Questo saggio di Giuseppe Pennisi, economista, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo
Ci può e deve essere una politica industriale nazionale e quali sono i suoi confini? Occorre fare una premessa. In economia ci sono, da sempre, due scuole di pensiero: la prima, alla Hayek, sostiene che la mano pubblica debba astenersi dall’intervenire in settori direttamente produttivi (come quelli dell’industria), il cui sviluppo dovrebbe venire orientato dal mercato; la seconda, alla Colbert (che non era un economista e non scriveva trattati, ma da ministro delle Finanze di Luigi XIV emetteva decreti con cui già alla metà del Seicento orientava le attività produttive in Francia), ritiene, invece, che la mano pubblica debba non solo guidare ma anche intervenire direttamente.
In Italia, un bel saggio recente di Pierluigi Ciocca (Tornare alla Crescita, Donzelli 2018) ricorda che i periodi di maggior sviluppo economico e industriale ci sono stati nell’età giolittiana e nei trent’anni del «miracolo economico», fasi in cui si garantivano le regole ed un efficace diritto pubblico dell’economia, le infrastrutture fisiche e istituzionali, e misure mirate solo per le aree depresse. Il sistema cresceva quasi spontaneamente e la politica industriale era in effetti orientata dal mercato. Nell’Unione europea (Ue), di cui siamo soci fondatori, e in un mondo caratterizzato da un forte grado d’integrazione economica internazionale – ci si deve chiedere – che spazio c’è per politiche industriali «nazionali»? In effetti, la «dottrina prevalente» nell’Ue è che lo sviluppo industriale deve essere garantito dalla libera concorrenza, dalla mancanza e di aiuti di Stato e di posizioni dominanti tra i player.
Da decenni, la Francia – Patria di Colbert – propone una «politica industriale europea» che, nel rispetto delle regole sulla concorrenza, incoraggi campioni europei tali da superare i confini nazionali e da gareggiare efficacemente con gigantesche multinazionali di impronta americana e asiatica. Due importanti documenti in tal senso, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012, tracciano prospettive e includono proposte concrete in materia. Hanno avuto relativamente poca attenzione in Italia e non sono stati formalmente recepiti in sede Ue, ma sono la cornice intellettuale e di politica economica in cui è nata, ad esempio, la fusione Fca-Psa, un chiaro elemento per far sì che il comparto europeo dell’auto possa rispondere efficacemente alla sfida della trasformazione tecnologica e del mercato mondiale. La Francia – vale la pena ricordare – ha anche creato «campioni europei», ma con un forte accento «nazionale», acquisendo aziende un tempo italiane, soprattutto nel comparto del lusso. Ciò dovrebbe essere un monito per l’Italia, dove non ci sono state acquisizioni significative di aziende straniere da incorporare in aziende italiane e fare così nascere «campioni europei» con il profumo ed il gusto italiano. Pochi anni fa, Franco Debenedetti, che è stato alla guida di grandi aziende, oltre che politico e saggista, ha analizzato gli insuccessi della politica industriale italiana in un volume dal titolo eloquente: Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale, Marsilio, 2016. Quasi quarantacinque anni fa, Giuliano Amato, che non può certo essere tacciato di iper-liberismo alla Hayek, nel volume Il governo dell’industria in Italia (Il Mulino, 1972), caratterizzava l’intervento pubblico nell’industria nel nostro Paese quale impiccione e pasticcione. Si potrebbe continuare con citazioni e riferimenti. La domanda di fondo è come mai Oltralpe si riesce a teorizzare i campioni europei, e anche a facilitarne la realizzazione, mentre da noi si finisce ad attuare interventi impiccioni e pasticcioni all’origine dei circa 160 tavoli di crisi in quel di via Molise, dove ha sede il Ministero per lo Sviluppo Economico (Mise)? La risposta è in gran misura in Colbert e in Napoleone Bonaparte che ne seguì le tracce e diede un inquadramento più completo alla strategia. In una Francia dove l’industrializzazione tardava a venire, Napoleone creò les grandes écoles perché lo Stato disponesse di un corpo altamente qualificato per valutare e guidare l’attuazione di interventi piccoli e grandi.
La tecnocrazia prodotta da les grandes écoles era fedele alla Nation e non cambiava funzione e ruoli a seconda del vento politico del momento. Ancora oggi, La Documentation Française, pubblicata dall’equivalente del Poligrafico dello Stato, diffonde le analisi perché tutti possano giudicarne la qualità. In effetti, quando la crisi del 1929 comportò una forte dose di intervento pubblico per salvare la finanza e l’industria italiana, Benito Mussolini non si rivolse a un camerata di stretta osservanza e fedeltà, ma a un socialista riformista, che non aveva mai preso la tessera del Partito, come Alberto Beneduce, per porre ordine al sistema. Da solo, tuttavia, questo elemento non basta. In primo luogo, al capitale intellettuale di cui dotare il settore pubblico, occorre affiancare un capitale fisico di infrastrutture (dalla logistica alle forme più avanzate di telematica) per fare sì che le imprese «nazionali» possano competere efficacemente con quelle straniere ed irrobustirsi sul piano interno e poi diventare «campioni europei»: gli storici dell’economia sottolineano che sia l’età giolittiana sia quella del miracolo economico furono caratterizzate da un grande sviluppo delle infrastrutture (finanziate in gran misura dallo Stato). In secondo luogo, è imperativo un diritto pubblico dell’economia semplice, trasparente e stabile, altra caratteristica e dell’età giolittiana e dei lustri del miracolo economico, mentre purtroppo in questi anni l’Italia è stata travagliata da un diritto pubblico dell’economia confuso e spesso cangiante (si vedano, ad esempio, i casi dell’impianto siderurgico di Taranto e delle concessioni autostradali).
A questo punto occorre chiedersi se una politica industriale «nazionale» con la prospettiva di dare vita a «campioni europei» può prevedere interventi finanziari diretti a sostegno di alcune imprese. Un’analisi interessante si ha in un saggio di Ernest Liu, un giovane professore dell’Università di Princeton (Industrial Policies in Production Networks in The Quarterly Journal of Economics, novembre 2019). Liu ha studiato con cura le politiche industriali del Giappone, della Corea del Sud, di Taiwan ed anche della Repubblica Popolare Cinese. Giunge ad una conclusione interessante: l’intervento pubblico diretto per la politica industriale può essere efficace quando mira a settori o industrie «a monte» che producono input per settori o industrie «a valle». Sulla base di queste analisi, si possono sviluppare alcuni criteri di politica industriale. Alitalia non è certo un’industria «a monte». L’ex Ilva ha, invece, tutte le caratteristiche di un’industria «a monte». Da qui a determinare come modulare un eventuale intervento pubblico la strada è ancora lunga. Ed è particolarmente complessa in una fase come l’attuale in cui le prospettive di una lunga e profonda recessione, aggravata dall’emergenza del coronavirus, e la possibile esplosione di una bolla finanziaria creata dall’indebitamento privato e dall’emissione di obbligazioni di dubbia consistenza. A metà marzo 2020 uno studio di Cerdar Selik e Mats Isaksson dell’Ocse ha stimato in 13,5 milioni di miliardi di dollari il totale del debito delle imprese non finanziarie, accumulato, in gran misura tramite emissioni di obbligazioni, in anni di crescita in molti Paesi industriali ad economia di mercato. Una crisi finanziaria sommata alla recessione potrebbe spazzare via non solo singole imprese ma anche interi comparti e rendere più facile individuare potenziali resistenti «campioni nazionali». L’Italia da sola non ce la potrà fare ad uscire da una recessione che ha sempre più i tratti di una depressione che potrà spazzare via molte imprese del manifatturiero ed abbassare di molto la valorizzazione di mercato di altre, rendendole facili preda di gruppi stranieri, di altri Stati europei e non solo. La strategia da seguire è lineare. Da un lato, massimizzare il supporto del resto dell’Unione europea, utilizzando bene le risorse specialmente quelle dello sportello della Banca europea degli investimenti dedicato alle piccole e medie imprese e promuovendo l’attivazione di uno sportello per le imprese nel costituendo Recovery Fund. Da un lato, difendere in via normativa il nostro capitale imprenditoriale da acquisizioni straniere.
*Giuseppe Pennisi, economista