Islamofobia, malattia immaginaria?

Questo saggio di Giuseppe Cecere è stato pubblicato sul Primo Rapporto sull’islamizzazione d’Europa della Fondazione Farefuturo

1.ITALIA ISLAMOFOBICA: UNA DIAGNOSI DA RIVEDERE?

La società italiana contemporanea è malata di islamofobia? A giudicare dalle rappresentazioni prevalenti nel discorso pubblico (in vasti settori dei media, dell’accademia, del mondo politico ed associativo, delle istituzioni civili e religiose), la diagnosi parrebbe evidente: l’Italia di oggi sarebbe preda di una sempre più forte avversione pregiudiziale (anzi, di una “paura irrazionale e infondata”, come suggerito dal termine fobia) verso l’Islam e i musulmani. Una vera e propria “malattia dell’immaginario (collettivo)”, parte di una più vasta trasformazione della nostra società in senso xenofobico e razzistico, attestata da una varia ed inequivocabile sintomatologia che culminerebbe nel crescente sostegno dell’opinione pubblica alle forze genericamente definite come “populiste”. Cause principali di tale patologia sociale, sarebbero la diffusa ignoranza delle culture “altre” e l’ancora insufficiente esposizione della popolazione autoctona alla convivenza con persone provenienti da tali culture. Nel caso specifico della islamofobia, il quadro clinico sarebbe ulteriormente aggravato dalla diffusa circolazione, nel corpo sociale, di stereotipi antiislamici di vecchio e nuovo conio – espressione, rispettivamente, di forme di religiosità reazionaria o di laicismo esasperato – e dagli effetti devastanti di una paradossale alleanza implicita tra due opposti estremismi: da un lato, quello che viene spesso chiamato “islamismo radicale”, dall’altro, le destre che vengono dette “xenofobe” – due campi di forze evidentemente contrapposti ma che sarebbero entrambi impegnati, per finalità differenti ma con esiti convergenti, in una sistematica opera di manipolazione della paura delle popolazioni autoctone – alimentata dalla diffusa ignoranza in materia di Islam – e della “retorica dello scontro di civiltà”; il tutto, allo scopo di alimentare il conflitto tra “diversi” e rendere così impossibile la serena e pacifica integrazione delle persone e delle comunità di fede musulmana nelle società occidentali. Questo, in estrema sintesi e con le semplificazioni che le sintesi spesso comportano, sembra essere il senso (nella duplice accezione di “significato” e “direzione”) del discorso pubblico prevalente sul tema della islamofobia: da un lato, si tende a negare il carattere potenzialmente problematico della massiccia diffusione di un sistema valoriale “altro” all’interno delle società europee, attribuendo caratteri “fobici” – e talvolta “razzistici” – a qualunque discorso critico sul tema; dall’altro lato, si afferma la necessità, per superare i residuali conflitti indotti dagli opposti estremismi, di moltiplicare la conoscenza dei “caratteri autentici dell’Islam” (auspicio condivisibile in astratto, ma che resta privo di senso senza una adeguata problematizzazione della nozione di Islam e della stessa nozione di “autenticità”) e, soprattutto, di incrementare la presenza demografica e la “rappresentatività” culturale e politica dei musulmani nel nostro Paese come nel resto dell’Unione Europea. Se “l’ignoranza” è causa della patologia, la “conoscenza” – delle culture e delle persone concrete- è insomma l’unica efficace terapia per contrastarla. Senza ovviamente contestare in alcun modo i pericoli dell’ignoranza ed il positivo valore della conoscenza reciproca nei rapporti tra persone e gruppi di culture differenti, sembra tuttavia opportuno compiere un tentativo di problematizzare alcuni aspetti del sistema di rappresentazioni sin qui descritto, che appaiono di assoluto rilievo a livello epistemologico. Preliminare alla progettazione di un qualunque percorso terapeutico, è infatti la possibilità di formulazione di una diagnosi corretta. Ora, è proprio su questo punto che le rappresentazioni della islamofobia nella società italiana sembrano richiedere una attenta verifica – e forse anche una profonda revisione – per un duplice ordine di motivi. In primo luogo, nella valutazione dei “sintomi” non si può prescindere da una adeguata valorizzazione di indicazioni, anche statistiche, che sembrano porsi in contrasto con l’immagine, sin qui evocata, di una società islamofobica.

