Mai stato così all’angolo Matteo Renzi, neanche all’indomani della sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Mai così privo di carte da giocare e idee, altro che “Leopolda 8”. Parola di Pierluigi Bersani: l’alleanza a sinistra non s’ha da fare. E c’era pure da spettarselo, a parte Giuliano Pisapia che pure, sul dossier della manovra, è pronto a vendere caro l’appoggio. È chiaro che gli uomini di Mdp non possono risalire in un carro dal quale sono già scesi all’alba dell’ultimo congresso del Partito democratico, se a guidarlo è sempre lo stesso cocchiere. Non sarebbe soltanto un atto incoerente ma difficile da digerire da coloro che dovrebbero recarsi alle urne e mettere una “x” sulla scheda che in un modo o nell’altro garantirebbe il segretario del Pd.
A quel punto la fuga di voti da sinistra verso il Movimento Cinque stelle, sarebbe un esito strategicamente poco appagante per una formazione ai primi vagiti elettorali. Lo sa benissimo anche Piero Fassino, impegnato in una difficile opera di mediazione destinata a far saltare il banco e a far finire la pistola fumante nelle mani di Massimo D’Alema. Furbamente, però, il Lìder Massimo, le mani, ha preferito tenerle in tasca.
Altro che ritorno all’Unione, se c’è una figura che divide gli animi è proprio quella di Renzi. Se n’è accorto di recente anche Giorgio Napolitano, l’uomo che aveva consegnato a Renzi le chiavi del governo del Paese in un momento storico – quello che precedeva le scorse Europee – dove la miglior risposta ai malumori del Paese era la sgangherata proposta declinabile quale populismo-di-sistema. La guerra ingaggiata, in ultimo, con il presidente delle Repubblica Sergio Mattarella e il premier Paolo Gentiloni sul rinnovo di Ignazio Visco al vertice della Banca d’Italia, ci dice che la dialettica renziana non lascia prigionieri, bensì macerie.
Così facendo, Renzi rischia di non andare da nessuna parte. Perché se la proposta dell’ex rottamatore ha perso appeal nell’area progressista, sulla scorta di provvedimenti assai indigesti quali Jobs Act e la Buona scuola, che hanno frustrato quei blocchi sociali tradizionalmente affini alla sinistra, anche la battaglia al centro rischia di perderla malamente. La vittoria del centrodestra unito in Sicilia, con la recente elezione del postmissino Nello Musumeci a presidente della Regione, stanno convincendo Silvio Berlusconi dell’inutilità di un piano B da siglare con lo stesso Renzi all’indomani delle Politiche.
Anche perché l’habitat naturale dei moderati, non può non essere contiguo alle aree identitarie e conservatrici, soprattutto oggi che con la reintroduzione dei collegi uninominali figli del Rosatellum, i poli tornano ad avere una ragion sufficiente. Un incrocio che non può non mettere all’angolo il leader fiorentino. In altri termini, se il “patto dell’arancino” produce effetti indigesti, questi rischiano di essere a danno esclusivo di chi al tavolo non poteva esserci. E questi, ovviamente, è il renzismo di ritorno.
*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta