“La Fiat non sarà mai una legione straniera”

Da patriota e grande europeo, Gianni Agnelli che aveva fatto risorgere dalle ceneri del dopoguerra il sistema industriale automobilistico italiano quando gli fu chiesto come mai non avesse ceduto la Fiat rispose: “..è un esercito nazionale, non posso trasformarla in legione straniera”.

Su queste basi si è svolto il meeting nazionale sul web Fiat addio? Anche sull’auto serve uno Stato stratega organizzato dal Dipartimento Impresa di Fratelli d’Italia con collegamenti dalle Città in cui vi sono i principali stabilimenti dell’azienda: Torino, Cassino, Melfi, Pomigliano, Modena e con una testimonianza da Termini Imerese. Sono intervenuti parlamentari, assessori regionali e sindaci, in confronto con le realtà produttive locali, rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali e di associazioni di impresa. Il programma ha visto la partecipazione del sen. Adolfo Urso, responsabile Dipartimento Impresa Fratelli d’Italia, del prof, Cesare Pozzi, docente Economia Industriale LUISS, del sen. Antonio Iannone, coordinatore regionale Campania, del sen. Massimo Ruspandini, commissione Trasporti Senato, dell’on. Salvatore Caiata, Commissione Attivita’ produttive Camera, dell’on. Federico Mollicone, responsabile Innovazione FdI, di Elena Chiorino, assessore al Lavoro Regione Piemonte, Maurizio Marrone, assessore delegificazione e cooperazione internazionale Regione Piemonte, Michele Napoli, responsabile Dipartimento Impresa Basilicata.

Nutrita anche la rappresentanza sindacale con: Fabrizio Amante, componente segretaria nazionale Associazione Quadri e Capi Fiat, Fabio Bernardini, segretario provinciale metalmeccanici CISL Frosinone, Enrico Gambardella, segretario regionale CISL Basilicata, Vincenzo Tortorelli, segretario regionale UIL Basilicata, Angelo Summa, segretario regionale CGIL Basilicata, Tullia Bevilacqua, segretaria regionale UGL Emilia-Romagna.

In rappresentanza delle imprese dell’indotto automotive: Francesco Somma, presidente Confindustria Basilicata, Michele Somma, presidente CCIIA Basilicata; Roberto Vavassori, consiglio direttivo CLEPA, associazione europea imprese automotive, Marco Bonometti, presidente Confindustria Lombardia, Hella Colleoni, Presidente Confimi Industria.

“Serve un piano industriale, ha spiegato il senatore di FdI, Adolfo Urso, responsabile nazionale del Dipartimento Impresa, per il settore automobilistico che veda lo Stato come regista usando ogni strumento dal golden power quanto necessario come nel caso Iveco a Cdp con il suo Patrimonio destinato al recovery plan per quanto riguarda la transizione economica. Fiat, ormai, è soltanto un marchio di Stellantis ma è necessaria un’azione patriottica che tuteli la nostra tecnologia e mantenga i livelli occupazionali degli stabilimenti in Italia. E questo perchè la nascita di Stellantis, contrariamente a quanto era stato prospettato, non nasce da una fusione paritetica ma da una vendita in cui la governance è prevalentemente francese, con Parigi che addirittura aumenta la sua quota azionaria diventando maggioritaria rispetto agli azionisti italiani. Tutto il contrario di quello che era stato dichiarato”. Da qui la proposta che “Cdp entri nel capitale azionario di Stellantis con una quota pari a quella dello Stato francese per salvaguardare gli interessi della produzione e del lavoro italiano”.

Ipotesi di uno Stato stratega che condivide il senatore di FdI, Antonio Iannone, che in qualità di commissario regionale in Campania ha lanciato l’allarme per “evitare che si verifichi un vero e proprio deserto occupazionale in alcune aree. La Fiat di Pomigliano d’Arco rappresenta uno dei pochi polmoni lavorativi in un territorio che ad oggi vanta 229mila percettori di reddito di cittadinanza. Una situazione allarmante, come evidenziato dalle crisi industriali di Whirpool a Napoli, ItalCementi a Salerno, Treofan a Battipaglia, Meridbulloni a Castellammare, che impongono la necessità di difendere la produzione italiana”. A sua volta il senatore di FdI e responsabile nazionale del Dipartimento Trasporti, Massimo Ruspandini ha sottolineato l’allarme sugli impianti di Cassino che “rappresentano una risorsa senza eguali per il nostro territorio, dove sono presenti ed operanti ben 432 aziende dell’indotto distribuite su 42 Comuni. Ad oggi non è comprensibile quale sia la strategia dello Stato per il futuro dell’auto e in generale dell’industria del Paese. Una condizione di incertezza che purtroppo fa apparire l’Italia come la preda ideale per gli assalti dei grandi gruppi esteri, Francia in primis”.

Assenza di una strategia statale che rileva con preoccupazione Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, per il quale “purtroppo l’Italia non ha mai considerato quello dell’auto un settore strategico. La grande responsabilità da parte nostra è quella di non aver fatto diventare l’industria automobilistica competitiva in modo strutturale. Per far questo bisogna semplificare e ridurre la burocrazia per le imprese e rendere i nostri prodotti allo stesso livello di quelli della concorrenza. Serve quindi un intervento pesante da parte dello Stato”. Mentre Hella Colleone, presidente Confimi Industria, ha chiamato in causa il Ministero dello Sviluppo economico che può essere “fondamentale per rendere i nostri prodotti meno cari e far sì che non finiscano in mani francesi. Stellantis è più una questione di orgoglio che di vera competitività. Ci sono anomalie e pesi sulla nostra filiera, ma mancano i controlli”. E da Francesco Somma, presidente di Confindustria Basilicata, è arrivata la presa d’atto che “serve una politica di sistema per il settore della mobilità privata in Italia. In Europa c’è una diversa consapevolezza della politica industriale ma secondo noi c’è ancora la possibilità di rivedere gli equilibri in Stellantis”. Invece, Fabrizio Amante – componente segretaria nazionale Associazione Quadri e Capi Fiat ha rilevato come “la fusione fra FCA e PSA ha tutte le caratteristiche per consentire la sopravvivenza in un mercato sempre più aggressivo e competitivo”, ma non dimentica di ammonire che “in questa ottica ci aspettiamo che lo Stato italiano faccia sentire la sua voce per consentirci la salvaguardia dei livelli occupazionali”.

Sul fronte sindacale, Enrico Gambardella, segretario regionale CISL Basilicata, ha ricordato che “siamo sempre stati favorevoli alla partecipazione dei lavoratori alle scelte d’azienda” ma “le scelte storiche del nostro Paese invece ci condannano da questo punto di vista, basti pensare che nel CdA di Stellantis non sono presenti sindacalisti italiani ma solo francesi, americani e tedeschi perché in quei Paesi la rappresentanza lavorativa ha un’altra connotazione”. E su questa linea anche Angelo Summa, Cgil Basilicata, ha sottolineato come “il tema vero di Stellantis è che dentro quella fusione c’è un evidente sperequazione a favore francese. Lo Stato francese ha posto condizioni, come avere la sede in Francia e che i propri stabilimenti non subissero ridimensionamenti, non fossero toccati. Serve dunque uno sforzo di unità nazionale e bene ha fatto Fratelli d’Italia a porre questo problema”. Unità nazionale che per Fabio Bernardini, segretario provinciale metalmeccanici CISL Frosinone, si traduce nell’invito alla politica italiana di “giocare un ruolo da protagonista. Occorre sostituire le politiche passive degli ammortizzatori sociali con politiche attive. Gli investimenti previsti sugli stabilimenti italiani sono insufficienti, basti pensare che a Cassino siamo a meno del 10 per cento di produzione rispetto ai 380mila veicoli previsti a pieno regime”. Infine, Tullia Bevilacqua, Ugl Emilia Romagna, ha ricordato come “in Italia c’è una fortissima resistenza relativamente alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende”. Da qui la richiesta di “meccanismi di protezione nei confronti delle nostre imprese” alla luce della “globalizzazione che sta creando forti problemi all’economia nazionale”.

Un tempo era la Fiat. Orgoglio italiano, proprietà di una grande famiglia che ha segnato la storia produttiva di questa Nazione, che nel frattempo anche sotto la guida lungimirante di Marchionne, ha realizzato un’operazione internazionale di tutto rilievo che ha portato la società a diventare un’azienda italo-americana con FCA e che adesso ha fatto un altro salto realizzando, così come prospettata, un’operazione di fusione con il  Gruppo Peugeot e PSA e dalla cui fusione è nata Stellantis, un’azienda multinazionale, di diritto olandese, quattordici marchi con siti produttivi in tutti i continenti.

Uno Stato stratega che definisca una politica industriale sull’auto. Stellantis conta su 14 marchi e stabilimenti in 29 Paesi sparsi nei vari continenti, compresa ovviamente l’Italia. Ma il suo Cda risulta, dopo la sua nascita, sbilanciato verso la parte francese, con 6 consiglieri su 11 e con una quota azionaria maggioritaria francese pari al 15 per cento. E non solo, anche i rappresentanti sindacali risultano essere solo quelli francesi, americani, manca la rappresentanza italiana.

Anche per il settore automobilistico serve un piano industriale, serve un’azione patriottica per tutelare la nostra tecnologia e mantenere i livelli occupazionali degli stabilimenti in Italia.

Abbiamo bisogno di una sana politica industriale, uno Stato che agisca come Sistema Italia perchè è anche il momento dell’offensiva industriale, affinchè Stellantis possa essere una multinazionale che agisca come un corpo unico nel quadro europeo.

Il governo deve realizzare un tavolo internazionale sull’automotive che possa accompagnare il percorso di Stellantis affinchè questa sia uni multinazionale italo-francese-americana che agisca come un corpo unico nel quadro europeo e globale e possa far diventare questa azienda leader nel suo settore se c’è quella parateticità che per esempio si è dimostrata in un campo importante come quello di STM.

“È un esercito nazionale, non posso trasformarla in legione straniera”. Frase di attualità oggi? Noi vorremmo che fosse un esercito europeo e se non può essere un esercito nazionale dopo l’azione di Marchionne che ha creato una multinazionale italo-americana, non vorremmo da questo, degradare a legione straniera.

*Alberto Franciacorta, collaboratore Charta minuta

Servizio su Cronache Lucane

ARTICOLO MILANO FINANZA

ARTICOLO GAZZETTA DI FOGGIA

Interrogazione

Lega e Fratelli, la coppia vincente

I dati definitivi delle elezioni europee disegnano uno scenario molto chiaro. Trionfa la Lega, che inverte i rapporti di forza nei confronti del Movimento 5 Stelle, sorpassato da un redivivo Partito Democratico che però perde voti. Male Forza Italia, che non riesce a fermare l’emorragia di consensi; bene Fratelli d’Italia, che vede aumentare la propria percentuale di elezione in elezione.

• Il calo indicato dai sondaggi delle ultime settimane era solo immaginario: la Lega vola ampiamente oltre la soglia del 30% arrivando a più del 34% dei consensi. Si afferma e anzi recupera voti nei tradizionali feudi del Nord – dove, secondo alcuni “analisti”, il partito stava perdendo consenso –, avanza nelle ex regioni rosse ma si afferma anche al Sud. La Lega è ormai un partito nazionale e punta alle prossime regionali per strappare Toscana, Emilia-Romagna e Umbria al Partito Democratico. Il saldo è ampiamente positivo rispetto al 2014 e al 2018.

• Per il Movimento 5 Stelle si è verificato lo scenario peggiore: doppiato dalla Lega, sorpassato dal Partito Democratico. Il saldo è negativo rispetto al 2014 e al 2018. I grillini calano molto al Nord e al Centro, e vengono “salvati” dal Sud e dalla Sicilia, dove tuttavia la bassa affluenza ha penalizzato il Movimento. Per Luigi Di Maio sarà molto difficile riuscire a tenere compatto il partito davanti a un risultato così deludente: il futuro del governo è un rebus. La strategia comunicativa aggressiva nei confronti di Salvini non ha pagato.

• Festeggia Fratelli d’Italia, ancora una volta snobbato – o tutt’al più deriso – dai media mainstream ma che, come la Lega, è l’unico partito che può vantare una crescita costante dal 2014 a oggi. Il raggiungimento di oltre il 6% dei consensi rappresenta il miglior risultato della – giovane – storia del partito: Forza Italia dista solo 2,5 punti percentuali, ma ad esempio in Veneto, a livello regionale, il sorpasso è già avvenuto. Un dato politico rilevante: un ipotetico “fronte sovranista” Salvini-Meloni raccoglierebbe, allo stato attuale, più del 40% dei voti.

• Forza Italia crolla sotto la soglia psicologica del 10%, ma anche del 9%. È l’unico partito, insieme al Movimento 5 Stelle, a segnare un saldo negativo rispetto al 2014 al 2018. La parabola discendente non sembra attualmente arrestabile e anzi apre nuovi fronti di spaccatura all’interno del partito. Gli equilibri del destra-centro vanno ormai consolidandosi.

• Il Partito Democratico esce dal torpore post-renziano e lancia segnali di vita compiendo un insperato sorpasso ai danni del Movimento 5 Stelle. Si afferma in particolare nelle grandi città, confermando una tendenza già emersa parzialmente nel 2018. È opportuno, tuttavia, precisare che sebbene il saldo percentuale sia positivo, in termini prettamente numerici il saldo è negativo: il Partito Democratico, infatti, perde voti rispetto al 2018. Resta tutta da verificare la presunta unità interna del partito e la tenuta territoriale: in sostanza, è prematuro parlare di “resurrezione” dei Democratici, che dovranno lavorare molto per rendere questo risultato un punto di partenza e non di arrivo.

Fonte:federicocartelli.com

La "bocciatura" non decide il futuro dell’Italia, la qualità della manovra sì

Da qualche tempo l’Unione Europea diffonde annunci chiave riguardanti l’Italia a mercati aperti, non nascondendo ma anzi dimostrando un disegno politico preciso volto a colpire il nostro paese, che sembra diventato una nuova Grecia, da sacrificare per dimostrare al mondo l’esistenza di un’unità continentale e di una serietà istituzionale europea.
La scorsa settimana le uscite di Moscovici, il rinvio pubblico degli incontri di Juncker, poi la bocciatura della manovra; unite al delirante commento di una funzionaria UE che ha dichiarato ai giornalisti “incrociamo le dita per le banche Italiane”, indicano che a Bruxelles una squadra di dichiaratori ricerca attivamente il panico, coordinandosi con operatori da far entrare in campo al momento giusto.
Esattamente come avevamo descritto qualche mese fa, in coincidenza con grandi annunci europei, e particolarmente il 21 novembre , alcune “mani forti” hanno creato un’improvvisa ondata di vendite di Btp, sperando di innescare un movimento ribassista, che è rimasta fortunatamente senza esiti, perché il mercato non ha voluto cogliere il segnale, avviando un lento miglioramento dello spread.
Differenziale Btp-Bund nov. 18
Osservando il grafico è legittimo chiedersi per quale ragione l’Europa cerchi lo scontro più dei mercati, ed anzi per quale ragione i mercati lo evitino; come mai i titoli italiani già in circolo valgano leggermente più dei giorni scorsi, ed anche il perchè, in questi stessi giorni scorsi, un’asta di nuovi Btp-Italia indicizzati all’inflazione sia andata in controtendenza, rivelandosi poco interessante per gli investitori e con una domanda di titoli molto bassa.
La risposta all’interrogativo sull’attuale aggressività delle istituzioni europee, che pure avevano dimostrato molta pazienza con Renzi e Letta, va cercata non solo nel venir meno dei continui regali politici del Nazareno alla Francia, ma anche nell’esistenza di problemi irrisolti di scala europea. In questo scenario, il tentativo della Commissione sembra essere quello di riedificare la sacralità di certe regole a danno dell’Italia operando un rèvirement dalla prassi consolidata di lasciarle violare (specie alla Francia). Inoltre, l’importanza delle elezioni europee dell’anno prossimo è evidente, e dunque anche la necessità di contendere la fune ai nazionalisti può spiegare in parte la postura ostile della Commissione.
Ma la UE non sta cercando solo l’immagine di un’ostilità verso Roma, perché la scelta della procedura di debito eccessivo, per infrazioni contestate relative ad anni passati, avviata dopo l’annuncio di una manovra sgradita, ma non ancora vigente, appare dettata dal preciso intento di produrre conseguenze sostanziali in qualunque caso, anche ove il debito pubblico italiano del 2019 dovesse poi, alla fine, scendere. Così è per anche per la proposta di un bilancio separato, che vorrebbe servire a toglierci parte del denaro che ritraiamo indietro dal nostro contributo lordo all’Unione.
Questo tentativo di accompagnarci, ostentatamente, fuori dall’UE potrebbe dipendere dal fatto che i funzionari della stessa sanno bene che le sanzioni economiche internazionali, a differenza delle pressioni dei mercati internazionali, non hanno mai funzionato a coartare le decisioni di nessun paese sovrano. In altri termini, l’unico modo in cui, la minaccia delle sanzioni può sortire effetti è quello di funzionare come innesco, per scatenare le seconde.
Dall’Italia nel 1935 al Giappone nel 1941, fino all’Iran ed alla Russia nei giorni nostri, le sanzioni hanno determinato sempre e solo blindature o peggioramenti degli assetti politici interni delle nazioni toccate, provocando anche tragedie storiche come la nascita dell’Asse Roma Berlino o l’attacco di Pearl Harbour. Al contrario, le pressioni dei mercati internazionali ‒ spontanee o aiutate ‒ si sono spesso rivelate efficienti a determinare cambiamenti politici significativi, indotti dall’esigenza di proteggere la popolazione ed i complessi produttivi da situazioni di più grave sofferenza, come si è visto da ultimo nel 2011 con il golpe tecnico in Italia, e ‒ andando poi molto più in là che da noi ‒ nel caso della Grecia.