In secondo luogo, la definizione stessa della “patologia” qui presa in esame è ben lungi dall’essere oggetto di unanime accordo sia in sede scientifica che in sede di pratica applicazione (incluse le prassi sociali e istituzionali). Infatti, per alcuni osservatori la nozione di islamofobia andrebbe riferita, in linea con l’etimologia del termine, esclusivamente a forme di “paura infondata” o di “avversione pregiudiziale” contro la religione e la cultura islamica (è questa, ad esempio, la definizione del lemma nel Dizionario Treccani). Per molti altri tale nozione include, come si è detto, forme di razzismo contro le persone che praticano la fede musulmana o provengono da quella cultura (come nei già citati documenti dell’Ufficio Nazionale Anti-Razzismo, UNAR). Per altri ancora, essa sembra doversi estendere, di fatto, a qualunque critica – anche razionalmente argomentata – nei confronti della religione e della civiltà islamica o di particolari aspetti di essa, in quanto ciò sarebbe comunque espressione di una tendenza ad affermare gerarchie di valori tra le diverse culture (è stato questo, ad esempio, il ragionamento alla base del processo disciplinare per islamofobia avviato, nel 2014, dall’Ordine dei Giornalisti contro Magdi Cristiano Allam, conclusosi peraltro con una piena assoluzione. Infine, nel ricorrente dibattito sull’identità culturale europea e sulle diverse identità nazionali, sono emerse posizioni tendenti a squalificare come islamofobica qualunque rappresentazione identitaria che non contempli l’esplicita inclusione dell’Islam tra i fattori costitutivi – anche in proiezione storica – di tale identità: un esempio tra molti, le critiche espresse dall’intellettuale musulmano francese Abd Al Malik, in nome tanto della laicità quanto del contrasto alla islamofobia, contro l’affermazione della originaria connotazione “giudaicocristiana” dell’identità francese; una linea sulla quale si è spinto recentemente, con esiti paradossali, anche un analista politico italiano generalmente sobrio come Antonio Polito, il quale, in un articolo apparso sul Corriere della Sera dopo la strage alla moschea di Christchurch, ha ridotto la battaglia navale di Lepanto, e la stessa impresa di Carlo Martello a Poitiers, a simboli della islamofobia contemporanea. Per queste molteplici ragioni, appare necessario spingere l’analisi più a fondo, per verificare se la società italiana sia realmente affetta, o anche solo insidiata, da una “malattia dell’immaginario” definibile come islamofobia, o se questa non debba piuttosto ritenersi come una “malattia immaginaria”. Ovvero, se la diagnosi di islamofobia non sia a sua volta il prodotto di una fobia – ispirata da considerazioni di natura ideologica – che rischi di paralizzare, nelle spire del politicamente corretto, il discorso pubblico sul rapporto con l’universo materiale e simbolico dell’Islam – nelle molteplici accezioni che il termine comporta: come visione religiosa e sistema di pensiero; come civiltà storicamente articolata in una pluralità di forme di vita sociale e culturale e in una varietà di realtà politiche e statuali ispirate ad un comune costellazione di principi; come complessa tradizione giuridica; come rete di organizzazioni nazionali ed internazionali; come riferimento identitario e valoriale – variamente inteso, declinato e problematizzato – delle singole persone di fede musulmana.

 

  1. ISLAMOFOBIA E IGNORANZA: UN BINOMIO NECESSARIO?

Come già accennato, le rappresentazioni dell’Italia come Paese malato, o quanto meno “soggetto a rischio”, di islamofobia trovano ampio spazio nelle più varie sedi di elaborazione culturale e di formazione dell’opinione pubblica. In primo luogo, sono ricorrenti gli allarmi dei media sul dilagare di atteggiamenti islamofobici nella società italiana. Già nel 2015, ad esempio, dopo gli attentati islamisti di Parigi, il Corriere della Sera denunciava una crescita della islamofobia in Europa, presentandola come uno degli obiettivi perseguiti dalla stessa Isis al fine di polarizzare le società occidentali e spingere i musulmani europei a radicalizzarsi. Sul finire dello stesso anno, il sito di informazione Stati Generali definiva l’Italia “capitale europea dell’islamofobia”, asserendo che “il 63%” della popolazione avesse “un’opinione sfavorevole dei musulmani presenti nel nostro Paese”, sullabase di un’indagine condotta in diversi Paesi europei dal think-tank statunitense PEW Research Center. Da allora, il PEW ha prodotto diverse analisi sul sentiment verso i musulmani, spesso affermando l’esistenza di una correlazione inversamente proporzionale tra la consistenza demografica della “presenza” musulmana in un dato Paese europeo e l’indice di ostilità anti-musulmana nella popolazione autoctona (ossia: meno numerosi sono i musulmani, più numerosi sarebbero gli islamofobi). In particolare, un’indagine condotta nel 2018 in quindici Paesi europei dimostrerebbe come chi abbia una conoscenza diretta di persone di fede islamica tenda più di altri ad avere un’opinione favorevole nei confronti dei musulmani e dell’Islam. L’islamofobia sarebbe quindi determinata, o comunque alimentata, essenzialmente dall’ignoranza.

  1. ISLAMOFOBIA: TEORIE CONTEMPORANEE E STORIA DEL TERMINE

L’affermazione di un nesso costitutivo tra islamofobia ed ignoranza è uno dei pilastri di quella che potremmo definire la “teoria dell’islamofobia” contemporanea (cioè del complesso sistema di rappresentazioni di cui abbiamo accennato i tratti salienti nella sezione precedente). Questa teoria trova molteplici espressioni in una bibliografia sterminata11, prodotta soprattutto negli ultimi due decenni, sulla scia del celebre rapporto Islamophobia: A challenge for us all, pubblicato nel 1997 dal think-tank britannico Runnymede- una fondazione che presenta come sua mission prioritaria il sostegno alle politiche di “uguaglianza razziale” (race equality) per la costruzione di una Gran Bretagna multi-etnica nella quale “tutti i cittadini e tutte le comunità possano sentirsi valorizzati”.

Molto probabilmente, il 1997 rappresenta un “punto di svolta” nella storia – in parte ancora dibattuta – del concetto di islamofobia. Da un lato, occorre precisare che le prime attestazioni note di tale nozione precedono di circa un secolo la pubblicazione del report della Fondazione Runnymede. Infatti, contrariamente ad alcune ricostruzioni che imputano l’elaborazione di tale nozione all’ayatollah Khomeini o ad intellettuali vicini alla Fratellanza Islamica, il termine islamophobie risulta già presente nel lessico intellettuale francese del primo Novecento, sia pure con una circolazione assai limitata. Come hanno dimostrato recentemente Abdellali Hajjat e Marwan Mohammed, alcuni studiosi e funzionari delle amministrazioni coloniali (due ruoli spesso sovrapposti, all’epoca, in una medesima persona) usano il termine islamophobie, nei primi anni del XX secolo, per contestare, tra l’altro, i timori degli ambienti governativi in ordine ad un possibile ruolo eversivo dell’Islam – come sistema di valori e come rete organizzativa – nei territori colonizzati; in particolare, si segnala La politique musulmane dans l’Afrique occidentale française (1910) del giurista Alain Quellien, in cui la “difesa” dell’Islam si basa peraltro, in larga misura, su argomenti di chiara connotazione razzista, come l’idea che la morale islamica sia più adatta di quella cristiana alle popolazioni “nere” in quanto più conciliante nei confronti degli istinti naturali16. Pochi anni più tardi, come segnala Vincent Geisser in uno studio del 2003, il termine è utilizzato dal pittore “islamofilo” Etienne Dinet per ironizzare sull’atteggiamento delle istituzioni cattoliche nei confronti dell’Islam. Tuttavia, bisogna altresì rilevare che l’uso generalizzato del termine nella lingua inglese e, soprattutto, la particolare curvatura concettuale “antirazzista” che esso ha ricevuto nel dibattito culturale contemporaneo, sembrano da ricondurre, in larga misura, proprio all’impatto, sul dibattito culturale, del report pubblicato dalla Fondazione Runnymede nel 1997. Nella legione di pubblicazioni apparse dopo quella data, sembra opportuno segnalare almeno, per complessità di costruzione, il volume Islamophobia: Making Muslims the Enemy di Peter Gottschalk e GabrielGreenberg ed i molti lavori dello statunitense John Esposito, per non dire della vasta produzione legata a Tariq Ramadan e agli ambienti intellettuali della Fratellanza Islamica (un tema sul quale ci permettiamo di rinviare al saggio di Mario Ciampi sull’Islam europeo nel presente volume). In ambito italiano, una posizione decisamente originale è espressa da Enrico Galoppini, che si allontana significativamente dalla dominante lettura “progressista” della islamofobia: in linea con una particolare visione positiva dell’Islam che caratterizza diverse correnti di pensiero “anti-moderno” – in particolare, controversi pensatori della Tradizione come Guénon ed EvolaGaloppini vede nell’ostilità anti-islamica non soltanto il prodotto di presunte manipolazioni occidentali volte a giustificare pretese egemoniche e guerre imperialistiche ma anche il risultato di un confronto tra il solido sistema di valori spirituali che egli ritiene incarnato dall’Islam ed una modernità “liquida” insofferente verso tali valori e verso il senso del divino: “La “cultura islamica” ci mette di fronte ad una delle menzogne fondamentali del “laicismo”: che non sia possibile coniugare la “modernità” con la “tradizione”. Se con “modernità” s’intende semplicemente l’esserci qui ed ora, non tutto l’ambaradam dei cosiddetti “diritti umani” di conio occidentale che, postulando di fatto l’inesistenza di Dio, i musulmani coerentemente rigettano”.

  1. ISLAMOFOBIA E “DISCORSI D’ODIO”

Nelle università italiane, soprattutto in ambito antropologico e sociologico, sono molteplici le iniziative di ricerca tese a definire e valutarele caratteristiche e l’intensità della islamofobia e di altre fobie nei confronti delle diversità etniche, culturali, religiose, sessuali. Tra le più note, la Mappa dell’Intolleranza, realizzata annualmente dall’associazione VOX – Osservatorio Italiano dei Diritti in collaborazione con l’Università Statale di Milano, l’Università di Bari, La Sapienza di Roma e il Dipartimento di sociologia dell’Università Cattolica di Milano, per monitorare qualità, quantità e distribuzione geografica dei “discorsi d’odio” (hate speech) nelle reti social. Giunta nel 2019 alla sua quarta edizione, la Mappa dedica da sempre spazio al tema dell’islamofobia, considerata sia come fenomeno in sé, sia come parte di una generica ostilità contro le persone “considerate aliene”. Quest’ultima viene valutata sommando i dati relativi a tre diverse categorie: musulmani, ebrei e migranti (un procedimento, invero, suscettibile di qualche obiezione epistemologica, poiché sembra non tener adeguatamente conto delle complessità specifiche delle diverse categorie implicate e delle loro possibili interazioni: basti pensare, ad esempio, che l’antisemitismo colpisce anche ebrei italiani e può essere praticato anche da musulmani italiani o da migranti – sia musulmani sia cristiani – oltre che da xenofobi e/o antisemiti autoctoni). Anche per i responsabili di VOX, in ogni caso, l’intolleranza è fondamentalmente legata alla non-conoscenza delle persone “considerate diverse”: “Oggi l’odio si concentra contro le persone considerate diverse, per appartenenza a culture differenti dalla nostra […]. Ma dalla rilevazione emerge un altro aspetto importantissimo. I tweet intolleranti diminuiscono, dove è più alta la concentrazione di migranti, dimostrando quindi una correlazione inversa tra presenza sul territorio e insorgere di fenomeni di odio: come a dire, conoscersi promuove l’integrazione”.

  1. ELEMENTI PER UNA “DIAGNOSI” ALTERNATIVA

Secondo le rappresentazioni sin qui evocate, gli orientamenti dell’opinione pubblica sarebbero pervasi di crescente ostilità pregiudiziale verso la “religione e la cultura islamica” e verso le persone di fede islamica. In questo quadro, la nozione di islamofobia si presenterebbe come unaforma specifica di razzismo. Tuttavia, una tale “diagnosi” dello stato della società italiana sembra prestarsi a qualche seria obiezione. In primo luogo: se la realtà sociale del Paese fosse così inquietante, si dovrebbero poter trovare tracce evidenti di islamofobia non soltanto in studi selettivi condotti su realtà “patologiche” per definizione, come i citati campioni di “discorsi d’odio” – peraltro definiti sulla base di liste di parolechiave la cui scelta, con tutte le cautele epistemologiche che si possano adottare, risulta pur sempre, inevitabilmente, influenzata anche da una componente soggettiva e aprioristica-, ma anche in analisi condotte su campioni rappresentativi della generalità della popolazione. Come spiegare, allora, i risultati emersi dell’approfondita indagine statistica inferenziale condotta nel luglio 2019 (e dunque in una fase di grande successo delle forze “populiste” e “sovraniste”) da Arnaldo Ferrari Nasi e da lui commentata in questo stesso volume? Rinviando ovviamente all’articolo in questione per una analisi dettagliata di tale indagine, in questa sede sembra comunque opportuno esprimere alcune considerazioni generali suggerite dagli esiti di quella rilevazione. In estrema sintesi, si osserva che dalle numerose domande in cui si articola la ricerca, rivolte ad un campione rappresentativo di differenti ambiti sociali, culturali e geografici della popolazione italiana, emerge il quadro di un’opinione pubblica decisamente non “fobica” nei confronti dell’Islam e delle persone di fede musulmana. In particolare, i due terzi degli intervistati ritengono possibile una positiva integrazione degli immigrati musulmani, e una maggioranza altrettanto ampia concorda sull’idea che la maggior parte dei musulmani presenti in Italia sia “moderata”. Analogamente, molti degli intervistati dimostrano di non avere ostilità preconcette verso l’Islam come religione: un’ampia maggioranza ritiene che questa religione, pur avendo vissuto anche periodi storici di violenza e intolleranza, sia però suscettibile di interpretazioni aperte alla tolleranza e al dialogo, mentre una parte minoritaria ma assai cospicua (circa un quarto) degli intervistati definisce tout court l’Islam come “una religione di pace e di tolleranza”. In quest’ambito, inoltre, risulta da segnalare il numero straordinariamente basso (12%) di quanti ritengono che l’Islam si sia diffuso principalmente attraverso le conquiste militari – e ciò, sia consentito sottolinearlo, risulta in parte sorprendente, se si considera come tali conquiste abbiano segnato proprio le fasi iniziali della storia islamica e contribuito allo sviluppo di unimmaginario collettivo in cui (anche per numerosi asceti e mistici sufi) lo “sforzo (jihâd) sulla via di Dio” si concretizza spesso – benché non sempre e non esclusivamente – in pratiche di combattimento militare. A distanza di quattro anni dal citato rapporto del PEW Research Center, dunque, i risultati sembrano esattamente invertiti rispetto a quelli che avevano indotto qualcuno a dichiarare, forse frettolosamente, l’Italia “capitale europea dell’islamofobia”: saremmo passati, cioè, da un 61% di “opinioni sfavorevoli” sui musulmani presenti in Italia, ad oltre il 60% di “opinioni favorevoli”. Una inversione di tendenza a dir poco sorprendente, in un Paese in cui la islamofobia sarebbe in vertiginoso aumento. Peraltro, anche le opinioni – minoritarie- che nel sondaggio potrebbero essere qualificate come “negative” non sembrano mai fondate su ostilità preconcette ma sulla valutazione, magari pessimistica ma non per questo “pregiudiziale”, di specifici aspetti legati alla concretezza dello sviluppo storico dell’Islam e/o alla consapevolezza della potenziale problematicità delle relazioni interculturali in un contesto sociale determinato. Anche questi dati, dunque, sembrano portare una significativa smentita alle rappresentazioni di una vasta diffusione della islamofobia, che per essere tale dovrebbe appunto fondarsi su forme di “avversione pregiudiziale”. Ovviamente, un solo sondaggio non basta ad invertire un quadro che sembra fondarsi su una mole di indagini precedenti. Tuttavia, l’indagine demoscopica condotta da Ferrari Nasi ha prodotto una serie di evidenze statistiche con le quali non sarà possibile non confrontarsi, nel prosieguo del dibattito pubblico sul tema della islamofobia. Lasciando agli studiosi di scienze statistiche e sociologiche una più approfondita valutazione dei dati, non possiamo non rilevare, in questa sede, come l’indagine di Ferrari Nasi segnali la necessità di coltivare, quanto meno, un ragionevole dubbio rispetto all’esistenza di una epidemia di islamofobia nell’Italia di oggi. In effetti, simili dati mostrano semmai un notevole grado di apertura della società italiana nei confronti delle persone di religione e di cultura islamica (purché, come indicano alcuni aspetti della rilevazione, tale presenza sia inserita in un contesto di certezza dei riferimenti giuridici comuni e di rispetto di alcuni elementi della cultura nazionale). In taluni casi, essi sembrano anzi indicare una notevole incidenza, presso settori cospicui dell’opinione pubblica, di stereotipi positivi e di rappresentazioni che affermano una metastorica “essenza irenica” dell’Islam, anche in potenziale contraddizione con la complessità delle realtà storiche che ne hanno segnato lo sviluppo. In questa rilevazione, si riscontrano dunque, da un lato, atteggiamenti di equilibrio e di apertura che evidenziano a nostro avviso le conseguenze, di lungo e medio periodo, di una vasta e articolata serie di positivi sforzi prodotti condotti da uomini e donne dell’accademia, della cultura, delle istituzioni civili e religiose, sin da tutto il secolo scorso, sul terreno della conoscenza storica obiettiva del complesso universo islamico, della comprensione interculturale, del dialogo interreligioso; dall’altro, si registrano anche atteggiamenti di simpatia “pregiudiziale” per il mondo islamico, legati all’ampia diffusione nel discorso pubblico, almeno dall’ultimo quarto del XX secolo, di rappresentazioni ideologiche di derivazione “postcoloniale” ed “anti-occidentale” che – a partire dalle letture, di impronta sartriana o fanoniana, dei “dannati della terra” come nuovo proletariato rivoluzionario, e dalla critica all’orientalismo elaborata da Edward Said (che opera una radicale decostruzione dell’etnocentrismo della cultura occidentale, ma omette – consapevolmente- di applicare lo stesso sguardo critico alle costruzioni etnocentriche elaborate dalla cultura islamica e, di fatto, da qualunque altra cultura storica) – hanno contribuito a produrre immagini stereotipate dei rapporti tra “Occidente” e “Islam”, ridotti a termini fissi di una relazione tra oppressore ed oppresso, laddove la storia dimostra una pluralità di situazioni complesse – fatte di scambi, intrecci, conflitti – in cui i ruoli si sono tante volte invertiti o sovrapposti. Proprio la diffusione, nei più diversi ambiti di formazione dei saperi e delle opinioni del Paese, di tali diversi sistemi di rappresentazioni – quelle, più connotate nel senso dell’obiettività scientifica, della ricerca orientalistica di stampo “tradizionale” e quelle, ideologicamente connotate in senso variamente “filo-islamico”, prodotte dalle rivoluzioni epistemologiche che hanno trovato la loro data-simbolo nel 1968 – sembra aver agito, peraltro, come un fattore determinante per la costruzione di un efficace sistema “immunitario” contro l’emergere e il diffondersi della islamofobia negli ambienti colti del Paese.

  1. CONCLUSIONI

Se considerazioni di vario genere sembrano suggerire che tanto gli ambienti colti quanto la generalità della popolazione siano sostanzialmente immuni, almeno nelle loro componenti largamente maggioritarie, da forme di ostilità preconcetta contro l’Islam e contro i musulmani, che cosa giustifica le reiterate e diffuse rappresentazioni della società italiana come islamofobica? La risposta ad un tale quesito richiede senza dubbio un lavoro analitico di lunga lena. Tuttavia, già ad una prima valutazione degli elementi sin qui emersi, un fattore cruciale sembra essere rappresentato dalle diverse sensibilità con cui, come già accennato, viene interpretata, e applicata, la nozione di islamofobia. Se il termine viene riferito alle sue valenze etimologiche di “paura infondata” o “avversione pregiudiziale” contro la religione e la cultura islamica e/o contro i musulmani, non si può parlare di una diffusione significativa dell’islamofobia nella società italiana; anche se resta ovviamente alta la necessità di contrastare qualunque espressione di effettivo razzismo – antislamico, islamista o di qualsivoglia altra matrice – che possa affiorare in contesti sociali “reali” o “virtuali”. Se invece si adotta una nozione più elastica del termine islamofobia, esso diviene facilmente applicabile a qualunque discorso che comporti una critica ad aspetti della cultura islamica o a qualunque riflessione sull’identità culturale, sulla sovranità, sull’organizzazione sociale di un Paese che si ponga come alternativo – o non pienamente conforme – al pensiero dell’altro ed alle posizioni multiculturaliste tuttora prevalenti nel discorso pubblico. Ma in tal caso, non si tratta più di una “malattia dell’immaginario” quanto piuttosto di una “malattia immaginaria”, evocata – con maggiore o minore buona fede – per escludere dallo spazio del dicibile, e anche del pensabile, teorie e punti di vista non graditi.

 

*Giuseppe Cecere, docente di lingua e letteratura araba, Università di Bologna