L’Europa ci riprova. Contro la biodiversità del nostro sistema bancario

Ancora una volta l’Europa ci riprova e ci ripete che, per superare la crisi che si trascinava fin dal 2011-2012 e che si è aggravata con la pandemia, la ricetta e quindi la cura necessaria per superarla, soprattutto nell’ambito del settore bancario, sarebbe quella di favorire le aggregazioni tra istituti di credito per aumentarne le dimensioni.
In pratica, nonostante la cattiva esperienza del “too big to fail”, si va dicendo ancora che “grande è bello”, perché l’efficienza dipenderebbe appunto dalle dimensioni: le grandi avrebbero più possibilità e chances di superare questa crisi cosi drammatica rispetto alle banche medio-piccole, prevalentemente Banche Popolari e Casse di Risparmio ed, ancor, di più alle piccole Banche di Credito Cooperativo.
Recentemente lo ha detto e ripetuto il nostro Andrea Enria, Presidente del Consiglio di Vigilanza della BCE, che dovrebbe invece tutelare meglio e di più la specificità del sistema economico italiano. E’ lo sollecitò anche Visco, il Governatore della Banca d’Italia. Lo ripetono poi in Europa le varie autorità monetarie e di vigilaza.
Vogliamo sperare che questo atteggiamento pregiudizialmente contrario alla cosiddetta biodiversità del nostro sistema bancario sia dovuto dalle difficoltà delle autorità comunitarie di esercitare un efficace sorveglianza sulla miriade di “less significant institutions” (LSI) e, quindi, dalle malaugurate prospettive di doverne anche gestire le possibili crisi dovute alla pandemia.
Ci sì attesta perciò su tali posizioni difensive che inducono e/o sollecitano le aggregazioni.
In pratica quella che potrebbe essere giustificata – a posteriori – come una politica necessaria per eventuali risanamenti di situazioni di difficoltà e di pericolose insolvenze, che si dovessero verificare, si sta presentando invece come politiche preventive che distorcono artificiosamente il mercato e sopratutto negano le esperienze positive che, non solo nel nostro Paese, si stanno facendo anche in corso di crisi pandemica.
Posto, infatti, che una operatività di orizzonte internazionale richiede adeguate dimensioni e che quindi il “sistema Italia” abbia necessità di alcune grandi banche di dimensioni analoghe a quelle di altri Paesi europei, riesce difficile capire perché il sistema produttivo sia articolato naturalmente in imprese piccole, medie e grandi, mentre il sistema finanziario e bancario debba invece necessariamente articolarsi solo in banche di grandi dimensioni.
In realtà – si dice – il vantaggio dell’azienda di credito di grandi o grandissime dimensioni risiederebbe essenzialmente nelle economie di scala. È questa “un’opinione”, se non “un pregiudizio”, su cui dottrina ed analisi esprimono dubbi.
È fuori di dubbio, infatti, che una dimensione non elefantiaca, più “a misura d’uomo”, consenta una aderenza più efficace al territorio, una migliore compenetrazione e quasi un’identificazione tra banca ed economia locale, un monitoraggio più consapevole delle singole situazioni imprenditoriali inserite nel contesto locale.
Né è automatico e scontato che la minore dimensione della banca comporti inevitabilmente un ritardo culturale ed una lentezza d’innovazione tecnologica e finanziaria.
Così come esistono piccole e medie industrie portatrici di tecnologie avanzatissime, così nel sistema finanziario la dimensione ridotta è perfettamente compatibile con la cultura finanziaria più avanzata e con l’orientamento all’innovazione continua. L’esperienza dimostra anzi che l’innovazione è quasi sempre opera di piccoli “pensatoi” e solo in un secondo tempo essa viene metabolizzata dai grandi gruppi.
In conclusione: quello delle dimensioni più grandi e dei necessari accorpamenti è spesso un falso problema, dietro il quale si cela la volontà espansionistica dei vertici e la sete di potere di grandi gruppi finanziari.
Il sistema creditizio italiano, in definitiva, ha ancora bisogno di crescere, ma in qualità più che in dimensione.

*Riccardo Pedrizzi, presidente Comitato scientifico nazionale – UCID

Le nuove regole BCE portano al default

Nuove regole per la gestione degli sconfinamenti entreranno in vigore da Gennaio 2021 per i clienti retail e business delle aziende di credito.

