Capaci e l’era delle complessità irrisolte

La Strage di Capaci, di cui ricorre il trentesimo anniversario, non ha rappresentato solo la più plastica “rappresentazione” della violenza del crimine organizzato perpetrata in un paese Occidentale, ma è stata anche l’evento che ha segnato più di ogni altro il culmine di un drammatico periodo di tempo iniziato sei mesi prima, ancora oggi di difficile interpretazione e destinato ad imprimere un radicale cambiamento all’assetto istituzionale repubblicano.

Non è facile inquadrare in una cornice omogenea il susseguirsi degli avvenimenti che, uno dopo l’altro, hanno scosso il Paese nelle fondamenta, né sarebbe corretto tracciare legami o ricomporre la complessa tela individuando a posteriori rapporti di causalità mai dimostrati. Ciò che invece può essere oggetto di discussione, è il filo comune che apparentemente accomuna gli eventi nelle loro conseguenze.

L’Italia che alla fine del 1991 si affacciava all’anno successivo in un clima di sostanziale tranquillità, pur in presenza dei grandi stravolgimenti di fine guerra fredda, lascia spazio ad un paese radicalmente diverso appena un anno dopo. Una nuova, radicale incertezza, diversa da quella degli anni di piombo e non altrettanto risolvibile, avvolge i meccanismi del sistema e insinua un radicale senso di insicurezza e sfiducia verso le istituzioni che si proietta ben al di là di mani pulite.

La strage di Capaci giunge al culmine di settimane difficili per la prima Repubblica, sulla cui mancata capacità di rinnovarsi molto si è scritto. È sbagliato tuttavia ritenere che, in assenza di una catena di eventi così distruttivi, la politica sarebbe semplicemente implosa per mancanza di alternative. Se l’Italia dei partiti ha prosperato grazie alle peculiarità del contesto geopolitico in cui era immersa, la sua stabilità non era assicurata solo da componenti esogene e le continue fratture economiche e sociali ricomposte negli anni sono qui a testimoniarlo.

A differenza del 1987, quando il Paese andò al voto con un “governo elettorale”, l’ultimo presieduto da Fanfani, nel 1992 Giulio Andreotti accompagnava con breve anticipo la fine della legislatura in un quadro di stagnazione economica e serpeggiante nervosismo, ma non ancora di instabilità politica. La lotta alla criminalità organizzata era culminata il 30 gennaio con la storica sentenza del “maxi-processo”, preceduta da un anno di eccezionale decretazione d’urgenza, che aveva portato in dote nuove leggi su pentiti, scioglimento dei comuni, confisca dei patrimoni e l’istituzione della direzione investigativa antimafia. Questa frenetica produzione normativa, i cui meriti politici appartengono oltre che a Giulio Andreotti, anche ai Ministri della Giustizia e dell’Interno Claudio Martelli ed Enzo Scotti, già due anni prima aveva reso possibile l’ordinata conclusione dello stesso “maxi-processo” con la ben nota proroga dei termini di custodia cautelare per i reati di mafia. Una misura eccezionale, introdotta retroattivamente con una scelta spiccatamente decisionista, che andava persino oltre l’approccio riservato al terrorismo un decennio prima e tale da spingersi forse al di là della stessa legittimità costituzionale.

L’assenza apparente di elementi di disturbo endogeni accompagnò la settimana successiva la firma, in piena campagna elettorale, del trattato di Maastricht avvenuta il 7 febbraio da parte del ministro degli Esteri Gianni De Michelis e del Tesoro Guido Carli. L’Italia prendeva dunque parte consapevolmente al processo di integrazione europea pur tra la contrarietà o le perplessità di alcuni storici alleati e assumeva precisi obblighi destinati ad indirizzare la politica economica e la finanza pubblica degli anni a venire.

Il ben noto arresto di Mario Chiesa invece, non produsse alcuna conseguenza di rilievo sul dibattito politico e le inchieste di Mani Pulite erano ben lontane dal riservarsi il predominio della sfera mediatica. Il vero punto di svolta che ha segnato l’avvicinamento alle urne è l’improvviso e inaspettato assassinio di Salvo Lima, avvenuto a Palermo il 17 marzo del 1992.

Già l’anno precedente l’Italia aveva conosciuto una escalation di violenza che aveva destato sorpresa e panico nell’opinione pubblica: i ventuno morti in sette mesi ad opera della banda della Uno Bianca, tra cui i tre carabinieri vittime della strage del Pilastro, trasmettevano nel Nord Italia interessato dall’ascesa della Lega Nord e alle prese con una rinnovata questione “settentrionale”, una sensazione di rinnovata precarietà, pur non paragonabile a quella degli anni di piombo. Inoltre, bizzarre rivendicazioni come quelle della Falange Armata, si accompagnavano ad altri eventi ancora oggi di difficile attribuzione: le continue incursioni notturne negli uffici di diversi esponenti politici, tra cui quelli della Commissione d’inchiesta sullo scandalo BNL-Atlanta, la strana serie di lettere e documenti apocrifi pervenuti nelle redazioni dei giornali, accompagnati dall’invio di minacce dirette a personalità di primo piano delle istituzioni, unite alle dichiarazioni del Capo della Polizia Vincenzo Parisi che per primo ravvisò, in una audizione tutt’oggi secretata in Commissione Stragi, il pericolo che qualcuno volesse fare dell’Italia una “terra di nessuno”. Episodi inquietanti che, anche oggi, analizzati singolarmente non avrebbero offerto interpretazioni unitarie al di là di una comune sensazione di impotenza e incapacità di identificare e rispondere alle minacce.

L’omicidio di Salvo Lima assunse da subito i caratteri fortemente destabilizzanti di un attacco frontale allo Stato e alla legittimità del processo di selezione democratico. La mafia per la prima volta uccise un discusso campione delle preferenze a poche settimane dal voto, ignorando i tempi della macchina del consenso tradizionalmente radicata in Sicilia. Sulle cause e le complessità insite nel delitto Lima, al netto di processi e pentiti si può ancora discutere, così come sulle conseguenze: soprattutto si può dubitare di una ricostruzione che lo vuole collegato solagli esiti del maxi-processo e al mancato intervento del politico palermitano in favore dei boss alla sbarra. Una ricostruzione quantomeno incompleta, se non a tratti surreale, considerando che Andreotti da Presidente del Consiglio uscente aveva permesso il regolare svolgimento dello stesso processo, estendendo la già ricordata durata della custodia cautelare in carcere. Come avrebbe potuto Lima interferire con la Corte di Cassazione per salvare imputati di elevatissimo spessore criminale è destinato a rimanere un mistero.

Sin dalle ore successive all’omicidio si adombrarono ipotesi sul ruolo effettivo di Cosa Nostra nel delitto, concepito e attuato con tempistiche estranee anche al terrorismo politico. Quello che è certo ad oggi è l’impatto che ebbe, insieme alla strage di Capaci, sul futuro politico del Presidente del Consiglio, un effetto ben più distruttivo degli avvisi di garanzia per concorso esterno.

Ostacolato nella difficile ascesa al Quirinale, Andreotti uscì di scena dopo l’elezione di Scalfaro con il marchio delle connivenze con la criminalità organizzata affibbiatogli dalla Procura di Palermo e, pur rimanendo indenne da Mani Pulite, fu per un decennio al centro di processi sui fatti più disparati, nessuno dei quali ne accertò la colpevolezza con una sentenza di condanna definitiva. Uscito di scena Andreotti, se non addirittura liquidato, un intero universo politico nazionale (dalla sua corrente “primavera” ad una parte degli apparati dello Stato) e internazionale (tradizionalmente filoarabo ed europeista) abbia perso rapidamente importanza e, spogliato dell’autorevolezza del suo fondatore, sia appassito nel giro di pochi mesi.

Le conseguenze distruttive dell’omicidio di Lima vennero intuite in parte dal Ministro dell’Interno Scotti, protagonista pochi giorni dopo insieme a Vincenzo Parisi dell’emanazione di una circolare su un imminente situazione di pericolo per la stabilità democratica. L’allerta segnalava alle prefetture “un imminente piano di destabilizzazione di Cosa nostra nei confronti dello Stato” e preannunciava l’omicidio o il sequestro di numerosi esponenti politici, in maggioranza della Democrazia Cristiana durante l’estate del 1992. Peculiarità dell’allarme fu l’ipotesi di un coinvolgimento esterno, anche ai confini Italiani, nelle interferenze con l’ordine pubblico, che il Sisde collegò subito al processo elettorale in corso.

La storia di quei giorni mostrò come la classe politica sminuì o ignorò il pericolo, arrivando a definire la circolare con l’eufemismo di “patacca”. Andreotti, che avrebbe potuto avvantaggiarsene nel dopo Lima, non lo fece e fu solo il Presidente del Senato Spadolini, a dare un’interpretazione politica alla minaccia, con un accorato appello all’unità delle forze politiche per salvare lo Stato in “crisi di sovranità”. Sino a che punto Palazzo Chigi fosse invece consapevole dell’accelerazione impressa da quel particolare omicidio forse non si saprà mai, il Presidente del Consiglio non reagì in alcun modo, quasi a voler certificare un’inerzia politica da eccesso di sicurezza. Al contrario, la campagna elettorale proseguì in un crescendo di tensioni e accuse incrociate sui rapporti con la criminalità organizzata, senza che né il Governo (non ancora dimissionario) né gli apparati avvertissero la necessità di prendere le contromisure richieste dal progressivo deteriorarsi dell’ordine pubblico.

Le urne del 5 e 6 aprile, pur fornendo risultati in apparenza prevedibili, erano ben lontane da rappresentare una debacle completa per i partiti tradizionali, tale da inficiare la governabilità del paese. La Democrazia Cristiana crollò sotto la soglia psicologica del 30% e il PSI subì un’erosione, il successo della Lega Nord fu sopra le aspettative mentre gli altri partiti “anti sistema” persero la consistenza elettorale che gli veniva attribuita dal circo mediatico. Il quadripartito aveva dunque la maggioranza per formare un esecutivo, anche senza i Repubblicani di La Malfa e non a torto la partita del futuro premier era considerata aperta e incasellata con quella del Quirinale.

Anche le elezioni del Presidente della Repubblica si svolsero in anticipo di qualche mese, per le celebri dimissioni annunciate in televisione da Francesco Cossiga. Quando il Parlamento si riunì in seduta comune, in Italia vigeva una sorta di “vuoto istituzionale” quasi inedito: un governo in parte delegittimato dal voto è in carica per gli affari correnti, il Quirinale infatti non ha affidato ancora l’incarico per il nuovo esecutivo, coerentemente con la volontà di Cossiga di giungere anzitempo alla scelta del suo successore, su cui sarebbe ricaduto l’onere di ricomporre la maggioranza. La strage di Capaci giunse quindi a coronamento di un lungo periodo di logoramento istituzionale, acuito nelle ultime settimane dalla contemporanea assenza delle massime cariche dello Stato, che priva l’Italia di un Governo nel pieno delle sue funzioni.

Nel mezzo delle votazioni, l’attentato al giudice Falcone colpisce i vertici dello Stato come l’assalto ad una fortezza lasciata sguarnita. Se il rapimento Moro si consuma alla viglia del dibattito sulla fiducia al quarto esecutivo guidato da Andreotti e genera immediatamente un’altissima coesione tra i partiti, Capaci giunse nel momento di massima debolezza della politica, che si trovava priva per una serie di coincidenze e scelte sbagliate degli strumenti per reagire alla minaccia stragista. La carica destabilizzante della strage sta proprio nel sottolineare il sentimento di impotenza percepito dall’opinione pubblica, mentre l’integrità dello Stato veniva violata, con estrema facilità e in modo pressoché indisturbato. L’elezione di Scalfaro al Colle, se inquadrata nell’ottica della soluzione istituzionale fotografa il primo, grande momento di smarrimento dei partiti, prodromico e non sovrapponibile all’azione di mani pulite. Le successive inchieste della Procura di Milano troveranno terreno fertile in una politica sfilacciata e disorientata che incasserà l’ennesimo colpo in pochi mesi, andando inesorabilmente a tappeto.

Per una prima ma decisiva risposta allo stragismo mafioso, bisognerà aspettare il giugno del 1992, con il governo Andreotti ancora dimissionario che emana l’ennesimo decreto legge per facilitare l’applicazione del 41bis, sino ad allora sottoposto ai rigidi limiti della Legge Gozzini.

Con l’incarico a Giuliano Amato cessa nello stesso mese il picco di instabilità protrattosi da aprile, ma non la violenza che ha insanguinato l’Italia sino al 1993.

L’omicidio di Salvo Lima e la successiva escalation di Capaci, evidenziano la grande facilità con cui organizzazioni criminali hanno interferito con i processi democratici, destabilizzando le istituzioni e contribuendo ad innescare un ricambio forzato della classe dirigente, che non è sempre sfociato nel suo miglioramento. L’eccessiva sicurezza della politica, figlia di uno scenario geopolitico ormai mutato, ha giocato un ruolo decisivo nella mancata adozione di quelle cautele che avrebbero potuto invertire il corso degli eventi. Gli apparati di sicurezza, memori dell’esperienza degli anni di piombo, erano perfettamente in grado di fronteggiare minacce “ibride” e non ebbero difficoltà a circoscrivere il pericolo incombente.

L’attualità di Capaci e dei primi sei mesi del 1992 evidenzia come, trent’anni dopo, l’eccessivo immobilismo, unito alla “presunzione” sull’immutabilità dei ruoli, possano rivelarsi deleteri contro minacce dinamiche come quella di una criminalità organizzata “multiforme”. Interpretare le complessità di un periodo storico così intenso e drammatico può portare facilmente ad elaborare congetture di vario genere, ma queste riguarderanno inesorabilmente tragici eventi già accaduti. Al contrario, la salus rei publicae si realizza solo nella consapevolezza delle capacità dello Stato e della sua classe dirigente di identificare per tempo le azioni asimmetriche, siano esse indipendenti tra loro o parte della stessa trama, offrendo soluzioni in grado prevenire e neutralizzare i pericoli che minacciano le istituzioni democratiche.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo