Cominciamo a riformare l’ONU

Lo avevamo intuito già all’indomani del fatidico 24 febbraio, inizio dell’aggressione russa in Ucraina.Ed oggi dopo aver vissuto, anche soltanto attraverso i media, questi ultimi 43 giorni di guerra ce ne convinciamo sempre di più.
Siamo ad un punto di svolta nella storia, un passaggio epocale.
Il mondo che sognavamo non c’è più, e forse non c’era nemmeno prima!
A questa conclusione siamo giunti applicando la conseguenza logica degli orrori del fronte, di una riprovazione internazionale mai vista, di gravi sanzioni che fanno male a chi le applica prima che a chi le subisce, dell’uso degli epiteti e aggettivi personali più infamanti, delle minacce durissime paventate da ambo le parti.
Tutto ciò porta ahimè ad una pratica irreversibilità della situazione, la certezza, più che il timore, che nulla sarà più come prima.

E se è vero che questo “prima” ha contribuito a portare il mondo sull’orlo del baratro di missili nucleari ormai a “sicure disinserite”, è anche vero che bisognerà assolutamente cambiare il sistema che dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale ha condizionato  il mondo.
Oggi ho finalmente concordato in pieno-e non mi succede spesso-con Zelensky quando ha affermato che chi siede nel consiglio di sicurezza dell’ONU non può macchiarsi di crimini contro l’umanità e quando ha chiesto a gran voce una nuova Norimberga: due temi a me cari.
Il primo sull’ONU, che io considero  la madre di tutte le ingiustizie.

Nonostante occorra dare atto al coraggio della diplomazia italiana che provò a riformarlo nella metà degli anni 90, ad opera del compianto Ambasciatore Francesco Paolo Fulci, senza che gli ex “five winners” abbiano mollato l’odiosa e ormai  anacronistica rendita di posizione imposta come fece Brenno con la sua spada.
Il secondo tema proviene dal non poter dimenticare le atrocità dei bombardamenti a tappeto con cui i sedicenti alleati hanno ucciso migliaia di inermi civili nostri connazionali (anche lì c’erano donne e bambini)  e raso al suolo le nostre città, patrimonio dell’umanità. Per non parlare poi delle bombe atomiche americane sganciate per provarne l’efficacia su centinaia di migliaia di giapponesi, ormai distrutti e pronti ad una resa incondizionata.

Gli enormi errori geostrategici commessi dal sistema “post war two” sono molteplici,impressionanti nelle loro conseguenze e meriterebbero il contributo di tutto un mondo realmente libero e svincolato dagli interessi di questa o quella parte. È questa la sola utopia che può salvarci dall’ auto annientamento? Non so, intanto cominciamo a rimettere in discussione l’ONU.

*Carmelo Cosentino, ingegnere, presidente ASE spa

Caro energia: contro speculazioni intervenga lo Stato

L’ascesa del prezzo del gas di oltre 10 volte nel corso di pochi mesi ha qualcosa di sconcertante per due motivi. Il primo motivo è che le risorse energetiche non sono comparabili allo scooter o al cappotto, che si decide se comprare o meno e con qualità diverse a seconda del portafogli, bensì trattasi di beni essenziali, di fattori produttivi. Il secondo motivo è che tale aumento sia avvenuto senza un’efficace contrasto da parte della pubblica autorità.

Analogamente a quanto successo molte volte nei mercati finanziari di mezzo mondo, è accaduto che speculatori professionali siano riusciti a portare i prezzi sul “libero mercato” a livelli non sostenibili dalla popolazione, sotto lo sguardo impotente, quando non indifferente, di quelle autorità che dovrebbero tutelarla. Autorità nazionali o europee poco importa, il risultato è lo stesso.

L’elettricità è anch’essa fortemente legata al gas: così, se il prezzo del gas sale da 30 a 150 €/Mwh, ecco che l’elettricità, pur prodotta mediante fonti diverse (gas, carbone, rinnovabili, nucleare etc.) si vende ad analogo prezzo sul mercato, perché è la fonte più cara a concorrere nella formazione del prezzo.

Se dunque io sono un accumulatore di gas che ha comprato (poniamo) a 50 ed oggi rivendo a 100, avrò un superprofitto del +100% in tre mesi, senza che questo sia giustificato dall’aver realizzato nessun investimento di natura produttiva, avendo invece solo speculato ai danni della signora Maria che paga la bolletta del gas.

Parimenti, se io sono un produttore di elettricità da fonte solare o eolica, con un costo di produzione di (poniamo) 30 €/Mwh, mi trovo a vendere l’elettricità da un momento all’altro da 60 a 300 €/Mwh, sempre ai danni della signora Maria che paga la bolletta elettrica.

