Dopo più di un anno di emergenza pandemica, con il conseguente impatto su produzione industriale e sugli scambi internazionali, è emersa con forza la centralità che il settore agro-alimentare occupa ancora oggi per la sopravvivenza di una nazione. Sempre più spesso si sente inoltre parlare di un ripensamento generale del processo di globalizzazione, che così come sviluppatosi negli ultimi 30 anni, aveva visto l’affermazione inarrestabile di processi di delocalizzazione delle catene del valore europee ed occidentali.
Nonostante il pesante impatto sanitario ed economico che il nostro Paese ha avuto e che continua ad avere, la disponibilità di prodotti alimentari non è mai venuta meno. Questo fatto, che ai più può sembrare scontato, in realtà è diretta conseguenza della maturità e del peso che la filiera agro-alimentare ha all’interno dell’economia nazionale.
Qualsiasi osservatore, anche il più naif, all’idea di prodotti alimentari di qualità non potrà che associarvi l’immagine di prodotti italiani. Non è un caso, che quindi l’agro-alimentare, insieme ad abbigliamento/moda, arredo e automazione, costituisca una delle componenti strategiche della manifattura italiana (riassunte nelle famose “4A” del Made in Italy).
Al di là però del sentire comune e delle verità più o meno condivise, è comunque interessante provare a fare una valutazione più esaustiva dello stato di salute di questo fondamentale comparto.
Come emerge dalla lettura del Report ISMEA-Federalimentare 2020, poco prima dello scatenarsi della crisi pandemica il settore pesava circa il 12% del PIL nazionale, con i suoi 180 miliardi di Euro di fatturato (2019), i suoi 44,6 miliardi di esportazioni e con circa 1,4 milioni di lavoratori impiegati.
Nell’ultimo triennio in particolare, il comparto si è distinto per il suo dinamismo sia in rapporto all’andamento dell’economia generale del Paese che allo specifico ambito manifatturiero. Le buone performance sono state soprattutto legate all’espansione sui mercati esteri (+30% export negli ultimi 5 anni) e alla vivacità della domanda extradomestica del mercato interno (+5 miliardi Euro tra 2009 e 2019).
La crisi dovuta all’emergenza pandemica si è quindi sviluppata in un momento particolarmente positivo, mettendo a maggior ragione in evidenza alcuni fattori di debolezza di questa nostra industria. Il principale è intimamente legato alla struttura stessa della filiera, che, come per quasi tutta la manifattura italiana, è costituita in larga parte di pmi e microimprese.
Se da un lato infatti la dimensione familiare di molte aziende può essere percepita come sinonimo di autenticità, tradizione e di un legame virtuoso con il proprio territorio, dall’altro ne costituisce un pesante limite. Alla luce dell’importanza che riveste l’export nella generazione dei ricavi, le aziende italiane risultano troppo spesso sottocapitalizzate e non in grado di sostenere gli investimenti richiesti per competere a livello globale. A questo si aggiungono problemi legati all’accesso al credito, tema molto sensibile anche alla luce del momento storico in cui siamo immersi.
Come spesso dibattuto a livello nazionale, esiste quindi la vera e propria esigenza di agevolare processi di aggregazione ed integrazione tra le imprese del comparto, promuovendo in particolare fusioni, acquisizioni o accordi strategici.
A mio giudizio i vantaggi che ne conseguono posso essere riassunti in quattro principali elementi. Il primo è la maggiore capacità di investimento, da ripartire tra innovazione di processo, innovazione di prodotto, marketing e promozione.
Il secondo è legato alla maggior forza contrattuale che aziende o aggregazioni di maggiori dimensioni possono vantare di fronte agli altri attori della propria catena del valore (i.e. fornitori, GDO, importatori).
Il terzo elemento invece fa direttamente capo al capitale umano a disposizione. Imprese medie o grandi, in particolar modo se quotate, sono costrette a dotarsi di processi di governance più strutturati e trasparenti divenendo più appetibili per i profili professionali a più alto tasso di managerialità. Ciò comporta mediamente un netto miglioramento di performance per le aziende e un benefico impatto sul mercato del lavoro, permettendo al Paese di attrarre e trattenere professionisti mediamente a più alto livello di formazione e dinamicità.
Il quarto e ultimo aspetto è invece direttamente legato ai processi di aggregazione internazionali. In un comparto strategico come l’agro-alimentare è ancora più importante poter contare su campioni nazionali dalle dimensioni rilevanti prevenendo così il rischio di acquisizioni di tipo predatorio da parte di concorrenti esteri. Ovviamente la criticità non risiede nella nazionalità dell’eventuale shareholder di riferimento quanto piuttosto nel garantire la permanenza sul territorio dei centri direzionali, dei centri di ricerca oltre che ai siti produttivi. Molto spesso infatti si tende a sottovalutare o sottostimare l’importanza che questi elementi hanno per i territori in cui si trovano in termini di qualifica delle risorse umane impiegate, del loro potere di spesa e della ricaduta economica generata sull’economia locale.
Alla luce di questi spunti e nell’ottica di un progressivo rafforzamento di un settore così importante per l’Italia, ritengo auspicabile l’avvio di una più approfondita riflessione sulla definizione di misure tese ad agevolare processi di aggregazione. A tale proposito appare prioritario avviare un costante dialogo tra mondo delle istituzioni e mondo dell’impresa, vero e proprio motore capace di creare ricchezza e sviluppo per il nostro Paese.
*Federico Laudazi, ingegnere gestionale, collaboratore Charta minuta
Fonti:
ISMEA-Federalimentare 2020 – L’industria alimentare in Italia
Largoconsumo – Mercato Italia Agroalimentare – Rapporto sullo stato delle imprese 2020
ICE – Dati export agroalimentare 2019