Il disegno degli europeisti, dunque, potrebbe essere quello di innescare l’azione dei mercati, minacciando un’espulsione dell’Italia dall’Unione Europea, per coartare il governo ad allinearsi, e guadagnare così consensi sui nazionalisti dimostrando “l’inevitabilità” dell’Unione. Occorre chiedersi, tuttavia, se i mercanti vogliano cooperare con questo schema, davvero cadendo nel panico all’ipotesi di un’Italia fuori dalla UE, o se piuttosto non siano disposti tranquillamente ad ammetterla.
A questo proposito, merita una riflessione lo strano comportamento degli investitori già visto sullo spread e sull’asta dei Btp-Italia. Da una parte, in un periodo di bassa inflazione nonostante i vari QE, e con un’ipotesi di ZIRP che si mantiene all’orizzonte, non sembra scontato che un Btp indicizzato all’inflazione convenga sempre più di un altro tipo di bond pubblico ‒ e magari di un Btp già sul mercato, il cui acquisto riduce lo spread. Inoltre, in un mondo a tassi bassi, con l’orizzonte di emissioni di Btp a rendimenti ben più alti in futuro, l’investitore non ancora convinto del default italiano, e comunque alla ricerca di rendimenti alti, potrebbe essere stato anche portato ad attendere qualche mese, rinviando gli acquisti ed evitando vendite.
Tuttavia se esiste chi scommette sulla rottura dell’Unione, allora deve esistere anche chi può scommettere su di noi, sulla sopravvivenza dell’Italia all’Unione, sulla sua ricchezza privata, e sulle sue quarte riserve auree, per trarne un utile proprio, magari posizionandosi per una scommessa da esitare positivamente nel momento in cui l’Unione ed il valore dell’euro dovessero crollare. A costoro converrebbe sostenerci in una strada esterna, e non dimostrare l’inevitabilità del percorso europeo, giorno per giorno, con lo spread crescente.
Questo pensiero delle piazze ed agenzie di rating, specialmente americane, potrebbe aver tenuto lo spread basso finora e potrebbe anche tenerlo tale in futuro, in perdurante spregio delle bocciature europee dei nostri bilanci. Però, sia si consideri questo come un effetto complesso del combinato Trump/Brexit, sia che lo si ritenga un fenomeno puramente economico o puramente politico, tale scudo non è stabile.
Almeno un elemento, al riguardo, sembra ragionevole considerare rilevante perché, sperabilmente, l’imprevista stabilità dello spread e dei rating prosegua: il fatto che il governo, anche non tenendo conto del saldo di deficit tollerato dalla UE, scelga almeno di migliorare la manovra. Questo, forse, potrebbe influire.
Il punto chiave è la crescita. Serve per dimostrare che “può esserci vita fuori dai principi di Maastricht”, e rendere così realistica la possibilità di una perdurante, protratta, scommessa internazionale su di un’Italia che cambi le regole europee o che fuoriesca dalla tensione finanziaria comunque in modo sano (e, potremmo aggiungere, per l’ennesima volta).
La chiave politica per leggere questo sentimento dei mercati potrebbe essere: “se meno tasse, allora meno UE”. Seguendo questo principio, se dal reddito di cittadinanza 10 miliardi della manovra passassero ad un avvio importante di flat tax, i mercati potrebbero anche applaudire e finanziare lo sforzo di sganciarsi dai parametri europei per cambiarli, non essendo affatto vero che esista un consenso sulle politiche di austerità nei confronti di paesi da tempo sotto pressione, e sul metodo degli avanzi primari protratti [1].
Se questo sforzo conducesse infine ad un controllo della dinamica del debito, l’Italia avrebbe dimostrato il nuovo modello, e creato le condizioni per mutare le regole di convergenza europee, col consenso di una nuova Commissione più “nazionalista”. Vieppiù, agli investitori è certamente noto che solo una fase di crescita significativa ridurrebbe il debito in un modo veramente vincolante, perché nella fase di crescita opera il limite costituzionale dell’art. 81, il quale è superabile a maggioranza dal Parlamento solo quando il Pil, come oggi, è sotto il suo potenziale ‒ il che non si darebbe più se l’Italia, finalmente, dopo anni, agganciasse una fase positiva del ciclo ‒ di conseguenza il Governo non potrebbe destinare a politiche di spesa il maggior introito.
Da ciò traiamo un’indicazione politica: farebbe bene Salvini a battersi per la flat tax subito, ed i cinque stelle dovrebbero accettarlo, perché se salvassero il paese dal giudizio dei mercati rinviando il reddito di cittadinanza, e raggiungessero una crescita sostenuta, non è detto che non poi non sarebbero anche loro premiati elettoralmente, alle politiche anziché alle europee, dall’aver poi introdotto in un secondo momento, in un modo sicuramente più sostenibile il loro sistema di solidarietà sociale diffusa (magari al primo rallentamento del ciclo economico utile, che entro 4 anni sarebbe probabile).