Si dirà che i numeri non sono esattamente questi, che la tecnicalità è complessa, che il discorso è semplicistico, ma di fondo la questione non è molto più complicata di questa.

Il governo italiano ha iniziato a tassare gli extraprofitti nati da questi semplicistici esempi. Ma pensiamo che basti il 10% di imposta addizionale? Gli extraprofitti non avrebbero mai dovuto avere luogo, perché bisognava porre in essere meccanismi di fissazione del prezzo in fasi di ingiustificato rialzo (o ribasso) del mercato, che equivale a tassare gli extraprofitti ma in modo più chiaro e pulito.

A parere di chi scrive, bisognerebbe ritornare a discutere di un prezzo di vendita dell’energia concordato con lo Stato, nazionale o europeo. La fissazione di una banda di oscillazione dei prezzi, all’interno del quali si muovano gli operatori di mercato, potrebbe tutelare dagli eccessi speculativi sia in rialzo (a favore dei venditori) come in ribasso (a sfavore dei venditori). Perché vanno evitati anche prezzi eccessivamente bassi che potrebbero frenare gli investimenti produttivi.

Naturalmente si può condizionare o imporre un prezzo ai produttori interni ma non quelli di importazione. Eppure l’autorità politica dell’intera Unione Europea, grande importatore di energia, potrebbe far sì che tali imposizioni del prezzo possono avvenire non soltanto nei confronti dell’Eni italiana, della Total francese o del produttore eolico in Puglia, ma anche nei confronti dei fornitori esteri.

I fattori produttivi, diversamente dai beni di consumo, non andrebbero mai lasciati al solo mercato. Come per il lavoro esistono legislazioni di tutela di salario e condizioni contrattuali, al medesimo modo andrebbero trattati prezzi e modalità della compravendita di energia.

 

*Stefano Filippini Lera, esperto di finanza di impresa

La dimensione strategica della sicurezza energetica in Italia.

Come ogni anno, con l’inverno che entra nel vivo, l’Italia è chiamata a fare i conti con la prevedibile crescita della domanda di energia. Accanto alle perduranti criticità che cronicamente si trascinano e riguardano lo squilibrio degli approvvigionamenti di gas naturale, quest’anno per la prima volta si sono palesate le difficoltà della transizione ecologica, il ritorno dell’inflazione (in parte indotta proprio dal prezzo dell’energia), tensioni geopolitiche (Russia e Kazakhistan) e le strozzature della catena del valore. Questi cinque fattori, che pure presi singolarmente erano in grado di esercitare una notevole pressione sulle condizioni di debolezza intrinseca dell’Italia, si sono combinati dando luogo ad un fenomeno distruttivo su scala internazionale di cui ancora facciamo fatica ad intuire la portata.

È noto che il nostro paese ormai da un trentennio pecchi dal punto di vista programmatico delle ampie vedute che avrebbero potuto, almeno in parte, correggere la rotta. Fattori esogeni ed endogeni si sommano mettendo a dura prova linee di difese, la cui sola concezione richiederebbe anni di pianificazione da un punto di vista strategico. Appurata l’assenza di quest’ultima su scala Europea, quasi tutti gli Stati membri sono stati costretti, ancora una volta, ad affidarsi a tatticismi improvvisati senza una regia affidabile affidabile, che spesso nascondono le vere responsabilità imputabili a chi, con grande miopia, ha apparentemente privilegiato gli interessi del proprio universo produttivo (è il caso paradigmatico della Germania), ricavandone tuttavia molto meno di quanto pianificato per una serie di errori (tra cui l’abbandono del nucleare), frutto di immaturità decisoria, che si ripercuotono su tutta l’Unione.

È pur vero che individuare il principale “colpevole” del momento rischia di essere uno sforzo puramente teorico. La complessità del mondo globalizzato unita alle peculiarità del mercato dell’energia, soprattutto dal lato dell’offerta, fanno sfumare i confini delle responsabilità. È noto già da prima che i pochi pozzi propagandistici di Mattei fiorissero nella Pianura Padana, che l’Italia non sia mai stata un importante produttore di idrocarburi e in generale si trovi nella difficile condizione di chi è privo di importanti materie prime. Per questa ragione, anche volendo i volumi di metano estratti nell’Adriatico non potrebbero superare i 5 miliardi di metri cubi in un arco di tempo almeno triennale, che permetta di riallineare la produzione con gli investimenti necessari mai effettuati. Questi ultimi per essere programmati necessitano di un quadro regolatorio omogeneo che garantisca gli operatori dalle giravolte improvvisate della politica, senza certezza del diritto le trivelle rimarranno ferme. Con la liberalizzazione dei mercati dell’energia, l’Italia ha rinunciato ad attrarre considerevoli investimenti di imprese estere dell’oil&gas per le attività di prospezione mineraria: una filiera virtuosa, con il pregio di garantire una piccola protezione nei confronti di tempeste geopolitiche e che avrebbe contribuito ad integrare l’ottimo meccanismo di stoccaggio di cui il nostro paese si è dotato e che con l’autoproduzione ai minimi è destinato ad operare a metà.

