UNA DIFESA POCO EUROPEA

Questo saggio di Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

 

Molti, sia in Italia che negli altri Paesi europei, hanno ben accolto il progetto volto alla creazione di una vera e propria difesa a stampo europeo: maggiori collaborazioni industriali e anche politiche, maggiori risorse finanziarie messe a disposizione dall’Ue, meno sprechi e meno duplicazioni in termini di capacità per il settore militare. Insomma, più sicurezza ad un costo (quasi) minore.

Tuttavia, l’ambizioso programma, fortemente supportato anche dal nostro Paese, ha dovuto fare i conti sin da subito con l’aspirazione di alcuni Stati di prenderne le redini e di dettarne le condizioni. Da quello che doveva essere uno sforzo collettivo a livello comunitario, in cui ciascun Membro ha lo stesso peso decisionale, si è celermente passati a una leadership bilaterale franco-tedesca che si è imposta quale nucleo dominante all’interno del progetto. Di fatto, ad un anno dalla firma del Trattato di Aquisgrana, è possibile vedere chiaramente i contorni della strategia di Parigi e di Berlino che pare abbiano deciso di interpretare la difesa Ue come l’occasione più opportuna per rimpiazzare la Gran Bretagna e l’ombrello securitario statunitense in Europa.

Seppure le intenzioni siano buone e in linea con le esigenze dell’Ue, ovvero assicurare all’Europa l’autonomia strategica, i due Paesi, forti del proprio peso politico, economico e militare nell’Unione, hanno preso il comando del progetto con buona pace degli altri Stati membri. La firma del citato Trattato di Aquisgrana, nel gennaio 2019, ha segnato la formalizzazione di un nuovo asse franco-tedesco che, tra i vari settori, annovera anche e soprattutto quello della difesa.

Si tratta di un accordo anzitutto politico, che ha l’obiettivo di presentare come una visione unitaria le posizioni francesi e tedesche. In pratica, i due Paesi hanno deciso di incontrarsi prima di ogni vertice Ue di rilievo per definire congiuntamente le proprie intenzioni, principalmente su temi di politica estera, difesa, sicurezza esterna e interna e sviluppo. Trattasi, quindi, di un graduale percorso finalizzato a incrementare la convergenza di interessi, obiettivi e strategie e, come evidenziato nel documento stesso, a rafforzare i sistemi di sicurezza collettiva (ossia il progetto di Difesa Ue) di cui Parigi e Berlino fanno parte. Inoltre, i due Paesi si sono impegnati in una costante e crescente collaborazione nel settore difesa, sia tra le Forze Armate per sostenere lo sviluppo di una cultura militare comune e dispiegamenti congiunti sia tra le rispettive industrie per la difesa, allo scopo di aumentare il proprio livello di competitività. L’apice della cooperazione viene raggiunto 231 con una clausola che prevede la reciproca difesa militare in caso di attacco armato in uno dei due Paesi, molto simile all’articolo 5 del trattato istitutivo della Nato.

A ben vedere, è stata creata in Europa una nuova forte alleanza che da un lato può andare a rafforzare la posizione europea nei teatri internazionali, dall’altro va quasi a nullificare o perlomeno a ridimensionare i tentativi di collaborazione militare veramente comunitari da poco inaugurati in sede Ue. Di fatto, nel ventaglio di progetti approvati nell’ambito della Collaborazione Strutturata Permanente (PESCO), Parigi e Belino sono non solo presenti nella maggior parte dei programmi, ma ne detengono il ruolo di leader per molti di essi.

Se tra i vari obiettivi della PESCO vi è anche dare la possibilità a Stati con industrie per la difesa meno consolidate di ricoprire un ruolo di rilievo, la quasi onnipresenza delle forti aziende francesi e tedesche va a minacciare la buona riuscita di tale intenzione. In aggiunta, quello creato da Macron e dalla Merkel è un club esclusivo le cui iscrizioni non sono aperte. Ne è un chiaro esempio il programma per lo sviluppo della caccia multiruolo di sesta generazione. Il prototipo franco-tedesco non può di certo definirsi europeo: tutte le decisioni strategiche in merito sono già state prese e la gran parte del budget proviene da Parigi e Berlino.

A chi si volesse aggregare è riservato un ruolo ancillare, come nel caso della Spagna. Quindi, l’Europa si trova ora ad avere ben due programmi per il nuovo caccia (quello franco-tedesco, per l’appunto, e quello inglese a cui partecipano anche l’Italia e la Svezia) nonostante gli sforzi e l’impegno collaborativo incoraggiati dall’Unione. In tale scenario, dove la Difesa europea cerca di formarsi tra un timido spirito comunitario e una crescente predominanza franco-tedesca, spetta agli Stati membri decidere se riprendere le redini del progetto o farlo decadere. Se una decisione in tal senso non venisse presto presa, l’Ue potrebbe incorrere in due rischi principali.