In questi giorni i clienti stanno ricevendo l’informativa che preannuncia l’entrata in vigore della nuova normativa sulla gestione dei rischi. Basta uno sconfinamento superiore ai 100 euro per essere classificato in default bancario e compromettere il futuro accesso al mercato del credito.

Il motivo di questo cambiamento è legato alle nuove regole europee in materia di classificazione dei debitori in default e, in particolare, al Regolamento delegato n. 171 del 19 ottobre 2017, che ha fissato nuovi parametri della soglia di rilevanza per il sistema bancario, rendendoli ancora più stringenti rispetto a quelli adottati fino ad oggi.

Dal 2021 si può essere classificati automaticamente in una situazione di default bancario con un arretrato di oltre 90 giorni e che risulti essere contemporaneamente superiore ai 100 euro per le persone fisiche e 500 euro per le imprese. Il debito / sconfinamento non deve superare l’1% del totale delle esposizioni dell’impresa verso la banca. Le rid saranno cancellati, e il nominativo entrerà nella centrale rischi finanziaria. Impossibili anche piccoli sconfinamenti e quindi quella flessibilità che in questa fase è fondamentale.

Le nuove regole non ammettono più la compensazione tra diverse posizioni del debitore, quindi, superate queste soglie di rilevanza, la banca dovrà girare il credito in default anche se il cliente dispone presso lo stesso istituto di altre linee di credito per poter sanare il tuo debito.

La norma sembra non lasciare spazio ad interpretazioni: sei segnalato a default anche se, per assurdo, hai le rate del finanziamento impagate ma hai disponibilità nel fido di conto corrente, per pagare la rata.

Il rischio della classificazione in default è l’effetto domino alle cointestazioni e alle obbligazioni solidali collegate.

Se l’impresa dovesse essere classificata in default su una singola esposizione in automatico lo sarebbero tutte le tue altre esposizioni nei confronti dello stesso intermediario finanziario.

Diverso è invece il caso delle piccole e medie imprese, per le quali la banca può applicare il default solo sulla linea di credito in cui si verifica il past due.

In entrambi i casi però, la situazione di default rischia di portare conseguenze negative anche ai soggetti connessi alla tua impresa, soprattutto nel caso di cointestatari di mutui o di società partecipate. Sarà la stessa banca a effettuare delle verifiche per identificare i casi in cui il default possa inficiare la capacità di rimborso di un altro nominativo collegato.

In ogni caso bisogna considerare che una segnalazione di default si propaga anche agli altri soggetti collegati.

Un altro cambiamento importante apportato dalle nuove regole riguarderà la fase di rientro dal default bancario, per la quale si allungano le tempistiche.

Mentre ora basta semplicemente sanare i propri arretrati per far decadere lo stato di default, dal 2021 sarà necessario attendere almeno 90 giorni dal momento in cui si è regolarizzato lo sconfinamento per poter finalmente uscire da questa situazione.

Passati i tre mesi, se la banca reputerà la tua situazione di nuovo stabile con un miglioramento permanente della qualità creditizia, potrà riclassificare la tua impresa fuori dallo stato di default.

Nel caso di imprese classificate in default dopo aver ricevuto misure di tolleranza – come modifiche dei termini e delle condizioni contrattuali o rifinanziamento parziale o totale del debito – il periodo di monitoraggio prima di uscire dallo stato di default durerà almeno un anno.

Queste nuove regole dovranno essere applicate entro il termine del 1 gennaio 2021 da banche e da intermediari finanziari non bancari, società di leasing e fatctoring.

Per quanto riguarda invece le banche vigilate direttamente da Banca d’Italia (che non hanno quindi una rilevanza Europea), potrebbero essere applicati parametri diversi.

In particolare, con riferimento alla componente relativa della soglia di rilevanza, pari all’1% dell’importo complessivo di tutte le esposizioni del debitore verso la banca, la Banca d’Italia potrebbe individuare una percentuale diversa, compresa nell’intervallo da 0 a 2,5%, qualora sulla base di robuste evidenze statistiche si possa sostenere che l’1% non corrisponda a un livello ragionevole di rischio in Italia.

Le conseguenze nell’adozione di queste nuove misure costringerà le banche ad aumenti di capitale oppure tagliare i finanziamenti mettendo a rischio la ripresa post-Covid. Il problema ripropone anche la disparità delle regole. Non cambierà molto per i derivati e le altre operazioni ad alto rischio su cui sono particolarmente coinvolte le banche tedesche. Viceversa sui finanziamenti o gli scoperti di conto corrente, molto più frequenti in Italia, si applicheranno le nuove regole della bce. Una nota Banca d’Italia ha cercato di limitare l’ampiezza del problema dicendo che non cambierà molto. Le associazioni imprenditoriali da Confindustria a Confcommercio a Confesercenti, la pensano diversamente ma a nulla sono valsi gli appelli a postergare l’applicazione del nuovo modello. Il rischio è che la misura comporti una «fortissima stretta al credito, conseguenza inevitabile delle segnalazioni alla centrale rischi”

Ancora più travi le conseguenze legate al cosiddetto “calendar privisionig” che impone alla banche di azzerare entro due o tre anni il valore dei crediti non rimborsati. Già adesso le sofferenze ammontano in Europa a circa 1.400 miliardi di cui 140 miliardi in carico alle banche italiane. Con le nuove regole dovranno essere coperti con robusti aumenti di capitale. «Una bomba atomica sotto i bilanci delle banche» l’ha definita Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca e dal Vicepresidente del Copasir,  Sen. Adolfo Urso di Fratelli d’Italia, che dal tempo sta monitorando gli effetti dell’introduzione del modello con precisi interventi parlamentari. Era stato proposto un emendamento alla manovra. La modifica allungava i tempi di rimborso a favore del debitore e nel frattempo la banca doveva tenere il dossier congelato bloccando le speculazioni legate alla compravendita di questi crediti andati a male. Il ministero dell’Economia però si è opposto. Ha aperto così la strada al rischio elevato di fallimenti per pmi con conseguenti difficoltà di accesso al credito in un periodo post covid dove le imprese avrebbero necessità di attingere al capitale di terzi per una nuova ripresa economica. Con questo nuovo meccanismo avranno non solo difficoltà di reperire risorse ma vedranno compromessi sacrifici di consolidamento sul mercato o di avviare nuovi processi di sviluppo e diversificazione commerciale.