Esulano dal destino dei pozzi dell’Adriatico e del canale di Sicilia le scelte attuate su scala Europea che hanno condotto l’Unione nelle mani della Russia. Una condizione di assoluta debolezza, fonte di numerosi interrogativi, che ha visto una crescita dei suoi profili di criticità in corrispondenza delle crisi geopolitiche degli ultimi 15 anni. L’UE oggi ha scelto consapevolmente di vestire i panni del vaso d’argilla e con le tensioni in Ucraina e Bielorussia si trova alla mercè degli eventi: alla prospettiva scongiurata di sanzioni sul gasdotto Nord stream 2, ancora in attesa delle autorizzazioni nonostante la fine dei lavori, si aggiunge la totale indisponibilità dell’Unione ad accodarsi agli Stati Uniti per imporre ulteriori sanzioni alla Russia sull’export di idrocarburi.

Non è paradossale immaginare anzi, che in caso di escalation in Ucraina possa essere Mosca a ridurre o tagliare le forniture, facendo piombare l’Europa in una crisi energetica simile a quelle che negli anni 70’ costarono all’Italia il tracollo dell’industria chimica e il ricorso ad un prestito del Fondo Monetario Internazionale, un MES ante litteram.

Se il ragionamento degli Stati Uniti si inserisce nella convinzione diffusa che il completamento del Nord stream 2 possa più agevolmente compromettere la stabilità economica dell’Ucraina, legata a doppio filo al transito del gas, che verrebbe facilmente aggirata e privata dei mezzi di sostentamento, è tutto da dimostrare l’assunto che la Russia disponga di una produzione di idrocarburi artificiosamente calmierata per scatenare una guerra dei prezzi: Mosca paga lo scotto delle sanzioni imposte durante la prima crisi Ucraina che hanno danneggiato l’industria estrattiva di Stato, già gravata da croniche inefficienze e scarsamente propensa ad attuare quegli investimenti la cui mancanza viene avvertita anche in altri paesi esportatori che, al contrario della Russia, hanno potuto contare su scambi di tecnologia mineraria pressoché illimitati con gli Stati Uniti e l’Europa.

Tutti gli sforzi diplomatici profusi dalle amministrazioni americane per contrastare il progressivo incremento della dipendenza energetica dell’Unione Europea nei confronti della Russia sono falliti e c’è da aspettarsi che presto le valvole del Nord stream 2 verranno aperte, non appena arriverà l’imprimatur amministrativo. Anche il suo gemello meridionale, il South stream in cui Eni giocava un ruolo fondamentale, è riemerso sotto mentite spoglie nel Turkstream che ha comportato un’ipoteca sull’autonomia energetica dei paesi balcanici e cementato i legami tra un ambiguo paese NATO e il più importante fornitore di gas naturale dell’Unione Europea.

C’è da chiedersi se la miopia pianificatrice che ha interessato lo sviluppo dei nuovi gasdotti sia il concorso di più fattori di carattere politico ed economico e delle presunte connivenze che, lungi dall’essere dimostrate, ne hanno accompagnato la realizzazione e da cui nemmeno le voci contrarie possono dirsi immuni.

Oggi il quadro energetico europeo appare irrimediabilmente compromesso. L’inflazione indotta dall’aumento dei prezzi di petrolio e gas naturale rischia di alzare significativamente il livello di scontro sociale e portare all’esasperazione un continente stretto ancora nelle morse della pandemia, ogni tentativo di invertire la rotta o di alzare i toni con Mosca si è tradotto in un simbolico aiuto Americano consistente in una flotta di navi gasiere che coprono appena il consumo giornaliero dell’Unione. In caso di scontro armato tra Russia e Ucraina è l’UE a rischiare le conseguenze peggiori e la consapevolezza di questa ambiguità ormai instillata nelle agende di Capi di Stato e di Governo va al passo con l’inettitudine di istituzioni prive di legittimazione decisionale.