Al contrario abbracciare la propaganda della Commissione UE, tornando alla scellerata politica degli avanzi primari di Monti con nuove patrimoniali, ucciderebbe il paziente, perché l’Italia produttiva, che già è provata dalle patrimoniali sopravvissute ‒ su cui sono sollevate critiche più che fondate [2] ‒ non ha margini di investimento sopravvissuti alle crisi del 2007 e del 2011 e perde costantemente posizioni nella concorrenza internazionale.
Se davvero si volesse ottenere “meno Europa”, senza uscirne in modo traumatico aprendo a un futuro pericoloso per il paese, la precondizione politica fondamentale di un programma sovranista sarebbe agire per “meno tasse”, anche facendo ricorso a tagli di spesa improduttiva ‒ particolarmente quella per acquisti di beni e servizi che, in tempi diversi, economisti di destra come Mario Baldassarri e tecnici come Piero Giarda, segnalarono essere un vero serbatoio della spesa pubblica improduttiva, aumentato anche del 50% in pochi anni, per decine di miliardi di euro.
Oggi l’Italia paga ancora la scelta di Monti di disattendere quell’indicazione e di colpire le pensioni (trasferimenti) anziché le spese effettive dello Stato, deprimendo il reddito nazionale e contemporaneamente attribuendone la necessità al clichè del “ce lo chiede l’Europa”. Questo ha alienato il consenso alle forze razionali e tradizionali e creato un fronte di contestazione delle istituzioni europee, proiettando verso l’ascesa il populismo incarnato dal Movimento Cinque Stelle, che a sua volta minaccia di far saltare i conti dello Stato italiano, e con essi l’Europa, prima ancora che sia possibile alle forze delle destre europee di influire sulla nuova Commissione e sulla BCE per cambiarne le politiche.
Per spezzare questo ciclo negativo è necessario rivedere al più presto la nostra politica economica, abbandonando l’austerità degli avanzi primari crescenti realizzati con misure fiscali, per abbracciare non un afflato assistenzialista ma un programma di riduzione delle tasse, taglio delle spese gonfiate, privatizzazione di beni improduttivi e liberazione della crescita.
Per questo vi è solo una speranza, da riporre in Salvini, Giorgetti e Meloni, nella Lega e in Fratelli d’Italia, alleate nel Centrodestra ‒ ed in quanto rimane di Forza Italia, se fosse disposta a cooperare ordinatamente ‒ perché possano convincere il Movimento 5 Stelle a cambiare la manovra, in cambio della stabilità del Governo, anche attraverso un posticipo della loro bandiera sul reddito e le pensioni di cittadinanza.
L’incredibile ottusità del Partito Democratico, che di fronte a questo rischio nazionale e sistemico ‒ e più pericoloso proprio per quello che più incarna oggi i suoi valori, cioè l’UE socialista ‒ non offre i suoi voti ed una tregua nazionale per cambiare la manovra “comunque sia” non può e non deve essere quella della destra italiana, che dovrebbe impegnarsi su questo e contribuire al cambiamento di linea economica avviato dal Governo, nel senso di aiutare la Lega.
Lo si potrebbe fare offrendo di negoziare l’accoglimento di alcune proposte simboliche, come quella di FDI sull’inserimento di un limite massimo alle tasse nella Costituzione, in cambio di un limitato impegno ad approvare insieme la linea finanziaria modificata del Governo, senza il quale il paese è ostaggio del Movimento 5 Stelle, ed in particolare della frangia più estremista e irragionevole di esso. Fare del sovranismo, anziché del populismo.

[1] V. Fratianni, Savona, Rinaldi, Una proposta per ridurre il fardello del Debito pubblico italiano, all’indirizzo http://docs.dises.univpm.it/web/quaderni/pdfmofir/Mofir081.pdf
[2] V.  D. Baiardi, P. Profeta, R. Puglisi, S. Scabrosetti, Tax Policy and Economic Growth: Does It Really Matter?, in Int. Tax Public Finance, 2018. Anche all’indirizzo https://ssrn.com/abstract=2932798
[3] V. M. Baldassarri, Sforbiciate ad acquisti e fondi perduti per ridurre le tasse a imprese e famiglie, in Libero, 2009, all’indirizzo http://www.mariobaldassarri.net/site/wp-content/uploads/2016/05/291009_LIBERO_3.pdf e la molto successiva relazione Giarda sulla spending review.