Perché occorre un’Authority per gli ivestimenti esteri

Per le società estere investire in Italia è storicamente una corsa ad ostacoli tra restrizioni, burocrazia, tasse, caos normativo ed una incompetenza generalizzata delle pubbliche amministrazioni. Qualcuno dirà che, dopotutto, almeno non si svende il paese preservando così l’italianità dell’economia. Nulla di più sbagliato! Attirare investimenti e know-how arricchisce il sistema produttivo del paese e certo non lo indebolisce.

Il Belpaese ha sempre avuto la presunzione di poter fare da sé. Forse colpa di quel narcisismo e vanità intrinsechi in una Nazione che ha dalla sua parte delle eccellenze riconosciute in tutto il mondo. Arte, storia, cultura ed, ovviamente il Made in Italy.

Questa consapevolezza in qualche modo ha penalizzato l’Italia, soprattutto per quanto riguarda la scarsa apertura verso chi viene dall’estero. Sarebbe opportuno prendere spunto dalle storiche rivali come Francia, Inghilterra e Germania, oltre ad altri player internazionali di caratura minore, che hanno puntato molto sull’attrazione di investimenti esteri incassando notevoli benefici e rafforzando le proprie economie, stando al contempo vigili ed attenti a non lasciare mai che il potere decisionale passasse in mani straniere.

Negli anni In Italia si è fatto pressoché il contrario. Abbiamo assistito ad abili operazioni di mercato quasi sempre svantaggiose per le imprese italiane, dove società estere (con “spalle coperte” dagli stessi paesi di provenienza) sono riuscite a prendere il controllo su molti asset strategici. Si è trattato di veri campioni nazionali passati ormai in mani straniere, ribaltando il concetto di attrattiva in permissivismo verso la depredazione del Made in Italy. L’Italia quindi si è rivelata debole ed inefficiente in quella competizione internazionale volta all’attrazione degli investimenti esteri cosiddetti buoni, diretti a portare benefici e ricchezza, dove si è vista superare persino da competitor molto più deboli ma (occorre ammetterlo) molto più organizzati ed agguerriti. In tutti i settori. Basti pensare all’Olanda, all’Inghilterra pre-Brexit, a Malta, a Cipro e ora persino agli Emirati Arabi che si sono tutti abilmente approfittati dall’insostenibilità della pressione fiscale italiana facendo si che molte aziende, soprattutto finanziarie ed erogatrici di servizi, trasferissero sedi e filiali operative in tali paesi allettati da condizioni fiscali favorevoli e zero burocrazia.
Riguardo la delocalizzazione industriale, invece, l’elenco comprenderebbe la quasi totalità dei paesi dell’Est Europa, dove le imprese italiane usufruiscono di manodopera più vantaggiosa a parità di qualità produttiva, di una ingerenza pressoché minima dei sindacati ed, ormai inutile dirlo, di un regime fiscale agevolato e attento alle esigente di chi investe. In molte di queste nazioni l’investitore estero viene affiancato persino da un tutor statale che lo aiuta a sbrigare gli adempimenti burocratici ed amministrativi.
Infine, pur brevemente, occorre menzionale le università, una vera arma di attrazione, questa volta non di investimenti bensì di menti eccelse provenienti da altri paesi, che poi si trasformano in ricchezza nazionale. L’Italia oggi si può difendere a malapena con la Bocconi e con il Politecnico di Milano. Sono tutte chance mancate. Difficilmente recuperabili ma non perse, qualora il Governo sia deciso a cambiare il modello attuale.  Se pensiamo a quante agenzie si occupano di attrazione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy, da Invitalia a SIMEST, ICE, il Comitato Attrazione Investimenti
Esteri (CAIE) presso il MISE, colpisce la scarsezza dei risultati raggiunti.
Certo, anche tali soggetti non possono fare miracoli se prima non si procede alla sburocratizzazione, alla digitalizzazione del paese, all’alleggerimento della pressione fiscale e all’adeguamento del sistema anche guardando (e perché no? Prendendo a modello) ciò che fanno gli altri.
L’attuale governo dovrebbe seriamente prendere in considerazione una politica di concertazione della gestione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy. Ciò può avvenire attraverso la creazione di una vera e propria Authority che si occupi non solo di coordinare l’azione delle predette agenzie, ma di fare anche da tramite tra le imprese estere e tutti gli interlocutori italiani, pubblici o privati che siano, onde eliminare quell’impasse burocratico che schiaccia ogni entusiasmo ad investire in Italia.
Questo lavoro di coordinamento è fondamentale considerato che ogni impresa estera che vuole operare in Italia si imbatte in problematiche grottesche.
Un breve esempio. Una società estera (UE) che vuole operare in Italia come prima cosa costituisce una newco davanti al Notaio che provvede a registrarla presso la Camera di Commercio e segnalare l’inizio attività all’Agenzia delle Entrate. Da questo momento inizia il calvario. La società, desiderosa di cominciare a lavorare, a creare posti di lavoro, a produrre o fornire servizi, va ad aprire un conto corrente dove versare il capitale sociale. Però non si può. Se la neocostituita (di diritto italiano, regolarmente iscritta) ha più del 20% di capitale estero (ed è ovvio che sia così, si tratta di investitore estero) nessun istituto bancario italiano è disposto ad aprirle un conto. Senza spiegazioni, senza motivazioni, salvo evidenziare che trattasi della policy bancaria italiana. Nel frattempo arriva la burocrazia. La neocostituita società (il cui investitore estero ancora non ha ancora versato il capitale sociale visto che non gli aprono un conto) si scontra immediatamente con una serie di altre problematiche, tra cui l’obbligo del pagamento della bollatura dei libri sociali che nel 2022 si fa ancora per mezzo di bollettino postale cartaceo compilable a mano (Digitalizzazione? Manco a parlarne). Senza contare che i siti web istituzionali (Agenzie governative, P.A.) che contengono le linee guida, i regolamenti, le normative, elementi preziosissimi per il corretto operato amministrativo di una società, sono esclusivamente in italiano relegando le poche sezioni in inglese a informazioni parziali ed incomplete. A questo punto il malcapitato investitore estero alza comprensibilmente i tacchi e se ne va in Olanda. O a Dubai. Ovunque ma non qui.

Infine, si è sempre saputo che il grado di attrattività degli investimenti esteri si basa sulla stabilità politica di un paese. Quindi, è ovvio che fino ad oggi non abbiamo avuto molte chance. Basti come esempio ciò che è avvenuto anni fa con il Fondo del Qatar. All’invito dell’allora primo ministro italiano ad investire nel Belpaese, il Qatar ha declinato l’invito rispondendo che l’Italia non forniva garanzie di stabilità politica considerato il noto avvicendarsi di governi di breve durata. Neanche a farlo apposta dopo pochi mesi il noto epilogo del governo Letta e delle rassicurazioni di Renzi a stare sereno. L’attuale Esecutivo ha invece tutte le carte per portare a termine la legislatura e questo dovrebbe rassicurare gli investitori stranieri. Quindi è il momento di agire.  C’è un sistema paese da riformare, perché solo un paese moderno, digitalizzato, con un apparato burocratico snello e reattivo può creare le condizioni giuste per attrarre investimenti ed eccellenze verso l’Italia. Serve quindi un’Authority che coordini e affianchi tutte le agenzie attuali preposte a tale scopo, che vigili sull’operato di banche e P.A. riguardo le politiche adottate verso le società estere e crei delle regole snelle e chiare per accogliere le imprese straniere. Oltre all’esigenza di un portale unico dedicato, in inglese, con una forte connotazione anche pubblicitaria (utile anche per la promozione inversa del Made in Italy) che costituirebbe senz’altro uno strumento imprescindibile per l’attrazione degli investimenti e per la conseguente prosperità del paese.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

La Francia e il deficit di classe dirigente

Le elezioni presidenziali in Francia chiudono una contesa che non ha mai visto mettere in discussione la rielezione di Emmanuel Macron. Un fatto questo di per sé inusuale negli ultimi anni, che hanno visto una sostanziale alternanza all’Eliseo al secondo turno favorita dalla progressiva frammentazione del quadro politico francese. Bisogna tornare al 2002, con la vittoria di Jaques Chirac su Jean Marie Le Pen per ritrovare un quadro simile ma non del tutto sovrapponibile a quello attuale.

Al di là delle lotte dinastiche che hanno interessato il Front National, in vent’anni è letteralmente cambiato il mondo, non abbastanza per propiziare una vittoria della destra, che attende con pazienza biblica il passaggio del cadavere nel fiume da ormai due decenni senza reali possibilità di successo. Forse il corpo esanime del nemico non arriverà mai e c’è pure il rischio concreto che a passare sia quello della Le Pen, a dispetto delle continue profezie a tinte fosche pronte a predire il crollo oggi della globalizzazione, domani dell’Unione Europea e chissà magari anche della società Francese.

Questa attesa spasmodica degli errori dell’establishment, ha portato a tralasciare contro ogni buonsenso la creazione di una vera classe dirigente, realisticamente in grado di affrontare i problemi che hanno fiaccato la popolarità di Macron in questi cinque anni e capace di proporsi agli elettori come una concreta scelta alternativa. È bene ricordare che il sistema istituzionale francese, oltre ad attribuire al Presidente della Repubblica un potere quasi “Jupiteriano”, plasmato ad immagine e somiglianza di De Gaulle, è permeato da una declinazione unica dell’elitismo che tutta la cittadinanza ha interiorizzato in modo più o meno consapevole e sicuramente sufficiente a scoraggiare avventure alla Masaniello a cui l’Italia è abituata da orami quasi un decennio.

Il Repubblicanesimo elitario si sostanzia nella sinergia tra alte sfere dell’amministrazione pubblica e vertici politici, da Pompidou a Macron, con l’eccezione di Sarkozy, spesso si ricorda come i Presidenti francesi abbiano in comune un percorso accademico scandito da tappe pressoché identiche, culminate con il diploma da enarca. Si potrebbe obiettare che ormai le pulsioni egalitarie hanno investito anche la Francia in quest’ambito e che l’ENA ha cambiato nome, una linea di pensiero a cui  Marine Le Pen non può mostrarsi estranea nella sua crociata contro i “privilegiati”. Tuttavia è questo il fattore che più l’ha contraddistinta negativamente rispetto al suo rivale Éric Zemmour, nonostante apparisse più moderata infatti, la vicinanza del leader di Reconquête ai circoli del potere editoriale e al mondo dei media di Vincent Bollorè, l’ha portato a coagulare pur con un risultato sotto le aspettative il sostegno di una buona parte della potenziale classe dirigente affine anche al Front National. Facile immaginare le conseguenze che ha sortito un simile depauperamento sulle ambizioni di governo della destra. Marine Le Pen non può neppure impiegare l’ottimo ma pur perdente risultato delle urne per fugare i dubbi che adombrano la sua reale capacità non solo di essere eletta vincendo al secondo turno, ma di incarnare un ruolo che in Occidente è l’apoteosi del verticismo politico, senza aver ricoperto prima d’ora cariche diverse dalla guida del maggiore partito di opposizione.

È quindi la mancanza degli attributi tecnico-politici ad aver allontanato gli elettori dal Front National ? Anche la Francia negli ultimi anni è stata interessata, in misura minore dell’Italia, da un fenomeno di perdita del potere d’acquisto chiamato “grand déclassement”: inflazione, crisi energetica e transizione ecologica sono stati sufficienti per attizzare il fuoco lepenista ben oltre il 40%, ma in misura lontana dal convincere i francesi della praticabilità di una soluzione politica basata su un programma di governo realmente alternativo a quello del presidente uscente.

Ciò non si è verificato forse perché un orientamento così governista non era neppure all’ordine del giorno di Marine Le Pen. Non basta infatti aver intrapreso un percorso di “normalizzazione” rispetto all’eredità politica paterna, sfociato nella costituzione del Rassemblement National e in un generale cambio di toni rispetto alla stagione politica passata. Marine Le Pen non ha mai dato l’impressione di voler prendere in mano le redini del paese e la tentazione della rendita di posizione dell’eterna opposizione può spiegare la velleitaria assenza di contenuti, spesso sfociata nella contraddizione come nel dibattito televisivo, da cui infatti è risultata sconfitta. La percezione di Macron come un bene rifugio dell’elettorato francese, rende la sua rielezione una vittoria parziale agli occhi dell’opinione pubblica che non l’ha ancora pienamente assimilato nelle categorie politiche tradizionali e con cui ha scontato grandi cali di popolarità durante il mandato.

Quando Chirac venne rieletto venti anni fa con un margine di quasi 60 punti, incarnava l’unità repubblicana e sia gli elettori che i candidati tradizionali ne riconobbero in modo esplicito l’assoluto ruolo di garanzia. Il caso di Chirac è emblematico perché sette anni prima aveva trionfato a sorpresa al primo turno contro il Primo Ministro uscente Balladur e poi al secondo con Jospin, facendo leva già allora sul tema della frattura sociale che in un paese come la Francia, meno disposta rispetto ad altri a rinunciare alle conquiste del welfare state, assume una dimensione trasversale comune a tutto l’elettorato.

Macron tuttavia non è Chiarc e pur vantando un successo solido, ma meno granitico del 2017, rischia di apparire solo come la migliore delle alternative possibili al Lepenismo, capace di coagulare intorno a sé consenso più per necessità di impedire l’ascesa del Front National che per gradimento elettorale.

Di conseguenza, la condizione del “migliore dei candidati possibili” continuerà a giocare a favore di Macron e degli altri leader europei finché i sostenitori di una proposta politica alternativa non si dimostreranno in grado di offrire all’opinione pubblica dei loro Stati pari garanzie sull’idoneità politica e tecnica richiesta dal ruolo di Capo di Stato o di Governo. Un simile processo di maturazione richiede innanzitutto la creazione di una classe dirigente in grado di offrire ad un presidente e al suo governo gli strumenti minimi per maneggiare la complessità della realtà odierna, prevedendo allo stesso tempo soluzioni in grado di incidere favorevolmente su temi in continuo mutamento, che vanno al di là delle conseguenze prodotte sulla vita di tutti i giorni come il caro benzina o l’aumento del prezzo dell’energia.

In Italia in particolare il centrodestra rischia di trovarsi in una situazione altrettanto spiacevole, con la differenza che mentre i risultati del primo mandato di Macron sono inequivocabili sia in termini di crescita economica che di riduzione della disoccupazione, in Italia altrettanto non si può dire degli esecutivi guidati dal Partito Democratico in questi ultimi 9 anni. Con la parentesi del primo governo Conte, il centrosinistra ha potuto beneficiare di una continuità politica e amministrativa pressoché ininterrotta, unita alla sostanziale benevolenza se non acquiescenza dell’Unione Europea a fronte di dati economici di gran lunga inferiori a quelli programmati nei documenti di bilancio, che non sono in alcun modo comparabili con i ritmi sostenuti della Francia ben prima della pandemia. Quello che è in apparenza un grande rompicapo politico, deve essere uno stimolo affinché il centrodestra si doti finalmente di un gruppo dirigente in grado di presentarsi ai mercati e al mondo senza ingenerare quei dubbi o insicurezze che, uniti alla litigiosità quasi puerile della coalizione, ne hanno impedito l’approdo a Palazzo Chigi. Solo dalla consapevolezza dei limiti dell’attuale quadro politico, per altro comuni a tutti gli schieramenti, potrà nascere una proposta di governo realistica e concreta che permetterà nel 2023 di ritornare al timone del paese.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Macron- Le Pen al duello finale

Parigi, 30 marzo

“Rien n’est joué, il faut mouiller la chemise”. “I giochi non sono finiti, bisogna bagnarsi la camicia”, cioè diamoci da fare perché la vittoria al secondo turno non è scontata. La preoccupazione è stata espressa da Emmanuel Macron mercoledì scorso all’ultima riunione del Consiglio dei Ministri, secondo quanto riferisce uno dei presenti.

Nessun problema al primo turno che si terrà domenica 10 aprile. Tutti i sondaggi danno il Presidente quasi al 30%, 9 punti avanti alla probabile sfidante Marine Le Pen che supera a sua volta Jean-Luc Mélenchon, candidato della sinistra, fermo al 14% ed Eric Zemmour, estrema destra, all’11%.

Ma il secondo turno, il 24 aprile, non sarà una

passeggiata per Macron. A preoccupare molti esponenti di En Marche, è l’astensionismo che potrebbe toccare il record del 30% e penalizzare principalmente il partito del Presidente. Molti elettori che al primo turno dicono di votare per la sinistra, non sono sicuri al secondo turno di convergere su Macron, piuttosto pensano di non recarsi alle urne.

Il malcontento a sinistra viene alimentato anche dalla riforma che porterà gradualmente da 62 a 65 anni l’età pensionabile. Una misura questa duramente criticata da Marine Le Pen che reclama “il diritto al riposo per le persone più fragili”. Aggiungi la rabbia non del tutto sopita dei gilet gialli e il quadro si complica per Macron.

I sondaggi degli ultimi giorni che danno in salita Le Pen preoccupano Il Presidente. Lei, la leader di Rassemblement National, ha impostato la campagna elettorale in difesa dei più deboli, un “patriottismo sociale” che le vale nel suo ambiente il titolo di “petit mer” del popolo.

Il ministro dell’Interno Gerard Darmanin ha candidamente espresso a France 5 il timore che la destra possa vincere le elezioni. Un timore o una speranza manifestati da numerosi osservatori politici.

Finora Macron ha coltivato la sua immagine a livello internazionale come presidente di turno del Consiglio Europeo e nel ruolo prestigioso che si era ritagliato nella trattativa per fermare la guerra.

Ma si osserva che le fasce più deboli colpite economicamente dalla crisi si preoccupano più del potere d’acquisto che dell’Ucraina.

Solo da lunedì scorso, 28 marzo, Macron si è immerso anima e corpo nella campagna elettorale. Tre punti principali nel programma del Presidente: lavoro, giovani, ecologia. E la rivendicazione delle cose fatte soprattutto nella sanità: rimborso delle spese per occhiali, cure dentarie e apparecchi acustici.

Maggiori aiuti a chi è in difficoltà, nel programma di Marine Le Pen, lotta alla criminalità e certezza della pena. Quanto basta per sperare di cavarsela questa volta nel duello finale per l’Eliseo, l’ultimo duello perché se perde , ha detto, non si ripresenterà più. Quella attuale è per lei una condizione migliore rispetto al 2017 quando uscì con le ossa rotte dal confronto televisivo con Macron. Stavolta le riconoscono una maggiore padronanza degli strumenti mediatici. Non solo. La presenza alla destra estrema di Zemmour, impegnato principalmente a frenare l’immigrazione, fa da parafulmine alle accuse che pendevano in precedenza sulla testa della figlia di JeanMarie Le Pen. Certo, si contesta a Marine il suo rapporto con Putin. Ma lei minimizza: se c’è un presidente francese che non ha avuto rapporti con Putin lanci la prima pietra.

*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

La sicurezza economica al centro dell’interesse nazionale

La tutela dell’interesse nazionale da insidie e incursioni estere lesive degli asset strategici italiani è di fondamentale importanza, ce ne stiamo accorgendo ancora di più oggi, in un momento particolarmente difficile e delicato.

La relazione annuale prodotta nel febbraio scorso dal Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica evidenzia in modo chiaro questa necessità, presentando per altro un efficace confronto con alcune delle principali democrazie mondiali, dalle quali emergono spunti interessanti e possibili aree di miglioramento per il nostro Paese, da attuare quanto prima, in un quadro internazionale in rapido deterioramento.

In particolare evidenzia come negli Stati Uniti, in Svezia, in Giappone e in Francia si sia affrontato per tempo questo delicato tema, prevedendo strumenti e modelli organizzativi atti ad affrontare possibili scenari critici, come quelli che stiamo vivendo.

Un sistema particolarmente organizzato appare quello francese, come si evince da questo passaggio del rapporto: <<In Francia, la prima struttura pubblica deputata alla centralizzazione dei dati economici che possono avere rilievo strategico risale al 1994: l’intelligence economica come strumento fondamentale di guerra risponde al bisogno di prevenire i comportamenti economici di Stati ed organizzazioni. L’approccio francese alla questione è stato, e sembra esserlo tuttora, di tipo bottom-up: un gruppo di accademici pionieri ha diffuso i concetti dell’intelligence economica inizialmente nelle università, per poi “contaminare” con le proprie teorie sia le strutture pubbliche, sia le aziende private, contribuendo fattivamente alla nascita di una cultura di intelligence economica. In tale modo la classe dirigente francese di ogni livello, pubblica e privata, ha potuto facilmente acquisire le basi concettuali per comprendere le modalità con cui intraprendere azioni offensive e difensive in un regime di guerra economica. A livello capillare, sono le Camere di commercio francesi a diffondere la conoscenza di pratiche di intelligence economica e delle strutture a cui rivolgersi, pubbliche e private, per le diverse esigenze delle singole aziende.  Non a caso, uno dei vantaggi francesi è l’aver coniugato intelligence economica (IE), business intelligence (BI) e competitive intelligence (CI) creando una struttura parastatale, la partecipata pubblico-privata Agence pour la diffusion de l’information technologique (ADIT,), che svolge regolarmente attività di BI e CI e, al contempo, supporta l’IE francese all’occorrenza. ADIT risulta, così, la sintesi di un concetto olistico dell’IE e di un interesse pubblico per gli affari economici che si spinge capillarmente fino alla consulenza rivolta alle Piccole e medie imprese (PMI). Sempre in tema di collaborazione con il settore privato, il Governo francese ha avviato in parallelo, da circa dieci anni, un’attività divulgativa a livello di Camere di commercio, con coinvolgimento di ordini professionali ed associazioni di categoria, per la diffusione di alcune best practices che spaziano dal tema della sicurezza dei dati (cybersecurity) fino alla modalità con cui condurre un attento monitoraggio del mercato e della concorrenza. In Francia, le attività di targeting economico finanziario sono responsabilità del Ministero dell’economia, dell’industria e del digitale (MEID). Presso la Direction générale des entreprises (DGE), posta all’interno del MEID, e più in particolare presso il Service de l’information stratégique et de la sécurité économique (SIS-SE), sono concentrate le seguenti attività: identificare i settori, le tecnologie e le imprese rilevanti per gli interessi economici, industriali e scientifici della Nazione ed accentrare le informazioni strategiche; concorrere all’elaborazione della policy governativa in materia di investimenti esteri; informare le Autorità circa persone, imprese ed organismi che rappresentano un interesse o una minaccia per le priorità strategiche del Paese; contribuire o monitorare il rispetto della legge sulla diffusione di documenti riservati. Il Commissario all’informazione strategica e alla sicurezza economica o CISSE (Commissaire à l’information stratégique et la sécurité économique), nominato con decreto presidenziale, sovrintende a tali attività e, al contempo, assicura il coordinamento con gli altri Ministeri del Governo e con i Servizi di intelligence. In tal modo, inglobando il MEID nel ciclo intelligence, il Governo francese agevola i Servizi di sicurezza nella funzione di targeting, rendendo chiaro e sempre aggiornato l’elenco di interessi strategici (aziende, persone, tecnologie) da tutelare>>.

Abbiamo esattamente bisogno di questo e non solo: la buona notizia è che sarebbero già disponibili buona parte degli strumenti necessari e le relative infrastrutture digitali. Quello che ancora manca è una chiara volontà politica in tal senso, che dia vita ad un coordinamento stabile e incardinato in una organizzazione specifica dedicata a livello centrale e all’attivazione, sul territorio, di quella rete capillare necessaria che, come sul modello francese, ben potrebbe essere rappresentata dalle Camere di Commercio, a tutti gli effetti enti pubblici di prossimità con il mondo dell’impresa e delle professioni, che già dispongono di potenti mezzi informatici e di Business Intelligence, quanto mai utili se ben indirizzati.

*Enrico Argentiero, esperto di mercati internazionali

Francia, divisi non si vince

Parigi, 23 marzo
C’è un sole splendido a Parigi nei primi giorni di primavera. C’è vita ai caffè di Montmartre, nelle strade del lusso e dello shopping, all’Avenue de Champs Élisèe come a Saint Germain des Prés. Il freddo si allontana e rivedi minigonne e shorts. Si allontana anche l’incubo del Covid o almeno viene rimosso e soppiantato dai lampi di guerra di Putin.
Parigi dimentica. Sembra anche dimenticare che tra due settimane, il 10 aprile, si voterà per eleggere il Presidente della Repubblica. Non c’è traccia di elezioni imminenti sui muri della città. I quotidiani dedicano poche pagine al dibattito politico. Macron non ha tempo per confronti sul programma impegnato com’è con la presidenza di turno francese del Consiglio Europeo e nel ruolo di prestigio che si è ritagliato nei negoziati per fermare la guerra. Formidabile tribuna di immagine senza contraddittorio per volare nei sondaggi quasi al 30% e assicurarsi il primo turno. Tant’acqua è passata sotto i ponti della Senna da quando i gilet gialli bloccavano la Francia tutti i sabati e il gradimento di Macron scendeva a picco. Oggi la sua rielezione al secondo turno viene data per certa dai media. A chi toccherà sfidarlo il 24 aprile? Trai 12 candidati all’ Eliseo la socialista Anna Hidalgo, sindaco di Parigi, e Valerie Pécresse, Repubblicani, il partito un tempo si Sarkozy, non vengono nei sondaggi accreditati per il ballottaggio. La rosa per il titolo di sfidante vede al primo posto Marine Le Pen sotto il 20% poco insidiata a sinistra da Jean Luc Mélenchon al 13% e alla destra estrema da Eric Zemmour al 12%.
Cavallo di battaglia di Zemmour, origine ebraica, è la lotta all’immigrazione, con toni più marcati della Le Pen. Zemmour viene definito come ideologo della destra radicale e apripista a Marion Marèchal giovanissima figlia di una sorella di Marine Le Pen. Quanto basta per far definire dinastica la destra francese.
Macron dunque sembra avviarsi alla riconferma. Poche speranze per la destra divisa tra quella moderata di Pécresse, quella radicale della Le Pen e quella più marcata di Zemmour. Divisi in Francia non si vince. Neppure in Italia.
*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

Perchè è necessario una idea diversa di Europa

Con questo articolo di Emmanuel Gout sul futuro dell’Europa, inizia la collaborazione tra la Fondazione Farefuturo e la Fondazione francese Geopragma . Gout è nel Comitato scientifico della nostra Fondazione e membro del COS in Geopragma. 
L’articolo viene pubblicato in contemporanea dalla due fondazioni e cosi sarà fatto anche in altre occasioni di comune riflessione.

A pochi mesi dalla prossima presidenza francese, l’Unione Europea sembra mettersi in ordine di marcia sotto l’egida del presidente Macron per ripensare se stessa, ripensare questa Europa così scossa dalla sua gestione della crisi sanitaria.

È persino prevista un’ampia consultazione dei giovani – come se in Francia queste consultazioni diventassero una solita alternativa alle elezioni, dai “gilet gialli all’ecologia, ora l’Europa -.

A fungere da catalizzatore, la pandemia, che, è vero, può spingere ognuno di noi a mettere in discussione la propria esistenza, ma anche a mettere in discussione la natura delle nostre istituzioni e il loro ruolo, gli effetti delle politiche condotte negli ultimi decenni e soprattutto sulla qualità dei nostri leader per affrontare la crisi sanitaria. Vorremmo essere guidati da questa stessa classe politica in caso di conflitto armato? Ne dubito.

Non è sufficiente, come il Presidente francese afferma, far  sì che l’Europa debba “decidere più velocemente e più forte” o di coltivare il gusto per la formula  “davanti all’autoritarismo, opporre l’autorità della democrazia”. Relativizzare la formula non significa relativizzare i principi fondamentali dell’Unione Europea, ma piuttosto cercare di riflettere sui suoi fondamentali e i principi fondatori che hanno accompagnato la costruzione Europea.

Se è legittimo pensare a un’identità europea, è tuttavia essenziale pensare a questa identità come a una somma di identità tanto complementari quanto diverse. Le nostre storie e la loro analisi, le lezioni che possiamo trarre, sono tutti fattori di coesione e ricchezza, perché sono anche la diversità delle culture, delle tradizioni e delle economie. Sembra più che mai necessario evitare che l’ideologia “main stream” ci impedisca di pensare e proporre soluzioni originali e nazionali per pensare all’Europa di domani, al suo sistema, alla sua visione del mondo.

Un audit istituzionale ed economico dell’Unione europea è più che mai necessario. È necessario essere in grado di correggere il tiro, misurarne i limiti, definire i parametri, i confini, la sua vocazione internazionale, creare opportunità per generare nuove potenzialità.

In questo contesto, sembra importante confrontarsi e sommare il lavoro dei think tank europei che hanno la loro Nazione nel loro DNA e che aspirano a un’Europa diversa, che avrebbe non solo un futuro ma anche un destino. È in questo contesto che Fare Futuro e Geopragma, due think tank italiani e francesi, potrebbero avviare una collaborazione fatta di dibattiti, confronti, scambi e diventare con altri think tank europei una piattaforma ricca di soluzioni e proposte per offrire all’Europa e alle Nazioni che la compongono un vero Destino.

*Emmanuel Goût, componente il Comitato scientifico Fondazione Farefuturo e componente del COS in Geopragma

 

 

LA STABILITà DEI BALCANI È NOSTRO INTERESSE

Questo saggio dell’ambasciatore Sergio Vento,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

L’area balcanica, con particolare riferimento alla direttrice che dall’altopiano carsico percorre il litorale adriatico orientale fino a Corfù, ha rappresentato una costante naturale dell’azione politicodiplomatica italiana fin dagli albori dello Stato unitario. Un breve richiamo ai precedenti storici nel XX secolo sarà utile ad inquadrare le dinamiche degli eventi e delle iniziative che hanno accompagnato la ricerca dell’interesse nazionale nel più ampio spazio tra l’Adriatico, l’Egeo ed il Mar Nero. Ricerca spesso accompagnata da forzature e velleitarismi sfociati spesso nell’isolamento politico-diplomatico ovvero, ancor peggio, nell’ alleanza, peraltro competitiva, con la Germania nella Seconda guerra mondiale. Infatti la nozione di interesse nazionale non è immune da percezioni errate o da sproporzione tra ambizioni e risorse per realizzarle. L’eredità della storica proiezione della Repubblica di Venezia in Dalmazia e verso l’Egeo si innestava sul processo di graduale erosione dell’Impero ottomano nella Regione ad opera della Russia, dell’Austria e della Gran Bretagna e nelle successive, diffuse rivendicazioni slave ed italiane nei confronti dell’Impero Asburgico fino al momento del suo collasso nel 1918.

In realtà, già in occasione della Terza Guerra di indipendenza nel 1866, la disfatta navale di Lissa aveva stroncato il tentativo del neonato Regno unitario di acquisire una supremazia marittima nell’Adriatico.  Nel 1912 la conquista della Libia contro la Turchia aveva avuto come corollario l’acquisizione di Rodi e del Dodecanneso, aprendo al tempo stesso un contenzioso con la Grecia, destinato ad accentuarsi nel 1939 con la conquista dell’Albania e con quella della stessa Grecia nel 1941.

Il Trattato di Saint Germain del 1919, che aveva sancito la fine dell’Impero asburgico a conclusione della Prima guerra mondiale, portava all’annessione dell’Istria e di altri territori abitati da circa 400.000 croati e sloveni, malgrado l’isolamento alla Conferenza di Versailles dell’Italia che rivendicava il rispetto delle promesse anglofrancesi sulla Dalmazia, contenute nel Patto di Londra del 1914 ma duramente respinte da Wilson. In realtà soprattutto la Francia diventava la Potenza di riferimento del nuovo Regno jugoslavo nell’ambito della cosiddetta Piccola Intesa, ridimensionando così gli obiettivi italiani.

Dopo l’effimera annessione di Lubiana e della Dalmazia tra il 1941 ed il 1943 ed il collasso dell’8 settembre fu la Gran Bretagna ad accordare credibilità internazionale al movimento di Tito ed alle rivendicazioni territoriali jugoslave: un «investimento» strategico sfociato nell’eresia titoista del 1948, utile anche per lo sradicamento della guerriglia comunista in Grecia. Si tratta di un processo geostrategico con il quale gli «alleati» anglo-americani dell’Italia archivieranno definitivamente talune residue velleità «revisioniste» di quest’ultima nel corso della Guerra Fredda e dopo la sua fine, quando nel 1991 la Jugoslavia si disintegrerà con l’esplicito incoraggiamento della Germania riunificata. In quest’ultima circostanza, il tentativo italiano, in parte condiviso da Francia e Gran Bretagna, di evitare la creazione di un enorme bacino di instabilità, insicurezza ed illegalità alle nostre frontiere, terrestri e marittime, fu indebolito dal processo che condusse al Trattato di Maastricht, dalla crisi latente nelle nostre istituzioni e dalle tendenze centrifughe delle regioni del Nordest contigue a Slovenia e Croazia ed egualmente sensibili all’influenza economica dell’Austria e della Baviera.

L’onda lunga delle dure lezioni della prima metà del XX secolo e la polarizzazione, interna ed internazionale, della Guerra Fredda hanno infatti indotto nella cultura e nel dizionario del mainstream politico italiano per oltre 50 anni la rinuncia a nozioni quali interesse nazionale, geopolitica, politica di difesa e di sicurezza. L’ampia delega delle medesime all’approccio multilaterale condensato nel trittico Onu-Nato-Integrazione europea è stata probabilmente un’opzione saggia e consapevole dei limiti «sistemici» del Paese, già descritti da Dante, Machiavelli e Guicciardini, ma al tempo stesso aleatoria per l’evidente rischio che un pigro multilateralismo si traducesse in «esportazione di responsabilità ed importazione di influenze». Le gerarchie di potenza sono una realtà indiscutibile delle relazioni internazionali, ma la presenza negli organismi multilaterali, aldilà della connessa retorica, richiede tenacia e dinamismo, preparazione e capacità di manovra nel tessere intese e varare iniziative alla ricerca di legittime contropartite. In altri termini, il multilateralismo va inteso quale un’estensione della politica estera bilaterale attraverso gli strumenti autonomi della collaborazione economica, della difesa e della sicurezza nel perseguimento dell’interesse nazionale.

Solo più recentemente l’Italia ha riscoperto quelle nozioni di interesse nazionale, geopolitica ed intelligence economica. Si tratta di esigenze che si sono imposte con crescente intensità dopo la fine del bipolarismo della Guerra Fredda e la modifica degli equilibri europei: la caotica disintegrazione della Jugoslavia e l’improvvisazione del processo di Maastricht ne sono state le prime manifestazioni. Successivamente l’allargamento della Nato e dell’Unione Europea ad est hanno prodotto asimmetrie economiche, la crisi ucraina, con un recupero di influenza russa sugli equilibri politici europei e mediterranei, nonché il fenomeno di Visegrad.  Dal canto suo, l’emarginazione della Turchia ha generato un risveglio «neo-ottomano», manifesto in Siria ed in Libia ma latente anche nei Balcani, dalla Bosnia Erzegovina fino all’Albania e al Kossovo.

Più recentemente l’affermazione di spinte unilaterali sono venute dalla Francia (Libia ed i prevedibili controproducenti effetti sul Sahel, ma anche il veto ad Albania e Macedonia), dalla Brexit e dagli stessi Stati Uniti con la presidenza Trump.  Altri fenomeni largamente originati nel, o attraverso il, nuovo mosaico della penisola balcanica, cerniera tra Medio Oriente ed Europa, quali la lotta al terrorismo e il contrasto alla criminalità organizzata con i suoi traffici multiformi, hanno assorbito l’attenzione degli organismi competenti. Nel frattempo scarsa attenzione hanno purtroppo ricevuto processi di origine globale, lesivi dell’interesse nazionale, quali la speculazione finanziaria ed il passaggio di imprese sotto controllo straniero anche per effetto di un lunghissimo ciclo recessivo, purtroppo facilitato da penalizzanti vincoli europei.  In linea generale, una media potenza quale l’Italia prospera in un contesto di stabilità e di collaborazione. Allorché viceversa la parola passa alla destabilizzazione ed ai rapporti di forza affiora il rischio dell’emarginazione ovvero quello di essere relegata a ruoli ancillari di scarsa visibilità, magari all’insegna dell’inefficace totem virtuale dell’Onu. L’esperienza storica evidenzia come la tutela dell’interesse nazionale, nell’area balcanica come in altri teatri (dalla Libia al Golfo fino al Corno d’Africa), postuli 4 requisiti:

– preliminare identificazione dei suoi effettivi contenuti, al riparo da emotività mediatiche o influenze interessate;

– correlazione tra obiettivi e risorse;

– forti piattaforme di coesione nazionale;

– costruzione di credibili e solide intese bilaterali con partner autorevoli.

 

*Sergio Vento, ambasciatore, già vice rappresentante permanente OCSE

INVESTIRE SULLA DOMANDA INTERNA PER LA RIPRESA POST COVID-19

L’export è un fattore fondamentale per il successo di un Paese. Ma, da solo, non basta per crescere. Per quanto una economia possa essere competitiva nel commercio internazionale ed avere un importante surplus con l’estero, ciò non è sufficiente a spingere il Pil se la domanda interna diminuisce o aumenta troppo poco. Ciò è stato vero nel recente passato. E sarà ancor più vero adesso che la pandemia del Covid-19 si è abbattuta in modo drammatico sull’economia globale e provocherà nel 2020 e forse anche in parte del 2021 una recessione di portata storica e un crollo del commercio mondiale, come ormai prevedono tutte le maggiori istituzioni internazionali.

 

IL PASSATO

In Italia, ad esempio, la domanda estera netta (cioè la bilancia con l’estero per i beni e servizi), pur restando ampiamente positiva e quindi agendo positivamente, anno dopo anno, sul miglioramento della nostra posizione patrimoniale internazionale, ha contribuito negativamente alla crescita reale del Pil nel quinquennio 2014-18 rispetto al 2013. Il suo apporto cumulato nel periodo, infatti, è stato negativo per l’1,2% a fronte di un aumento del Pil del 4,6% sostenuto principalmente dalla domanda interna ed in particolare dall’apporto dei consumi privati (+3,4% il contributo specifico di questa voce alla variazione del Pil) e degli investimenti fissi lordi (+1,7%). In Francia, sempre nel quinquennio 2014-18, il Pil è aumentato cumulativamente del 7,4%, grazie soprattutto ai contributi dei consumi pubblici (+1,4%), dei consumi privati (+3,5%) e degli investimenti fissi lordi (+2,5%), mentre la domanda estera netta, oltre ad essere in deficit, ha anche tolto uno 0,7% circa alla crescita cumulata dell’economia transalpina nel periodo considerato. Perfino la Germania, Paese in grande attivo con l’estero, con il secondo più alto surplus commerciale manifatturiero del mondo dopo la Cina, negli ultimi anni non ha tratto particolare giovamento dal commercio estero per quanto riguarda la dinamica reale del Pil. Infatti, la differenza tra export e import in volume, cioè la domanda estera netta, pur continuando a restare in amplissimo surplus, non è più cresciuta con la stessa intensità e regolarità degli anni precedenti. E, quindi, in tutto il periodo 2014-18 la componente estera ha contribuito solo con uno striminzito +0,1% all’aumento cumulato del Pil tedesco, progredito nel frattempo del 10,6%. Nel quinquennio considerato è stata pressoché esclusivamente la domanda interna a spingere l’economia della Germania, in particolare con un contributo al Pil del 4,2% dei consumi privati, del 3,1% degli investimenti fissi lordi ed anche di un decisivo apporto del 2,5% dei consumi finali della Pubblica amministrazione. Questi numeri mettono in evidenza quanto la domanda interna di economie mature sia un asset strategico, un patrimonio di interesse nazionale da preservare e incrementare, essendo diventata con il passare degli anni sempre più il pilastro fondamentale su cui poggia la crescita stessa dei nostri Paesi. A questo proposito, il rilancio della domanda interna italiana negli anni recenti, è, e dovrebbe diventare, a nostro avviso, un caso di studio. Infatti, dopo la doppia recessione del 2008-09 e del 2011-14, si poneva il problema di far ripartire una economia profondamente prostrata a livello di consumi e investimenti. E le azioni che sono state adottate a tal fine nel triennio 2015-17, improntato dalle riforme e dalle manovre finanziarie del Governo Renzi, costituiscono un chiaro caso di successo, benché non esso abbia riscosso politicamente ed elettoralmente particolari consensi. Eppure, il periodo 2015-17 rappresenta un chiaro modello di come l’Italia abbia potuto raggiungere tassi di crescita mai sperimentati da quando è iniziata la circolazione monetaria dell’euro. Ciò proprio grazie all’utilizzo della flessibilità concessaci dall’Europa per l’adozione di mirati ed efficaci stimoli alla domanda interna privata, stante l’impossibilità, dovuta ai ben noti limiti di bilancio, di poter utilizzare i consumi finali pubblici come leva per la crescita. Gli «80 euro», l’eliminazione della tassa sulla prima casa e della componente lavoro dell’Irap, i contributi per le assunzioni a tempo indeterminato, il super e l’iper-ammoramento, il Patent box, l’ampliamento della platea delle imprese beneficiarie del credito d’imposta sulla ricerca hanno rappresentato un potente mix di azioni che ha spinto sia i consumi delle famiglie sia gli investimenti tecnici e in R&S delle imprese come non era mai accaduto prima negli anni Duemila. Basti pensare che dal 2015 in poi la crescita dei consumi pro capite delle famiglie in Italia è stata sempre superiore a quella di Germania e Francia. E lo stesso è accaduto per la crescita degli investimenti pro capite in macchinari e mezzi di trasporto. Dal lato della produzione ciò si è riflesso per la prima volta nell’era dell’euro in un sorpasso del Pil «privato» italiano rispetto a Germania e Francia. Infatti, nel triennio 2015-17, considerato sia nel suo insieme sia nei suoi singoli anni, il valore aggiunto dell’economia italiana al netto del contributo della pubblica amministrazione, difesa, sanità, istruzione è cresciuto in termini reali di più degli analoghi Pil «privati» tedesco e francese.

 

IL PRESENTE E IL FUTURO POST COVID-19

Siamo poi riprecipitati, nel biennio 2018-19 in un periodo di bassa crescita, che ora si trasformerà in una profonda recessione nel 2020-21 a causa della crisi globale del coronavirus. Dopo il lockdown serve quindi una via d’uscita da una crisi economica incombente che il Fondo Monetario Internazionale ha riassunto in alcune drammatiche cifre in termini di caduta del Pil nel 2020 (dietro le quali c’è anche lo spettro della perdita di decine di milioni di posti di lavoro a livello planetario): -3% il Pil del mondo (non era accaduto nemmeno con lo scoppio della bolla dei mutui subprime nel 2009); -5,9% gli Stati Uniti; +1,2% la Cina; -7,5% l’Eurozona; -9,1% l’Italia (che in tutte le previsioni è la nazione con l’arretramento dell’economia più forte). Altre istituzioni e banche (tra cui Deutsche Bank e Goldman Sachs) prevedono cali del prodotto anche superiori, che per l’Italia potrebbero essere addirittura a doppia cifra. E i debiti pubblici in rapporto al Pil schizzeranno verso l’alto: l’Italia al 155%, ma anche gli Stati Uniti al 131%, la Francia al 115%, la Spagna al 113%. Il nostro Paese deve darsi un programma urgente di rilancio delle attività produttive, razionale, ordinato, sistematico, tenendo conto ovviamente delle esigenze di sicurezza dei lavoratori. Limitandoci qui all’industria in senso ampio (costruzioni comprese), tre sono, a nostro avviso le priorità che il governo italiano deve affrontare. Primo: assicurare innanzitutto l’operatività delle attività manifatturiere che hanno da evadere ordini esteri pregressi. Infatti, prima del lockdown molte imprese della nostra industria manifatturiera avevano in pancia importanti ordini giunti dalle grandi catene internazionali e dai grossisti di tutto il mondo, specialmente in settori della componentistica e della meccanica. Tanti mercati e compratori stranieri, date le difficoltà produttive e logistiche della Cina, che negli ultimi mesi non consegnava praticamente più nulla ai clienti mondiali, avevano riversato le loro richieste di accaparramento sull’Italia. Perdere questi ordini esteri sarebbe, in questo contesto di crisi economica che pende sulle nostre teste, un autentico peccato mortale. Evitiamo di lasciare sul campo più export, più soldi e più posti di lavoro di quelli che, purtroppo, sicuramente perderemo quest’anno. Gli ordini esteri esistenti sono, in questa fase, più che mai un patrimonio nazionale. Vanno onorati e trasformati rapidamente in entrate per il nostro sistema produttivo. Dobbiamo abbeverarci da questa fonte residua fino all’ultimo cent di euro. Poi ci sarà, purtroppo, una grande siccità. Infatti, esauriti gli ordini stranieri pregressi, dobbiamo prevedere che i nostri primi sei mercati per l’export nella restante parte del 2020 rimarranno quasi completamente paralizzati. Germania, Francia, Stati Uniti, Svizzera, Regno Unito e Spagna nel 2019 hanno rappresentato quasi la metà dell’export italiano: 228 miliardi di euro su 476 miliardi totali. Sono, quelli citati, tutti Paesi che, come noi, alla fine conteranno decine di migliaia di morti per il coronavirus. Paesi sconvolti dal lockdown e dalla crisi economica, dove i consumi e gli investimenti sprofonderanno. Non potremo quindi sperare in alcun modo nell’export per evitare che le previsioni più fosche di caduta del nostro Pil nel 2020 si avverino.

Questo ci porta a concentrarci sulla domanda interna, che tuttavia ci concede ben poche speranze dal lato del settore privato. Infatti, non potremo fare alcun affidamento sui consumi delle famiglie italiane, perché la paura, la crescente disoccupazione e la perdita di potere d’acquisto, faranno crollare la spesa di beni e servizi. Né potremo confidare, come possibile elemento di sostegno del Pil nella domanda attivata dalle imprese, che hanno già fatto molti investimenti tecnici nel recente passato ed ora, in questo scenario drammaticamente negativo, non ne programmeranno di certo di nuovi. Pertanto, la seconda priorità che il governo italiano dovrebbe darsi senza indugio è quindi quella di un programma di rilancio su grande scala dell’edilizia privata, una risorsa dormiente che abbiamo a disposizione e che negli ultimi tempi già stava mostrando qualche positivo segnale di ripresa, la cui ripartenza, tra l’altro, potrebbe ricadere positivamente a pioggia con un effetto moltiplicatore anche su tanti settori manifatturieri vitali dell’industria italiana (piastrelle, cemento, vetro, metallurgia, componentistica, idraulica, riscaldamento-raffrescamento, ecc.). In questi giorni di lockdown gli italiani hanno riscoperto l’importanza della casa come risorsa primaria ed anche delle sue pertinenze, come cascinali, giardini, orti, parchi, ecc. Per controbilanciare il crollo del nostro Pil, occorre dunque puntare su un grande piano di spinta degli investimenti privati in costruzioni, anche con incentivi su ristrutturazioni, acquisti prima casa, giardinaggio, programmi per le giovani coppie, interventi nell’edilizia antisismica, miglioramenti delle strutture alberghiere e ricettive, ecc. Allo stesso modo, e perfino di più, è cruciale rilanciare gli investimenti in opere pubbliche, nelle infrastrutture stradali, ferroviarie, ospedaliere, nei porti, negli aeroporti, nelle reti telematiche, in ricerca, ecc. Secondo varie stime, vi sono decine di miliardi di investimenti in opere pubbliche fermi che potrebbero essere attivati e che potrebbero agire con un importante effetto positivo sul Pil. Come hanno dimostrato anche recenti analisi della Banca d’Italia, se realizzate in modo efficiente le opere pubbliche non generano una crescita del rapporto debito/Pil perché il denominatore può aumentare più del numeratore. Non è più tempo dei no (locali, populisti, ideologici) che già erano antistorici e contro l’interesse del Paese prima della pandemia. Servono sblocchi e autorizzazioni più veloci per le opere già cantierate e programmate, commissari con pieni poteri per la loro immediata realizzazione, assoluta priorità di avvio per tutti gli interventi già dotati di copertura finanziaria ma bloccati dai veti anacronistici di una burocrazia che, lei sì, sopravvive perfino al coronavirus.

*Marco Fortis, responsabile direzione Studi economici Edison SpA

GLI INTERESSI DIMENTICATI

Questo saggio di Ernesto Galli della Loggia,  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20.” della Fondazione Farefuturo

 

Oggi più che mai è assolutamente necessario definire quale sia il nostro interesse nazionale proprio a partire dagli orientamenti della politica estera. Alcune domande esigono una risposta che non possiamo più rinviare e che devono essere date nella piena consapevolezza della classe dirigente del Paese. Perché il rango internazionale dell’Italia ha subito il tracollo drammatico di cui è testimone così evidente in queste settimane la crisi in Libia? Perché la nostra politica estera è sempre di più la politica estera di un Paese di seconda fila, al cui Presidente del Consiglio negli incontri internazionali viene riservato non a caso proprio un posto del genere? Che cosa è successo che ci sta consegnando sempre di più ad una situazione di sostanziale irrilevanza? Vi sono naturalmente cause generalissime che riguardano tutto il quadro italiano.

In particolare queste tre: a) la crescente dose d’impreparazione e d’incultura della classe politica, perlopiù ignorantissima di storia e di geografia e anche perciò incapace di mettere a fuoco i nostri veri interessi nazionali; b) l’immagine perennemente debole politicamente, e quindi di non grande affidamento, di ogni governo italiano; c) e infine un’opinione pubblica disabituata da sempre a pensare la realtà vera dei rapporti internazionali, quindi oscillante di continuo tra faziosità ideologiche e fanciulleschi utopismi a sfondo buonista. Dopo la fine della Guerra fredda e il conseguente venir meno dell’importanza che la Penisola aveva avuto per mezzo secolo in quanto frontiera dell’Occidente con il blocco sovietico (da cui l’obbligatorio legame di stretta alleanza con gli Stati Uniti), non siamo stati capaci d’immaginarci alcun ruolo, alcuna priorità, alcuna linea d’azione nostri. In particolare non abbiamo capito che il progressivo concentrarsi del potere dell’Unione europea nelle mani di Germania e Francia ci stava inevitabilmente sbarrando la strada verso i due teatri tradizionali della nostra politica estera. Cioè verso i Balcani – dove infatti ben presto l’influenza economico-politica e culturale tedesca si sarebbe dimostrata imbattibile – e verso l’Africa – dove fin dai tempi dell’Eni di Mattei la Francia era impegnata a contenderci lo spazio e a insidiare quello che avevamo già ottenuto (per esempio in Libia).

E però, invece di cercare di contrastare questa deriva diciamo così oggettivamente antitaliana dell’Unione a trazione franco-tedesca (in realtà con Berlino vera padrona e Parigi sua vassalla) – magari cercando di costituire un fronte mediterraneo con Spagna e Grecia eventualmente appoggiato da una Gran Bretagna memore dei suoi trascorsi in quel mare – abbiamo fatto di tutto – in omaggio al nostro cieco super europeismo e anche perché gravati dalle condizioni paralizzanti dei conti pubblici – per restare agganciati comunque al duo Parigi-Berlino. Con il bel risultato che oggi vediamo in Libia e altrove. In realtà, la deriva egemonica franco-tedesca nella Ue avrebbe dovuto indurci, se avessimo voluto conservare un ruolo nelle nostre tradizionali aree d’influenza almeno in Medio Oriente e in Africa (divenuta vieppiù cruciale a causa del fenomeno migratorio), a pensare per la nostra politica estera scelte innovative e coraggiose. Se non altro a pensarle, a metterle allo studio, e semmai a farne trapelare qualcosa nei modi opportuni per vedere se così fosse eventualmente possibile spingere i nostri concorrenti europei a qualche passo indietro. Quali scelte? È evidente che in un quadro internazionale difficile e in cui l’impiego della forza ha guadagnato prepotentemente la ribalta l’Italia da sola ha una stazza troppo leggera per ambire a un ruolo significativo: anche solo per difendere i propri interessi.

Ha bisogno di un partner forte, quanto più possibile forte. Ora, non potendo questo partner essere l’Unione europea per le ragioni dette sopra – perché l’Unione europea vuol dire Francia e Germania, le quali si prefiggono innanzi tutto di tutelare i loro interessi e non i nostri – la scelta si restringe di fatto agli Stati Uniti. È vero che muoversi in questa direzione aprirebbe per l’Italia scenari inediti e in certa misura con più di un’incognita, ma è meglio allora non fare nulla, mi chiedo, accettare la nostra emarginazione e sperare magari in un miracolo che faccia cambiare il corso delle cose? È anche vero che oggi come oggi nel teatro geografico che più c’interessa la posizione degli Stati Uniti appare ondivaga, oscillante tra tentazioni di disimpegno e affondi improvvisi. Sta di fatto però che nella politica americana alcuni punti fermi sono comunque ravvisabili: l’inevitabile rivalità-contrasto strutturale con l’espansionismo russo, un consolidato buon rapporto con il fronte islamico tradizionalista e anti-iraniano, una permanente, forte intesa di fondo con Israele, Paese che rappresenta sì un alleato importante e potente degli Usa e in tutta la grande area mediterranea medio-orientale è anche il solo fidato, ma è un alleato che per ben noti motivi Washington è obbligata a tenere diciamo così in ombra, sempre in qualche modo dietro le quinte. La «presentabilità» e l’accredito di cui l’Italia invece bene o male ancora gode nell’insieme del mondo arabo, la sua posizione geografica di assoluto valore strategico unitamente al suo forte legame con la Santa Sede, e da ultimo la sua qualità di terzo Paese dell’Unione europea e quindi di potenziale importante sponda con Bruxelles, appaiono altrettante premesse utili per consentire di stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più stretto e concertato di quello attuale.

Un rapporto che molto probabilmente sarebbe in grado di dare alla nostra politica estera quelle possibilità di movimento nonché quell’orientamento di fondo che da tempo le mancano. E con ciò un ruolo finalmente definito e proficuo. Una tale scelta non equivarrebbe però – è facile obiettare – ai soliti «giri di valzer»? non ci esporrebbe cioè all’accusa tante altre volte mossaci di praticare politiche per conto nostro, diverse e in un certo senso alle spalle dei nostri alleati europei? Ora mi pare che su questo punto sarebbe il caso una buona volta di chiarirsi le idee. Sono state forse scelte prese consultando qualcuno quelle (pur gravide di conseguenze) che la Francia viene facendo da anni nella crisi sirio-mediorientale o nell’Africa occidentale? E chi mai ha consultato Berlino quando ad esempio ha deciso di costruire il gasdotto Nord Stream che in pratica rafforza enormemente la dipendenza energetica sua e dell’intera Europa occidentale dalla Russia di Putin? E quale dovrebbe essere la nostra risposta all’espansionismo della Turchia di Erdogan che minaccia i nostri interessi vitali in Libia, nel Mediterraneo Orientale, persino nel Golfo Persico, ad  esempio per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico? Dai fatti recenti, è evidente che una nostra risposta non sia coincidente con la linea franco-tedesca.  La verità è che esiste una cosa che si chiama interesse nazionale, e finché non ci sono patti liberamente sottoscritti che esplicitamente impegnino a certi comportamenti, è inevitabile – in certo senso anche giusto – che ogni Paese si senta libero d’interpretare il suddetto interesse nel modo in cui meglio crede. Come di fatto in realtà accade: perché mai allora l’Italia solamente dovrebbe fare eccezione?

 

*Ernesto Galli della Loggia, storico e accademico italiano

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”” realizzata da Massimiliano Coccia con Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (ambasciatore, presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Adolfo Urso (senatore, vice presidente Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Fratelli d’Italia).