Tutte le soluzioni valutate come compatibili con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica sono state colpevolmente accantonate o sono risultate dei parziali correttivi: il gasdotto TAP è oggi in servizio dopo anni di deliranti boicottaggi ambientalisti e garantisce uno sbocco fondamentale al gas Azero, che in un futuro prossimo potrebbe essere affiancato da quello Turkmeno se la pipeline fosse prolungata sino all’altra sponda del Caspio. EastMed pur non essendo apparentemente necessario dal punto di vista della domanda rappresenta un asset fondamentale di diversificazione degli approvvigionamenti, nonché un importantissimo strumento geopolitico su cui l’Italia avrebbe potuto basare una ancorché limitata influenza. Impossibile non menzionare il futuribile gasdotto transahariano ormai in avanzato stato di progettazione e destinato a collegare la Nigeria all’Algeria, che sarebbe stata la plastica rappresentazione dell’impegno dell’Unione Europea per la pacificazione del Sahel. Al momento non si intravvedono scelte in tal senso neppure da parte dell’Italia che dovrebbe avere tutto l’interesse a sostenere il progetto, pur pagando lo scotto delle continue inchieste della magistratura milanese che hanno flagellato le attività di Eni in Africa, danneggiando la credibilità internazionale del gruppo e del suo management, sottraendo valore al suo primo azionista: lo Stato Italiano.

Un copione che negli ultimi anni si è ripetuto due volte, colpendo gli affari in due paesi fondamentali per la diversificazione delle importazioni di gas naturale. La Nigeria infatti si candida a giocare un ruolo di primo piano anche nell’esportazione del GNL insieme ad Egitto, Angola e Mozambico. L’Algeria rimarrà un partner fondamentale per i prossimi decenni.

Se il Mediterraneo non ha avuto grande fortuna, nemmeno gli sforzi di diversificare in Asia Centrale hanno segnato traguardi importanti. Se di petrolio si parla non si può non citare il giacimento di Kashagan che costò la guida di Eni a Mincato dopo 10 miliardi bruciati nelle profondità del Caspio, per il gas naturale è andata meglio e Karachaganak appare minacciato solo dalle nuvole che si addensano sul futuro del Kazakhistan e che rischiano di compromettere l’attività di siti estrattivi di notevole importanza. Dispute sul controllo dei ricchi giacimenti del Caspio hanno impedito al Turkmenistan di affermarsi come forte esportatore di gas naturale in Europa e ad oggi è improbabile che questo avvenga con la costruzione di un nuovo gasdotto.

La scelta di puntare tutte le fiches sulla Russia ha saturato l’offerta di gas naturale e reso apparentemente sconveniente costruire nuove pipeline. I costi nascosti non contemperano però gli aumenti repentini dei prezzi a cui saremo chiamati a far fronte comune nei prossimi anni in assenza di investimenti su scala globale. Poter contare su una più vasta pletora di fornitori avrebbe permesso all’Unione Europea di prendere una posizione più decisa nei confronti di Mosca, pur non pregiudicando in alcun caso l’importazione di idrocarburi che si sarebbe svolta con un minor rischio di ritorsioni, perché in fondo ad un’economia arretrata e basata sulle materie prime come quella Russa è imperativo vendere per poter comprare.

Un’ulteriore alternativa degna di nota, che vede l’arrendevolezza della Germania far soccombere gli altri Stati membri, è l’uso del nucleare come sostegno all’elettrificazione delle filiere economiche europee. Con la chiusura delle centrali Berlino si avvia a decretare un inverno energetico parzialmente compensato da quei bizzarri strumenti che sono i meccanismi di capacità, pronti a bruciare costosa lignite (se opportunamente sussidiati), quando le nuvole coprono il sole e non soffia vento nei parchi eolici del mare del Nord. Senza contare le conseguenze ambientali drammatiche, sottese a questa scelta immatura che pesa sull’eredità di Angela Merkel, la decisione di rinunciare all’atomo rischia di sommarsi alle strozzature della supply chain che stanno rendendo economicamente impossibile la transizione ecologica, unita all’inflazione che probabilmente ne è diretta conseguenza.

A conti fatti, un corollario di errori da matita blu difficilmente risolvibili nel breve periodo, richiederà nei prossimi anni soluzioni concrete, a partire dai nuovi investimenti nel settore minerario che sarà centrale per assicurare la tenuta sociale più che ipotetiche derive ideologiche destinate a consumarsi a contatto con la realtà, come ogni massimalismo all’esito dell’incontro con la Storia. I sistemi di accumulo da soli non salveranno l’Europa del 2025 e probabilmente nemmeno quella del 2030, la miopia geopolitica condanna l’Unione di oggi e farà lo stesso con quella di domani. È certo che il gas naturale ci accompagnerà ancora a lungo e l’idrogeno non sarà mai prodotto in modo conveniente e senza emissioni se non ricorrendo all’energia nucleare, unico modo di affrontare l’elettrificazione della società post-industriale. Pensare di alimentare il sistema produttivo con i parchi eolici può essere un’utopia ancora più pericolosa di chi predica la chiusura di fabbriche e acciaierie.

