SANZIONI E GUERRE COMMERCIALI IN UN MONDO POST-COVID

Questo saggio di Paolo Quercia, analista,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

La pandemia che sta colpendo tutti gli Stati ci ha tutto ad un tratto precipitato nella realtà di un mondo fatto di risorse scarsissime, di ampissime e interconnesse minacce alla sicurezza, di scarsa affidabilità delle alleanze e di logiche predatorie. Alla prova suprema della sicurezza nazionale ogni Paese ricostruisce la sua visione del mondo sulla base del principio dell’interesse nazionale. Un concetto che non esclude le relazioni internazionali, la cooperazione tra Stati ed il multilateralismo, ma si avvale di essi per meglio tutelare gli obiettivi primari nazionali, racchiusi in strategie di lungo periodo. Gli Stati deboli, quelli troppo esposti ad influenze esterne, quelli politicamente e culturalmente immaturi si trovano ora catapultati in una dimensione scomoda.

Costretti ora a portare il fardello della sovranità da soli, si trovano di fronte a sfide culturali enormi, forse più grandi di essi. Specialmente nel campo economico, dove negli scorsi decenni è prevalsa una logica di globalizzazione estrema che ha scaricato le dimensioni della sicurezza e dell’interesse nazionale come inutili ostacoli al perseguimento di margini di guadagno, in verità sempre più ridotti. Superata la fase biologica della pandemia ci troveremo in un mondo dove la competizione economica sarà ancora più spietata e la ricostruzione degli Stati deboli sarà la nuova partita geopolitica. Guerre commerciali, sanzioni e screening selettivo dei flussi di investimenti saranno la nuova dimensione in cui dovranno competere gli Stati, chiamati ancora una volta a decidere come tutelare i propri interessi nazionali in un mondo troppo diverso da quello che molti avevano immaginato.

In Italia pochi termini sono incompresi, e dunque sia maltrattati che abusati, come il concetto di interesse nazionale. Il lungo inverno della guerra fredda, la presenza di forti ingerenze esterne nella politica interna italiana ed una lunga egemonia culturale che possiamo definire anti-nazionale, hanno spinto fuori dal pensiero main-stream questo concetto che ora riemerge nelle tante crisi che circondano il nostro Paese, ultima delle quali, quella pandemica. Dal dopoguerra fino ai primi anni duemila il termine era stato espulso dalla vita politica e dall’informazione di massa e non rappresentava – come avveniva in tutti i Paesi – il filo rosso che lega il funzionamento 165 dei poteri dello Stato e gli interessi privati; non aveva diritto di cittadinanza nella lingua scritta e parlata della pubblica amministrazione che lo sostituiva con altre espressione criptiche e non equivalenti. In alcuni ministeri si è addirittura insegnato ai giovani funzionari di non metterlo per iscritto nelle comunicazioni ufficiali, in quanto termine scomodo, pericoloso, nostalgico, da collegarsi con il nazionalismo se non addirittura con il fascismo stesso. Nelle scuole e nelle università veniva trattato come un concetto negativo e le discipline ad esso connesse – come la politica estera, gli studi strategici, la geopolitica, la sicurezza, l’intelligence – venivano marginalizzate nei percorsi formativi o totalmente cancellate. Oggi per fortuna non è più così, ma i danni di questa stagione sono evidenti nel cattivo uso che tutt’oggi si fa di questo concetto, ritornato, almeno semanticamente, nel vocabolario della politica. Con tutti i rischi connessi di quando un Paese chiacchiera a sproposito di interessi nazionali senza esserne preparato.

Ovviamente il non nominare le cose, il non dare forma ai concetti, il non addestrare i funzionari pubblici a concepire l’interesse nazionale come base della loro azione, il non preparare la pubblica opinione a padroneggiare quello che è il motore delle relazioni internazionali non ha affatto modificato la grammatica della politica internazionale né ha portato alla sostituzione del concetto; ha invece spesso comportato per l’Italia una lunga e continua serie di errori di policy, cronicizzando l’immaturità strategica del nostro Paese. Ciò è evidente nell’assenza di meccanismi istituzionalizzati chiari e trasparenti ove l’interesse nazionale prende forme e viene calato nei problemi concreti della vita del Paese. L’interesse nazionale non è, difatti solo un concetto, generico ed indefinito, ma un cantiere reale, sempre aperto, che si costruisce giorno per giorno, fatto (o disfatto) da decisioni prese (o non prese). A causa delle risorse scarse e della velocità dei processi decisionali, esso obbliga spesso a ragionare in negativo, ossia a compiere la difficile prioritarizzazione di quali interessi sono più rilevanti degli altri, quali sono gli obiettivi vitali e quali quelli subordinati; quali che devono essere raggiunti con l’azione costante dello Stato e quali possono essere lasciati al libero gioco dei mercati e degli interessi privati; quali – e sono i più – necessitano invece di una complicatissima sinergia pubblico-privato e Stato-cittadini. Molto più complicate da raggiungere quando il concetto di interesse nazionale non è stato condiviso nella società e soprattutto nella cultura dello Stato e della classe imprenditoriale. In questo l’interesse nazionale è anche un metodo di allocazione di risorse scarse per il conseguimento di obiettivi vitali, ma va distinto dalle teorie della public choice, per la presenza non solo di interessi contrastanti, sia interni che internazionali, ma anche di una pluralità di minacce che non escludono la 166 possibilità del conflitto. Dove per conflitto oggi fortunatamente non si intendono quelli militari – che restano pur sempre possibili – ma quelli per il controllo dei centri fondamentali della sovranità degli Stati senza formalmente violarne i confini: alti processi decisionali, politiche monetarie e finanziarie, processi legislativi, flussi commerciali.

L’Italia arriva alla crisi del Covid e alle guerre economiche che lo seguiranno con un precario e solo abbozzato concetto di interesse nazionale, specialmente in campo economico. La mancanza di una solida cultura pubblica ed istituzionale dell’interesse nazionale ha portato l’Italia ad essere un Paese in ritardo strategico sugli avvenimenti, bloccato in una visione statica delle relazioni internazionali, spesso in difficoltà a farsi valere sia con gli amici che con gli avversari, sia nel bilaterale che nel multilaterale. Tra i tanti cambiamenti che sono avvenuti nell’ultimo decennio una modifica importante è avvenuta nel sistema internazionale per quanto riguarda le regole di funzionamento della cosiddetta globalizzazione, un tema che tocca da vicino gli interessi economici e politici dell’Italia. La globalizzazione ha fatto esplodere le contraddizioni di un mondo unito dai grandi interessi economici e finanziari ma profondamente differente in quanto a fabbriche sociali, identità culturali, trend demografici, diritti umani, sistemi di valori, spazi di libertà, ruolo dell’individuo nei sistemi politici ed altro ancora.

Esaurita l’ingenua speranza che la globalizzazione economica potesse produrre una occidentalizzazione del sistema mondo e sperimentato che i gap della globalizzazione non potevano essere colmati neanche attraverso la proiezione della forza militare, né con avventurose iniziative di esportazione della democrazia (regime change, state building e nationbuilding), l’Occidente si è iniziato a porre il problema di come evitare che la redistribuzione della potenza su scala globale potesse mettere in pericolo i suoi interessi ed i suoi valori. È dunque iniziata, da almeno un decennio, una corsa al riposizionamento degli interessi nazionali dei principali Stati occidentali, in cui i vecchi paradigmi dell’euro-atlantismo e della globalizzazione, pur utili, non erano più sufficienti a garantire gli interessi di lungo periodo in un mondo in profonda trasformazione e parziale de-globalizzazione. Viviamo ormai, piuttosto inconsapevolmente, in una finestra di riposizionamenti geopolitici fatti di trasformazioni sconvolgenti, radicali cambi di paradigma e nuove posture degli Stati. Inutile citare i tanti esempi, ma doveroso sottolineare il ritardo con cui l’Italia ha cercato di adeguarsi a questi cambiamenti. È importante considerare che molti di questi cambiamenti hanno luogo sul terreno della ridefinizione degli interessi nazionali in un mondo globalizzato in cui cioè i conflitti tra gli Stati avvengono senza confini e prevalentemente all’interno della dimensione economica. È qui che si sta svolgendo un enorme braccio di 167 ferro geopolitico per la ri-definizione del sistema dei sistemi che, non potendo essere governato, finirà per fratturarsi in più globalizzazioni competitive, con l’emersione di nuovi confini economici e finanziari che regoleranno le interconnessioni tra aree regionali a differente influenza geopolitica.

