Un’opposizione di alto profilo

Fratelli d’Italia sceglie di stare all’opposizione del governo Draghi. Una posizione, l’unica a ben vedere, “fuori dal coro” unanime di media e resto della politica che, improvvisamente, si scoprono da sempre militanti inconsapevoli del partito di Draghi. La competenza, la preparazione e la capacità manageriale dell’ex presidente della Banca d’Italia non sono certo in discussione, e non potrebbero esserlo. Ciò che davvero dovrebbe far riflettere, in particolare quei settori dell’opinione pubblica – se così si può definire – che su Giorgia Meloni hanno fatto cadere la solita volgare pioggia di provocazioni e derisioni, è la reale bontà di questa operazione politica eterodiretta dal Quirinale. Sebbene, di fatto, la mossa sia stata necessaria – considerata l’incapacità del governo precedente –, per Mario Draghi non sarà facile arrivare ad una sintesi programmatica fra forze politiche così diverse; e tale sintesi, molto spesso, rischierà di trasformarsi di volta in volta in un compromesso che virerà sempre più al ribasso. La flat tax, che era uno degli elementi portanti del programma condiviso del centrodestra, è già stata tolta bruscamente dal tavolo delle trattative. Fratelli d’Italia, in questa fase politica delicatissima per il Paese, non ha intenzione di andare sull’Aventino: questo è ciò che si è maldestramente tentato di descrivere. Al contrario, Fratelli d’Italia interpreterà un ruolo tanto prezioso quanto fondamentale: se il presidente della Repubblica, giustamente, ha auspicato un governo di alto profilo, è giusto aspettarsi che tale governo abbia anche un’opposizione di alto profilo. Fratelli d’Italia farà un’opposizione responsabile e autorevole, di alto profilo appunto, attenta all’interessa nazionale, priva d’ostruzionismi ma anche senza la piaggeria che sta contraddistinguendo altre forze politiche. Si può essere costruttori rimanendo fedeli alle proprie idee. Una sentinella, come l’ha definita Giorgia Meloni, che vigilerà sull’azione del nuovo esecutivo e non mancherà di metterne in evidenza le criticità quando necessario. E dovrà fornire contributi preziosi e impegnarsi in battaglie importanti: la tutela dei non garantiti (partite IVA, autonomi, freelance), il potenziamento del piano di vaccinazione e del sistema sanitario, la trasformazione digitale delle imprese e la formazione dei giovani. Anche senza reclamare una poltrona di governo, Fratelli d’Italia farà la sua parte. Senza la necessità – magari impellente per altri – di trovare legittimazione in un immaginario “arco costituzionale” al quale, secondo bizzarre teorie, si viene ammessi solo previa acritica dichiarazione di fede verso Bruxelles. Giorgia Meloni è già da tempo presidente dei Conservatori europei, gruppo parlamentare del parlamento europeo del quale fa parte stabilmente Fratelli d’Italia, e il partito è già sufficientemente legittimato dai milioni di voti ricevuti dagli italiani in questi anni. Tanto da essere l’unica formazione politica che, da quando si è presentata per la prima volta alle urne, è sempre cresciuta in tutte le elezioni seguenti, a livello nazionale e locale. Probabilmente è proprio questo aspetto che preoccupa.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

 

 

 

Governance pubblica su Autostrade e fibra ottica

“Autostrade e fibra ottica sono due asset strategici di interesse nazionale, peraltro recentemente inseriti proprio nel perimetro della “golden power”. Proprio per questo il governo deve vigilare su come sarà realizzata la partecipazione dei fondi esteri  garantendo comunque la governance pubblica delle società”: è quanto rileva in una interrogazione il sen. Adolfo Urso, di Fratelli d’Italia, vicepresidente del Copasir. “Ció riguarda sia il negoziato su Atlantia, laddove sembra profilarsi la presenza maggioritaria dei fondi «Blanckstone», americano, e «Macquarie», australiano, sia la realizzazione della Rete a fibra ottica in cui una parte significativa potrebbe averla ancora una volta Macquarie, il quale a sua volta intenderebbe far partecipare altri investitori stranieri nella compagine”. Il profilo del fondo australiano è peraltro tale da considerare la massima prudenza proprio perché ha fama di agire a fini meramente speculativi: sarebbe «famoso per garantire ottimi rendimenti ai suoi investitori ma non altrettanti servizi agli utenti», al punto da essere ribattezzato dagli australiani «la fabbrica dei milionari», e dagli inglesi «il canguro vampiro»;

Inoltre, dalle analisi e ricostruzioni giornalistiche sono emersi ulteriori elementi poco chiari in ordine alle «preziose consulenze» pagate a uno studio di ex politici ed ex amministratori pubblici, tra i quali proprio gli ex vertici dei soggetti in causa, che potrebbero far emergere conflitti d’interesse e comunque una contiguità o commistione di interessi pubblici e privati, sulla quale è opportuno adottare ogni possibile approccio prudenziale al fine di scongiurare ogni rischio di esposizione dei nostri asset pubblici strategici nazionali a possibili operazioni speculative;

Il senatore di Fratelli d’Italia chiede pertanto  “di sapere

a) se il Governo, in relazione al processo di costituzione della società della rete unica nazionale necessaria per l’accelerazione dello sviluppo digitale dell’Italia, e alla recente offerta avanzata dal fondo australiano Macquariea Enel, abbia svolto o ritenga di poter svolgere un’attenta valutazione in ordine alla qualità, sicurezza e provenienza degli investimenti in campo e alle finalità e continuità di gestione.

b) se il Governo abbia valutato le possibili conseguenze sulla governance di Autostrade della circostanza che i fondi esteri assumerebbero una partecipazione maggioritaria in Aspi, e in tal caso, come pensa di garantire il ruolo guida di Cassa Depositi e prestiti, gli investimenti in manutenzione e il costo per gli utenti, anche in relazione alle recenti osservazioni della Autorità di settore”;

c) quali indispensabili interventi ritenga di poter adottare al fine di garantire la messa in sicurezza degli assetstrategici dello sviluppo economico e infrastrutturale del nostro Paese, ponendoli al riparo da qualsivoglia operazione speculativa internazionale e preservando l’interesse nazionale”.

*Enrico Sicilia, collaboratore Charta minuta

Dopo le regionali: cinque punti-chiave

L’Emilia-Romagna rimane al centrosinistra, la Calabria cambia e sceglie il centrodestra: questi i verdetti della prima tornata elettorale dell’anno, sorta di “aperitivo” di quella più ampia che a fine maggio vedrà coinvolte altre sei regioni (Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana e Veneto). Vediamo cinque punti-chiave per capire gli orientamenti che sono emersi da queste consultazioni.

 

Il disfacimento del Movimento 5 Stelle. Fiaccato dalle dimissioni da capo politico di Luigi Di Maio e alle prese con una crisi interna conclamata, nel Movimento sembra già arrivata l’ora del “liberi tutti”. Emergono chiaramente tre schieramenti: una parte vorrebbe allearsi stabilmente con il Partito Democratico, una seconda vorrebbe riabilitare la vecchia linea “autonomista”, una terza continua ad avere nostalgia di Salvini. E se è vero che i grillini non hanno mai brillato alle elezioni amministrative, è altresì vero che si è ormai consolidato un trend negativo che ha portato alla smobilitazione in Emilia-Romagna come in Calabria: in quest’ultima regione il Movimento è addirittura fuori dal consiglio regionale, non avendo superato lo sbarramento dell’8% previsto dalla legge elettorale calabrese. In Emilia-Romagna la maggior parte degli ormai ex elettori grillini ha votato per Bonaccini, incidendo in maniera decisiva sulla sua vittoria (che anche in virtù di tale fattore è risultata essere più ampia delle previsioni).

La sconfitta (?) di Salvini. Può un leader che porta il proprio partito a raggiungere quasi il 32% nella regione politicamente più ostile – e ad aumentarne il consenso di quasi 200 mila voti rispetto alle ultime elezioni politiche – essere bollato come “il grande sconfitto” di questa tornata elettorale? Sì, perché la politica non è una scienza esatta e spesso risponde più alle emozioni che ai numeri. Quel 32% appare come una sconfitta perché le aspettative erano altre: e paradossalmente era stato proprio Salvini a crearle. La “nazionalizzazione” – e l’eccessiva personalizzazione – della campagna elettorale hanno pagato solo parzialmente in una delle poche roccaforti rosse rimaste. Rimane qualche utile lezione per le campagne future: prima fra tutte, la necessità di allargare le coordinate del voto leghista, che non riesce ancora a sfondare nelle grandi città; in secondo luogo, la necessità di diversificare lo stile comunicativo.