Per farsi trovare all’altezza delle sfide del reshoring è necessario garantire quel minimo di stabilità dei prezzi che convinca gli investitori internazionali a scommettere sull’Europa, non solo come terra di consumo ma anche di produzione. Un orizzonte che si avvicina sempre più e che rischia di condannare l’Italia in primis alla desertificazione industriale, con i redditi che non crescono falcidiati da bollette sempre più esose e un’inflazione indotta dai prezzi dell’energia che condiziona in concreto la vita dei cittadini, in nome di un ambientalismo ideologico e pericoloso che sembra aver smarrito la sua carica sociale che in passato l’ha contraddistinto.

Includere nucleare e gas naturale nella tassonomia “verde” della Commissione è una mossa necessaria che dovrà essere integrata con un regime agevolato di aiuti di stato e uno sforzo comune andrà indirizzato allo stoccaggio comune del metano su scala Europea, ad oggi la più importante riserva strategica nel vecchio continente che ha “rinunciato a combattere”.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Per una Italia più forte e più verde

In previsione della convocazione del G20 a Roma il 30-31 Ottobre di quest’anno, la Fondazione Edison ha pubblicato un fascicolo intitolato G20 and the Italian economy, key indicators to be kept in mind, tanto prezioso per i contenuti raccolti quanto chiaro nell’esporli.

L’incredibile combinazione fra alta efficienza nell’uso dell’energia (l’Italia è il secondo paese meno energy-intensive del G20 dopo Regno Unito) e ridotte emissioni di anidride carbonica (terzo dopo Argentina e Francia con 302.8 MTons di CO2 emesse), rendono il Bel Paese un caso più unico che raro nel panorama delle potenze occidentali, specie se si considera che la Francia, che produce più del 40% della propria energia con centrali nucleari ad emissione praticamente zero, emette annualmente circa 293.2 MTons di CO2. Storicamente povera di materie prime, di minerali sia energetici che non, l’Italia è sempre stata in grado di “fare molto con poco” e ne è un chiaro esempio il proprio mix energetico, specchio di un paese geograficamente ed economicamente molto disomogeneo ma al contempo paradigmatico della transizione verso un’economia ad emissione carbonica zero, per la quale non solo partiamo avvantaggiati, ma in grado di dettare la linea.

Il mix energetico italiano si basa su tre assi portanti: derivati liquidi del petrolio (circa 37%), gas naturale (circa 35%) e rinnovabili (circa 20%). Le recenti scoperte di giacimenti nel mar Mediterraneo, l’inizio dello sfruttamento dei pozzi a largo di Ravenna e nell’Adriatico e i nuovi gasdotti col vicino oriente (TAP e EastMed) aumentarenno rapidamente il contributo del gas naturale, destinato ad avere un ruolo cruciale nella transizione energetica per le basse emissioni e la grande disponibilità in natura, a scapito del petrolio liquido soppiantandolo già dal 2030.

La riduzione ulteriore delle emissioni di anidride carbonica deve rientrare infatti nella strategia economica e commerciale del sistema paese dei prossimi anni, ispirandone l’approccio verso le nuove tecnologie, aprendo la strada, in intesa coi nostri partner, al meccanismo tariffario carbonico che l’Unione Europea sta preparando e facendoci guadagnare vantaggio sui memorandum degli accordi di Parigi.

La decarbonizzazione dell’economia deve essere un’opportunità per l’Italia per azzerare la dipendenza energetica dai paesi del nord Europa e riportare il baricentro dell’economia comunitaria nel bacino del mediterraneo. In questa direzione va la nuova geopolitica del gas naturale ma anche le fonti rinnovabili, che sfruttano soprattutto l’energia solare e quella eolica verso le quali la transizione completa è prevista entro il 2050.

La maggior limitazione all’uso su larga scala di queste fonti, che sono lo step successivo all’uso del gas naturale, è dato dal basso rendimento (circa il 20% per i pannelli fotovoltaici e 40% per le pale eoliche), l’intermittenza della produzione di energia e la difficoltà nel trasporto. Sfruttare un vettore energetico puo’ essere la soluzione. La SNAM, controllata cdp ed eccellenza italiana nella distribuzione di gas naturale, sta scommettendo nella produzione e distribuzione, ormai dal 2019, di una miscela di idrogeno e gas naturale per consumo industriale, partendo dal 5%, fino ad arrivare pochi giorni fa (19/05/2021) all’uso di una miscela al 30% H2 e gas naturale in un forno per la forgiatura di acciaio.

L’uso di tale vettore energetico pone molte criticità a causa delle elevate pressioni di stoccaggio e dalla tendenza del gas ad interagire con i metalli normalmente usati nelle condotte di distribuzione del gas provocandone un severo infragilimento che porta spesso a rottura improvvisa compromettendo la vita di tutto l’impianto.