Negli Usa, il Paese che è stato e tuttora è il motore della globalizzazione occidentale i decisori strategici hanno iniziato, già negli anni post 11 settembre 2001 a sviluppare con sempre maggiore frequenza tipologie sofisticate di sanzioni economiche da impiegare come strumenti di politica estera al posto (o assieme) agli strumenti militari. Le sanzioni e le restrizioni economiche sono divenute sempre più ricorrenti, sempre più efficaci e, soprattutto, sempre più mirate ed individuali. L’impiego di queste sanzioni di nuova generazione sono contenute già nella Strategia di Sicurezza nazionale americana del 2005 di Obama, anche se sono ancora presentate come strumento di un intervento compatibile con l’economia globale. I cambiamenti che sono avvenuti negli anni seguenti, in particolare a partire dal 2008 in avanti, hanno progressivamente prodotto un ampliamento e una trasformazione della potenza economica intesa sempre più come dimensione della sicurezza e come strumento per il raggiungimento di obiettivi politici. Gli Usa hanno iniziato a fare sempre più leva sul ruolo ricoperto dal dollaro nel sistema degli scambi finanziari internazionali e sul fatto che l’America detiene molte delle principali tecnologie chiave necessarie per garantire gli sviluppi industriali del futuro. Questa strategia è stata elevata ad uno dei principali strumenti di politica estera da parte del presidente americano Trump, che ha enormemente ampliato la portata delle sanzioni economiche, le ha affiancate con una politica dei dazi legata alla sicurezza nazionale avviando numerosi conflitti commerciali, anche con l’Europa. Inoltre, Trump ha profondamente ampliato l’uso delle cosiddette sanzioni secondarie (rivolte a non-US persons) che colpiscono non le aziende Usa o dei Paesi colpiti dalle sanzioni ma quelle di Paesi terzi, se esse non si conformano alle restrizioni previste dalla normativa americana. Inoltre, ha esteso ad altri campi la coercizione economica come strumento di pressione politica, come ad esempio quello dell’export control, basato sulle autorizzazioni per le esportazioni e sul maggiore screening dell’impatto degli investimenti esteri.

Una cosa molto importante per la ridefinizione dell’interesse nazionale italiano: è bene comprendere come si amplierà per l’effetto congiunto de-globalizzazione/Covid il sistema delle sanzioni/export-control/FDIcontrol e come esso impatterà sulla sicurezza economica nazionale, europea ed internazionale. L’efficacia delle sanzioni e dell’export control in futuro non sarà solo misurata nei termini degli effetti politici o economici prodotti verso il Paese target ma anche – e forse soprattutto – sul loro effetto di «creazione» di nuovi confini 168 economici-commerciali ottimali. Saranno cioè i tool-of-choice per la riconfigurazione del sistema transatlantico lungo nuovi confini economici volti a ridurre le capacità di crescita economiche e tecnologiche dei principali sfidanti. Ciò si basa ovviamente sulla capacità degli Usa di persuadere (o costringere) Paesi amici, alleati o terzi ad uniformarsi alle restrizioni imposte dalle loro mutevoli logiche geopolitiche; ma anche sulle residue capacità degli alleati di resistervi o di negoziare alternative che includono i propri interessi. Lo scenario che ci sembra incombente è quello di una sempre maggiore fratturazione della globalizzazione in regioni e aree economicamente integrate perché politicamente omogenee con nuovi confini commerciali. L’Europa, attraversata da una crisi senza precedenti politica, finanziaria e medicale, sarà chiamata a concettualizzare un suo interesse complessivo in questa partita. E non è detto che ciò risulterà possibile. L’emergenza Covid si inserisce in questi scenari, accelerandone lo sviluppo ed aumentando la posta della partita strategica apertasi per l’egemonia nel mondo post-globale. Una partita che a questo punto si giocherà lungo due dimensioni chiave: quella della sicurezza biologica e quella della sicurezza economica. Ciò era già esplicitamente riconosciuto nella Strategia di Sicurezza Nazionale del 2017 di Trump, dove la sicurezza economica viene definita come una forma di sicurezza nazionale in un mondo in cui la competizione ormai non è più di carattere militare ma tecnologico e commerciale.