Forza Italia e il partito del Sud. Un imbarazzante 2,5% in Emilia-Romagna, il 12,3% in Calabria dove esprime il nuovo governatore, Jole Santelli: qual è la “vera” Forza Italia? La risposta è semplice se si osservano i trend delle ultime elezioni politiche, europee e amministrative. Come lo stesso Silvio Berlusconi ha affermato in una recente intervista, Forza Italia si sta caratterizzando come “partito del riscatto del Sud”. E non può che essere così, considerato che nelle regioni del Nord Forza Italia è praticamente sparita. Questo, tuttavia, è un problema per tutto il centrodestra: il mancato apporto in termini numerici di Forza Italia per Lucia Borgonzoni è stato un altro fattore determinante per la vittoria di Bonaccini. All’orizzonte ci sono le regionali in Campania, dove Forza Italia si appresta a sostenere un “suo” uomo, Stefano Caldoro, ma anche le regionali in Toscana, dove il partito esprime ottimi amministratori locali e dove il centrodestra non deve fare l’errore di partire già sconfitto.

La crescita costante di Fratelli d’Italia. Non è più una novità: anche in Calabria ed Emilia-Romagna il partito di Giorgia Meloni gode di ottima salute, raggiungendo percentuali intorno al 10% e ponendosi stabilmente come seconda forza della coalizione. Fratelli d’Italia continua a giovarsi da un lato della debolezza di Forza Italia, dall’altro del logoramento di Matteo Salvini dovuto alla sua sovra-esposizione mediatica: è probabile che nei prossimi mesi la percentuale del partito continui a crescere, considerato che Giorgia Meloni intende esprimere le candidature a governatore per le regionali in Puglia e nelle Marche. La concreta possibilità che venga varata una legge elettorale proporzionale aumenta la competizione all’interno del centrodestra, e Giorgia Meloni è attualmente la più in forma, come mostrano i sondaggi che la danno al primo posto in termini di gradimento.

La “vittoria” del Partito Democratico. La vittoria in Emilia-Romagna è, più che del partito, la vittoria di Stefano Bonaccini e del suo team di comunicazione, che ha saggiamente rinunciato a posizionare il simbolo del PD accanto al candidato e ne ha “rinfrescato” l’immagine. Bonaccini non si è lasciato trascinare nelle vicende romane e ha impostato una campagna elettorale prettamente territoriale, imperniata sulla presentazione dei buoni risultati dell’amministrazione uscente. C’è poi da ricordare che il campo di battaglia era l’Emilia-Romagna, che sta al PD come il Veneto sta alla Lega, dunque la vittoria era il minimo sindacale. Il bilancio finale di queste tornata elettorale, in verità, segna per il centrosinistra la perdita di un’altra regione, la Calabria: ora il centrodestra governa in 13 regioni, il centrosinistra in 6. Rimane interlocutorio il rapporto con le Sardine il cui apporto, come già evidenziato nella precedente analisi, è stato decisivo per contrastare Salvini sul piano identitario e per risvegliare una parte dormiente dell’elettorato di centro-sinistra: ma il dialogo con il Partito Democratico è solo all’inizio.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Farefuturo attore della strategia della destra

Punto di svolta della nuova veste meloniana (e anche del 10% in Umbria) è la fase di allargamento di FdI ad associazioni e realtà locali, in grado di drenare voti e ampliare il partito oltre lo zoccolo duro romano

Come nasce il 10% di Fratelli d’Italia in Umbria? Non solo dagli arrivi nella squadra di Giorgia Meloni di vari esponenti locali, da Forza Italia o dal centro. Ma è il frutto di una strategia ragionata per allargare un movimento che, agli inizi della sua fondazione, era nato chiuso in modo particolare sullo zoccolo duro romano e sul “mondo Fuan”. E che in virtù di quel grande mutamento genetico nel panorama della destra italiana che si chiama salvinismo ha avuto la necessità di decidere (tatarellianamente) cosa fare da grande, anche grazie agli spunti valoriali di esponenti come Guido Crosetto e l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata. Oggi lo scenario appare più armonico, soprattutto al sud e su temi sensibili come la cyber security, l’atlantismo e il dossier energetico.

LA DESTRA AI TEMPI DEL SOVRANISMO

La candidatura lo scorso inverno di un esponente di FdI in Abruzzo (dove già governa il Comune dell’Aquila), il senatore Marco Marsilio, è stato un esperimento, riuscito, di mescolare classe dirigente affiatata con una nuova fase nei territori: ed il risultato è giunto, per il partito di Giorgia Meloni, che adesso punta evidentemente alla casella di vice premier, nonostante in molti continuino a far circolare l’ipotesi di sua corsa per il Campidoglio. Ma l’ex ministra della Gioventù, dopo aver lavorato pancia a terra a una ridefinizione strategica del partito, ha messo nel mirino il governo nazionale. Il 10% raggiunto in Umbria (anche se risultato locale) si avvicina a quel 12% che fece “grande” Alleanza Nazionale dopo Fiuggi e oggi sta aprendo interrogativi, anche al di fuori dei confini nazionali, su come potrà delinearsi la politica della destra nell’era del sovranismo in alleanza/convivenza col leghismo.

LE STRATEGIE

La fase della alleanze, avviata un anno fa, ha visto le interlocuzioni con una serie di soggetti sui territori italiani: tutte finalizzate sì a ricomporre un mondo ma al contempo a riallacciare fili programmatici e umani con sacche di consenso. È il caso del Movimento Nazionale per la Sovranità dell’ex sottosegretario all’ambiente, il triestino Roberto Menia, che il prossimo 7 dicembre sancirà il passaggio ufficiale tra i meloniani dopo il patto federativo per le elezioni europee. Lo stimolo è quello di costruire un’alternativa di governo “che ridia dignità allo Stato”, con la nascita di uno schieramento di centrodestra radicalmente nuovo, “imperniato sulle idee sovraniste di difesa intransigente dell’interesse nazionale”. In questo schieramento “deve crescere la forza della componente più legata alla tradizione della destra italiana, all’idea di Unità nazionale e ai valori fondamentali del nostro popolo, una forza capace di difendere le ragioni del Sud quanto quelle del Nord” osserva Menia.

IL CASO DELLA PUGLIA

Altro caso quello del Movimento Politico Mediterraneo voluto da Pinuccio Tatarella in Puglia e guidato dall’ex senatore biscegliese Francesco Amoruso, in una regione dove pare proprio che FdI potrà esprimere il candidato governatore, visto che FdI ha dato l’ok alla Lega per la presidenza del Copasir a Raffaele Volpi (mentre a Forza Italia dovrebbero andare Calabria e Campania). Pochi giorni fa infatti alla Camera i consiglieri regionali pugliesi di Direzione Italia, la formazione politica lanciata qualche anno fa da Raffaele Fitto (attualmente co-presidente del gruppo europeo Ecr-FdI al Parlamento europeo), hanno formalizzato l’ingresso in FdI, alla presenza di Giorgia Meloni, dello stesso Fitto e di Amoruso. E per la corsa alla successione di Michele Emiliano circolano i nomi in area FdI proprio di Fitto ma anche del giornalista e intellettuale Marcello Veneziani.

LA POSTURA ESTERA

Ma quale postura avrà il nuovo corso di FdI su temi scottanti anche di politica estera, come Cina, dossier energetico, infrastrutture e atlantismo? Una interessante linea di intenti si ritrova nella ritrovata Fondazione Farefuturo, guidata dal senatore Adolfo Urso, attuale numero due del Copasir e già sottosegretario al commercio estero, che ha nuovamente ripreso le attività del think thank (sotto la direzione generale di Mario Ciampi) tarando report e meeting sui temi di stretta attualità internazionale come jihadismo, cyber sicurezza, immigrazione ed energia.

Proprio la cyber security è stata oggetto alcuni giorni fa di un intervento in Aula di Urso, che ha messo l’accento su una serie di elementi di merito, contribuendo a rendere chiara la sensibilità atlantista del partito sul tema. In occasione della discussione del decreto ad essa dedicato in Senato infatti Urso ha parlato di “quarta rivoluzione industriale mondiale, quella digitale, che potrebbe comportare il crollo dell’occidente e la prevalenza dell’oriente”.

In questo contesto “il prezzo che l’Italia rischia di pagare è troppo alto per non avere da parte del governo una risposta convinta e decisa a tutela della sicurezza nazionale: il provvedimento in esame, comunque importante, non basta se non vi è anche la piena consapevolezza della sfida in corso e della necessità di intervenire senza titubanze e con tempestività”.

*fonte “Formiche.net”

Urso: Orban vince su immigrazione ed economia

Le grandi manovre in vista del prossimo Parlamento europeo hanno già una scadenza importante, quella del 20 marzo quando l’assemblea del Ppe dovrà decidere se espellere Fidesz, il partito del premier ungherese Viktor Orban, per il suo palese attacco alla politica della Commissione Europea guidata da Junker, anche lui popolare. Orban potrebbe unirsi all’Ecr, il gruppo dei Conservatori e riformisti di cui fanno già parte il partito del premier polacco, Jaroslaw Kaczynski, e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Adolfo Urso, senatore di FdI, è appena tornato da incontri avuti a Budapest con il presidente del Parlamento Röver Laszló, il ministro degli Affari Europei, Szabolcs Takäcs e il presidente della Fondazione Századveg, il principale think thank sovranista d’Europa.

 

Senatore Urso, gli ungheresi hanno già deciso di uscire dal Ppe o ci sono margini di trattativa?

Loro non vogliono cedere assolutamente e daranno battaglia fino alla fine. Nel frattempo stanno preparando un’alternativa, in modo trasparente, ragionando sull’ingresso nel gruppo Ecr che, con l’uscita di conservatori inglesi, è oggi guidato dai polacchi. L’accusa all’Unione europea è di non aver difeso i confini esterni e Orban spesso ha detto che l’Italia è stata lasciata sola.

 

Anche lei ha detto che il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania rischia di far esplodere l’Unione.

Anche su questo ci siamo trovati pienamente d’accordo. Anche loro pensano che francesi e tedeschi vogliono dominare l’Europa che invece deve tornare a essere l’Europa dei popoli e degli Stati, e accusano la Commissione europea di comportarsi come se fosse un altro Stato alleato di Berlino e Parigi. Anche noi di Fratelli d’Italia siamo d’accordo sul fatto che bisogna tornare all’Europa delle origini, quella fondata con i Trattati di Roma da Germania, Francia e Italia che allora erano in posizioni paritarie. Serve una alleanza tra le Nazioni dell’Europa centrale, oggi raccolte in Visegrad e le nazioni dell’Europa mediterranea, con Italia in prima fila, per riequilibrare il predominio tedesco e, sui temi culturali, quello dei Paesi scandinavi e del Benelux che hanno trasformato l’Unione in una scatola vuota. Il vulnus nasce quando la Convention di Parigi rifiutò di affermare le radici giudaico cristiane d’Europa.

 

La Lega alla fine aderirà a questo blocco sovranista?

È possibile che ciò avvenga, peraltro Matteo Salvini e già stato a Varsavia, ma il disegno riguarda anche partiti di altri Paesi come gli spagnoli di Vox e i francesi di Nicolas Dupont-Aignan.

 

Alle elezioni, dunque, si scontreranno due visioni opposte di Europa: quella franco-tedesca e quella dei partiti di destra sovranista.

Si, certamente. Sarà una contrapposizione sul futuro dell’Europa tra chi ha una visione burocratica dell’Unione funzionale alla Grande Germania e chi ritiene, invece, che occorre riaffermare l’Europa dei valori, casa comune delle Nazioni. Nel contempo, si rafforza l’asse occidentale, come ha dimostrato l’intervento di Giorgia Meloni a Washington, insieme a Ronald Trump, alla Cpac, la grande convention dei conservatori statunitensi. Non è solo un tema europeo, ma globale. E Fratelli d’Italia si trova nella principale famiglia della destra occidentale.

 

Silvio Berlusconi difende Orban e lo invita a non uscire dal Ppe. In chiave di voto italiano alle elezioni europee, alla fine passerà un messaggio basato sui valori di chi vuole difendere il Ppe o quello più rigido dei sovranisti?

Nel Partito popolare Orban è difeso dagli italiani e dagli spagnoli che vorrebbero spezzare anch’essi l’alleanza con i socialisti; ancora una volta, però, la decisione è nelle mani dei tedeschi. Nell’Italia di oggi e in gran parte d’Europa, c’è più appeal verso la destra di governo sovranista, che difende la cultura e la civiltà cristiana e occidentale, piuttosto che la vecchia immagine del Ppe, subordinato al predominio francese e tedesco che ha snaturato l’Unione.

 

Il tema dell’immigrazione sarà ancora una volta decisivo? Orban ha difeso l’Italia, ma non ha mai accettato le quote di immigrati da ricollocare.

Le elezioni si decideranno su due temi: immigrazione e sicurezza da un lato, economia dall’altro. In entrambi, il modello di Orban appare vincente: l’Ungheria ha difeso la frontiera terrestre dell’Unione, così come l’Italia sta difendendo la frontiera mediterranea, in ogni caso nell’assenza dell’Unione. Ancora più evidente, il successo della politica economica di Orban, in questo caso davvero incontestato: l’Ungheria segna il tasso di crescita più elevato d’Europa, con la stessa ricetta che era nel nostro programma elettorale, purtroppo dimenticato dalla Lega quanto sottoscrisse il suo Contratto di governo: flat tax al 15 per cento; tassa massima su impresa 9 per cento, se reinveste gli utili solo il 4,5; la disoccupazione è sotto al 4 per cento, cioè sotto alla soglia fisiologica, e quindi la piena occupazione è già raggiunta; il reddito ungherese aumenta del 10 per cento l’anno: c’è una forte politica di sostegno alle famiglie e alla natalità. Il Sole 24 ore ha appena scritto che un’impresa italiana al giorno va in Ungheria. Mentre noi siamo in recessione quello è il modello che funziona: l’economia sarà un tema più importante dell’immigrazione. Anche Salvini dovrà rivedere i suoi conti.

 

*Intervista di Stefano Vespa con Adolfo Urso pubblicata su Formiche

FdI & Atreju, quel "laboratorio patriottico" che ha sedotto pure Bannon

«Giovanni Toti, Nello Musumeci, ci date una mano?». Non è stato solo un invito ma una vera e propria “chiamata” quella lanciata di Giorgia Meloni a margine del discorso di chiusura di Atreju 2018. Una tre giorni che quest’anno come mai si è qualificata come il laboratorio di quel partito patriottico che – in vista dell’appuntamento «epocale» delle Europee, per parafrasare Steve Bannon – ha già aperto il proprio cantiere a tutte le “maestranze” che intendono rafforzare la proposta nazionale: sia in Italia che – come ha dimostrato l’adesione a The Movement – all’estero.
«L’appello che facciamo oggi a tante anime disperse del centrodestra è a costruire un grande partito dei conservatori e dei sovranisti, che metta al centro l’identità e l’interesse nazionale italiani, il concetto di patria, di nazione», ha spiegato la leader di FdI dopo aver ascoltato tanti esponenti di quel centrodestra diffuso ma non pienamente rappresentato – da Vittorio Sgarbi a Raffaele Fitto, passando per Ruggero Razza e Nunzia De Girolamo – ai quali FdI oggi offre oggi «una casa e una causa».
Compiuta la missione storica di «salvare la destra» dall’implosione, per Meloni adesso si affaccia un compito altrettanto difficile: blindare un’offerta politica che non può essere ostaggio dello spontaneismo e delle contraddizioni della Lega di Salvini impegnata nell’Ogm giallo-verde. È questo il senso di quell’impegno ad «allargare i nostri confini», lanciato dal palco della kermesse, perché «il centrodestra ha bisogno di rappresentare anche quelli che dalla Lega non si sentono ora rappresentati». Effetto collaterale di questa nuova soggettività che si candida a contendere con più anime il perimetro del sovranismo di governo sarà quello, non a caso, «di liberare Salvini dall’abbraccio del M5s» e di costruire con questo quel governo che il 4 marzo è stato riconosciuto da tutti tranne che da Sergio Mattarella.
Proprio per questo motivo, l’appello diretto ai due governatori – che rappresentano due modelli di buongoverno che hanno sconfitto e drenato i 5 Stelle su una piattaforma sia identitaria che sviluppista – è il primo passo di quel processo di sintesi che, secondo la leader di FdI, dovrà dotare il centrodestra italiano di un soggetto tanto anti-demagogico quanto radicale e radicato nella promozione dell’interesse nazionale in un’Europa confederale e partecipativa.
Di tutto questo potrà giovarsi e da questo potrà imparare anche lo stesso Steve Bannon, che ha trovato in Italia – da lui considerata del resto avanguardia nell’offerta nazional-populista – un soggetto, altro dalla Lega, dotato di peculiarietà e di un’identità irriducibile in un’epoca in cui la post-ideologia si rivela troppo spesso un’ideologia dell’umore: buona per lo sfogo, incapace però di diventare governo della crisi.
Ecco allora che quel «sappiamo dove stare» nella sfida «Europa contro €uropa» non è solo una scelta di campo nel fronte conservatore e sovranista ma è «una sfida centrale», come ha illustrato Meloni, per riaffermare il reale contro l’indistinto: «È un problema, per i nostri avversari, se ci definiamo italiani, madre, padre: loro ci vogliono cittadino x, genitore x…Hanno fatto male i conti: non siamo numeri, siamo persone». Alle prossime elezioni Europee si deciderà anche questo «e qui avremo l’occasione di dire finalmente “basta”: a Soros che finanzia la sostituzione etnica e ai damerini modello Macron che ci impartiscono lezioni di morale. Potremo finalmente cacciare i mercanti dal tempio dell’Ue».