Lo sviluppo di una filiera tecnologica per la produzione, la distribuzione e lo sfruttamento di questo elemento rientra nel perimetro dell’interesse nazionale per varie ragioni:

1 – l’Italia è uno dei primi paesi al mondo per la produzione di valvole, turbine a gas ed elementi di condotte per l’oil and gas (il solo export dei primi due elementi vale 8.21 e 4.9 miliardi di euro all’anno). Lo sviluppo di acciai speciali adatti al trasporto di idrogeno sarebbe un volano per i nostri settori industriali, ridando vitalità a tutto l’indotto, dalla ricerca e sviluppo, alla produzione e fino ai trattamenti superficiali del manufatto.

2 – Si potrebbe creare una filiera tutta italiana di sviluppo della tecnologia su cui già siamo leader, con potenzialità dell’ordine di grandezza del commercio mondiale.

3 – Sfruttando la produzione per idrolisi dell’idrogeno è possibile raggiungere l’indipendenza energetica abbinando le celle idrolitiche a centrali fotovoltaiche o eoliche offshore che servirebbero da veri e propri giacimenti di gas a largo delle coste italiane o nei deserti nord africani ricchissimi di luce solare, laddove le condizioni lo permettessero.

La transizione energetica richiederà una formula mista di produzione dell’energia per la quale siamo già preparati ma serviranno sforzi significativi di riconversione, data l’insostenibilità economica di ricreare un sistema di distribuzione e produzione dell’energia ex novo. Riuscire a governare il cambiamento in atto nel settore dell’energia sarà la vera sfida del sistema paese e questo sarà possibile solo in sinergia col nostro tessuto industriale, sfruttando le nostre eccellenze nazionali ed europee e mettendole a sistema. Solo su queste basi possiamo costruire l’Italia e l’Europa di domani, più forte e più verde.

*Vittorio Casali De Rosa, ingegnere chimico 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gas naturale sfida per il futuro

In uno scenario internazionale mutevole, caratterizzato dal perdurare di notevoli margini di incertezze geopolitiche, si profilano nel mercato degli idrocarburi nuove variabili nella determinazione di prezzi e consumi.

Fattori chiave specifici fanno spazio a dinamiche interpretative un tempo trascurate a favore dei tradizionali “pilastri” macroeconomici di domanda e offerta. L’Oxford institute for energy studies sottolinea come la crescita della domanda di petrolio sia sempre più legata alla congiuntura economica globale e alle sue fluttuazioni imprevedibili che riducono l’impatto della volatilità dei prezzi. Questi ultimi risentono pesantemente delle variazioni connesse al consumo immediato e alle scelte dei consumatori. Ulteriori variabili dipendono dai cambi di policy energetica adottati dagli Stati produttori, dalla rinuncia acclarata ad una programmazione della produzione che abbracci il medio e lungo periodo e dalle perduranti crisi di natura politica e commerciale che scuotono il mondo, con un occhio allo spettro di una recessione incombente. Un capitolo a sé merita la comunicazione, legata in special modo ai tweet del Presidente degli Stati Uniti, in grado di incidere nel brevissimo termine in maniera sostanziale, vantaggio accresciuto dal fatto che gli USA si candidano grazie allo shale oil a diventare un esportatore netto di greggio e derivati. Se la presenza di tali indicatori di difficile previsione ha contribuito infatti ad accrescere la volatilità del segmento greggio, tale fenomeno non si è ripetuto in egual misura in quello del gas naturale che appare beneficiario di una certa resilienza e si candida ad un ruolo di primo piano nella prima metà del XXI secolo.
L’Agenzia internazionale dell’energia nel suo report annuale sul mercato del gas rileva come, dopo un altro anno record, la domanda globale di gas naturale si prevede in continua crescita per i prossimi 5 anni. Il trend è supportato dai consumi sempre più massicci ad opera dei paesi dell’Asia, beneficiari di una perdurante congiuntura economica positiva e dallo sviluppo del commercio internazionale su cui influisce il ricorso al gas naturale liquefatto che si avvia a rivoluzionare la filiera del midstream nel trasporto e nello stoccaggio.

La domanda è cresciuta ad un tasso del 4,6%, il più elevato dal 2010 e il gas naturale rappresenta quasi metà dell’incremento dei consumi di energia primaria in tutto il mondo. Un ritmo destinato a consolidarsi con un aumento del 10% nei prossimi cinque anni, raggiungendo oltre 4,3 trilioni di metri cubi nel 2024. L’uso industriale del gas naturale, sia come combustibile che come materia prima, si conferma in espansione ed è prevista l’incremento ad un tasso medio annuo del 3%, che equivarrà alla metà della crescita del consumo globale nel quinquennio. Il comparto produzione di energia d’altro canto rimane saldamente il maggiore consumatore di gas naturale, nonostante la crescita più lenta dovuta alla forte concorrenza delle energie rinnovabili e del carbone.
Il 40% di questi nuovi consumi si prevede imputabile alla Cina, il gigante asiatico trainato dagli obiettivi del governo ha avviato ormai da diversi anni un programma sistematico di miglioramento della qualità dell’aria con il passaggio dal carbone a nuove fonti di energia meno inquinanti. Tuttavia i consumi seppur in rapido aumento sono destinati a ridursi dal 18% del 2018 ad una media dell’8% nei prossimi 5 anni. Pesano in tal senso la progressiva riduzione della crescita della crescita economica su base annua, risultato di un rallentamento pianificato nel quadro della visione Made in China 2025, ma anche le incertezze della guerra commerciale in corso con gli Stati Uniti.
Anche altri Paesi Asiatici sperimentano un incremento della domanda di gas naturale. Pakistan, India e Bangladesh in particolare dovranno compensare l’impatto ambientale di un settore industriale in rapida crescita e di una massiccia urbanizzazione, spesso attuata senza i più elementari strumenti di pianificazione. In questi casi un valido aiuto alla sostenibilità dello sviluppo economico proviene dall’impiego del gas naturale, nel quadro di un’economia circolare, impiantabile con più facilità in scenari produttivi ancora in definizione.

Emerge inoltre la crescente influenza del Gas Naturale Liquefatto nella filiera del midstream. Trainato dalla costante offerta degli esportatori tradizionali come Qatar, Australia, Malesia e Nigeria a cui contribuiranno presto gli Stati Uniti in virtù del continuo rinvenimento di giacimenti di shale gas di cui si prevede lo sfruttamento nell’immediato. Nei trasporti marittimi internazionali il GNL è assurto al ruolo di alternativa credibile ai carburanti tradizionali, a causa di leggi sempre più restrittive sull’uso di derivati del petrolio contenenti zolfo che entreranno in vigore già dal 2020. Il gas naturale liquefatto infatti, non solo riduce del 20% le emissioni di CO2 ma porta a valori prossimi allo zero quelle di anidride solforosa e di polveri sottili. Inoltre la maggiore flessibilità negli approvvigionamenti, rispetto ai tradizionali gasdotti, permetterà di raggiungere un buon margine di incidenza nei consumi dei paesi importatori, a patto che i prezzi si mantengano sufficientemente bassi da non comprometterne la convenienza economica. Potenzialità di cui l’Italia sarà costretta a tenere conto visto il suo record poco invidiabile di trasporto gommato (oltre l’85%) e di inquinamento atmosferico delle aree urbane, che rendono opportuna una trasformazione della filiera merceologica verso fonti energetiche alternative. L’importanza del GNL risiede nella possibilità di un suo utilizzo in tutte le fasi del processo di spedizione delle merci e per efficientare la supply chain non si può prescindere dall’ottimizzazione e innovazione sostenibile delle modalità di trasporto. La riconversione a favore del gas naturale liquefatto nella logistica rappresenta dunque un vantaggio e un’opportunità di crescita nel lungo periodo, perché permette sia al fornitore del servizio che a quello dell’infrastruttura di stoccaggio e distribuzione di integrarsi reciprocamente all’interno di una filiera virtuosa.

D’altro canto dopo numerosi anni di declino gli investimenti pubblici e privati in questo settore hanno segnato un boom nel 2018 e si prevede che numerosi progetti pianificati negli anni possano supportare l’espansione del mercato globale. Anche in questo caso permangono le incertezze legate alla “guerra dei dazi” le cui ripercussioni sono acuite dal fatto che il trasporto del GNL si effettua via mare, ed è perciò collaterale agli andamenti del commercio internazionale.
La crescita del gas naturale non è frutto di una mera coincidenza o di una fase anticiclica del mercato. Gli sforzi sempre più ambiziosi richiesti agli Stati in materia di decarbonizzazione, formalizzati con la ratifica dell’accordo di Parigi del 2015, si inseriscono in un trend consolidato che interessa il futuro dei combustibili fossili: la grande disponibilità del già menzionato GNL, dello shale gas e del gas russo hanno provocato una contrazione dei prezzi a cui ha fatto seguito un incremento della domanda legato alla progressiva dismissione del carbone come fonte energetica. L’Italia ha programmato il phase-out al 2025 ma è ragionevole che mutati indirizzi di politica energetica possano influire a favore di uno slittamento al 2030, in leggero ritardo rispetto ai più stretti partner Europei, mentre rimane l’incognita Visegrad che si ostina a posporre gli impegni comunitari ben oltre il 2050. Sarebbe stato ragionevole agevolare una simile policy con il mantenimento, se non addirittura il potenziamento, dell’energia nucleare su scala Europea. Il frettoloso abbandono di quest’ultima ha infatti frustrato le ambizioni di disporre di un mix carbon free già nel medio periodo. Ai fattori sopraelencati si aggiungono i promettenti sviluppi in materia di stoccaggio e cattura del cosiddetto biogas e biometano, a lungo ritenuti una conseguenza inevitabile dell’impatto ambientale di agricoltura e allevamento intensivi. Oggi, con una crescita demografica impetuosa in Asia e Africa, diviene naturale volgere lo sguardo verso sistemi in grado di mitigare gli effetti negativi dell’industria alimentare e della zootecnia. L’obiettivo rimane quello di giungere ad un’immissione in atmosfera di CO2 sempre più “neutra”, resa tale da un reimpiego dei residui utili in una successiva filiera produttiva. Il tutto a favore della rinuncia ad un approvvigionamento energetico “tradizionale”.