Internamente, si potrebbe venire a creare un fenomeno di progressiva erosione della collaborazione comunitaria in favore di parallele alleanze tra Paesi membri all’insegna della competitività anziché dell’efficienza. Al contempo, esternamente l’Ue potrebbe perdere credibilità nel settore militare agli occhi del resto del mondo. In questo contesto, l’Italia si trova davanti a un bivio: continuare a prendere attivamente parte di una difesa più franco-tedesca che europea o avvicinarsi gradualmente all’attore chiave negli equilibri transatlantici, ovvero la Gran Bretagna.

Un iniziale entusiasmo italiano circa la PESCO e il più ampio quadro Ue in cui è collocato è stato pian piano rimpiazzato da un meno spiccato attivismo, poi culminato nella decisione di prendere parte al Tempest, il programma britannico per il nuovo caccia. Visto il ruolo di rilievo che l’Italia 232 gioca all’interno dell’Unione, soprattutto per quel che concerne la politica estera e la difesa, la strada da percorrere potrebbe trovarsi al centro del bivio. Proprio in quanto promotore del progetto militare europeo, l’Italia potrebbe farsi portavoce di un rinnovato bilanciamento tra Stati all’interno della PESCO al fine di mantenere in vita il progetto della difesa europea. Parallelamente, Roma dovrebbe preservare il rapporto instaurato con la Gran Bretagna (soprattutto in materia di industria militare). In questo modo, il nostro Paese potrebbe contrastare l’asse franco-tedesco forte di una rinvigorita collaborazione comunitaria e, allo stesso tempo, continuare a intrattenere forti relazioni industriali con la Gran Bretagna.

*Andrea Margelletti, presidente CeSI – Centro Studi Internazionali

IL GRANDE MEDIO ORIENTE È ANCHE IN ITALIA

Questo saggio di Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.

A chi gli chiedeva valutazioni sulle crisi ai suoi tempi in atto nello scacchiere mediterraneo, il compianto Fernand Braudel era solito rispondere: «…quando mi si parla di Mediterraneo, ho bisogno di pensare la totalità». Il grande storico francese intendeva in tal modo porre in luce come una lettura delle dinamiche mediterranee disancorata dalla dimensione geo-politica ben più ampia all’interno della quale il Mediterraneo in senso stretto si colloca (dall’Africa sub-sahariana oggi tornata prepotentemente di attualità con la pressione esercitata dai flussi migratori verso l’Europa, all’area del Golfo la cui rilevanza strategica è sin troppo evidente…) rischi di rivelarsi di scarsa utilità per chi voglia avvalersene ai fini della messa a punto di strategie di natura politico/diplomatica/securitaria. Ecco perché soprattutto da parte statunitense – sostanzialmente a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso – si è ritenuto opportuno affiancare, se non in molti casi sostituire, al concetto di Mediterraneo allargato quello di «Grande Medio Oriente».

Se le due formulazioni coincidono in generale sulla direzione dell’«allargamento» verso zone tradizionalmente considerate propaggini naturali del bacino mediterraneo, esse si differenziano per la prospettiva con la quale guardano alle aree in questione. Nel Mediterraneo allargato il baricentro è da individuare nel bacino mediterraneo mentre Golfo Persico e Caucaso ne costituiscono la turbolenta periferia; nella formula del «Grande Medio Oriente» è il bacino mediterraneo a giocare un ruolo secondario poiché il centro del sistema è spostato più a est, nella Penisola arabica e nel Golfo Persico con tendenza a proiettarsi verso l’ancora più lontano scacchiere indo-pacifico.

Di tale interrelazione tra le due aree prova evidente è fornita proprio in queste settimane dalle complesse dinamiche e reazioni di vario segno innescate nell’insieme dello scacchiere dalla eliminazione da parte statunitense, lo scorso 3 gennaio, del generale Qassem Suleimani, di fatto il numero due del regime iraniano (nonché la figura più vicina alla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei). Eliminazione che – pur se notoriamente avvenuta in risposta alle gravi provocazioni e attacchi da parte di Teheran nei confronti degli interessi statunitensi e occidentali nella regione – ha colto di sorpresa anche molte capitali «alleate» (tra cui la nostra) aprendo questioni non secondarie: ad esempio in termini di livello auspicabile (doveroso?) di concertazione per il futuro tra Washinton e gli «alleati» in particolare in aree – come quella del «Mediterraneo allargato/ 187 Grande Medio Oriente» – nelle quali contingenti di Paesi alleati sono impegnati a vario titolo sul terreno in diversi, e sovente contigui teatri, nel segno di condivisi valori e obiettivi. Basti pensare per quanto riguarda il nostro Paese, e per tornare a un tema che ho già evocato, ai circa 800 nostri militari ancora dispiegati in Afghanistan con cappello Nato seppur in missione «no combat», ai poco meno di 1000 schierati in Iraq nel quadro della coalizione anti-Daesh a titolo bilaterale o multilaterale (nonostante la sospensione in atto delle attività addestrative, sulla scia della vicenda Suleimani e delle minacciate ritorsioni da parte iraniana), agli oltre 1000 da tempo dispiegati nel Libano meridionale nel quadro della missione UNIFIL II.

Tutto ciò in un momento nel quale – a ulteriore conferma della particolare complessità della presente congiuntura missione – poco più a «ovest» gli interventi su fronti opposti di Turchia e Russia in Libia (solo in parte – e non si sa per quanto tempo… – riassorbiti dalle decisioni adottate in occasione della Conferenza di Berlino dello scorso gennaio) stanno evidenziando come siano in gioco in quell’area interessi di straordinario rilievo: vale a dire non solo le grandi commesse legate al petrolio e al gas ma anche, se non soprattutto, la individuazione di chi – sullo sfondo del «disimpegno» statunitense da quel teatro – sarà chiamato a esercitare l’egemonia sul bacino mediterraneo. E perciò stesso, maggiore capacità di influenza, se non di vero e proprio condizionamento, sulle economie che vi si affacciano (Italia in primis).

Su uno sfondo di tale problematicità, fluidità e rilevanza, il nostro Paese per la sua collocazione geografica – ma anche per sua identità e storia di Nazione da sempre refrattaria a visioni manichee delle relazioni tra Stati e culture – è inevitabilmente (naturaliter, direbbe Tertulliano) chiamato a svolgere un ruolo di «fulcro» o quantomeno di catalizzatore degli sforzi in atto, o da avviare, per una «stabilizzazione sostenibile» dello scacchiere. Vocazione legittimata altresì – mi sembra doveroso osservare – da un ulteriore fattore tutt’altro che secondario: vale a dire dal prestigio maturato in questi ultimi decenni anche a livello internazionale dalle nostre Forze Armate impegnate in missioni della più varia natura (da quelle Ue a quelle onusiane a quelle in ambito Nato) nei più diversi teatri, con senso del dovere, professionalità e risultati oggetto di unanime apprezzamento.

In altri termini, credo spetti all’Italia far valere al meglio il proprio tradizionale ruolo di «media potenza regionale» consapevole, certo, dei propri limiti (è questo un segno di maturità specie se raffrontato al velleitarismo di altri importanti attori europei…) ma anche delle proprie potenzialità: a cominciare da quella di credibile (ben più di altri, a condizione di sapere come muoversi…) «facilitatore» di dialogo tra interlocutori con agende sovente divergenti ma per così dire obbligati – salvo voler davvero mettere a repentaglio la pace 188 e la sicurezza nella Regione – a ricercare modalità di coesistenza foss’anche nel segno di un minimo comun denominatore al ribasso. Penso, ad esempio, alla preziosa azione di ricucitura che il nostro Paese (e la nostra diplomazia) potrebbero svolgere, ove del caso, per scongiurare un non impossibile emergere di difficoltà nelle relazioni tra la Nato e l’Unione Europea qualora la Turchia a guida AKP decidesse, per qualsivoglia motivo, di far venir meno il necessario «consensus» in ambito atlantico sulla opportunità di andare avanti nel percorso da tempo avviato di accresciuta collaborazione tra le due Organizzazioni. O, ancora, al contributo che da parte italiana si potrebbe fornire, ove ciò fosse auspicato da parte statunitense, alla ricerca di un «modus vivendi» tra gli Stati Uniti e un Iran a guida Khamenei nella ancor più difficile fase apertasi con l’uscita di scena di Qassem Suleimani e le successive ritorsioni della Repubblica islamica attraverso le milizie ad essa fedeli in Iraq, in primis Kataib Hezbollah. Mi concentrerò dunque proprio su quella estensione a est e a sud-est del Mediterraneo che configura, nella accezione comune, il «Grande Medio Oriente». Cercherò di evidenziare taluni versanti che ritengo di prioritario rilievo per la tutela dal nostro interesse nazionale, lasciando ad altri l’analisi nel dettaglio di crisi in atto a ovest di tale scacchiere: come quella in Libia, di perdurante gravità, e con rilevanti implicazioni per il nostro Paese.

Da un punto di vista di ordine generale non vi è dubbio che nostro precipuo interesse, anche in termini di contenimento della minaccia terroristica, sia proprio la ricerca di quella «stabilità sostenibile» che ho sopra evocato. Il progressivo emergere di una regione mediterranea, nel senso più ampio del termine, sicura e stabile è infatti indispensabile sia per l’Italia che per l’Europa nel suo complesso della quale il nostro Paese costituisce, per così dire, la frontiera avanzata.

È sfida complessa ma da raccogliere per almeno due ordini di motivi: il primo, cui ho già fatto cenno, connesso alle implicazioni che la maggiore o minore stabilità e affermazione di una buona governance nell’area (seppure con le specificità dettate dai singoli e assai diversificati contesti socioculturali) riveste sotto il profilo della nostra sicurezza; il secondo, legato alla nuova rilevanza strategica che la Regione in parola è in questi anni venuta acquisendo.

Oltre che per le sue implicazioni di sicurezza, l’odierno Mediterraneo allargato e la sua propaggine rappresentata dal Grande Medio Oriente è infatti venuto guadagnando, da qualche anno a questa parte, crescente rilievo anche come «piattaforma di connessione globale»: il raddoppio del canale di Suez, le ricadute dell’allargamento di quello di Panama, le recenti scoperte energetiche nelle sue acque orientali (il c.d. «Levantine basin») e l’ambizioso progetto – dalle implicazioni non necessariamente rassicuranti… – di «Via della Seta» spregiudicatamente 189 portato avanti dall’attuale dirigenza cinese, fanno infatti del Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente uno snodo cruciale sul piano infrastrutturale, dei trasporti e delle reti logistiche.

Se questi sono dunque alcuni dei versanti suscettibili di beneficiare di un contributo del nostro Paese in un’ottica di stabilità regionale è doveroso porsi anche il quesito di quali siano i settori da curare in via prioritaria ai fini della tutela del nostro «interesse nazionale» in senso stretto, nonché quello degli strumenti e/o delle «policies» più idonee al perseguimento di tale obiettivo. Tre mi sembrano i terreni cui rivolgere speciale attenzione. Il primo è quello relativo, appunto, alla sicurezza nell’accezione più ampia del termine: dal ritorno, dunque, di accettabili condizioni di stabilità e governance condivisa in Siria (e per certi versi in Iraq dove continuano gli scontri tra le milizie sciite pro-iraniane e le forze statunitensi colà presenti in funzione anti-Daesh) al contrasto al terrorismo che proprio nell’area in parola trova da tempo una delle principali fonti di reclutamento. Sarà pertanto essenziale che il nostro Paese continui a figurare tra i principali provider di sicurezza nella Regione attraverso gli strumenti già in atto (e altri che dovessero essere in prospettiva posti in essere a livello internazionale): dal nostro tradizionale contributo di primo piano alla missione UNIFIL II nel Libano meridionale; all’Iraq, dove – in aggiunta al nostro significativo ruolo di co-presidenza del Gruppo di lavoro per il contrasto al finanziamento del Daesh – figuriamo tra i principali contributori di truppe alla «coalizione anti-Daesh», oltre che in prima linea nell’addestramento delle forze di sicurezza e polizia irachene (nonostante la recente sospensione, per i noti motivi, di tali attività di formazione che c’è da augurarsi possano al più presto riprendere).

Sotto tale profilo appare dunque condivisibile la proposta avanzata dal ministro Di Maio di una riunione a Roma – in tempi per quanto possibile ravvicinati e non appena superata la drammatica pandemia del corona virus – per un punto della situazione, e uno scambio di vedute su come ulteriormente procedere, tra i ministri degli Esteri degli 84 Paesi membri della coalizione: coalizione la cui area di interesse andrebbe però, ad avviso italiano, estesa alla turbolenta regione del Sahel. Sempre in relazione alla regione del Sahel, dalla quale continua a provenire buona parte dei flussi migratori che investono il nostro Paese e l’Europa, sarà indispensabile per l’Italia continuare a battersi a Bruxelles, e in ogni appropriata istanza, per una sostanziale modifica delle regole sull’asilo europeo (in sostanza per modificare in senso per noi meno penalizzante il Regolamento di Dublino), nonché per dare impulso ai rimpatri assistiti. In sostanza nostro obiettivo – non facile da raggiungere ma da perseguire con determinazione – deve essere quello 190 di fare sì che l’Europa cominci a muoversi in materia di asilo in base a risorse e norme chiare ed equilibrate oltre che con interventi rapidi ed efficaci.

Basterebbe, a comprovare l’urgenza di una nostra forte azione in Europa volta a far sì che il tema del contenimento dell’immigrazione illegale figuri tra le priorità della nuova Commissione – oltre che del Consiglio e dell’Europarlamento – la situazione drammatica che continua a registrarsi al confine tra Turchia e Grecia e l’esito sinora interlocutorio (a essere ottimisti) dei contatti ad alto livello in corso tra l’Unione europea e la Turchia per la ricerca di una soluzione concordata al problema. Da una angolazione più generale, un segnale indubbiamente incoraggiante – frutto anche delle sollecitazioni in tal senso che sta da tempo rivolgendo alla Commissione Europea il nostro Paese – appare l’indicazione di una prossima proposta della stessa Commissione per un superamento del Regolamento di Dublino fornita dal commissario agli Affari Interni, Ylva Johansson, in occasione di una sua recente visita d Atene per valutare da vicino la difficile situazione in quel Paese.

Tornando al dramma siriano sarà per noi indispensabile continuare a fornire sostegno ai processi politici rivolti a individuare soluzioni «non militari» alle diverse crisi in atto nell’area promuovendo – sempre di concerto con i nostri partner e alleati a cominciare dagli Stati Uniti – un «dialogo inclusivo» e la ownership degli attori locali: come nel caso del conflitto siriano (sempre avendo come «stella polare» la Ris. 2254 del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2015) e di quello yemenita. Un ruolo all’altezza delle nostre potenzialità per la soluzione della crisi siriana così come la prosecuzione delle importanti iniziative da noi già avviate a supporto dei rifugiati nei Paesi limitrofi ci potrà/dovrà tra l’altro consentire di essere adeguatamente posizionati allorché decollerà – ciò che prima o poi non potrà non avvenire – la ricostruzione di quel martoriato Paese. In termini di valore aggiunto arrecato dal nostro Paese all’ individuazione di una soluzione politico- diplomatica alla crisi siriana, da noi da sempre caldeggiata, va certamente registrata in positivo la riunione a Roma nei mesi scorsi, su iniziativa della Farnesina, tra il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per la Siria e gli Inviati Speciali dei Paesi dell’Unione Europea coinvolti nel «dossier» (Italia, Belgio, Germania, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito oltre al Servizio Europeo di Azione Esterna e al Segretario della Santa Sede per i rapporti con gli Stati, Monsignor Gallagher).

Si è trattato di un ulteriore esempio della nostra tradizionale vocazione a operare come un ponte «discreto» (ma non per questo meno efficace…) tra l’Europa e lo scacchiere mediterraneo nel suo complesso. È linea sobria ma pro-attiva alla quale ritengo indispensabile che il nostro Paese continui a ispirarsi – indipendentemente da chi sia di volta in volta al governo – trattandosi di una delle 191 carte migliori tra quelle a nostra disposizione per far valere in positivo la «specificità» italiana nella presente fase della storia mondiale: fase nella quale le ruvide logiche della riemersa geo-politica e competizione dura tra Stati rendono ancor più importante il ruolo di «attori» (come il nostro Paese) da sempre noti e apprezzati per la loro capacità di interlocuzione a 360 gradi. Secondo le stime della Banca Mondiale gli investimenti che si renderanno necessari per consentire il ritorno della Siria a condizioni più o meno normali anche sotto il profilo delle infrastrutture (fermo restando che si tratterà di una Siria comunque diversa, anche per la ben più marcata presenza e capacità di influenza di Mosca di fatto già in atto) si collocheranno in una forchetta compresa tra i 300 e i 400 miliardi di dollari Usa. Ne deriverà, va da sé, la possibilità di importanti ritorni anche per le nostre imprese molte delle quali da anni presenti e altamente apprezzate nella regione. Da ultimo, dovrà proseguire la nostra azione a Bruxelles, da tempo avviata, perché sia l’Unione europea che la Nato – in quest’ultimo caso anche attraverso una adeguata valorizzazione dell’«hub per il sud» presso il JFC di Napoli dall’Italia fortemente voluto – assegnino la dovuta priorità allo scacchiere mediterraneo nell’accezione più ampia del termine.

In ambito Ue, sarà invece essenziale continuare a vigilare affinché – anche attraverso vincoli di natura giuridica come il c.d. ring-fencing – i fondi previsti dalla Commissione per il «Vicinato meridionale» non siano deviati verso altre regioni del mondo. Quanto all’Iran – altro attore che resta ineludibile, ci piaccia o meno, nella Regione – è mia opinione che sia ormai irrealistico, dopo il ritiro americano dall’intesa «5 più 1» sul nucleare e le più recenti decisioni della dirigenza iraniana sulla scia della vicenda Suleimani, immaginare un mantenimento in vita – magari con qualche marginale ritocco – dell’ accordo del 2015. Credo sia invece nostro precipuo interesse prendere atto del suo venir meno, di fatto se non di diritto, e lavorare di concerto con i nostri principali alleati – a cominciare proprio dagli Stati Uniti – alla individuazione di formule innovative che, da un lato, facciano salvo l’obiettivo di impedire alla Repubblica Islamica di dotarsi dell’arma atomica; dall’altro, incentivino Teheran a comportamenti più responsabili e, auspicabilmente, alla sottoscrizione di un nuovo accordo migliorativo di quello del luglio 2015.

