è oggi in servizio dopo anni di deliranti boicottaggi ambientalisti e garantisce uno sbocco fondamentale al gas Azero, che in un futuro prossimo potrebbe essere affiancato da quello Turkmeno se la pipeline fosse prolungata sino all’altra sponda del Caspio. EastMed pur non essendo apparentemente necessario dal punto di vista della domanda rappresenta un asset fondamentale di diversificazione degli approvvigionamenti, nonché un importantissimo strumento geopolitico su cui l’Italia avrebbe potuto basare una ancorché limitata influenza. Impossibile non menzionare il futuribile gasdotto transahariano ormai in avanzato stato di progettazione e destinato a collegare la Nigeria all’Algeria, che sarebbe stata la plastica rappresentazione dell’impegno dell’Unione Europea per la pacificazione del Sahel. Al momento non si intravvedono scelte in tal senso neppure da parte dell’Italia che dovrebbe avere tutto l’interesse a sostenere il progetto, pur pagando lo scotto delle continue inchieste della magistratura milanese che hanno flagellato le attività di Eni in Africa, danneggiando la credibilità internazionale del gruppo e del suo management, sottraendo valore al suo primo azionista: lo Stato Italiano.

Un copione che negli ultimi anni si è ripetuto due volte, colpendo gli affari in due paesi fondamentali per la diversificazione delle importazioni di gas naturale. La Nigeria infatti si candida a giocare un ruolo di primo piano anche nell’esportazione del GNL insieme ad Egitto, Angola e Mozambico. L’Algeria rimarrà un partner fondamentale per i prossimi decenni.

Se il Mediterraneo non ha avuto grande fortuna, nemmeno gli sforzi di diversificare in Asia Centrale hanno segnato traguardi importanti. Se di petrolio si parla non si può non citare il giacimento di Kashagan che costò la guida di Eni a Mincato dopo 10 miliardi bruciati nelle profondità del Caspio, per il gas naturale è andata meglio e Karachaganak appare minacciato solo dalle nuvole che si addensano sul futuro del Kazakhistan e che rischiano di compromettere l’attività di siti estrattivi di notevole importanza. Dispute sul controllo dei ricchi giacimenti del Caspio hanno impedito al Turkmenistan di affermarsi come forte esportatore di gas naturale in Europa e ad oggi è improbabile che questo avvenga con la costruzione di un nuovo gasdotto.

La scelta di puntare tutte le fiches sulla Russia ha saturato l’offerta di gas naturale e reso apparentemente sconveniente costruire nuove pipeline. I costi nascosti non contemperano però gli aumenti repentini dei prezzi a cui saremo chiamati a far fronte comune nei prossimi anni in assenza di investimenti su scala globale. Poter contare su una più vasta pletora di fornitori avrebbe permesso all’Unione Europea di prendere una posizione più decisa nei confronti di Mosca, pur non pregiudicando in alcun caso l’importazione di idrocarburi che si sarebbe svolta con un minor rischio di ritorsioni, perché in fondo ad un’economia arretrata e basata sulle materie prime come quella Russa è imperativo vendere per poter comprare.

Un’ulteriore alternativa degna di nota, che vede l’arrendevolezza della Germania far soccombere gli altri Stati membri, è l’uso del nucleare come sostegno all’elettrificazione delle filiere economiche europee. Con la chiusura delle centrali Berlino si avvia a decretare un inverno energetico parzialmente compensato da quei bizzarri strumenti che sono i meccanismi di capacità, pronti a bruciare costosa lignite (se opportunamente sussidiati), quando le nuvole coprono il sole e non soffia vento nei parchi eolici del mare del Nord. Senza contare le conseguenze ambientali drammatiche, sottese a questa scelta immatura che pesa sull’eredità di Angela Merkel, la decisione di rinunciare all’atomo rischia di sommarsi alle strozzature della supply chain che stanno rendendo economicamente impossibile la transizione ecologica, unita all’inflazione che probabilmente ne è diretta conseguenza.

A conti fatti, un corollario di errori da matita blu difficilmente risolvibili nel breve periodo, richiederà nei prossimi anni soluzioni concrete, a partire dai nuovi investimenti nel settore minerario che sarà centrale per assicurare la tenuta sociale più che ipotetiche derive ideologiche destinate a consumarsi a contatto con la realtà, come ogni massimalismo all’esito dell’incontro con la Storia. I sistemi di accumulo da soli non salveranno l’Europa del 2025 e probabilmente nemmeno quella del 2030, la miopia geopolitica condanna l’Unione di oggi e farà lo stesso con quella di domani. È certo che il gas naturale ci accompagnerà ancora a lungo e l’idrogeno non sarà mai prodotto in modo conveniente e senza emissioni se non ricorrendo all’energia nucleare, unico modo di affrontare l’elettrificazione della società post-industriale. Pensare di alimentare il sistema produttivo con i parchi eolici può essere un’utopia ancora più pericolosa di chi predica la chiusura di fabbriche e acciaierie.

Per farsi trovare all’altezza delle sfide del reshoring è necessario garantire quel minimo di stabilità dei prezzi che convinca gli investitori internazionali a scommettere sull’Europa, non solo come terra di consumo ma anche di produzione. Un orizzonte che si avvicina sempre più e che rischia di condannare l’Italia in primis alla desertificazione industriale, con i redditi che non crescono falcidiati da bollette sempre più esose e un’inflazione indotta dai prezzi dell’energia che condiziona in concreto la vita dei cittadini, in nome di un ambientalismo ideologico e pericoloso che sembra aver smarrito la sua carica sociale che in passato l’ha contraddistinto.

Includere nucleare e gas naturale nella tassonomia “verde” della Commissione è una mossa necessaria che dovrà essere integrata con un regime agevolato di aiuti di stato e uno sforzo comune andrà indirizzato allo stoccaggio comune del metano su scala Europea, ad oggi la più importante riserva strategica nel vecchio continente che ha “rinunciato a combattere”.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Identità e made in Italy. Un Paese come un brand

Nell’epoca della globalizzazione si parla sempre più di made in Italy. Tutto quello che viene prodotto in Italia rappresenta un brand riconosciuto a livello mondiale. Un marchio, quello del made in Italy, sinonimo di alta qualità, tradizione di famiglia, artigianalità, ma anche lusso ed esclusività. Parliamo di abbigliamento, scarpe, e più semplicemente di cibo e vino delle nostre bellissime regioni. Ma non solo. Il prodotto italiano fa riferimento anche ai servizi e riguarda l’industria turistica e il marketing territoriale. I nostri tour eno-gastronomici, il nostro patrimonio artistico-culturale e le tradizioni locali si vendono in tutto il mondo.

Un brand che rappresenta il suo modo di vivere, la sua storia, le sue radici culturali. La vocazione manifatturiera italiana è talmente apprezzata al mondo, da far considerare il Made in Italy uno dei brand più importanti a livello globale.

Ma c’è un modo per misurare la percezione del Made in Italy nel mondo?

Il Best Countries Report, redatto dallo US News & World Report, il BAV Group e la Wharton School of the University of Pennsylvania attraverso dei parametri quali quantitativi cerca di dare un valore a questo intangible asset.

Tale report misura il Made in Italy calcolando il valore di mercato dei 30 brand italiani più importanti, cercando di estrapolarne i punti di forza.

Nel Best Countries Report 2020, relativo all’anno 2019, l’Italia è considerata al 17° posto su una classifica di 80 Paesi. Rispetto al 2017, quando ricopriva il 15° posto, è stata superata da Singapore e Cina. Ciò che non avrebbe aiutato la posizione internazionale dell’Italia sarebbe stato, in primis, la forte instabilità politica. Quest’ultima caratteristica, strutturale nella nostra Repubblica, negli ultimi anni avrebbe determinato una crescita economica più lenta rispetto ad altri Paesi sviluppati. Tale fattore, insieme alla disoccupazione e al calo demografico, costituiscono gravi fonti di preoccupazione da un’ottica internazionale. A livello globale, i principali brand italiani vengono percepiti come garanzia di qualità, autenticità e stile. Questi brand fanno però riferimento ad un gruppo ristretto di imprese grandi, agili e interconnesse con una fitta rete di altre imprese di piccole/medie dimensioni. In particolare, si fa riferimento ad imprese guidate da un forte spirito imprenditoriale e caratterizzate da innovazione, internazionalizzazione e focus sulla costumer experience.

Nel 2020 il valore del brand Italia è stimato circa di 1.776 miliardi di dollari (-15,8% rispetto al 2019). Le prime 100 nazioni avrebbero perso 13.100 miliardi dollari di valore per via della pandemia.
Dall’analisi di Brand Finance traspare che vi sono alcune imprese italiane molto abili nello sfruttare la propria immagine. Ad eccezione di settori specifici come lusso, moda, design e food, il Made in Italy sembra avere un’immagine meno forte del Made in Germany, in Usa e in France.

La debolezza del brand Italia dipenderebbe per Brand Finance principalmente dalla difficoltà di fare business, dalla gestione della cosa pubblica e dalla qualità della comunicazione di privati e imprese.
A livello globale, USA, Cina, Giappone, Germania e Regno Unito risultano i brand nazionali a più alto valore aggiunto. La Cina continua a colmare il divario con gli USA; il marchio Cinese varrebbe 18.800 miliardi di dollari contro 23.700 miliardi di quello statunitense.

Ma nonostante ciò e le acquisizioni che hanno interessato il brand, il proliferare di nomi italiani nel mondo, il vero made in Italy resta ancora molto forte e riconosciuto a livello globale. La ragione è legata al concetto di rarità del brand. Le nostre materie prime sono spesso di rara qualità e si trovano solo in determinate aree geografiche (pensiamo ai nostri vini o al nostro olio). Lo stesso concetto di rarità lo ritroviamo nelle skills delle risorse umane: i lavoratori delle nostre aziende sono tecnicamente preparati, con competenze uniche e difficilmente imitabili. Sarà anche per questo che molti marchi di moda italiana hanno la loro scuola dove formano sarti e modellisti.

La strategia per mantenere positiva la percezione del Paese diventa ancora più cruciale durante la pandemia da Covid-19. Alcuni esperti suggeriscono l’istituzione di un team specifico che dovrà gestire l’immagine dell’Italia nel periodo post-crisi. Quest’ultimo non dovrà limitarsi ad un’ottima comunicazione, ma dovrebbe condurre analisi di marketing e finanziarie per stabilire lo stato attuale del marchio Italia. Attraverso tali dati, occorrerà difatti identificare i fattori su cui focalizzare la strategia con relativo impatto economico, tenendo conto dei costi e dei ritorni sugli investimenti.

Noi abbiamo tradizionalmente avuto difficoltà a fare sistema, cioè mettere a disposizione delle imprese strumenti di formazione per stare sul mercato; sistema significa mettere a disposizione delle imprese risorse e strumenti per l’innovazione e la ricerca, perché nella competizione globale un paese a costo del lavoro mediamente alto come l’Italia vince soltanto se punta sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione.

Il “Made in Italy” è un elemento centrale dell’identità culturale di questo paese.  C’è uno spessore di professionalità, di know-how, di sapere, di lavoro, di innovazione, di ricerca, di qualità, di straordinario valore. L’Italia deve essere molto più consapevole della forza economica, sociale e culturale che esprime come paese dell’estetica, del gusto, del design, dell’immagine, della identità e della storia che l’hanno da sempre accompagnata.

*Giuseppe Della Gatta, analista finanziario

INVESTIRE SULLA DOMANDA INTERNA PER LA RIPRESA POST COVID-19

L’export è un fattore fondamentale per il successo di un Paese. Ma, da solo, non basta per crescere. Per quanto una economia possa essere competitiva nel commercio internazionale ed avere un importante surplus con l’estero, ciò non è sufficiente a spingere il Pil se la domanda interna diminuisce o aumenta troppo poco. Ciò è stato vero nel recente passato. E sarà ancor più vero adesso che la pandemia del Covid-19 si è abbattuta in modo drammatico sull’economia globale e provocherà nel 2020 e forse anche in parte del 2021 una recessione di portata storica e un crollo del commercio mondiale, come ormai prevedono tutte le maggiori istituzioni internazionali.

 

IL PASSATO

In Italia, ad esempio, la domanda estera netta (cioè la bilancia con l’estero per i beni e servizi), pur restando ampiamente positiva e quindi agendo positivamente, anno dopo anno, sul miglioramento della nostra posizione patrimoniale internazionale, ha contribuito negativamente alla crescita reale del Pil nel quinquennio 2014-18 rispetto al 2013. Il suo apporto cumulato nel periodo, infatti, è stato negativo per l’1,2% a fronte di un aumento del Pil del 4,6% sostenuto principalmente dalla domanda interna ed in particolare dall’apporto dei consumi privati (+3,4% il contributo specifico di questa voce alla variazione del Pil) e degli investimenti fissi lordi (+1,7%). In Francia, sempre nel quinquennio 2014-18, il Pil è aumentato cumulativamente del 7,4%, grazie soprattutto ai contributi dei consumi pubblici (+1,4%), dei consumi privati (+3,5%) e degli investimenti fissi lordi (+2,5%), mentre la domanda estera netta, oltre ad essere in deficit, ha anche tolto uno 0,7% circa alla crescita cumulata dell’economia transalpina nel periodo considerato. Perfino la Germania, Paese in grande attivo con l’estero, con il secondo più alto surplus commerciale manifatturiero del mondo dopo la Cina, negli ultimi anni non ha tratto particolare giovamento dal commercio estero per quanto riguarda la dinamica reale del Pil. Infatti, la differenza tra export e import in volume, cioè la domanda estera netta, pur continuando a restare in amplissimo surplus, non è più cresciuta con la stessa intensità e regolarità degli anni precedenti. E, quindi, in tutto il periodo 2014-18 la componente estera ha contribuito solo con uno striminzito +0,1% all’aumento cumulato del Pil tedesco, progredito nel frattempo del 10,6%. Nel quinquennio considerato è stata pressoché esclusivamente la domanda interna a spingere l’economia della Germania, in particolare con un contributo al Pil del 4,2% dei consumi privati, del 3,1% degli investimenti fissi lordi ed anche di un decisivo apporto del 2,5% dei consumi finali della Pubblica amministrazione. Questi numeri mettono in evidenza quanto la domanda interna di economie mature sia un asset strategico, un patrimonio di interesse nazionale da preservare e incrementare, essendo diventata con il passare degli anni sempre più il pilastro fondamentale su cui poggia la crescita stessa dei nostri Paesi. A questo proposito, il rilancio della domanda interna italiana negli anni recenti, è, e dovrebbe diventare, a nostro avviso, un caso di studio. Infatti, dopo la doppia recessione del 2008-09 e del 2011-14, si poneva il problema di far ripartire una economia profondamente prostrata a livello di consumi e investimenti. E le azioni che sono state adottate a tal fine nel triennio 2015-17, improntato dalle riforme e dalle manovre finanziarie del Governo Renzi, costituiscono un chiaro caso di successo, benché non esso abbia riscosso politicamente ed elettoralmente particolari consensi. Eppure, il periodo 2015-17 rappresenta un chiaro modello di come l’Italia abbia potuto raggiungere tassi di crescita mai sperimentati da quando è iniziata la circolazione monetaria dell’euro. Ciò proprio grazie all’utilizzo della flessibilità concessaci dall’Europa per l’adozione di mirati ed efficaci stimoli alla domanda interna privata, stante l’impossibilità, dovuta ai ben noti limiti di bilancio, di poter utilizzare i consumi finali pubblici come leva per la crescita. Gli «80 euro», l’eliminazione della tassa sulla prima casa e della componente lavoro dell’Irap, i contributi per le assunzioni a tempo indeterminato, il super e l’iper-ammoramento, il Patent box, l’ampliamento della platea delle imprese beneficiarie del credito d’imposta sulla ricerca hanno rappresentato un potente mix di azioni che ha spinto sia i consumi delle famiglie sia gli investimenti tecnici e in R&S delle imprese come non era mai accaduto prima negli anni Duemila. Basti pensare che dal 2015 in poi la crescita dei consumi pro capite delle famiglie in Italia è stata sempre superiore a quella di Germania e Francia. E lo stesso è accaduto per la crescita degli investimenti pro capite in macchinari e mezzi di trasporto. Dal lato della produzione ciò si è riflesso per la prima volta nell’era dell’euro in un sorpasso del Pil «privato» italiano rispetto a Germania e Francia. Infatti, nel triennio 2015-17, considerato sia nel suo insieme sia nei suoi singoli anni, il valore aggiunto dell’economia italiana al netto del contributo della pubblica amministrazione, difesa, sanità, istruzione è cresciuto in termini reali di più degli analoghi Pil «privati» tedesco e francese.