Il consorzio italiano del biogas sottolinea come il settore in Italia possa ambire a coprire un potenziale produttivo di gas rinnovabile stimato nel 2030 in 10 miliardi di metri cubi di biometano, dei quali 8 miliardi provenienti da matrici agricole e 2 miliardi ottenibili da particolari tipi di rifiuti organici, da fonti non biogeniche e dai processi di gassificazione. Un simile obiettivo sarebbe praticabile già da adesso, destinando circa 400.000 ettari di superficie agricola utilizzata (SAU) a colture di primo raccolto, valorizzando i prodotti di scarto della zootecnia e i sottoprodotti dell’industria agroalimentare.
Appare chiaro che la produzione di biometano è solo uno degli anelli di una catena ben più complessa che, partendo dalla pianificazione dell’uso del suolo, influenza numerose componenti della produzione di beni provenienti dal settore agricolo. L’industria agroalimentare anche per questo si candida a pieno titolo a diventare meta di investimenti a favore dell’efficientamento energetico e della produttività, e se il legislatore rinuncerà ad adoperare una troppo annacquata lungimiranza, sarà compito dei privati fornire il propellente adatto all’economia circolare. Con l’obiettivo di collegare il mondo delle campagne a quello industriale e post-industriale, perseguendo una policy di un impatto il più possibile neutro sull’ambiente.
Rimangono positive inoltre, sia in termini occupazionali che di crescita economica, le conseguenze di uno sviluppo della filiera di produzione, stoccaggio e distribuzione del biogas su tutte le attività produttive. In particolare l’industria e i trasporti beneficerebbero, nell’ottica di economia circolare, di una fonte energetica del tutto identica al tradizionale gas naturale, con il prezioso vantaggio, anche in termini geopolitici, di una maggiore indipendenza dalle importazioni dai paesi produttori.

Tale fattore sarebbe destinato ad acquisire una certa influenza nel medio e lungo periodo, se combinato con politiche di incremento degli investimenti in ricerca e produzione degli idrocarburi nel territorio nazionale. Per il mantenimento della produzione domestica attraverso lo sviluppo delle risorse energetiche del Paese, gli operatori di Assomineraria hanno previsto un investimento per il periodo 2018-30 di circa 13 miliardi di euro e un impegno economico complessivo di circa 18 miliardi su progetti già definiti. Le attività offshore tuttavia sono in calo da diversi anni: nel 2018 sono stati estratti circa 5 miliardi e mezzo di metri cubi di gas naturale, a fronte di un miliardo di euro di investimenti attualizzati, in costante declino rispetto ai 9 miliardi di smc del 2008. Il contributo è comunque pari al 7,6% del fabbisogno energetico, con una riduzione del costo dell’energia stimato in un valore di circa 3,1 miliardi di euro. L’intera filiera upstream italiana ha totalizzato 3,9 miliardi di euro di fatturato nel 2018 e conta 7.000 addetti diretti e indiretti nella sola attività estrattiva, più circa 13.000 nell’indotto esterno al settore, che ha nel polo di Ravenna la sua realtà più significativa. Nell’area del Mare Adriatico centro-settentrionale si concentrano le ambizioni dell’Italia come mini-potenza energetica in un settore di importanza strategica, del quale i consumatori apprezzerebbero ancor di più i notevoli benefici apportati in presenza di gravi problemi di approvvigionamento energetico di idrocarburi.
Quella del gas naturale rappresenta infatti una sfida per il futuro, verso la transizione energetica, che il nostro Paese non può permettersi di perdere. In linea con i principali partner europei e mondiali, la classe politica e dirigente è chiamata ad uno sforzo in più per assicurare che gli obiettivi dei settori produttivi non solo combacino con quelli della tutela dell’ambiente, ma siano portati ad esprimere dal loro reciproco condizionamento, una spinta in più verso una crescita economica tangibile e sostenibile per le generazioni presenti e future.