La tassa contro la famiglia e la Nazione

Cambia la leadership del Partito Democratico, già Partito della sinistra, ex Partito comunista italiano, ma la musica non cambia: aggravare, cioè, di tasse il popolo, colpire il ceto medio, come quando si volle tassare il settore della nautica, facendo fuggire in Francia, Spagna e Croazia molti proprietari di imbarcazioni.

Enrico Letta, nuovo segretario d’emergenza, richiamato da Parigi, ha lanciato una proposta, che non sta né in cielo né in terra, come vedremo punto per punto e che riportiamo testualmente da una sua intervista pubblicata su Corriere Sette: “Il mio sogno è trattenere i ragazzi italiani in Italia, senza però farli restare in casa con mamma e papà fino a trent’anni. Il problema principale del nostro Paese è che non fa più figli. Ci vuole una dote per i giovani, finanziata con una parte dei proventi della tassa di successione, e un accesso ai mutui-abitazione anche per chi non ha genitori in grado di fornire garanzie”. Questa vera e propria “boutade” ha incassato subito lo stop del presidente del Consiglio, Mario Draghi, che ha dichiarato: “Non abbiamo mai parlato, ma non è il momento di prendere soldi dai cittadini, ma di darli”.

In pratica Letta, che vuole lanciare temi identitari cari alla sinistra, come lo “jus soli”, per dare la cittadinanza a migliaia di figli di immigrati, o come la proposta di legge Zan, propone di intervenire sulle donazioni e sulle eredità superiori ai 5 milioni di euro, recuperando 2,8 miliardi che sarebbero distribuiti, con quote da 10 mila euro ciascuna, alla metà dei diciottenni italiani, sulla base del reddito (Isee). Questa tassa arriverebbe all’aliquota del 20 per cento.

In pratica si tratta della solita logica assistenzialistica, statalistica dei cosiddetti “bonus”, che non risolve nessuno dei problemi a cui fa riferimento il leader del Pd.

Perché: a) non trattiene in Italia i ragazzi che vanno all’estero per il mancato accesso o dell’abbandono dell’istruzione universitaria dei giovani provenienti da famiglie con redditi bassi. Occorrerebbe invece prendere in esame “vere forme di esonero dalle tasse universitarie e di prestito o, come suggerisce la Corte dei Conti, aiuti economici per gli studenti universitari meno abbienti”. Il problema infatti è dovuto “oltre che a fattori culturali e sociali, al fatto che la spesa per gli studi terziari, caratterizzata da tasse di iscrizione più elevate rispetto a molti altri Paesi europei, grava quasi per intero sulle famiglie; b) non incentiva la nascita di cittadini italiani per la quale occorrerebbero politiche per la famiglia, che, ad esempio, agevolino il lavoro delle donne, istituiscano asili nidi in tutte la penisola, che in maniera strutturale sostengano la nascita del secondo e del terzo figlio ed aiutino le famiglie numerose; c) non aiuta le coppie a costruirsi una famiglia ed ad acquistare una prima casa se non si elimina il fenomeno del precariato.

Per tutte queste ragioni il nostro premier, condividendo le analisi di Francoforte sul proseguimento di una politica espansiva, che per essere tale non può prevedere aumenti della tassazione, ha bocciato senza appello la proposta fatta da Enrico Letta di reintrodurre una tassa di successione sui grandi patrimoni, ricordando anche le misure a sostegno dei giovani contenute nel decreto approvato (la casa, i contratti di inserimento, l’intervento per partite Iva e turismo) e soprattutto il Pnrr “in cui i giovani sono ovunque per la clausola di condizionalità”. Su questa posizione negativa è sostenuto anche dal titolare del Mef, Daniele Franco, che in un question time al Parlamento ha ribadito come il governo non sia “entrato nel merito di singole misure” e parlando della delega fiscale, il ministro ha risposto: “La delega verterà sul sistema nel suo complesso: è bene non intervenire sulle singole misure”.

Del resto già tanti anni fa, il prof. Raffaello Lupi, ordinario di Diritto tributario all’Università di Tor Vergata e già rettore della Scuola Centrale Tributaria “Ezio Vanoni” di Roma, scrisse in un suo pregevole libro del 1996 (Le illusioni fiscali, ed. il Mulino) in merito all’imposta di registro, all’imposta sulle successioni e ai tributi connessi: “Si tratta di una fiscalità anacronistica, adatta ai tempi in cui l’economia era agricolo-pastorale, basata soprattutto sulla ricchezza fondiaria, mentre oggi queste imposte sopravvivono a se stesse e riguardano settori, come quello immobiliare e dei conferimenti in società, già pesantemente tassati sotto altri profili, come l’Ici (oggi Imu)”. Più avanti: “Su questa diagnosi tutti concordano da anni, eppure non si fa un passo avanti. Appena si parla di abolire o di modernizzare l’imposta di registro o quella sulle successioni, gli apparati emettono una cortina fumogena di ‘se’, di ‘ma’, di ‘forse’ e di ‘vedremo’, con ostruzionismi tanto più deprimenti quanto più espressi in buona fede. La paralisi blocca la normale attività di ricambio delle imposte e il loro adeguamento ai mutamenti dell’economia. L’anacronismo di tale tributo è di tutta evidenza e non giustifica una reintroduzione di questo autentico ‘pezzo da museo’”.

A suo tempo la tesi dell’abrogazione dell’imposta di successione aveva trovato concorde, del resto, in un primo momento, lo stesso ex sottosegretario alle finanze, prof. Marongiu, successivamente divenuto sostenitore del mantenimento del tributo. Per non parlare dell’ex ministro Visco che l’11 aprile 1997, di fronte ad una platea di commercialisti, a Bologna, aveva affermato: “Quando devo pagare il bollo della patente mi innervosisco: il bollo, come l’imposta di successione, è una tassa da Paese dell’Ottocento, che va superata, compatibilmente con il mantenimento del gettito”. Ma ora pare abbia cambiato idea.

Da parte sua, il centrodestra aveva sempre affermato la necessità di un superamento dell’imposta di successione. Infatti l’ipotesi di abolizione era già contenuta nel Libro bianco del ministro Tremonti del 1994 e venne confermata con la presentazione del progetto di legge Atto Camera n.6062 di Berlusconi ed altri parlamentari.
Non fu quindi, un’iniziativa di tipo elettoralistico, ma una coerente azione di riforma perseguita nel tempo e, semmai, l’adempimento di un impegno preso solennemente con gli elettori.

Sul piano culturale l’imposta sulle successioni tradisce quella radicata diffidenza di una parte della cultura di questo Paese (quella collettivista e marxista) contro l’istituto della proprietà privata e l’autonomia negoziale e contro la famiglia naturale. Il prelievo viene normalmente giustificato con la circostanza che si tratta di attribuzioni patrimoniali non “meritate” e si fonda su una concezione della famiglia atomistica e circoscritta nel tempo e nello spazio, propria della cultura illuministica e rivoluzionaria che dovrebbe essere definitivamente ma che continua ad allignare in ricchi miliardari radical chic, come Riccardo Illy, che considera il patrimonio ereditato “un dono non meritato” e “profondamente diseducativo”.

Tale pregiudizio è in realtà infondato ed irrilevante, poiché l’acquisto per via ereditaria è, invece e tra l’altro, pienamente giustificato dal risparmio accumulato in vita dal testatore e dall’atto di destinazione compiuto dal medesimo (anche nella forma del silenzio nel caso di successione non testamentaria), che di solito è il padre. E non a caso la tassa di successione non vigeva negli Stati e nei regimi che, comunque li si giudichi per tutti gli altri aspetti, e nel bene e nel male, tutelavano la famiglia e ad essa prestavano attenzione e risorse: il Regno delle Due Sicilie ed il Fascismo. E, tale tassazione, come ricorda Stefano Passigli, “fu reintrodotta dalla Repubblica con alterne vicende”.
Inoltre, l’imposta sulle successioni, rappresentando un’ipotesi specifica di imposta sul patrimonio, costituisce un forte disincentivo al risparmio, poiché garantisce un migliore trattamento fiscale per coloro che consumano, se non addirittura dissipano, interamente il proprio reddito.

Su questo tema pagine illuminanti e profetiche si possono leggere nella enciclica Rerum Novarum di Leone XIII: la proprietà cioè deve essere considerata come la continuazione stessa del lavoro e come il suo prodotto naturale. Oltretutto “Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più alacrità e ardore: anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui attendono per sé e per la famiglia, non solo gli alimenti, ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento al luogo natìo; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso ed armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia e inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte”. (Riccardo Pedrizzi e Giovanni Scanagatta,”Una luce sul mondo. Dalla “Rerum Novarum” alla “Caritas in veritate”, Editrice Pantheon).

In via generale, infatti, le imposte patrimoniali indeboliscono il sistema economico nel suo complesso perché ne riducono la capitalizzazione e quindi la capacità di crescita e di sviluppo tecnologico. Ciò è tanto più vero nel caso delle imposte di natura straordinaria, qual è quella sulle successioni, che per loro natura non possono essere assunte all’interno degli ordinari piani di gestione dei titolari dei beni.

Occorre poi osservare che, soprattutto nei casi dei grandi patrimoni, attualmente si ricorre spesso a forme di trasferimento intergenerezionale fiscalmente meno onerose. Tale fenomeno accentua l’ingiustizia complessiva dell’imposta di successione, che finisce per colpire i patrimoni di dimensioni medio-piccole, costituiti da cespiti di natura prevalentemente immobiliare, i quali più difficilmente possono sottrarsi al prelievo. E poiché il tessuto economico del nostro Paese è costituito prevalentemente di piccole e medie aziende, di fatto questo balzello se reintrodotto andrebbe a colpire l’intero apparato produttivo nazionale.

In un suo intervento sulla fiscalità delle piccole e medie imprese, Victor Uckmar, quando si accese il dibattito prima sulla sua abolizione, infatti, ebbe modo di rilevare: “I titolari delle piccole e medie imprese, con tante difficoltà per il passaggio generazionale, hanno l’incubo della imposta di successione, che inevitabilmente viene assolta con mezzi dell’azienda o comunque sottraendo ricchezze che potrebbero essere meglio destinate all’investimento. Da tempo si parla di abolizione dell’imposta di successione, ma anche per ragioni demagogiche passeranno altri tempi. (Uckmar allora non sapeva che sarebbe andata al governo una coalizione di centrodestra!). Eppure – continuava l’insigne giurista – è una imposta regressiva, che viene assolta dai… poveri, e cioè da coloro che non hanno avuto la capacità o la possibilità di operare i trasferimenti in vita senza oneri fiscali o comunque di gran lunga inferiori alla imposta di successione”.

Oltretutto nel mondo globale, in cui i grandi patrimoni sono al sicuro nei paradisi fiscali, reintrodurre la tassa di successione sarebbe l’ennesima ingiustizia ai danni del ceto medio. Ed il ceto medio – scrive Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera – ormai costituisce il nerbo dell’elettorato del Partito democratico, il quale dovrebbe difenderlo con le unghie e con i denti; e invece lo vuole tassare. Ma tassassero Amazon, non solo il commerciante”. Ed aggiunge in un’altra puntata della sua rubrica sempre sul Corriere della Sera. Mi piace conversare con i tassisti, una delle ultime categorie che vive ancora in mezzo alla gente. Tutti quelli con cui ho parlato erano avvelenati. Non credo avessero un patrimonio da un milione o da cinque milioni di euro. Di sicuro non rientrano tra i grandi patrimoni; che peraltro sono quasi tutti al sicuro nei paradisi fiscali. So che erano ferocemente contrari alla tassa. Nessuno di loro si sentiva ricco. Hai visto mai però che, sommando la licenza, la casa, il garage della nonna, il conto corrente, i risparmi, si arrivi a una quota che a Letta e a Orfini possa apparire sospetta… Capisco che la sinistra abbia perso i voti delle classi popolari, e debba recuperarli. Ma non lo farà con nuove tasse. Neppure con tasse i cui proventi dovrebbero aiutare le classi popolari”.

Dalle considerazioni sopra esposte, è possibile quindi concludere che l’esenzione dell’imposta di successione, risponde a criteri di equità, di funzionalità ed efficienza del sistema tributario e si fonda su una riflessione che parte da lontano e che trovò concorde un’ampia platea di esperti, operatori economici ed esponenti politici, anche tra quelli che oggi sembrano soffrire di qualche amnesia.