Destra contro destra? Ecco perché si rischia l’autunno caldo (fratricida)

Molte, diverse, a volte affascinanti, talvolta inquietanti, le anime che hanno attraversato la destra postfascista: da quella sociale e popolare a quella borghese, dalla trasgressiva alla benpensante, da quella bottegaia, alla sessantottina, alla rivoluzionaria, finanche all’anarchica. Tante anime tenute per lo più insieme dal carisma di Giorgio Almirante, dall’isolamento imposto che rende fratelli e da una morale cosiddetta eroica che ha tra le parole d’ordine patria, onore e fedeltà. Negli anni Novanta si compie lo sdoganamento. Alleata di Forza Italia, prevale la destra dal volto liberista nel solco della nascente era berlusconiana. La destra missina, formazione politica uscita indenne e più di altre avvantaggiata dal ciclone Tangentopoli, va al governo. Diventa Alleanza Nazionale. Ma lentamente si logora nel clima del ventennio berlusconiano che da un lato esalta e dall’altro distrugge. Poi Gianfranco Fini, i suoi errori, il buio all’orizzonte.
Oggi è il tempo della Lega di Salvini, non più movimento secessionista del Nord, ma forza nazionale che riesce a cogliere l’animo di quel popolo di destra che vuole difendere identità e sovranità contro un’immigrazione senza regole e contro le logiche mercantilistiche dell’Europa di Bruxelles. Resiste e si rafforza intanto la destra che si definisce dei patrioti, Fratelli d’Italia che rinasce dalle macerie lasciate da Fini. Con Giorgia Meloni sovranità e identità, bandiere innalzate oggi anche dalla Lega, s’accompagnano una cultura politica che parte dalla tradizione missina e un substrato ideale che fa recuperare anche nel simbolo la fiamma tricolore. Sembra questa la destra più autentica oggi, non un maschera ma il volto. Eppure si trova in mezzo al guado.Fuori dal governo per l’ostracismo pentastellato, il partito della Meloni sceglie la strada quasi obbligata dell’astensione. Che per un popolo di destra non è sempre facile condividere. Non è in maggioranza Fratelli d’Italia ma neppure in un’opposizione netta come quella di Forza Italia. Mentre il popolo di destra, non quello rappresentato nei salotti televisivi, ma quello che in incontri al bar o nella fila alle poste, è schierato con Salvini, cioè con il volto di una destra senza l’antica cultura dei padri, ma con l’effetto dell’azione dura, decisa e immediata.
Forza Italia, infine, volto della destra moderata o più precisamente, come sempre, volto di Silvio Berlusconi. Partito di opposizione ma anche forza politica dall’enorme potere mediatico. Rete Quattro, l’emittente berlusconiana, era stata in campagna elettorale schierata nella denuncia dell’immigrazione incontrollata, una campagna che ha favorito la Lega a scapito di Forza Italia. Oggi a dirigere Rete Quattro viene chiamato Gerardo Greco, sottratto alla Rai. Sarà una rete di punta dell’informazione di Mediaset. E a giudicare dalle scelte editoriali sarà una rete non certo tenera con la Lega di Salvini. S’annuncia un autunno di destra contro destra. In un turbinio di volti e maschere delle varie anime. Anime divise ai vertici, ma unite nel popolo che ancora crede e spera.
*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare, già direttore del Tg3