 

IL PRESENTE E IL FUTURO POST COVID-19

Siamo poi riprecipitati, nel biennio 2018-19 in un periodo di bassa crescita, che ora si trasformerà in una profonda recessione nel 2020-21 a causa della crisi globale del coronavirus. Dopo il lockdown serve quindi una via d’uscita da una crisi economica incombente che il Fondo Monetario Internazionale ha riassunto in alcune drammatiche cifre in termini di caduta del Pil nel 2020 (dietro le quali c’è anche lo spettro della perdita di decine di milioni di posti di lavoro a livello planetario): -3% il Pil del mondo (non era accaduto nemmeno con lo scoppio della bolla dei mutui subprime nel 2009); -5,9% gli Stati Uniti; +1,2% la Cina; -7,5% l’Eurozona; -9,1% l’Italia (che in tutte le previsioni è la nazione con l’arretramento dell’economia più forte). Altre istituzioni e banche (tra cui Deutsche Bank e Goldman Sachs) prevedono cali del prodotto anche superiori, che per l’Italia potrebbero essere addirittura a doppia cifra. E i debiti pubblici in rapporto al Pil schizzeranno verso l’alto: l’Italia al 155%, ma anche gli Stati Uniti al 131%, la Francia al 115%, la Spagna al 113%. Il nostro Paese deve darsi un programma urgente di rilancio delle attività produttive, razionale, ordinato, sistematico, tenendo conto ovviamente delle esigenze di sicurezza dei lavoratori. Limitandoci qui all’industria in senso ampio (costruzioni comprese), tre sono, a nostro avviso le priorità che il governo italiano deve affrontare. Primo: assicurare innanzitutto l’operatività delle attività manifatturiere che hanno da evadere ordini esteri pregressi. Infatti, prima del lockdown molte imprese della nostra industria manifatturiera avevano in pancia importanti ordini giunti dalle grandi catene internazionali e dai grossisti di tutto il mondo, specialmente in settori della componentistica e della meccanica. Tanti mercati e compratori stranieri, date le difficoltà produttive e logistiche della Cina, che negli ultimi mesi non consegnava praticamente più nulla ai clienti mondiali, avevano riversato le loro richieste di accaparramento sull’Italia. Perdere questi ordini esteri sarebbe, in questo contesto di crisi economica che pende sulle nostre teste, un autentico peccato mortale. Evitiamo di lasciare sul campo più export, più soldi e più posti di lavoro di quelli che, purtroppo, sicuramente perderemo quest’anno. Gli ordini esteri esistenti sono, in questa fase, più che mai un patrimonio nazionale. Vanno onorati e trasformati rapidamente in entrate per il nostro sistema produttivo. Dobbiamo abbeverarci da questa fonte residua fino all’ultimo cent di euro. Poi ci sarà, purtroppo, una grande siccità. Infatti, esauriti gli ordini stranieri pregressi, dobbiamo prevedere che i nostri primi sei mercati per l’export nella restante parte del 2020 rimarranno quasi completamente paralizzati. Germania, Francia, Stati Uniti, Svizzera, Regno Unito e Spagna nel 2019 hanno rappresentato quasi la metà dell’export italiano: 228 miliardi di euro su 476 miliardi totali. Sono, quelli citati, tutti Paesi che, come noi, alla fine conteranno decine di migliaia di morti per il coronavirus. Paesi sconvolti dal lockdown e dalla crisi economica, dove i consumi e gli investimenti sprofonderanno. Non potremo quindi sperare in alcun modo nell’export per evitare che le previsioni più fosche di caduta del nostro Pil nel 2020 si avverino.

Questo ci porta a concentrarci sulla domanda interna, che tuttavia ci concede ben poche speranze dal lato del settore privato. Infatti, non potremo fare alcun affidamento sui consumi delle famiglie italiane, perché la paura, la crescente disoccupazione e la perdita di potere d’acquisto, faranno crollare la spesa di beni e servizi. Né potremo confidare, come possibile elemento di sostegno del Pil nella domanda attivata dalle imprese, che hanno già fatto molti investimenti tecnici nel recente passato ed ora, in questo scenario drammaticamente negativo, non ne programmeranno di certo di nuovi. Pertanto, la seconda priorità che il governo italiano dovrebbe darsi senza indugio è quindi quella di un programma di rilancio su grande scala dell’edilizia privata, una risorsa dormiente che abbiamo a disposizione e che negli ultimi tempi già stava mostrando qualche positivo segnale di ripresa, la cui ripartenza, tra l’altro, potrebbe ricadere positivamente a pioggia con un effetto moltiplicatore anche su tanti settori manifatturieri vitali dell’industria italiana (piastrelle, cemento, vetro, metallurgia, componentistica, idraulica, riscaldamento-raffrescamento, ecc.). In questi giorni di lockdown gli italiani hanno riscoperto l’importanza della casa come risorsa primaria ed anche delle sue pertinenze, come cascinali, giardini, orti, parchi, ecc. Per controbilanciare il crollo del nostro Pil, occorre dunque puntare su un grande piano di spinta degli investimenti privati in costruzioni, anche con incentivi su ristrutturazioni, acquisti prima casa, giardinaggio, programmi per le giovani coppie, interventi nell’edilizia antisismica, miglioramenti delle strutture alberghiere e ricettive, ecc. Allo stesso modo, e perfino di più, è cruciale rilanciare gli investimenti in opere pubbliche, nelle infrastrutture stradali, ferroviarie, ospedaliere, nei porti, negli aeroporti, nelle reti telematiche, in ricerca, ecc. Secondo varie stime, vi sono decine di miliardi di investimenti in opere pubbliche fermi che potrebbero essere attivati e che potrebbero agire con un importante effetto positivo sul Pil. Come hanno dimostrato anche recenti analisi della Banca d’Italia, se realizzate in modo efficiente le opere pubbliche non generano una crescita del rapporto debito/Pil perché il denominatore può aumentare più del numeratore. Non è più tempo dei no (locali, populisti, ideologici) che già erano antistorici e contro l’interesse del Paese prima della pandemia. Servono sblocchi e autorizzazioni più veloci per le opere già cantierate e programmate, commissari con pieni poteri per la loro immediata realizzazione, assoluta priorità di avvio per tutti gli interventi già dotati di copertura finanziaria ma bloccati dai veti anacronistici di una burocrazia che, lei sì, sopravvive perfino al coronavirus.

*Marco Fortis, responsabile direzione Studi economici Edison SpA

GLI INTERESSI DIMENTICATI

Questo saggio di Ernesto Galli della Loggia,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20.” della Fondazione Farefuturo

 

Oggi più che mai è assolutamente necessario definire quale sia il nostro interesse nazionale proprio a partire dagli orientamenti della politica estera. Alcune domande esigono una risposta che non possiamo più rinviare e che devono essere date nella piena consapevolezza della classe dirigente del Paese. Perché il rango internazionale dell’Italia ha subito il tracollo drammatico di cui è testimone così evidente in queste settimane la crisi in Libia? Perché la nostra politica estera è sempre di più la politica estera di un Paese di seconda fila, al cui Presidente del Consiglio negli incontri internazionali viene riservato non a caso proprio un posto del genere? Che cosa è successo che ci sta consegnando sempre di più ad una situazione di sostanziale irrilevanza? Vi sono naturalmente cause generalissime che riguardano tutto il quadro italiano.

In particolare queste tre: a) la crescente dose d’impreparazione e d’incultura della classe politica, perlopiù ignorantissima di storia e di geografia e anche perciò incapace di mettere a fuoco i nostri veri interessi nazionali; b) l’immagine perennemente debole politicamente, e quindi di non grande affidamento, di ogni governo italiano; c) e infine un’opinione pubblica disabituata da sempre a pensare la realtà vera dei rapporti internazionali, quindi oscillante di continuo tra faziosità ideologiche e fanciulleschi utopismi a sfondo buonista. Dopo la fine della Guerra fredda e il conseguente venir meno dell’importanza che la Penisola aveva avuto per mezzo secolo in quanto frontiera dell’Occidente con il blocco sovietico (da cui l’obbligatorio legame di stretta alleanza con gli Stati Uniti), non siamo stati capaci d’immaginarci alcun ruolo, alcuna priorità, alcuna linea d’azione nostri. In particolare non abbiamo capito che il progressivo concentrarsi del potere dell’Unione europea nelle mani di Germania e Francia ci stava inevitabilmente sbarrando la strada verso i due teatri tradizionali della nostra politica estera. Cioè verso i Balcani – dove infatti ben presto l’influenza economico-politica e culturale tedesca si sarebbe dimostrata imbattibile – e verso l’Africa – dove fin dai tempi dell’Eni di Mattei la Francia era impegnata a contenderci lo spazio e a insidiare quello che avevamo già ottenuto (per esempio in Libia).

E però, invece di cercare di contrastare questa deriva diciamo così oggettivamente antitaliana dell’Unione a trazione franco-tedesca (in realtà con Berlino vera padrona e Parigi sua vassalla) – magari cercando di costituire un fronte mediterraneo con Spagna e Grecia eventualmente appoggiato da una Gran Bretagna memore dei suoi trascorsi in quel mare – abbiamo fatto di tutto – in omaggio al nostro cieco super europeismo e anche perché gravati dalle condizioni paralizzanti dei conti pubblici – per restare agganciati comunque al duo Parigi-Berlino. Con il bel risultato che oggi vediamo in Libia e altrove. In realtà, la deriva egemonica franco-tedesca nella Ue avrebbe dovuto indurci, se avessimo voluto conservare un ruolo nelle nostre tradizionali aree d’influenza almeno in Medio Oriente e in Africa (divenuta vieppiù cruciale a causa del fenomeno migratorio), a pensare per la nostra politica estera scelte innovative e coraggiose. Se non altro a pensarle, a metterle allo studio, e semmai a farne trapelare qualcosa nei modi opportuni per vedere se così fosse eventualmente possibile spingere i nostri concorrenti europei a qualche passo indietro. Quali scelte? È evidente che in un quadro internazionale difficile e in cui l’impiego della forza ha guadagnato prepotentemente la ribalta l’Italia da sola ha una stazza troppo leggera per ambire a un ruolo significativo: anche solo per difendere i propri interessi.

Ha bisogno di un partner forte, quanto più possibile forte. Ora, non potendo questo partner essere l’Unione europea per le ragioni dette sopra – perché l’Unione europea vuol dire Francia e Germania, le quali si prefiggono innanzi tutto di tutelare i loro interessi e non i nostri – la scelta si restringe di fatto agli Stati Uniti. È vero che muoversi in questa direzione aprirebbe per l’Italia scenari inediti e in certa misura con più di un’incognita, ma è meglio allora non fare nulla, mi chiedo, accettare la nostra emarginazione e sperare magari in un miracolo che faccia cambiare il corso delle cose? È anche vero che oggi come oggi nel teatro geografico che più c’interessa la posizione degli Stati Uniti appare ondivaga, oscillante tra tentazioni di disimpegno e affondi improvvisi. Sta di fatto però che nella politica americana alcuni punti fermi sono comunque ravvisabili: l’inevitabile rivalità-contrasto strutturale con l’espansionismo russo, un consolidato buon rapporto con il fronte islamico tradizionalista e anti-iraniano, una permanente, forte intesa di fondo con Israele, Paese che rappresenta sì un alleato importante e potente degli Usa e in tutta la grande area mediterranea medio-orientale è anche il solo fidato, ma è un alleato che per ben noti motivi Washington è obbligata a tenere diciamo così in ombra, sempre in qualche modo dietro le quinte. La «presentabilità» e l’accredito di cui l’Italia invece bene o male ancora gode nell’insieme del mondo arabo, la sua posizione geografica di assoluto valore strategico unitamente al suo forte legame con la Santa Sede, e da ultimo la sua qualità di terzo Paese dell’Unione europea e quindi di potenziale importante sponda con Bruxelles, appaiono altrettante premesse utili per consentire di stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più stretto e concertato di quello attuale.

Un rapporto che molto probabilmente sarebbe in grado di dare alla nostra politica estera quelle possibilità di movimento nonché quell’orientamento di fondo che da tempo le mancano. E con ciò un ruolo finalmente definito e proficuo. Una tale scelta non equivarrebbe però – è facile obiettare – ai soliti «giri di valzer»? non ci esporrebbe cioè all’accusa tante altre volte mossaci di praticare politiche per conto nostro, diverse e in un certo senso alle spalle dei nostri alleati europei? Ora mi pare che su questo punto sarebbe il caso una buona volta di chiarirsi le idee. Sono state forse scelte prese consultando qualcuno quelle (pur gravide di conseguenze) che la Francia viene facendo da anni nella crisi sirio-mediorientale o nell’Africa occidentale? E chi mai ha consultato Berlino quando ad esempio ha deciso di costruire il gasdotto Nord Stream che in pratica rafforza enormemente la dipendenza energetica sua e dell’intera Europa occidentale dalla Russia di Putin? E quale dovrebbe essere la nostra risposta all’espansionismo della Turchia di Erdogan che minaccia i nostri interessi vitali in Libia, nel Mediterraneo Orientale, persino nel Golfo Persico, ad  esempio per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico? Dai fatti recenti, è evidente che una nostra risposta non sia coincidente con la linea franco-tedesca.  La verità è che esiste una cosa che si chiama interesse nazionale, e finché non ci sono patti liberamente sottoscritti che esplicitamente impegnino a certi comportamenti, è inevitabile – in certo senso anche giusto – che ogni Paese si senta libero d’interpretare il suddetto interesse nel modo in cui meglio crede. Come di fatto in realtà accade: perché mai allora l’Italia solamente dovrebbe fare eccezione?

 

*Ernesto Galli della Loggia, storico e accademico italiano

A un anno dalle elezioni per il Bundestag

In una Germania ancora alle prese con il Coronavirus (quando ormai tutto faceva pensare che il governo avesse saputo tenere sotto controllo l’epidemia), l’attenzione per le elezioni del Bundestag del 2021 tiene banco fra i protagonisti della vita politica tedesca. Di fronte alla scelta della successione di Angela Merkel alla carica di Cancelliere, le forze politiche stanno preparando le proprie strategie elettorali. Osservate speciali sono ovviamente le forze politiche del centrodestra, la CDU e la CSU, perché entrambe tradizionalmente e da sempre raccolgono il consenso degli elettori conservatori e moderati. Una prima considerazione da fare è che Angela Merkel, cancelliera dal 2005, è una leader atipica dello schieramento conservatore, perchè in tre delle quattro legislature nelle quali ha guidato il governo lo ha fatto con la Grosse Koalition insieme ai socialdemocratici. Qui sta un aspetto interessante dello scenario politico tedesco: le forze politiche di centrodestra sono alla ricerca di un leader che rappresenti effettivamente le istanze conservatrici e sappia differenziarsi nettamente dai socialdemocratici. Ecco perché sta prendendo corpo la candidatura alla carica di cancelliere di Markus Söder, attuale presidente del governo della Baviera e leader della CSU. Ma prima di affrontare la strategia di Söder dobbiamo illustrarne la figura: egli è uscito molto rafforzato dall’esperienza del Coronavirus, in quanto la Baviera ha saputo fronteggiare l’epidemia meglio degli altri Länder tedeschi, che pur ne sono stati meno colpiti. La strategia del contenimento del virus molto simile a quella che Luca Zaia ha messo in atto nel Veneto (tamponi a tappeto, tracciamento dei contagiati e loro tempestivo isolamento) ha fatto sì che Söder in Germania sia molto popolare e quindi sia una figura che “tira” molto dal punto di vista elettorale. Ma il punto più interessante è la sua strategia in vista delle elezioni del Bundestag: fieramente conservatore e fortemente legato all’identità bavarese (il governo della Baviera è frutto di una coalizione fra la CSU e il partito dei Freien Wähler, espressione delle identità territoriali), Söder non mette assolutamente in discussione il quadro europeo (erede in ciò dell’insegnamento di Franz Josef Strauss, che auspicava una Europa delle Patrie) e guarda al centro dello schieramento politico, agli elettori moderati che non gradiscono la destra dell’AfD. Sulla figura di Söder potrebbe anche convergere la corrente di destra della CDU, per intenderci quella che fa capo a Friedrich Merz e che non ha mancato in questi anni di manifestare grandi insofferenze per Angela Merkel e per la sua politica di coabitazione con i socialdemocratici.
Il messaggio che arriva da Söder e dalla Germania è che senza gli elettori moderati (che sono da sempre conservatori, ma che non gradiscono affatto gli estremisti e gli esagitati) le forze conservatrici non riescono a prevalere. Credo che anche in Italia occorra riflettere su ciò.

L’Italia nel vuoto, il vuoto d’Italia. L’azione internazionale nella stagione del ritorno degli interessi nazionali: geopolitica, economia, sicurezza

L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Center for Near Abroad Strategic Studies

Sono intervenuti: Paolo Quercia (direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies), Adolfo Urso (presidente della Fondazione Farefuturo), Alberto Negri (giornalista de Il Sole 24 Ore), Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Guido Crosetto (presidente dell’AIAD), Carlo Jean (professore), Gabriele Checchia (ambasciatore), Raffaele De Lutio (ministro plenipotenziario).