Ma, soprattutto, l’eventuale reintroduzione di questa imposta si muoverebbe nell’ambito di una strategia di attacco alla famiglia, intesa come corpo intermedio e come strumento di trasmissione non solo di valori e modelli di comportamento, ma anche di patrimoni e risorse economiche.
Riccardo Pedrizzi (Già presidente della Commissione Finanze e Tesoro del Senato)
NOTA 1) L’imposta sulle successioni e donazioni è dovuta per il trasferimento della proprietà o di altri diritti mortis causa o a titolo di liberalità. In particolare: nel caso della successione, il trasferimento avviene in seguito alla morte del titolare (de cuius), in base alla legge (successione legittima) o a un testamento (successione testamentaria); nel caso della donazione, per l’accordo con cui il titolare (donante) dispone di un suo diritto a vantaggio di altri. Sono oggetto di successione o donazione: i beni immobili; le obbligazioni, i crediti, il denaro, le azioni e le quote di partecipazione al capitale di società. L’imposta di successione fu abolita nel 2001 dal governo Berlusconi II, fu ripristinata nel 2006 dal governo Prodi II. Attualmente quindi vi è una franchigia pari a 1 milione di euro moltiplicato il numero dei beneficiari; per il coniuge ed i parenti in linea retta (figli), pari a 100 mila euro moltiplicato il numero dei beneficiari per i fratelli e le sorelle. In pratica con le varie proposte in discussione si vorrebbero eliminare le franchigie e tassare tutti i patrimoni trasferiti al di sopra dei cinque milioni di euro al 20%.

 

*Riccardo Pedrizzi, presidente Comitato scientifico nazionale – UCID

Smart Working – Vita e Lavoro

Il 15 ottobre scade il meccanismo semplificato dell’utilizzo del lavoro agile ed il governo punta a semplificare parte dei lavoratori da remoto.

Fino al 2019 l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano contava 570 mila lavoratori agili. Quest’anno a causa dell’emergenza sanitaria lo smart working ha interessato potenzialmente tra i 6 e gli 8 milioni di lavoratori. Al termine del regime semplificato si stima che potrebbero rimanere in modalità agile 4/5 milioni di lavoratori che magari alterneranno 2/3 giorni in presenza ed i restanti in remoto. Tra le ipotesi del governo c’è quello di fissare a livello di contratto nazionale delle quote percentuali di ricorso allo smart working in linea con quanto fatto, con apposite direttive, dal ministro della P.A., indicando come obiettivo di avere quest’anno il 50% del personale coinvolto nel lavoro. Sono cosi gettate le basi per una significativa diffusione del lavora flessibile nel nostro Paese, in linea con quanto espresso dal Parlamento europeo nella risoluzione del 13 settembre del 2016.

Riferimenti normativi

La proposta di legge contenente «Norme finalizzate alla promozione di forme flessibili e semplificate di telelavoro» venne depositata nel gennaio 2014. A distanza di tre anni, il lavoro agile è diventato legge all’interno del Decreto sul lavoro autonomo. La Legge 81/2017 definisce lo smart working come una «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa».

Lo smart working è uno strumento che, se utilizzato propriamente, diventa leva per innovare i processi organizzativi aziendali (sia nei contesti privati sia pubblici) e le relazioni tra i soggetti coinvolti.). L’innovazione passa anche da un nuovo modo di utilizzare gli spazi aziendali, in termini di una possibile ottimizzazione che garantisca però l’adeguatezza rispetto alla tipologia di lavoro richiesta, e alla tecnologia che dovrà essere idonea a sostenere attività svolte a distanza.

L’accordo ex lege 81/2017 con il quale il lavoratore passa alla “modalità smart” deve essere stipulato per iscritto specificando i tempi di lavoro e di riposo e il diritto alla disconnessione dalla strumentazione tecnologica lavorativa. Allo smart worker spettano una retribuzione e un trattamento normativo conformi a quanto stabilito dal contratto collettivo; restano applicabili eventuali incentivi fiscali e contributivi in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del lavoro subordinato. Al fine di garantire il diritto del lavoratore alla tutela contro infortuni e malattie professionali, il datore di lavoro è responsabile della sicurezza (Circolare inail n. 48/2017) e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Conciliazione tempi di vita e di lavoro.

Gli strumenti di conciliazione vita-lavoro, e in particolare il sostegno alla famiglia e lo sviluppo delle attività di cura, rientrano tra le aree di welfare storicamente deboli. Il tema della conciliazione va inserito in un contesto più ampio se vogliamo coglierne il reale obiettivo: il benessere delle persone e un riequilibrio tra le posizioni, che traduce in sostanza il senso del mainstreaming. Quando si parla di conciliazione spesso nascono in riferimento alle donne. Si tratta di una distorsione e su questo argomento siamo molto indietro rispetto ad altri paesi perché a monte c’è poco sviluppo delle attività di cura professionali e poco sostegno alle politiche familiari. Oltretutto la conciliazione è contro l’ethos dominante maschile, secondo cui la vita è una cosa e il lavoro è un’altra. Le politiche vanno viste nel contesto specifico e i vari interventi vanno fatti in sequenza. C’è bisogno di un microclima favorevole che alcune aziende stanno già creando. Si tratta di grandi aziende, prevalentemente del Nord, perché nelle aree del Mezzogiorno il capitale sociale è debole, e ciò si riflette anche nell’ambito delle politiche life balance. La conciliazione non favorisce di per sé l’allargamento dell’occupazione femminile quanto piuttosto è di supporto alle donne che sono già occupate e le aiuta ad avere una migliore qualità di vita. Nella contrattazione collettiva aziendale c’è qualche indicazione che si concentra sugli strumenti di supporto alla maternità, unitamente alla formazione, all’ambiente di lavoro, etc. L’intervento pubblico sostiene con incentivi la contrattazione collettiva aziendale, sulle materie del welfare tra cui la conciliazione. Non va dimenticato che le iniziative di conciliazione non costano e quindi hanno meno bisogno di essere sostenute con incentivi dedicati come invece avviene con altre misure di welfare. Il problema riguarda i costi dal punto di vista organizzativo perché per fare bene la conciliazione è necessario che anche l’organizzazione del lavoro si adatti. In tal senso, più che esenzioni fiscali si potrebbe immaginare qualche altro tipo di premialità per stimolare questi comportamenti virtuosi da parte delle aziende. Esistono esempi in tema di responsabilità sociale di impresa aperti ad investimenti su politiche di tipo reputazionale. In alcuni paesi essere “campioni di pratiche di conciliazione” è utile per la reputazione aziendale e può servire ad aumentare il livello delle vendite nei confronti dei consumatori sensibili al tema. È il caso, ad esempio, delle aziende green oriented, che sfruttano il rilievo reputazionale anche per accrescere il loro mercato di riferimento.

La contrattazione territoriale è lo strumento principe per diffondere la conciliazione e la diffusione di iniziative virtuose anche perché rappresenta l’unico modo di raggiungimento delle PMI su questi temi. Anche se non fanno dumping contrattuale non hanno comunque lo stimolo a partecipare alle attività di contrattazione. Le parti datoriali non hanno mai favorito la contrattazione territoriale che si è diffusa solo in qualche settore e questo potrebbe essere il compito di alcune associazioni imprenditoriali illuminate che in questo modo avrebbero l’opportunità di dare il loro contributo sul territorio. I contratti collettivi nazionali di lavoro sono uno strumento indispensabile e hanno una ampia copertura. Un contratto collettivo nazionale di lavoro che vincoli tutti, soprattutto i datori di lavoro più piccoli potrebbe stimolare una diffusione reale anche degli strumenti di conciliazione. Proprio in questo momento storico si potrebbe attingere ad una risorsa come quella del welfare e della conciliazione, visto che gli aumenti salariali nei contratti collettivi saranno di poca entità.

Nelle aree del Sud è più debole il tessuto economico, le aziende sono più piccole e lo stesso capitale sociale è scarso, quindi si rischia una divaricazione su tutti gli indicatori economici e del benessere. Dai dati dello Svimez emerge come questi indicatori (longevità, tasso di istruzione, ambiente, etc.) riflettano questa eterogeneità, e il divario non accenna a diminuire negli anni. Questa debolezza economica e sociale influisce anche su quelle aziende che finora erano riuscite a resistere e che in questo momento vengono colpite duramente. È un problema di carattere nazionale, e non serve intervenire solo su un punto specifico perché l’intervento va fatto a monte, a partire dalle cause che hanno portato al divario storico fra Nord e Sud.

Un ruolo centrale spetta agli enti locali perché, come strutture amministrative, sono più vicine ai bisogni dei cittadini e delle famiglie e possono aiutare a connettere il welfare aziendale a quello territoriale. Gli impatti maggiori di questo ruolo si avrebbero nel miglioramento dell’occupazione, sia nell’ambito dei lavori di cura, sia con gli investimenti, in cui gli enti locali hanno mostrato di agire meglio rispetto allo Stato. Nel Sud una delle leve è questa: la qualità degli investimenti e delle amministrazioni. Un ruolo importante hanno anche le associazioni dei datori di lavoro e quelle del Terzo settore, che contano molto nelle attività di cura.

L’attuale emergenza Coronavirus potrebbe incidere sulla trasposizione della direttiva 2019/1158/UE sul worklife balance. C’è stato uno tsunami, non solo nella salute, ma anche nelle relazioni e nel lavoro. Certamente cambiare i tempi di vita e anche i luoghi di lavoro modifica molte cose tra cui gli orari e il modo di valutare il lavoro. Con la sospensione dei servizi scolastici i benefici dello smart working, in questa fase, hanno aiutato più gli uomini che le donne, sui quali non sono ricaduti in via immediata i compiti di cura familiari. Questo vuol dire che lo smart working, se usato bene nell’organizzare anche i rapporti in azienda, può essere uno strumento che facilita una maggiore autonomia delle persone un miglior uso del tempo e che quindi può essere utile sia per gli uomini sia per le donne. La direttiva dell’UE n. 2019/1158 ha dato una spinta in tema di conciliazione ed è uno dei casi in cui la regola europea non si limita a individuare una soglia comune a tutti i paesi membri, ma va oltre tale minimo comune denominatore, seguendo il modello dei paesi del Nord, che hanno normative più evolute. Se lo si organizza bene questo strumento può favorire anche l’applicazione della direttiva e valorizzare in particolare la possibilità di liberare del tempo per le persone che lavorano, in particolare per le donne.

Gandolfini con Meloni in vista di Verona

Da Firenze in occasione dell’evento “Più Famiglia più Italia” i militanti pro-life capeggiati dal Presidente del Family day Gandolfini lanciano un significativo endorsement a Giorgia Meloni.

Il Family day è un importante evento tematico che raggruppa diverse organizzazioni di matrice cattolica ma non solo, che da anni sostiene politiche a tutela della famiglia e conduce battaglie a difesa della vita. Ogni anno il Popolo della Famiglia si riunisce per far presente alla politica le problematiche delle famiglie e da anni Giorgia Meloni partecipa a tale iniziativa in maniera convinta.

Ma le parole di Gandolfini di ieri (16/03 per chi ci legge) sembrano un vero riconoscimento al coraggio di Giorgia Meloni che sta rendendo Fratelli d’Italia sempre più una forza politica moderna e di ispirazione conservatrice e dove chiaramente la tutela della Famiglia resta un tema centrale. “Noi – ha dichiarato Gandolfini – riconosciamo che Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni stanno portando avanti una politica a vantaggio della famiglia, per la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale e per la libertà educativa dei genitori”.

Il tema, come accennato, è cruciale per un movimento che nell’ultimo periodo sta ritrovando una costante crescita nei sondaggi grazie anche ad un lavoro coraggioso della leader Meloni sui temi conservatori e sovranisti. Più volte infatti, la Presidente Meloni ha sottolineato la netta differenza tra una forza sovranista / conservatrice e una meramente populista. I sovranisti guardano alle generazioni future i populisti guardano solo al presente.

In questa ottica la Famiglia resta l’unità sociale fondamentale perché svolge un ruolo fondante in quanto organizza la società. Inoltre è il primo luogo dove si impartisce la prima educazione in quanto viene trasmessa l’esistenza culturale e la forma di essere di un popolo attraverso un dialogo intergenerazionale che si sta sempre più perdendo. Tutelare la famiglia quindi non è una questione apparentemente solo religiosa ma una necessità di tutte le Nazione. In famiglia si apprendono i criteri, i valori e le norme di convivenza essenziali per lo sviluppo e il benessere dei suoi stessi membri. Di conseguenza, per la costruzione della società futura è necessario permettere alle famiglie di oggi, di poter crescere i propri figli in sicurezza e in tranquillità. Cosa che al momento in Italia è reso difficile per una serie di concause.

È molto importante dunque per Fratelli d’Italia, aver ottenuto questo riconoscimento dal presidente del Family day che con le sue parole certifica un impegno concreto da anni a tutela della Famiglia.

Negli ultimi anni il mondo del Family day, pur restando nell’ambito del centro destra, si è frammentato sempre. Bisogna ora non perdere questa occasione, in vista anche del prossimo Congresso Mondiale delle Famiglie che si terrà a Verona, di aspirare ad assere la vera forza politica italiana a tutela della Famiglia tradizionale. Si tratta di una sfida ambiziosa per Giorgia Meloni. Ma i presupposti sembrano esserci tutti.

*Mario Presutti, collaboratore Charta minuta