L’effetto Covid amplierà ulteriormente questa tendenza, aumentando il consenso su queste politiche anche al fronte democratico. Per quello che attiene all’Italia, è fondamentale ricordare che da qualche anno si è aperta una nuova partita per l’interesse nazionale. La capacità di un Paese di tutelare i propri interessi economici è divenuta una responsabilità a 360° che impone una nuova collaborazione tra Stato ed imprese e amplia le responsabilità dello Statecraft economico. Il tipo di internazionalizzazione del Sistema Paese sarà sempre più una questione legata alla sicurezza nazionale e alle grandi scelte politico-strategiche. Quali che siano stati i ritardi passati nel costruire in Italia una visione dell’interesse nazionale, oggi è chiaro che nella nuova stagione post-Covid devono essere rimossi e deve essere perseguita una adeguata consapevolezza del ruolo strettissimo che esiste tra interesse nazionali e rapporti economici internazionali. E del significato crescente che restrizioni commerciali e sanzioni economiche hanno acquisito e acquisiranno nel campo delle relazioni internazionali.

Oggi è sempre più importante avere una capacità di influire sui processi di creazione di queste nuove frontiere del commercio internazionale che si stanno creando sotto i nostri occhi. Ci sono alte probabilità che la geopolitica post-Covid si svolgerà in un mondo di protezionismi, restrizioni commerciali e sanzioni. Una delle frontiere più avanzate della tutela degli interessi nazionali 169 in questo mondo sarà proprio quella di costruire la capacità per un Paese esportatore come l’Italia di mantenere aperti i mercati esteri anche in un contesto di destrutturazione della globalizzazione e di elevata concorrenza economica.

*Paolo Quercia, docente di Studi Strategici, direttore scientifico del progetto A World of Sanctions

GEOPOLITICA E COMMERCIO ESTERO

In occasione della presentazione del terzo Rapporto AWOS presentato giovedì 15 ottobre ore 12 presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato, pubblichiamo la prefazione del Senatore Adolfo Urso.

Le sanzioni internazionali, le restrizioni commerciali, le guerre doganali sono ormai divenute realtà emergenti nel commercio estero. Tutti i giorni nelle cronache degli affari internazionali si trovano sempre più esempi della loro crescente rilevanza, nel bene e nel male. Su base ormai quotidiana si minacciano sanzioni, si discutono nuovi regimi sanzionatori, si rinnovano quelli in corso, si bloccano conti correnti, si listano persone fisiche, imprese e navi; si impedisce l’export di certe tecnologie o si pongono dazi per motivi politici.

Non con la stessa frequenza con cui sono messe, ma le restrizioni economiche vengono anche tolte o ammorbidite; si delistano entità, si tolgono Paesi dai regimi sanzionatori, si fanno accordi internazionali che pongono le basi per la rimozione delle barriere. Il Sudan è da poco uscito dalle sanzioni internazionali, gli Emirati Arabi Uniti hanno tolto l’embargo ai prodotti israeliani mentre il presidente Trump sta corteggiando il presidente Nord Coreano per giungere ad un accordo che potrebbe sbloccare quello che è il regime sanzionatorio più esteso del mondo.

Non solo gli Usa, ma anche l’Unione Europea hanno ormai identificato le sanzioni, le numerose forme di export control e gli screening degli investimenti in entrata come uno degli strumenti indispensabili nelle relazioni internazionali di un mondo sempre più post-globale. Basta seguire le riunioni del Consiglio degli Affari Esteri dell’Unione Europea che si tengono a Bruxelles per vedere ormai che le sanzioni sono divenute il principale, se non l’unico, strumento di politica estera e di sicurezza dell’UE.

Purtroppo non tutti i regimi sanzionatori e di controllo sono giusti o necessari. Lo è quello che colpisce il regime di Maduro in Venezuela. Altri, come quello verso la Russia, appaiono essere superati e non più in grado di raggiungere gli obiettivi originali. In mezzo a questi due estremi ve ne sono tanti altri. L’Unione Europea ha in vigore ben 37 regimi sanzionatori, grandi e piccoli. Poi vi sono quelli americani che a volte, come nel caso di Cuba ed in quello dell’Iran, possono colpire aziende europee anche extraterritorialmente.

La domanda fondamentale a questo punto diventa: cosa può fare un Paese come l’Italia per far si che l’interesse nazionale non venga danneggiato dai regimi sanzionatori e dalle altre restrizioni, vincoli e controlli agli scambi economici internazionali? Purtroppo i governi italiani non sempre sono riusciti a conciliare l’adesione ai regimi sanzionatori con la tutela degli interessi economici italiani e con la sicurezza economica del nostro Paese. Il risultato è che abbiamo spesso visto danneggiati i nostri esportatori ed abbiamo assistito ad indebolimento del nostro sistema produttivo su mercati internazionali. L’Iran e la Russia sono due casi esemplari, da questo punto di vista. Due mercati chiave per l’internazionalizzazione delle nostre imprese dove l’Italia ha perso quote di mercato proporzionalmente più ampie di quelle perdute da altri Stati europei o altri Paesi concorrenti. Per l’effetto delle sanzioni o l’Europa ha perduto quote di mercato importanti mentre i nostri avversari commerciali finivano per avvantaggiarsi delle limitazioni alle nostre esportazioni. La Cina, ad esempio, ma anche l’India o la Turchia sono Paesi che hanno beneficiato delle sanzioni varate dall’Occidente.

Per l’Italia esiste poi un altro problema da prendere in considerazione, ossia la struttura dell’impresa italiana, per lo più di minore dimensione di quella di altri paesi nostri concorrenti. Ciò comporta inevitabilmente maggiori difficoltà e costi nella gestione del rischio Paese, nel monitorare e nell’adattarsi alle norme sanzionatorie internazionali.

Il mondo delle sanzioni e delle restrizioni al commercio internazionale non rappresenta dunque solo una sfida per il rispetto delle norme internazionali, ma anche per la competitività globale dell’Italia.  I Paesi che sanno produrre sanzioni, sanno negoziare quali sono le merci e le imprese da includere e quelle da lasciare fuori; che sanno ricercare ed ottenere le giuste eccezioni nella costruzione dei regimi sanzionatori, possono ridurre il danno o addirittura sfruttare le restrizioni per aumentare le proprie quote di mercato.

Per fare questo lavoro, per nuotare anche contro la corrente di una crescente pressione sanzionatoria  servono aziende di grandi dimensioni produttive e finanziarie; ma soprattutto serve che lo Stato sia molto vicino alle imprese, soprattutto le medio-piccole, proteggendole dalle distorsioni che l’applicazione indiscriminata dei sistemi restrittivi del commercio estero può produrre.

In molti casi l’Italia appare purtroppo non aver tratto alcun giovamento ma danni economici dai principali regimi sanzionatori cui il nostro Paese ha aderito, spesso senza poter adeguatamente intervenire nei momenti in cui sono preparati e costruiti gli stessi regimi sanzionatori. Anche per questo, sarebbe necessario che l’Italia fosse più assertiva in seno all’Unione Europea in quelle fasi in cui sono costruiti gli impianti delle sanzioni, anche indirizzando l’Unione europea a valutare meglio le conseguenze economiche di una politica delle sanzioni prolungata nel tempo e a realizzare una politica più  stringente nel campo degli  accordi laterali preferenziali con particolare attenzione ai mercati per noi più promettenti. Le sanzioni hanno senso se sono dirette, condivise e applicate da tutti, di breve durata ed effettivamente efficaci. Quando si prolungano nel tempo, senza raggiungere gli obiettivi, diventano controproducenti per chi li applica e anche per le popolazioni che li subiscono.

Se le sanzioni sono un male necessario, dobbiamo però prendere atto che esistono sanzioni accettabili per il sistema produttivo, sanzioni neutre e sanzioni pessime. Ogni Paese fortemente legato al commercio internazionale deve dunque dotarsi di una politica delle sanzioni, che consente di pilotare gli esiti sanzionatori in maniera compatibile o meno sfavorevole possibile agli interessi economici e nazionali. Questa capacità di governo delle sanzioni è oggi divenuta una vera necessità per la sicurezza economica nazionale. Il progetto AWOS – A World of Sanctions e i rapporti annuali su geopolitica e commercio estero che questo think tank realizza rappresentano ormai da molti anni in Italia un importante punto di dibattito per lo studio e l’analisi delle sanzioni e dell’export control.

*Adolfo Urso, vicepresidente Copasir

 

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L’Italia nel vuoto, il vuoto d’Italia. L’azione internazionale nella stagione del ritorno degli interessi nazionali: geopolitica, economia, sicurezza

L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Center for Near Abroad Strategic Studies

Sono intervenuti: Paolo Quercia (direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies), Adolfo Urso (presidente della Fondazione Farefuturo), Alberto Negri (giornalista de Il Sole 24 Ore), Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Guido Crosetto (presidente dell’AIAD), Carlo Jean (professore), Gabriele Checchia (ambasciatore), Raffaele De Lutio (ministro plenipotenziario).