*Giuseppe Della Gatta, analista finanziario

Attenti, scoppieranno nuove bolle finanziarie

La Federal Reserve Bank stimava che il debito relativo ai prestiti auto negli USA aveva raggiunto quota 1.200 miliardi (ed oggi sono 1.330), guadagnando il terzo posto sul podio dei debiti privati dopo i mutui e i prestiti destinati agli studenti, con un rischio di instabilità accentuato dal ricordo di quanto avvenuto dodici anni prima; – scrivevo nel mio libro “Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica” Guida Editori – Ed inoltre, “altra bolla che potrebbe saltare da un momento all’altro è quella relativa ai crediti al consumo che negli Stati Uniti ammontano a 3.840 miliardi di dollari”…. “È questo il debito delle famiglie americane, che non solo è cresciuto rispetto alla crisi del 2007-2008, ma che è anche peggiorato in qualità: oggi circa il 27% dei consumatori americani è classificato “subprime” (cioè poco affidabile). Questo accade perché si è spinto l’erogazione di prestiti a chi non è affidabile, favorita dalla politica ultraespansiva delle banche centrali, che incentiva la ricerca di rendimenti da parte degli investitori. Sono “subprime” 73 milioni di carte di credito: record dal 2009. Si stima infatti che sia avvenuta tra il 2010 e il 2017 una crescita della fascia di debitori subprime più a rischio dal 5 al 33% sul totale”.
“Ora con la pandemia il mercato dell’auto, che ammonta a 1500 miliardi, è crollato e le banche non sanno più dove mettere i veicoli sequestrati ai debitori morosi e che dovrebbero essere rivenduti sotto costo. L’agenzia di “rating” Standard & Poors avverte che le perdite su questo fronte aumenteranno, raggiungendo complessivamente centinaia di miliardi di dollari. I prestiti infatti spesso sono molto superiori al valore della vettura e vengono fatti su redditi inesistenti. Le banche non hanno fatto troppi controlli su questi piccoli prestiti, erogati ad alti tassi d’interesse. E così questa bolla è cresciuta così come quella dei prestiti d’onore agli studenti universitari, che attualmente viaggiano intorno a mille cinquecento miliardi di dollari (1.500), a cui si aggiungono mille miliardi per carte di credito.
JP Morgan ha stimato una ulteriore flessione, nelle prime settimane di aprile scorso, dell’11,8% del loro valore. Una caduta che potrebbe innescare perdite multimiliardarie nelle divisioni di servizi finanziarie delle case produttrici di auto, nelle banche e società di credito. I prestiti auto utilizzati per gli acquisti hanno raggiunto picchi di 1.330 miliardi, lievitati del 5% in un anno e del 60% in dodici anni, pari al 7,4% dell’indebitamento delle famiglie.
Già prima della pandemia il 5% era in sofferenza. Gm Financial potrebbe subire subito perdite per tre miliardi, Ford Credit per 2,8 miliardi. Il debito alle famiglie che vale oltre 14.150 miliardi di dollari potrebbe esplodere da un momento all’altro. Su tutti i prestiti immobiliari che sono 9.950 miliardi, Ubs ha calcolato che il 10% potrebbe andare in sofferenza ed altri 110 miliardi di dollari in carte di credito sono sull’orlo dell’insolvenza.
In questa fase di bassi tassi di interesse sono tornate in auge le obbligazioni societarie, più rischiose rispetto ai titoli di Stato e miliardi di dollari sono stati pompati in fondi comuni che investiti in corporate bond. E c’è stato anche il ritorno delle obbligazioni di prestito collateralizzati (Collateralized Loan Obligation). Le CLO agiscono come fondi comuni: comprano un portafoglio di prestiti e poi li rivendono a fette agli investitori. Il rischio è diverso a seconda della tranche; e i prodotti più rischiosi sono quelli che per primi incorreranno in perdite se i prestiti non saranno rimborsati.
Anche i cosiddetti “leveraged loans”, i prestiti concessi a debitori fortemente indebitati, sono aumentati. Un altro prodotto, che sta incontrando di nuovo l’interesse degli investitori sono le obbligazioni strutturate basate su mutui ipotecari delle imprese.
Ma ai “titoli tossici” tradizionali si è aggiunto negli ultimi tempi “altra carta” pericolosissima. Molti investitori americani che sono a caccia di rendimenti alti si sono gettati infatti in uno dei segmenti più incerti e pericolosi del mercato, le obbligazioni legate a prestiti per grandi progetti commerciali, dagli alberghi ai centri commerciali. Nonostante il tasso dei default, superiore al 9%, sia a livelli record. Poi vi sono le “Dividend recape”, le ricapitalizzazioni attraverso emissioni di bond o assunzioni di debito allo scopo di pagare dividendi, che sono diventate ormai un vero e proprio sistema di pagamento cedola. I fondi vogliono remunerare ad ogni costo i propri investitori, e il modo più semplice per farlo è di indebitare le società da loro controllate per finanziare dividendi. Si stanno gravando le società di nuovi debiti assolutamente improduttivi. Si tratta insomma di “obbligazioni spazzatura”, junk bond, che si stanno diffondendo. Quei prestiti servono poi a generare altre speculazioni: i finanziamenti agli immobiliaristi sono stati infatti cartolarizzati e poi inseriti in pacchetti di obbligazioni, la cui rischiosità è difficilmente calcolabile. La macchina dei subprime così è tornata a marciare a pieni giri. I fondi di private equity americani hanno occupato lo spazio lasciato libero dalle banche regionali americane sul fronte dei finanziamenti immobiliari.
Lo scoppio della bolla immobiliare del 2007 fece “saltare” 475 istituti regionali e i fondi di private equity sono stati i più veloci a entrare nel business anche se il trend è in diminuzione. Le ragioni sono diverse: moltissime aziende si sono viste abbassare il giudizio a livello “junk” dalle agenzie di rating, ma questo fenomeno è stato compensato dalla creazione di una enorme massa di liquidità, che ha permesso alle aziende di raccogliere fondi a bassissimo costo. Ed ora il mondo è di nuovo sull’orlo del precipizio e ci sono tutte le premesse perché riesploda la crisi con più virulenza.

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”” realizzata da Massimiliano Coccia con Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (ambasciatore, presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Adolfo Urso (senatore, vice presidente Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Fratelli d’Italia).