Va detto che, sotto tale profilo, la netta affermazione del fronte dei «conservatori» in occasione delle elezioni parlamentari tenutesi in quel Paese lo scorso 21 febbraio non rappresenta un segnale che induce a ben sperare quanto alle possibilità di ripristino, per lo meno nel breve/medio periodo, di un dialogo costruttivo con quella dirigenza. Sarà poi non meno importante continuare ad adoperarsi – ciò che la nostra diplomazia sta già attivamente facendo – per pervenire a un ancoraggio del nostro Paese a quel nucleo ristretto di «partner» europei (Francia, 192 Regno Unito e Germania: il cosiddetto formato «E3») che tanta parte ebbe a suo tempo nel raggiungimento dell’intesa con Teheran sul «Joint Comprehensive Plan of Action» (JCPOA).

È formato che – al di là degli infruttuosi tentativi di salvare l’accordo dopo il ritiro statunitense e del mancato decollo dello strumento INSTEX quale contrappeso alla reintroduzione delle sanzioni da parte di Washington – appare, almeno a oggi, destinato comunque a permanere quale prioritario foro di coordinamento per la definizione delle policies europee nei confronti dell’Iran. Il secondo terreno per noi cruciale, in termini di tutela dell’interesse nazionale nell’area del «Grande Medio Oriente», è quello degli approvvigionamenti energetici, larga parte dei quali proviene proprio dallo scacchiere in parola. In tale prospettiva da parte italiana particolare attenzione dovrà essere a mio avviso rivolta ai seguenti aspetti: in primo luogo – tenendo presente che il gas rappresenta per il nostro Paese la principale fonte energetica ancor più nella prospettiva di una completa «decarbonizzazione» – al mantenimento dei migliori rapporti possibili con ciascuno dei Paesi attraverso cui corre il c.d. «Corridoio Meridionale del Gas» la cui entrata in funzione è prevista per l’ottobre 2020: dall’Azerbaijan (attualmente il nostro principale fornitore) a Georgia, Turchia, Grecia e Albania dalla quale il «corridoio» approderà in Puglia grazie alla «Trans Adriatic Pipeline». In tale contesto sarà importante – pur senza rinunziare a far valere ogni qualvolta necessario i nostri principii e, se del caso, le nostre ragioni… – fare il possibile per mantenere le migliori relazioni possibili con una Turchia che mira anch’essa ad affermarsi come «hub» regionale per le infrastrutture del gas ma che potrebbe avere comunque interesse a cooperare con noi, al di là del segnale non incoraggiante per l’Italia e per la nostra Eni rappresentato dall’intesa conclusa lo scorso 28 novembre tra Ankara e Tripoli per la delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive (ZEE). Una Turchia assertiva che resta per giunta – e resterà a lungo, indipendentemente da chi ne sia di volta in volta in volta alla guida – nostro primario «partner» commerciale e industriale oltre che attore geo-politico pro-attivo e ineludibile (come anche gli eventi di queste settimane dimostrano) sia nello scacchiere del «Mediterraneo allargato» che in quello, ancor più vasto, del «Grande Medio Oriente». Non minore attenzione andrà riservata alla qualità delle relazioni con i Paesi dai quali verranno convogliati verso l’Europa, via Italia, i flussi di gas naturale provenienti dal recentemente scoperto «Bacino del Levante» (Cipro, Israele, Libano ed Egitto).

I nostri tradizionalmente buoni se non eccellenti rapporti con ciascuno di essi – a cominciare dallo Stato ebraico – rappresentano naturalmente un atout non secondario rafforzato, nel caso del Libano, dalla gratitudine che quella dirigenza e opinione pubblica nutrono nei nostri confronti per il ruolo di primo piano storicamente svolto dall’Italia nel quadro della missione UNIFIL (della 193 quale un nostro ufficiale, seppur sotto il «cappello» onusiano, ricopre attualmente il comando). Per il nostro Paese si tratterà tra l’altro di giocare al meglio le carte che ci derivano dalle nostre buone relazioni con tutti gli attori coinvolti per evitare che il citato accordo tra Ankara e Tripoli in tema di delimitazione delle rispettive ZEE comporti ricadute negative per il futuro del gasdotto Eastmed (progettato da Israele, Cipro e Grecia e da noi appoggiato): gasdotto che dovrebbe in teoria, alla luce dei citati sviluppi, sottostare al nullaosta di Ankara per poter approdare sulle coste greche e poi italiane. Sarà infine essenziale – come rilevato tra i primi dall’Ambasciatore Terzi in un sua riflessione sul tema di alcuni mesi orsono – contribuire a vigilare affinché sia preservata la libertà di navigazione in arterie cruciali ai fini del nostro approvvigionamento in petrolio e in «gas naturale liquefatto» (GLN): a cominciare dallo Stretto di Hormuz, vero e proprio «collo di bottiglia» marittimo dal quale transita tra l’altro circa il 40% del greggio mondiale, tenendo presente che il nostro Paese acquista dal piccolo ma influente Qatar poco meno dell’80% del nostro fabbisogno complessivo in GLN.

Va dunque valutata positivamente la decisione di principio di recente adottata dal nostro Paese di prendere parte, con altri partner europei, alla missione di pattugliamento condiviso dello Stretto in parola, nel quadro della «coalizione di volenterosi» tra europei che, proprio con tale obiettivo, ha di recente visto la luce su iniziative francese. Il terzo e ultimo versante da presidiare e consolidare è quello di natura economica e di collaborazione industriale con i Paesi del «Mediterraneo allargato/Grande Medio Oriente»: mi limiterò a ricordare due dati: il primo è che, dopo l’Europa, il bacino del Mediterraneo (nel quale si concentra il 20% del traffico marittimo mondiale) costituisce la prima zona di penetrazione diretta delle nostre imprese; il secondo, è che – nello strategico e per molti versi trainante settore della difesa – la sola area del Golfo ha assorbito tra il 2016-2018 circa il 50% delle nostre esportazioni di armamenti. Si tratterà, in sostanza, di continuare ad adoperarsi – anche attraverso un dialogo costante con i Paesi costieri dell’Oceano Indiano interessati alle prospettive offerte dalla «blue economy» – per rilanciare e rendere irreversibile la vitalità del Mediterraneo come piattaforma di connettività economica, energetica e infrastrutturale tra Europa, Asia e Africa.

Traguardo arduo ma non impossibile, ove sorretto da una adeguata volontà politica a supporto delle nostre «eccellenze» imprenditoriali. Volontà politica di sostegno che dovrà manifestarsi con ancor più vigore – anche facendo ricorsi a strumenti innovativi e da definire – non appena sarà possibile trarre conclusioni attendibili sul prezzo che anche l’Italia inevitabilmente pagherà in termini di perdita di punti di Pil a seguito della crisi innescata a livello mondiale anche sul terreno economico/finanziario dalla pandemia, ancora in atto, del «coronavirus». Tale azione ad ampio raggio richiede 194 però, perché possa essere coronata da successo, la consapevolezza di un elemento fondamentale: e cioè del fatto che – col ritorno della «realpolitik» e del primato della geo-politica rispetto alla logica delle «appartenenze» tipico del periodo della guerra fredda – è (e resterà credo a lungo indispensabile) sapersi muovere sulla scena internazionale, come Italia e come «sistema-Paese», con quella spregiudicatezza e determinazione delle quali da sempre danno prova sulla scena internazionale altri attori a noi geograficamente e culturalmente vicini, Francia in primis. Prova ne sia, a titolo di esempio, l’approccio di quella dirigenza al «dossier» libico o, ancora, la ricerca di un rapporto comunque privilegiato con la Federazione Russa (sotto tale ultimo profilo lo stesso può dirsi della Germania), attore ormai imprescindibile nella ridefinizione in atto degli equilibri medio-orientali.

È politica, quella sopra evocata, che dovrà naturalmente essere condotta senza venire meno al rispetto dei nostri obblighi «atlantici» ed europei come, ripeto, stanno da tempo mostrando di sapere fare – in ambito europeo – Francia e Germania. D’altra parte un solido rapporto con gli Stati Uniti – indipendentemente da chi sieda di volta in volta alla Casa Bianca – è e resterà per noi imprescindibile, non solo sotto il profilo della sicurezza, ma anche quale sponda essenziale per contenere in ambito europeo le riaffioranti velleità del direttorio franco-tedesco. Senza contare l’importanza che un solido rapporto con gli Stati Uniti continuerà a rivestire per il nostro Paese quale importante fattore di «traino tecnologico» ancor più in una fase, come quella attuale, nella quale la competizione tra le imprese europee di eccellenza nel campo delle alte tecnologie sta diventando sempre più serrata e con un esito sovente legato proprio alla individuazione di un adeguato «partner» sul versante statunitense.

Ed è proprio con un richiamo al contesto europeo che mi piace concludere riprendendo la considerazione svolta di recente da un nostro acuto osservatore, da sempre attento e sensibile al tema dell’interesse nazionale: quella cioè secondo la quale il primo mattone della politica estera europea resta, almeno a oggi, l’azione nazionale. Ciò che presuppone che ciascun Stato-membro «si sia già posto propri obiettivi strategici e vi abbia dedicato risorse…». In sostanza, se vorremo davvero perseguire anche in ambito europeo il nostro «interesse nazionale», non potremo – al di là dell’impegno per un salto di qualità che potrà essere posto dagli alti rappresentanti per la politica estera e di sicurezza comune di volta in volta in carica – astenerci dal considerare l’Unione Europea per quello che ancora è: vale dire un livello «supplementare» delle politiche estere e di sicurezza nazionali e non già un loro sostituto

*Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato

Basta divisioni. 4 novembre festa nazionale

Fra le tante anomalie italiane, quella di aver sbiadito la ricorrenza della «Vittoria» nella Grande guerra, per derubricarla in festa delle forze Armate, è quella che meglio descrive la schizofrenia di un popolo votato all’autolesionismo. La ragione vuole che si debbano festeggiare i trionfi, le conquiste, i balzi avanti nello scacchiere della storia. Invece no: nel calendario della Repubblica italiana, il rosso pennella una data che a ben vedere non decifra la vittoria di un’intera comunità nazionale, semmai la sua lacerazione. Una distorsione bella e buona. Quel che resta del 25 aprile è una somma di livori e rivendicazioni incompiute. Ma non poteva essere altrimenti se, come data, essa evoca la fine di una guerra civile, di una lotta fratricida, che ancora oggi non può dirsi totalmente pacificata. Tant’è che neanche sul versante partigiano, all’indomani della caduta della Milano mussoliniana, è stato possibile stabilire una narrazione che mettesse alla pari bianchi e rossi in un unico progetto di democratizzazione patriottica.
A cent’anni di distanza dal 4 novembre del 1918, non si tratta di rilanciare una guerra a muso duro tra due date che legittimamente rappresentano due snodi della vicenda nazionale. Per una volta almeno, questo Paese non deve andare di bianchetto o promuovere dei tentativi di rimozione forzata della memoria collettiva. L’Italia deve invece promuovere un movimento che la aiuti invece a ristabilire delle priorità e fissare nuovi obbiettivi. Riscrivere le tappe della coscienza comune a partire da una data luminosa, riscriverebbe le sorti di una compagine nazionale che ancora oggi non sa trovare pacificamente le ragioni del proprio stare assieme. Neanche le vittorie dei mondiali del 1982 e del 2006, riescono a stabilire un nuovo inizio. Appunto perché c’è sempre chi – convinto della propria superiorità morale – è lì a ricordare i misfatti di Calciopoli o i peccati sportivi che hanno preceduto il trionfo spagnolo di Paolo Rossi.
Se quella del calcio è una metafora, anche sul fronte antimafia i se e i ma sono lì ad azzoppare la costruzione di un patrimonio comune. Ce lo ricorda lo storico Salvatore Lupo, quando afferma – in soldoni – che il processo Trattativa ha dato adito di parlare a quei tanti che non riescono ad accettare che lo Stato, all’indomani del terribile 1992, ha comunque vinto. Roba a cui neanche i neuroscienziati saprebbero dare risposte. L’Italia è questo, un Paese fermo psicologicamente all’8 settembre 1943. Giorno in cui, in tanti, si trovarono a gioire per un tragico atto di viltà. Strana gente gli italiani, che per fare un dispetto alla moglie taglierebbero volentieri “il naso”. Vittime del campanilismo, dei pantheon a porzione singole e delle scomuniche continue.
La vittoria nella Prima guerra mondiale va festeggiata perché ci ricorda che in un determinato momento storico, mentre la classe dirigente  di questo paese – assieme ai suoi intellettuali – era palesemente incapace di comprendere il tempo presente, la gente comune seppe comprendere il valore della sfida e vincerla. Una vicenda che pare dirci qualcosa anche sul tempo attuale. È un dato storico ormai acquisito che furono le trincee a cementificare le passioni di una nazione giovanissima. Fu l’altissimo contributo di sangue versato dai ragazzi provenienti sia dal nord sia dal sud a difesa dei confini nordorientali, a rendere l’Italia una nazione di eroi. Mutilata o no, la vittoria ci fu. Obliare quella stagione perché in qualche modo fece da propellente al fascismo, è sminuire i fatti e continuare nella sostanza un errore grossolano.
L’errore cioè di una parte del mondo progressista che allo scoppio della Guerra non riuscì a mettere in discussione il dogma neutralista, neanche davanti all’aggressione delle truppe del Kaiser ai danni di un Belgio inerme. Fu quello il momento in cui parte del mondo socialista, capitanato da Benito Mussolini da un lato e dal riformista Leonida Bissolati dall’altro, fiutò un’ opportunità irripetibile. Tornati dai campi di battaglia, i combattenti compresero (anche se in direzione non unitaria) che quell’esperienza avrebbe potuto offrire spunti di modernizzazione sociale anche in tempo di pace. Il quadriennio successivo è tra le fasi più vivaci, fantasiose e vitali, ma anche tra le meno digerite, della storia italiana. Ciò che venne dopo, ma molto dopo, fu invece l’ascesa di quei maitre a penser che sbagliarono prima e che in un certo modo continuano ancora oggi con presunzione a dettare le coordinate sbagliate dello storicamente corretto.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta