Sicurezza e Mediterraneo, una questione cruciale

Le conclusioni del Forum di Roma

L’intensa due giorni di lavori (Roma, 11- 13 ottobre) con la partecipazione di autorevoli studiosi e parlamentari d’oltre oceano, europei , medio-orientali e africani ha fornito ulteriore conferma della proficua collaborazione in atto ormai da quasi due anni tra la nostra Fondazione, l’“International Repubblican Institute “( prestigiosa “think -tank“ statunitense vicina ma non organica al Partito Repubblicano) e il Comitato Atlantico italiano.

Si è trattato infatti del sesto Forum congiuntamente organizzato dalle tre fondazioni a poco più di un anno dal primo, su Europa e relazioni transatlantiche dopo la pandemia e il ritiro americano dall’Afghanistan, svoltosi lo scorso anno in non casuale coincidenza col ventesimo anniversario dell’11 settembre. L’evento, iniziato con una sessione aperta al pubblico nella mattinata del 12 ottobre per poi proseguire a porte chiuse, ha preso avvio con interventi del responsabile del Dipartimento per le Relazioni Transatlantiche dell’IRI, Ian Surotchak giunto espressamente da Washington, dell’Incaricato d’affari americano presso il polo onusiano romano Rodney M. Hunter e del Presidente della nostra Fondazione,  Adolfo Urso.

Al centro delle discussioni le ricadute sull’area EMEA (Europa, Mediterraneo e Africa) dell’aggressione russa all’Ucraina analizzate nelle loro diverse dimensioni: da quella della sicurezza alimentare, a quella energetica, fino a quella migratoria. Il tutto nel segno di una ribadita comune fedeltà ai valori dell’atlantismo che ha costituito il filo conduttore di tutti i Forum sinora realizzati in partenariato dai tre organismi.

Il forte apprezzamento americano per la salda e inequivoca collocazione di Farefuturo è stato manifestato a chiare lettere dal direttore Surotchak nel suo saluto a nome dei vertici dell’IRI.

Il senatore Urso si è soffermato su tre aspetti qualificanti: 1) la sfida lanciata alle nostre democrazie nei più diversi scacchieri dalle potenze autocratiche, come la Repubblica Popolare cinese e la Russia di Putin; 2) la necessità di una risposta ferma e congiunta da parte dell’Occidente, in uno spirito di forte solidarietà e coordinamento euro-atlantico; 3) il rilievo crescente che la regione mediterranea, così come quella centro/nord africana, sta rivestendo ( e appare destinata ancora a lungo a rivestire) in tale confronto di civiltà e per il controllo delle fonti energetiche e delle materie prime, a cominciare dalle terre rare cruciali per la competitività dei nostri sistemi industriali.

Urso ha sottolineato anche come il ricatto energetico e quello alimentare esercitato dalla Russia ai danni dell’Occidente (e dell’Europa e Africa in particolare) non rappresentino che altrettanti tasselli della guerra ibrida portata avanti nei nostri confronti da Mosca ( e Pechino) anche attraverso articolate campagne di disinformazione, sia in Europa sia nel continente africano; campagne alle quali è doveroso rispondere avvalendosi di ogni appropriato strumento, anche sul terreno della contro-narrativa.

Dobbiamo pertanto investire, ha proseguito il Presidente Urso, sia in Africa sia nella sponda sud del Mediterraneo in uno spirito di “autentico partenariato” con i paesi dell’area anche sul fondamentale versante della sicurezza alimentare. Se investiremo in questo senso, ha proseguito, sconfiggeremo anche l’altra minaccia: quella delle migrazioni incontrollate. Migrazioni, ha rilevato, che creano un serio problema anche nei paesi africani, che perdono così le loro intelligenze migliori. Per tale motivo è indispensabile, ha voluto sottolineare, sviluppare d’ora in poi una “grande politica Italiana, europea e occidentale nel Mediterraneo allargato e nel continente africano”. Perché quella parte del mondo potrà raggiungere un vero benessere, fondamentale anche ai fini del contrasto al terrorismo di matrice islamista, solo in stretto raccordo con l’Occidente ciò di cui anche da parte americana, ha concluso, si è sempre più consapevoli.

Spunti di interesse sono emersi anche dalle successive sessioni a porte chiuse. Con riferimento ad esempio, nel caso della sicurezza alimentare, alla necessità per l’Occidente di adottare ai fini dell’assistenza ai paesi più fragili del continente africano un approccio multisettoriale. Essendo chiaro che la sicurezza alimentare, l’accesso a condizioni sostenibili alle fonti di energia, la salute e la governance sono dimensioni strettamente interconnesse, cosicché quando anche solo una delle stesse viene a essere fragilizzata ne derivano onde di shock su tutte le altre.

In sostanza, e per concludere, il Forum ha offerto eloquente riprova del ruolo di primo piano che la nostra Fondazione si è ritagliata, per molti versi un “unicum”, nel corso dei due ultimi anni, in Italia e non solo: quale prioritario punto di riferimento per tutti gli ambienti e organismi che abbiano a cuore, da un lato, le sorti dell’ Occidente nel confronto con gli stati autocratici; e, dall’altro , la volontà di fornire risposte concrete e credibili alle criticità che in tante aree del mondo portano acqua al mulino dell’estremismo e dell’instabilità.

*Gabriele Checchia, responsabile per le Relazioni internazionali della Fondazione Farefuturo

PROGRAMMA

The new frontline. Disegnare il futuro.

Art. La Verità

Art. La Stampa

Art. Graziosi

Giovani e lavoro

Uno studio svolto appena qualche mese fa dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro riguardo il tasso di occupazione dei giovani nel mondo del lavoro ha fatto emergere che l’ Italia risulta essere la nazione con la più bassa percentuale di occupati al disotto dei 40 anni (esattamente il 32% contro la media del 41% in Europa).

Questa generazione di giovani  chiamati pandemials sono coloro i quali  hanno vissuto due crisi sociali (la crisi finanziaria iniziata nel 2008 e la pandemia del Covid 19)  che hanno inciso profondamente nelle loro aspettative di vita, tutto ciò ha pregiudicato inevitabilmente

l’accesso nel mondo del lavoro. Inoltre l’Italia ha registrato nel 2016  con il suo 21,4 % il tasso più alto dei NEET, nella fascia di età compresa tra i15 e i 24 anni rispetto ai paesi appartenenti all’Unione Europea la cui incidenza media si aggira intorno al 12% e cioè quei giovani che non studiano, non lavorano e non svolgono alcun tipo di formazione professionale perchè sfiduciati da quelle che possano essere le prospettive di inserimento nel mercato del lavoro. I giovani NEET tra i 15 e 29 anni sono passati dal 22,1% del 2019 al 23,3% nel 2020 . Tutto ciò ha determinato inevitabilmente fenoeni di frustazione ed isoltamento sociale.

Altro dato negativo è rappresentato dalle statistiche demografiche, piuttosto ridotte negli ultimi due anni ad opera soprattutto della pandemia. La mancanza di prospettive concrete lavorative è uno degli aspetti fondamentali che limitano le nuove generazioni a formare una famiglia.

Nel 2021 nel  settore industriale e dei servizi il numero dei posti  di lavoro per cui non è stata trovata forza lavoro adeguatamente formata è stato di oltre 230.000 unità. Questo dato è piuttosto emblematico perchè ci fa compredere che l’offerta di lavoro è presente nel nostro Paese, ma la forza lavoro esistente spesso non è dotata della giusta formazione professionale per ricoprie i profili lavorativi richiesti.

In Italia c’e’  una scarsa offerta di formazione tecnica non adeguata con quelli che sono gli standar richiesti dalle aziende  rispetto al resto d’Europa.  Nel territorio nazionale il numero degli istituti tecnici superiori conta poco più di 18mila studenti ogni anno. Il PNRR dovrebbe contribuire a migliorare la qualità della formazione ed incrementare il numero degli iscritti migliorando l’offerta formativa degli istituti , dotando queste scuole ad indirizzo tecnico e le istituzioni universitare tecnico scientifiche di tutti quegli strumenti necessari atti a creare figure idonee a soddisfare le richiete  aziendali. I tecnici informatici , delle telecomunicazioni e gli  operai specializzati sono considerate ad oggi figure professionali difficili da reperire.

I principali strumenti  attraverso i quali i giovani entrano nel mondo del lavoro al termine di un percorso di studi sono i tirocini ed i contratti di apprendistato.

I contratti di apprendistato attivati nel 2021 in Italia sono stati 370 mila . Questo è un dato piuttosto basso rispetto al totale della tipologie contrattuali di avviamento al lavoro. Se consideriamo che a partire dalla metà degli anni 80 ad oggi gli interventi su questa disciplina contrattuale sono stati diversi e l’ultimo è stato attraverso il d.lgs 15 giugno 2015 n. 81 che ha ridisegnato la disciplina normativa del Testo Unico del 2011 (d.lgs. 14 settembre 2011, n.167) . Attraverso questa ultima riforma le competenze regionali in materia di conratto di apprendistato sono riemerse in maniera considerevole e se da un lato questo è un aspetto positivo perchè responsabilizza le regioni attraverso percorsi formativi adeguati in stretta sinergia con le realta industriali del territorio (questo è quanto si verifica nel nord est esempio in Lombardia, Trentino Alto Adige,Veneto Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia)  dall’altro crea una “regionalizzazione deleteria” nelle aree più depresse della penisola italiana, e cioè nel centro sud  in cui l’esiguità delle risorse a disposizione già in gran parte assorbite dalla spesa sanitaria, oltre che la quasi totale  assenza di uno spirito cooperativistico tra le principali istituzioni locali  non consentono adeguate misure di investimento formativo vanificando lo spirito normativo che il contratto di apprendistato si prefige di conseguire.

Per questo occorre “snellire” l’ampio dedalo di norme fatte di regolamenti regionali, richiami normativi, rinvii alla contrattazione collettiva che rischiano di rendere farragginosa l’applicazione delle diverse tipologie del contratto di apprendistato che non assolve più  alla sua funzione primaria di formazione e ingresso nel mondo del lavoro delle giovani generazioni.

Inoltre se consideriamo che molte risorse sono impiegate a garantire  il reddito di cittadinanza che al contrario potrebbero essere destinate attraverso “precise regole di ingaggio” alle aziende per investire nella formazione avremmo sicuramente più benefici  che piuttosto un improduttivo assistenzialismo.

Altra considerazione riguarda i tirocini, spesso poco considerati , che rappresentano forse il primissimo ingresso reale nel mondo del lavoro al termine di un percorso di studi, e che ancora oggi meritano  una migliore regolamentazione. La Direzione Centrale del Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha emanato una nota a fine marzo u.s. in cui vengono enunciati dei chiarimenti in merito alle disposizioni introdotte dalla l. 234/2021 già vigenti, in riferimento all’erogazione delle indennità, al ricorso fraudolento del tirocinio con lo scopo di eludere reali rapporti contrattuali di lavoro ed infine agli obblighi della sicurezza del lavoratore.

Le aspettative per il futuro non sono delle migliori, gli effetti del conflitto russo ucraino, l’inflazione in continuo aumento e la contrazione della crescita rischiano di accentuare una profonda conflittualità sociale . Per questo le scelte programmatiche in materia di politiche attive del lavoro compiute attraverso i fondi del PNRR dovranno avere una visione prospettica d’insieme e riallacciare compiutamente il mondo dell’impresa alle  giovani generazioni.

*Roberto Aprile, dipendente P.A.

 

L’industria dei cavi sottomarini e gli interessi strategici del Paese

Intervento introduttivo del presidente Adolfo Urso al seminario  della Fondazione Astrid su “Industria dei cavi sottomarini: tendenze di mercato e geopolitica”

 

Colgo in apertura l’occasione per ringraziare Astrid e Franco Bassanini per la possibilità di continuare ad imparare in seminari come questo odierno, perché credo fortemente sia fondamentale per me, ed in generale per la classe dirigente di questo Paese, non smettere mai di apprendere su temi strategici e prioritari di cui è necessario avere approfondita conoscenza se si vuole agire, in tempi rapidi, in un mondo in cui assistiamo a continue accelerazioni nello sviluppo dei principali settori economici e tecnologici. Quindi, cercherò in particolare di ascoltare i vari interventi, che saranno molto utili, così come sono stati già molto utili incontri passati che ho avuto con alcuni di voi per continuare ad apprendere su questa materia.

Si tratta di questioni fondamentali nell’ambito del ruolo di Presidente che svolgo presso il “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” (Copasir), soprattutto per allargare anche la prospettiva con cui in quella sede affrontiamo le tematiche della sicurezza nazionale. Il Copasir, infatti, non si occupa soltanto di intelligence, come accadeva in passato, e la stessa denominazione “Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica” indica l’ampio perimetro della politica della sicurezza nazionale nei suoi vari aspetti, anche quelli riguardanti l’industria e la tecnologia del Paese.

Nell’ambito del mio lavoro di parlamentare, tra l’altro, ho presentato in Parlamento una mozione che riguarda proprio la politica italiana sui cavi sottomarini. Una mozione

parlamentare che non è stata né esaminata né discussa dal Parlamento, presentata oltre un anno fa, e che affrontava i temi complessi di cui discutiamo oggi.

È di assoluta importanza sottolineare che noi abbiamo un’industria ed una tecnologia da tutelare e da rafforzare nel campo dei cavi sottomarini. Non siamo infatti secondi a nessuna altra realtà internazionale, e possiamo svolgere un ruolo importante e significativo sotto i diversi aspetti che riguardano, ad esempio, le tendenze di mercato.

Ritengo su questo punto molto significativo il documento che avete presentato, in particolare per come riassume le modalità con cui si è sviluppato il mercato dei cavi sottomarini, come ha avuto un’accelerazione e quali sono i soggetti privati e pubblici, imprese e Stati, che intervengono e che comportano quindi considerazioni di natura geopolitica.

Per quanto riguarda il Copasir, la parte geopolitica di maggiore interesse è ovviamente la parte della sicurezza, tenendo però ben presente che le ricadute nel sistema industriale sono altrettanto significative: se infatti l’Italia perde eccessivo terreno nel campo della tecnologia e dello sviluppo industriale, utilizzare tecnologie altrui ci renderebbe sempre più dipendenti ed – in alcuni casi – soggetti a rischi che riguardano la nostra sicurezza nazionale. Questo vale nel settore di cui stiamo discutendo oggi, come sul terreno più ampio della transizione digitale e della transizione ecologica.

Se, lungo il percorso di queste due transizioni, l’Italia diventa Paese meramente utilizzatore di tecnologia altrui, aumenta in maniera esponenziale la dipendenza da altri paesi, con le conseguenze che tutti conosciamo. In particolare, si tratta della sicurezza nazionale, la quale ruota intorno all’informazione e ai dati che passano attraverso i cavi sottomarini, come è evidenziato sempre nella nota che avete condiviso in preparazione del seminario, ma anche della capacità di sviluppo dell’industria e dell’economia e quindi del lavoro italiano.

Il rischio che davvero corriamo, in riferimento anche all’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), e di tutto quello che ne deve conseguire in termini di investimenti, è che l’industria ed i prodotti italiani – alla fine – non siano protagonisti

nei settori tecnologici di punta, non siano quindi attori protagonisti delle due transizioni – digitale ed ecologica – verso un’era moderna, verso un nuovo modello di sviluppo.

Parlando più specificatamente dei cavi sottomarini, è importante l’esempio degli hub del gas. L’Italia, infatti, è un hub europeo di gas coi suoi gasdotti, e questo è un elemento di forza del sistema, poiché ad esempio alla luce dei recenti rincari dei prezzi, consente all’Italia di essere abbastanza garantita, se non altro sotto l’aspetto dell’approvvigionamento. Non ovviamente dal lato dei prezzi, poiché su questo aspetto incidono altri fattori legati al settore energetico. L’Italia può però diventare un hub importante anche per quanto riguarda il sistema dei cavi sottomarini e dei cavi terrestri.

In una interrogazione che presentai in Parlamento, prima di divenire Vice Presidente e poi Presidente del Copasir, posi la questione della necessità di una strategia italiana in materia di industria dei cavi, contemplando l’utilizzo dello strumento del golden power nel caso dell’azienda Interoute, una multinazionale europea che possedeva il più esteso backbone in fibra ottica presente sul continente europeo, frutto del lavoro delle imprese italiane, che avrebbe potuto essere recuperato al sistema Italia se il governo avesse attuato la stessa strategia che aveva attuato in passato. Lo strumento della golden power sarebbe infatti determinante per recuperare a sistema anche un’importante dorsale di telecomunicazione, di trasmissione di informazione europea.

Reputo pertanto che manchi all’Italia un “progetto Paese”, in cui lo Stato sappia difendere i propri interessi in settori strategici, in particolare in quelli innovativi dal punto di vista tecnologico. Recentemente, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato, molto correttamente, che lo Stato, nella frontiera tecnologica, deve essere presente. Le sue parole erano riferite alla frontiera tecnologica del digitale, nel campo della green economy e del settore energetico.

Nei settori di frontiera tecnologica, lo Stato deve svolgere un ruolo attivo, come viene svolto ad esempio dalla Repubblica Popolare Cinese o dagli Stati Uniti, secondo un modello di “capitalismo di Stato”. Un esempio è come gli Stati Uniti si stanno muovendo nel settore dello spazio, tema a cui ci stiamo interessando molto anche noi.

Sarebbe pertanto utile che il nostro Paese si dotasse finalmente di una strategia anche nella politica riguardante i cavi sottomarini. Una strategia necessaria perché, come è stato giustamente sottolineato nella nota introduttiva al seminario, ben il 99% delle informazioni e dei dati globali passano attraverso questa infrastruttura. Peraltro, diventa ancor più fondamentale svolgere un ruolo importante in questo settore, in un momento storico in cui connettere le varie aree geografiche è fattore determinante per il modello economico dominante.

In questo contesto, ci auguriamo inoltre che la strategia di cui si deve dotare l’Italia – ma anche l’Europa – consenta al Mediterraneo di svolgere un ruolo importante nel connettere l’area atlantica con l’area del Pacifico, il continente americano e quello europeo e, queste due ultime aree, con le zone in forte sviluppo dell’Africa e dell’Asia.

Il Mediterraneo rappresenta infatti il centro strategico che può connettere tutte queste realtà, uno snodo fondamentale che sarebbe auspicabile, tramite ad esempio gli hub di Palermo o Genova e non solo di Marsiglia, potesse svolgere un ruolo da protagonista nell’ambito dello scambio e della trasmissione di dati e informazioni a livello globale.

La competizione è molto forte anche sulla scelta delle aree dove i cavi sottomarini si ricollegano a quelli terrestri; per questo è importante avere una posizione dell’Italia decisa e in grado di favorire i propri hub e quindi di creare una dorsale italiana strategica a livello internazionale. È necessario quindi porre grande attenzione che le nuove infrastrutture di cavi sottomarini che stanno nascendo e nasceranno nel Mediterraneo non “saltino” i nostri hub, in favore di hub tedeschi (Francoforte) o francesi (Marsiglia), favorendo quindi le economie e gli interessi di altri paesi a discapito dei nostri.

In conclusione, l’Italia deve recuperare al più presto il terreno perso in questo settore strategico anche a causa, e lo dico senza intenti polemici, di alcune privatizzazioni di grandi imprese nazionali che hanno di fatto impedito all’Italia di avere un ruolo importante nella costruzione delle infrastrutture dei cavi sottomarini. Motivo per cui, ad esempio, per altre grandi imprese italiane come Enel ed Eni, fu scelto un modello

diverso, che ha oggettivamente funzionato, in cui il ruolo del pubblico rimaneva centrale. Per altre aziende, come ad esempio Telecom Italia, purtroppo furono fatte scelte diverse: meno di tre decenni fa Telecom Italia era una delle più grandi aziende di telecomunicazione globali ed oggi abbiamo quel che il mercato ci ha riservato.

Si tratta purtroppo di errori del passato che hanno conseguenze importanti sul presente. Nell’ambito del settore di cui discutiamo oggi, quello dell’informazione e dei dati, della loro trasmissione, circa trent’anni fa furono fatte scelte sbagliate, non considerandolo strategico al pari di quello dell’energia, del gas o del petrolio. Non si è avuta la capacità di comprendere che invece si trattava di settori probabilmente ancor più strategici di quelli citati, che – se affrontati con politiche economiche e industriali adeguate – oggi non ci avrebbero posto nella condizione di dover gestire e superare le enormi difficoltà con cui invece dobbiamo confrontarci.

È importante però recuperare il tempo perso e rimediare agli errori fatti in passato, poiché è ancora possibile ritagliarsi un ruolo importante a livello internazionale, applicando un’unica logica in quello che è lo sviluppo del sistema digitale in questo Paese. Lo Stato può avere una sua strategia che può poi declinarsi di volta in volta secondo strumenti diversi: ad esempio, tramite la golden power per difendere i propri interessi nazionali, o tramite la Cassa Depositi e Prestiti, per intervenire in maniera attiva in alcuni settori strategici, o infine attraverso la politica regolamentare.

A monte di tutto ciò, è però decisivo che lo Stato si doti di una strategia ben precisa ed organica, in grado di fare dell’Italia una piattaforma digitale e di connettività tra contenimenti nel Mediterraneo e in Europa. Per questo, è necessario che anche le aziende svolgano un ruolo attivo e centrale nel settore dei cavi sottomarini, ragionando e operando in una logica di sistema. Soltanto ragionando in questi termini, si può giungere ad accordi internazionali che tutelino gli interessi italiani ed europei. Il nostro Paese, ovviamente, non può aderire direttamente a consorzi internazionali, né è dotato di imprese in grado di fare da sole quello che sono in grado di fare le grandi Big Tech americane o cinesi, ma può mettere in campo una strategia di sistema Italia, in cui le

nostre imprese sono incentivate ad aderire a consorzi di imprese internazionali, delineando un piano nazionale che renda la nostra penisola una piattaforma strategica, interconnessa con cavi sottomarini al resto d’Europa e, attraverso l’Europa, all’Atlantico, interconnessa nel Mediterraneo con i paesi africani. In particolare, l’Italia deve mirare a rappresentare un hub centrale tra i paesi della sponda sud del Mediterraneo, che dovranno interconnettersi con la piattaforma europea, e quei paesi che vorranno connettersi con i paesi asiatici, dove nei prossimi anni, è prevista la maggiore produzione di informazione.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Europa resta il continente che produce la maggior quantità di dati ed informazioni, e di conseguenza non dobbiamo dimenticare quanto sia importante preservare questi dati e queste informazioni. Questi elementi, infatti, oggi rappresentano il campo da gioco dove si svolge la partita della geopolitica, ed è estremamente importante per l’Italia svolgere un ruolo centrale. Dotarsi di una gestione strategica dei dati oggi consente, da una parte, di garantirsi maggiore sicurezza nazionale, e, dall’altra parte, di sviluppare i settori dell’industria, della ricerca della tecnologia, incentivando e attraendo investimenti internazionali.

Credo quindi che il seminario che Astrid ha organizzato oggi sia molto importante anche per lanciare un messaggio alle istituzioni, che devono rendersi conto della grande velocità con cui certe dinamiche si stanno sviluppando, anche a seguito della recente pandemia e del lockdown a cui siamo stati costretti. Abbiamo infatti scoperto tutti quanto sia importante il lavoro a distanza, e quanto sia importante la rete Internet. L’uso della rete ha raggiunto livelli incredibili, rendendoci consapevoli sia degli aspetti positivi, sia di quelli negativi in termini di sicurezza e vulnerabilità (ad esempio in ambito sanitario).

Ci rendiamo quindi conto, e mi rivolgo in particolare all’amico Bassanini, quanto sia importante creare una rete in Italia che giunga all’ultimo miglio nel più breve tempo possibile. Se non abbiamo una rete italiana di banda ultra larga, se non abbiamo un Cloud nazionale della pubblica amministrazione che preservi i nostri dati, se non

abbiamo investimenti significativi, una connessione di cavi marittimi e cavi terrestri per farci diventare piattaforma digitale europea nel Mediterraneo e quindi nel mondo, anche le risorse, il PNRR, subiranno una dispersione e andranno a beneficio di altri, non certamente a noi.

*Adolfo Urso, presidente Fondazione Farefuturo

 

La guerra in Ucraina e la reazione di UE e NATO

Farefuturo, International Republican Institute e Comitato Atlantico Italiano, hanno organizzato un importante convegno il 14 e 15 marzo u.s. su “La crisi ucraina: il ruolo
dell’Alleanza Atlantica e dell’Europa”.Nell’intervenire a nome del Comitato Globale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella, ho svolto alcune considerazioni che ho ulteriormente sviluppato in questo breve articolo per Charta Minuta.

L’imminente tragedia che un potere criminale di matrice nazi-comunista ha scatenato sull’Europa, colpendo l’eroica nazione Ucraina, il suo popolo, la sua identità pluralista e democratica, libera e solidale, deve essere riconosciuta, sentita da ogni europeo: non con giravolte facili e assicurazioni stucchevoli, ma deve essere dimostrata – tale consapevolezza – nei fatti, nei comportamenti, nel riconoscimento delle responsabilità. Anche per discutere di ricostruzione della pace e della sicurezza nel Mediterraneo, specialmente nel Mediterraneo Orientale, dobbiamo riconoscere – prima di avanzare proposte o sottoscrivere impegni – le responsabilità che hanno contribuito a scatenare la bestialità sanguinaria dei carnefici, e a impedire alle vittime di proteggersi e di essere protette.

Dobbiamo riconoscere le responsabilità; e queste sono di tutto l’Occidente: per non aver fermato Putin, con la politica di una vera deterrenza militare, economica, di influenza sino dal primo manifestarsi delle sue ossessioni sanguinarie nella Seconda guerra in Cecenia; e di non averlo mai voluto fare in seguito, nelle tappe di un crescendo sistematico da parte della Russia di Putin di “terra bruciata” in Georgia nel 2008, in Siria nel 2013, in Ucraina (Donbass e Crimea) nel 2014, ed ora nella completa distruzione di un immenso paese, ricchissimo di civiltà di umanità e di risorse.

Siamo, noi europei ed americani, responsabili come e forse più che nel ’38 a Monaco – e dico “che a Monaco” perché ora incombe persino la minaccia di un Olocausto nucleare che Putin brandisce – di una radicata propensione all’”appeasement” a tutti i costi, motivato dagli affari,dalla convenienza, dalla corruzione o semplicemente dalla colpevole ignoranza su quanto avvenuto sugli ultimi vent’anni tra Nato, UE, Russia e Cina.

Ma non basta certo nascondersi dietro a un gesto facile di generico senso di autocommiserazione tipica dell’”intellettualismo” anti-Atlantico purtroppo diffuso in Occidente, per non aver fatto capire come non sia assolutamente vero e si debba cessare di insistere che tutti i mali del mondo, le rivoluzioni totalitarie, gli spaventosi conflitti degli
ultimi due Secoli sono monopolio esclusivo delle Democrazie liberali dell’Occidente, ma piuttosto il netto contrario.

Discutere di pace e stabilità nel Mediterraneo significa ragionare su strategie politiche, economiche e militari, per ottenere equilibri durevoli ricostruendo capacità di una deterrenza credibile dell’Occidente – nel rispetto di norme e principi condivisi – nei confronti della Russia e della Cina, e di altre potenze regionali che sono peraltro sostenute da una visione fondamentalista e messianica nel loro ruolo, come l’Iran.
Occorre liberarsi da pregiudizi, basarsi sulla conoscenza di dati e di uomini, in modo da individuare e condividere i sacrifici da fare e le opportunità per far valere i nostri interessi nazionali. La catastrofe umanitaria, e persino identitaria – e quindi una strategia di genocidio – che il nazi-comunismo di cui è intrisa l’esperienza umana, professionale e ideologica di Putin ha imposto all’Ucraina, esige anzitutto di riconoscere che il prioritario interesse nazionale dell’Italia è di garantire la libertà e la sicurezza in Europa, nella Comunità Atlantica, nell’Indo-Pacifico. A tal fine l’obiettivo politico da perseguire riguarda l’impegno che va oltre la stessa deterrenza militare e si deve trasformare in “deterrenza politica”: attraverso il più fermo contrasto e la coesa risposta all’immenso apparato di disinformazione, di censura esportata, di pesantissima influenza che Putin ha infiltrato ovunque in Occidente, e che continua a infiltrare per incrinare la nostra volontà di risposta. Si tratta di far reagire non pochi settori dell’opinione pubblica, dell’informazione e della politica, che la Russia ha da molto tempo “coltivato” per trovare alleati all’interno delle società liberali. E lo ha fatto per
proseguire impunemente e continuare a trovare risorse – essendo la Russia un gigante militare ma un nano economico sulla soglia del fallimento – per raggiungere i suoi obiettivi criminali,e ora persino genocidari di eliminazione del popolo e dell’identità ucraina.

Nel 2013 l’attuale Capo di Stato Maggiore della Federazione Russa, lanciava la cosiddetta “dottrina Gerasimov” che sosteneva la priorità da riservare ai conflitti con l’Occidente ancor più che allo strumento militare, alla disinformazione, alla propaganda, alla infiltrazione degli strati influenti delle società liberali, per destabilizzarle dall’interno e poterle quindi agevolmente sottomettere. L’anno dopo, nel 2014, la disinformazione di Mosca in Occidentee in Ucraina, su Crimea e Donbass è stata centrale nell’offensiva russa che ha portato all’annessione della prima e a un conflitto con almeno diecimila vittime e già durato otto anni
in Donbass. Non ci vorrebbe certo altro per dimostrare che il primo strumento di difesa di cui disponiamo deve essere inflessibile e dura denuncia di tutti coloro che Putin l’hanno da sempre sostenuto e di quanti ora sostengono di fatto, esplicitamente o implicitamente, il “Patto d’Acciaio del XXI Secolo” tra Mosca e Pechino. La denuncia non può ignorare tutti quelli che avendo giustificato e propagandato velenosamente le sue buone ragioni di Putin persino dopo che i 180.000 militari russi erano già al confine ucraino per invadere il Paese, appaiono disposti, o interessati, a continuare a farlo, continuando ad applicare la “dottrina Gerasimov” per minare
le società liberali dall’interno. Persone, enti di ricerca, media, ambienti di “intellettuali” che magari ora restano zitti o fingono di essersi improvvisamente svegliati dinanzi al genocidio ucraino, ma che sono sempre pronti e disponibili – come numerosi tedeschi nella Germania Orientale che collaboravano con la Stasi – a ridare fiato ai loro megafoni appena i primi segni di stanchezza o di insofferenza verso il perdurare del conflitto, dovesse acuirsi in seno alla Nato e all’UE.

A tale mondo appartengono purtroppo enti di ricerca che, come durante la Guerra Fredda sceglievano il campo sovietico sotto la bandiera del “pacifismo” e del “neutralismo”, hanno continuato a tirare la volata alla propaganda del Cremlino quando già da almeno quattro mesi era dimostrato un gigantesco schieramento di forze russe sui confini ucraini. E’ il caso emerso, ad esempio, con la pubblicazione il 27 gennaio scorso su Charta Minuta dell’appello indirizzato ai Presidenti delle Istituzioni europee, dal think tank francese Geopragma con le tesi ben note della propaganda di Putin, circa le condizioni di una “pacificazione duratura”
nei rapporti tra USA, Nato e Russia. In particolare, si insisteva per il pieno riconoscimento del referendum in Crimea (anche se condannato dall’Onu) e quindi della appartenenza della Crimea allo Stato russo; il “reciproco abbandono di tutte le sanzioni politiche ed economiche” – incluse quelle per l’illegale annessione russa della Crimea, e per il conflitto in Donbass alimentato da Mosca – spingendosi a commentare, come tipico della propaganda russa “L’Occidente si riduce agli Stati Uniti, a un’Europa mentalmente e strategicamente vassalla, a una visione del mondo che da più di 30 anni stenta a metabolizzare le fine della Guerra Fredda”. Come ha scritto il 12 marzo scorso Atlantico ha sottolineato come il pensiero «…“meglio russi che morti” sia il succo del discorso di gran parte dei commentatori in queste settimane
di guerra Ucraina. Man mano che la guerra si prolunga, l’appello per la resa incondizionata degli ucraini si fa più forte e sentito, condito con discorsi terroristici su possibili escalation e guerre nucleari. Per alcuni il problema di questo conflitto è solo uno e si chiama: Zelensky, il Presidente ucraino il cui Paese è stato aggredito. La sua colpa? Resistere ai russi. Più resiste, dicono costoro, più sarà il responsabile delle vittime militari e civili del conflitto. Un pacifismo peloso, mascherato da umanitarismo, ma con la stessa logica dei Borg, razza aliena inventata dagli sceneggiatori di Star Trek: “Assimilatevi, la resistenza è inutile”. Questo pacifismo lo avevamo già visto in azione durante la Guerra Fredda, quando la sinistra di piazza e di opposizione chiedeva il disarmo unilaterale della Nato. Se i sovietici avessero invaso la Germania Ovest, avremmo dovuto accoglierli con i sorrisi e i fiori, se avessimo invece opposto resistenza sovietici avrebbe potuto innervosirsi. E sai, se una potenza nucleare si innervosisce…. La logica è esattamente la stessa: se i russi invadono l’Ucraina, i difensori devono accoglierli con tutti gli onori e guai agli europei se provano a protestare. La Nato non sta intervenendo, l’UE è neutrale, ci limitiamo a mandare armi leggere ed anche la fornitura di vecchi caccia sovietici dalla Polonia viene negata. Al massimo la risposta consiste in sanzioni economiche e una protesta politica all’Onu. Ma per alcuni commentatori, questa reazione pressoché nulla è già da considerarsi un atto di belligeranza. A loro avviso,
dovremmo solo voltarci dall’altra parte. E sorridere. Perché se non sorridiamo, i russi si innervosiscono.

E sai, se i russi si innervosiscono… hai capito, no?”…»

L’aggressione criminale della Russia a un grande popolo libero, che aveva riacquistato la libertà, nel cuore dell’Europa, è un drammatico spartiacque, come era stata la fine della Seconda Guerra Mondiale e la calata della “cortina di ferro”. Ora la cortina non è solo tra libertà e oppressione: è anche tra Diritto, legalità, rispetto dei Diritti umani e Stato di Diritto da un lato; e aggressione, genocidario uso della forza, radicalizzazione ideologica e disprezzo per ogni Trattato o Accordo sottoscritto.

Con l’Ucraina è calata una “cortina di aggressione”, contro l’Europa, nel Mediterraneo in Medio Oriente, sino all’Asia e al Pacifico. La Russia di Putin ne è la protagonista da
quattordici anni. La Cina di Xi Jinping, sua alleata, da dieci anni. Ma ora l’Occidente c’è; è coeso; sta rispondendo. La coesione e risposta devono rafforzarsi.
Spetta a noi. Nato, UE, Indo-Pacifico, Mediterraneo sono le aree geopolitiche dove l’Occidente e i paesi like mindend devono rafforzare la loro strategia, difendere puntualmente i loro interessi nazionali e collettivi, e soprattutto – rendere inoppugnabilmente credibile, e temibile la loro deterrenza: per capacità di “resilience” e di “risposta” economica, tecnologica, militare. In una parola deve accrescersi e mantenersi a livelli sempre più elevati la deterrenza complessiva dei loro sistemi nazionali e delle loro organizzazioni e Alleanze. Per l’Italia, questo significa alimentare la piena consapevolezza dell’opinione pubblica interna e della classe politica, su provenienza, natura, intensità della minaccia: dalla Russia, dalla Cina, e dai loro alleati altrettanto messianici e fondamentalisti come l’Iran.
Il Mediterraneo è il playfield fondamentale per la sicurezza italiana e un playfield essenziale per quella Atlantica. La deterrenza nel Mediterraneo ha acquisito un valore esponenzialmente accresciuto dopo la tragedia Ucraina: la Russia a Tartus e le sue altre basi in Siria; la Cina da Gibuti al Pireo, a Trieste; la Turchia e la Russia in Libia sino al Sahel; l’Alleanza di Russia e Cina con l’Iran anti-israeliano e antisemita; la Turchia a Cipro, in fase di nuova aggressione. Sono tutti termini scomponibili e ricomponibili in pericolose equazioni. Sovrasta su tutto la distruzione del popolo, dello Stato, della identità ucraina da parte di un Presidente criminale, Putin. Sovrastano le minacce sulla nostra sicurezza che sono poste dalle Vie della Seta: veri cavalli di Troia acclamati in Italia perfino da ex Presidenti del Consiglio e Ministri di Governo; ed ora diventate vere e proprie autostrade per il dominio strategico da parte dell’Asse neo-imperialista tra Cina e Russia.

Non vi è infatti una sola “Via della Seta”, terrestre, marittima, scientifica, tecnologica e Cyber che non rappresenti nella sua reale declinazione una “Via della Sottomissione” per i Paesi o i mari da essa attraversati.

Il “Patto di Acciaio del XXI Secolo” tra Putin e Xi, santificato il 4 febbraio scorso, sugella la minaccia militare, oltre che di influenza politica ed economica, delle già osannate “Vie della Seta” che il Governo italiano dell’epoca ha, per primo in Europa, sottoscritto entusiasticamente in occasione della visita di Stato di Xi Jinping a Roma.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore,  presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella presidente Global Committee for the Rule of Law-Marco Pannella

 

Il Copasir aveva denunciato l’aggressività della Russia

Pubblichiamo il testo dell’intervento del 1° marzo  del senatore Adolfo Urso in occasione del dibattito in Aula sulla posizione dell’Italia sulla guerra in Ucraina

Signor Presidente, intervengo per la prima volta in quest’Aula da quando sono stato eletto Presidente del Copasir, utilizzando il tempo che mi è stato concesso dal mio Gruppo per evidenziare innanzitutto proprio quanto il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica abbia fatto in questi mesi proprio sulle questioni che ora dovremo necessariamente affrontare, in un clima di emergenza sull’onda della guerra nella nostra Europa. Sarà poi il senatore La Russa, in sede dichiarazione di voto, a esporre la posizione del Gruppo.

In questi mesi, con gli altri colleghi del Copasir abbiamo svolto un’intensa attività, come prescrive la legge, in vincolo di segretezza, con indagini, audizioni e analisi di cui abbiamo dato conto in relazioni specifiche al Parlamento – queste sì – pubbliche. In esse abbiamo evidenziato, tra l’altro, con estrema chiarezza proprio la postura aggressiva della Russia, non solo in Ucraina e nell’Europa orientale, ma in ogni area di interesse strategico italiano ed europeo: dai Balcani al Caucaso, dal Mediterraneo al Sahel, secondo una strategia volta al mantenimento della supremazia energetica, al controllo delle materie prime, anche al fine di accerchiare la nostra Europa.

Avevamo segnalato anche cosa stava accadendo in Bielorussia con il referendum costituzionale; le nuove minacce che si alzano in Bosnia e in Kosovo; il rafforzamento del dispositivo militare russo in Siria; la presenza dei mercenari della Wagner in Libia e i golpe militari – sei – nel Sahel, alla frontiera del nostro Mediterraneo allargato, che spianano la strada proprio alla Wagner. Significative peraltro le manovre navali militari congiunte di Russia, Cina e Iran svoltesi in gennaio nel Golfo dell’Oman.

Avevamo anche indicato con chiarezza la necessità di predisporre una vera difesa europea, come ha indicato il Presidente del Consiglio oggi, complementare alla NATO, per aumentare la difesa dell’Alleanza atlantica nel nostro continente e nel Mediterraneo allargato. Tra breve consegneremo la relazione sullo spazio, come fattore geopolitico su cui proprio Italia, sesta potenza spaziale civile al mondo, può giocare un importante ruolo. Difesa e spazio saranno peraltro oggetto delle decisioni che l’Europa dovrà assumere in marzo con lo Strategic compass e il progetto di autonomia strategica spaziale, oggi più che mai necessario. Abbiamo però già evidenziato nella recente relazione annuale come appariva già del tutto inadeguato il progetto di difesa europea, che allo stato prevede una forza di intervento rapido di appena 5.000 militari, quando la sola Italia ha un dispositivo di 9.200 militari in missioni internazionali. Agli asseriti impegni declamati in conseguenza della sciagurata ritirata dall’Afghanistan non è infatti corrisposto un maggiore impiego di risorse; anzi, nel nuovo bilancio europeo le risorse destinate ai diversi progetti di difesa europea sono state di fatto dimezzate.

Ora appare chiaro a tutti che occorre cambiare, perché l’Europa è sotto minaccia e noi sapremo come fare. Proprio per questo il nostro primo pensiero oggi va alla resistenza ucraina, alle famiglie nei rifugi che sui social chiedono aiuto; alle ragazze che confezionano le bottiglie molotov; agli operai che scavano le trincee per rallentare l’avanzata dei carri armati.

Il nostro pensiero va ai giovani che imbracciano un fucile pur non avendo mai fatto il servizio militare, a chi rientra in patria per difendere le proprie famiglie e la propria terra, a un popolo eroico che ha scoperto di essere finalmente una vera Nazione senza distinzione di lingue e di religione, come mai nella propria martoriata storia.  Loro ci ricordano oggi, con il sacrificio della lotta, quali siano i nostri valori, risvegliando loro le nostre coscienze intorpidite. Putin ha fatto un azzardo che ha ottenuto l’effetto di sollevare l’opinione pubblica mondiale, unita come mai si era vista prima. Persino all’interno della stessa Russia c’è chi protesta rischiando il carcere e la repressione. Questa è la prima importante lezione, un monito per chiunque nel mondo pensi che anche la libertà abbia un prezzo, che sia misurabile in rubli, in dollari o in renminbi; un monito a chiunque nel mondo pensi che si possa togliere la libertà senza sollevare la reazione unanime di chi, come noi, crede e vive nella libertà.

La resistenza eroica degli ucraini segna una prima e un dopo nel conflitto globale tra le democrazie occidentali e i sistemi autoritari, un punto di svolta che sarà segnato nel calendario della storia. Quanto accaduto ci deve essere finalmente da lezione per affrontare tematiche che abbiamo da decenni accantonato, come se riguardassero altri, mentre riguardano noi e soprattutto i nostri figli che ne pagheranno il prezzo se non interveniamo subito.

Gli investimenti per la difesa sono certamente necessari, come ha appena fatto la Germania, ma lo sono anche gli investimenti in ricerca, tecnologia, formazione, nell’economia digitale e nell’intelligenza artificiale, nello spazio e nel cyber, per la sovranità energetica e la tutela degli asset strategici, senza cui nessuna autonomia e indipendenza si può più preservare.

Il Copasir ha presentato in questa legislatura sei relazioni tematiche e una relazione annuale in cui ha appunto affrontato ciò di cui oggi si discute. Cari colleghi, nessuna di queste relazioni è stata però ancora esaminata in modo compiuto dal Parlamento, anche se alcuni interventi importanti da noi indicati sono stati poi realizzati, dal sistema della golden power all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale che colma un ritardo decennale. Lo stesso destino nel vuoto hanno avuto le altre relazioni presentate nelle precedenti legislature, così come le relazioni annuali della Presidenza del Consiglio. Siamo stati troppo distratti sui temi della sicurezza nazionale, ora occorre prenderne atto. È necessario che si svolga presto una sessione del Parlamento, come abbiamo espressamente chiesto nel nostro documento inviato alle Camere prima che la situazione precipitasse.

Quanto sta accadendo ci fa capire infatti quanto importante sia la sicurezza della Repubblica e quanto ciò debba essere considerato in ogni decisione che prendiamo, anche quando affrontiamo i temi dell’energia o dell’economia digitale, della tecnologia, dell’intelligenza artificiale, dello spazio come dell’acciaio, degli asset infrastrutturali come delle filiere industriali, ben sapendo che i nostri avversari sistemici, cioè i sistemi autoritari, li utilizzano appieno nel loro confronto con le democrazie occidentali. Tutto questo fa parte di quello che viene chiamato guerra ibrida. A tal proposito, abbiamo evidenziato la necessità di disporre di un’intelligence economica al servizio del sistema Italia, che sia proattiva a tutela della scienza e della tecnologia e degli asset produttivi del Paese.

Sì, è vero, le sanzioni stanno producendo i loro effetti devastanti, ma occorre anche fermare le armi, rispondendo alle accorate richieste di aiuto di chi è minacciato nella vita e negli affetti, come stanno facendo persino Paesi che sono stati sempre storicamente neutrali come la Svizzera e la Svezia. Ora è il momento delle scelte di campo per tutti. Certo, anche noi pagheremo i costi delle sanzioni, soprattutto come conseguenza del prezzo dell’energia o – se permettete, cari colleghi – come conseguenza delle nostre scelte energetiche errate che ci hanno resi più vulnerabili di altri partner europei.

Proprio sulla sicurezza energetica abbiamo presentato in gennaio una relazione al Parlamento, in cui abbiamo evidenziato le criticità del sistema e le sue pericolose vulnerabilità, sia a fronte della necessaria transizione ecologica, sia a fronte dell’azione egemonica degli attori statuali. In quella relazione individuavamo già alcune soluzioni che in queste ore sono state oggetto della decretazione d’urgenza e concludevamo come fosse necessario realizzare un piano di sicurezza energetico che riducesse la dipendenza dall’estero e soprattutto dalla Russia, con l’obiettivo dell’indipendenza energetica e dell’autonomia produttiva e tecnologica, in collaborazione con i partner europei occidentali, anche in considerazione dei fattori e dei rischi geopolitici sempre più evidenti già allora.

Nella relazione annuale per la messa in sicurezza della rete cyber. Ieri peraltro l’Agenzia ha lanciato un allarme particolarmente significativo, anche perché la Russia è lo Stato meglio attrezzato al mondo per la guerra cibernetica. Per completare questa linea difensiva abbiamo richiamato la necessità di realizzare al più presto il cloud nazionale della pubblica amministrazione e la rete unica a controllo pubblico.

Cari colleghi, la Russia si è preparata da tempo al confronto con l’Occidente. Sono dieci anni che investe sulle due armi che possiede: le risorse energetiche e le forze armate. Punta al controllo delle materie prime e delle frontiere d’Europa, a sottomettere l’Ucraina oggi, per sottomettere domani le Repubbliche baltiche, la Georgia e la Moldova. Ora tutti sappiamo perché e dobbiamo elevare il livello di difesa, anche a fronte di un mondo in cui emergono altri attori altrettanto aggressivi, innanzitutto la Cina, primaria potenza tecnologica e produttiva, capace, essa sì davvero, di aspirare alla supremazia globale. Non possiamo fuggire dalla storia, però possiamo cambiarla. Con la risoluzione unitaria che voteremo oggi cominci davvero una nuova fase nella vita politica del Paese, che ci veda sempre uniti quando è in gioco la sicurezza della Repubblica e, con essa, i valori fondamentali della nostra civiltà.

*Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica

Le incertezze di una guerra alle porte dell’Europa

Il protrarsi delle ostilità in Ucraina da parte della Russia rappresenta oggi un evento singolare e di eccezionale gravità, quanto ad effetti sul piano economico e umanitario, destinato a mettere alla prova le previsioni formulate nei paesi occidentali sullo scoppio e l’andamento del conflitto. Ben prima che si materializzasse la decisione dell’uso della forza, una progressiva escalation politica e poi militare ha spinto i vari governi e le cancellerie, sino agli Stati Uniti, a concepire soluzioni in grado di sciogliere insieme alla Russia il nodo gordiano alla base del conflitto, che appare invece ancora più stretto dopo mesi di frustranti e infruttuose trattative. La crisi, che è ormai assurta alla dimensione di una guerra di aggressione condotta su più fronti ai danni dell’Ucraina, con l’esplicito obiettivo del suo annichilimento politico e territoriale, non figurava come una priorità nelle agende dei principali leader e ora sconta il vuoto di chi potrebbe quanto meno candidarsi a governarla. La decisione della Russia di raggiungere manu militari i propri obiettivi, con un impeto novecentesco, ha colto alla sprovvista chi prefigurava una sostanziale condizione pacifica dell’Europa, non più teatro di offensive su larga scala contro una nazione sovrana, ma anche chi all’opposto immaginava un’operazione tanto rapida quanto di successo per Mosca. Nessuna delle due previsioni si è avverata e oggi . È evidente che l’andamento del conflitto sin dalle prime ore ha tradito le aspettative di chi confidava in una facile vittoria, lasciano spazio ad una serie di valutazioni sulle conseguenze del protrarsi delle ostilità sul piano militare ed economico.

Se è vero che l’Ucraina ha scontato sin dalle prime ore una radicale asimmetria sul piano tattico, le forze armate Russe non sono state in grado di sfruttare la loro superiorità per una serie di fattori: in primis contrariamente alla narrazione diffusa l’esercito di Kiev non somiglia più ad una compagnia di sbandati, ricordo sbiadito del 2014. Dopo 8 anni di combattimenti nel Donbass e un piano di riarmo con il supporto dei paesi occidentali, l’Ucraina schiera delle truppe altamente motivate e ben equipaggiate, con una notevole esperienza bellica sostenuta in patria, sia in teatri urbani che in campo aperto, a cui si è aggiunto il prezioso contributo dell’addestramento americano in tecniche di combattimento in grado di ostacolare azioni offensive come quelle Russe. Gli ultimi mesi inoltre hanno visto un grande afflusso di aiuti militari, specialmente armi anticarro e antiaeree, che a fronte del costo relativamente esiguo sono in grado di infliggere perdite rilevanti e neutralizzare mezzi ben più dispendiosi e soprattutto difficilmente sostituibili ad un ritmo accettabile, se il conflitto dovesse perdurare per diverse settimane. L’esercito Russo al contrario oltre ad essere parso demotivato e smarrito, è sembrato incapace di sfruttare appieno le proprie dotazioni, finendo impantanato in clamorosi errori logistici ripetuti nel corso del tempo, che chiamano in causa l’intera catena di comando. Ci si potrebbe chiedere legittimamente come le decine di migliaia di coscritti inviati al fronte da Mosca dalla tundra siberiana possano prendere l’iniziativa, in una guerra che se è vero che è apparsa tanto insensata alle gerarchie Bielorusse da farle desistere dal partecipare alle operazioni, è altrettanto intuibile quanto possa interessare ai nativi dalle aree più remote del Paese. Meno inclini a fraternizzare con gli Ucraini con cui si scontrano per la prima volta, anche per differenze linguistiche ed etnoculturali, ma non per questo meno restii dei loro connazionali a combattere per conquistare Kiev, che dista pur sempre 5000 chilometri dalla Buriazia. Le débâcle dei primi giorni pongono la questione di quante siano effettivamente le truppe russe addestrate secondo i criteri dell’Alleanza Atlantica. Probabilmente meno di diecimila: un numero di gran lunga insufficiente per prevalere senza rinforzi, contro un nemico che padroneggia il terreno alla perfezione e che sembra disposto a resistere sino in fondo anche in contesti urbani.

L’impatto delle sanzioni economiche invece, è destinato a produrre i suoi effetti nel medio e lungo periodo, ma non è escluso che misure più radicali come una rimozione pressoché totale della Russia dal sistema di pagamenti SWIFT o l’embargo americano sugli idrocarburi, in particolare il petrolio, possano risultare insostenibili già nell’immediato. Decapitare un flusso di cassa di 800 milioni di dollari che giornalmente si riversano nell’erario di Mosca per garantire quel minimo livello di benessere accettabile dal popolo Russo, potrebbe avere contraccolpi altrettanto severi in Europa per la ormai arcinota dipendenza energetica, ma anche gli stessi Stati Uniti verrebbero investiti da una ulteriore fiammata inflazionistica “indotta” dalla crescita del prezzo dell’energia. Mosca potrebbe incorrere in una crisi del debito sovrano, come già accaduto in diverse circostanze ai tempi di Yeltsin, e potrebbe tentare di rimborsarlo in rubli anche in presenza di altri compratori dei suoi titoli di stato, come la Cina e in misura nettamente minore l’India. In assenza di altri paesi esportatori di greggio, l’Arabia Saudita (che sconta notevoli incomprensioni con la Casa Bianca) e l’OPEC rimangono maldisposte ad incrementare la produzione di petrolio e con il Venezuela e l’Iran ben lontani da un accordo politico maturo con gli USA, è facilmente intuibile le ripercussioni che una simile mossa avrebbe sulla ripresa post-covid e sulla tenuta sociale, che nelle democrazie occidentali è sicuramente più a rischio rispetto ad un paese autoritario come la Russia e di quest’ultimo particolare a Mosca sono ben consapevoli. È importante tenere a mente che il prezzo del petrolio si colloca intorno al 6% del PIL in Italia e la soglia della recessione si materializza al 7%, non è difficile intuire che ad Aprile la congiuntura diventerà negativa se il trend fosse confermato.

L’incognita rimane tuttavia comprendere come incideranno i due fattori, militare ed economico in rapporto all’arco di tempo di un conflitto che sembra voler durare abbastanza a lungo da dissanguare l’aggressore. Il supporto ancorché indiretto della NATO gioca un ruolo fondamentale nel contribuire ad infliggere notevoli perdite ai Russi, sia nelle divisioni corazzate che nelle forze aeree, così da distruggere le residue speranze di un blitzkrieg vittorioso. Una situazione di logoramento non potrà avvenire a queste condizioni, perché sarebbe per la Russia semplicemente insostenibile da un punto di vista economico sopportare intensità di un conflitto troppo alte per un paese che conta meno di un decimo della spesa militare degli Stati Uniti e poco più del Regno Unito, non potendo già adesso che impiega la quasi totalità degli effettivi nelle operazioni, rimpiazzare la totalità delle perdite senza sguarnire o depauperare le proprie forze armate al di fuori dell’Ucraina.

Uno stallo destinato a prolungarsi nei prossimi giorni che potrebbe aprire giocoforza lo spazio delle trattative, uno scenario ancora incerto con diversi attori che si affacciano con aspiranti ruoli di mediazione. In Europa Macron, Presidente di turno del Consiglio dell’UE, tiene i fili con il Cremlino forse per emulare il suo predecessore Sarkozy che dalla medesima posizione negoziò nel 2008 il cessate il fuoco in Georgia con Putin e Saakashvili. La Germania paga le consuete contraddizioni energetiche con la Russia, alimentate a vario titolo dagli ultimi cancellieri e si trova a dover prendere frettolosamente le distanze da un passato recentissimo. Se alcune voci autorevoli rimpiangono la leadership di Angela Merkel, ne dimenticano le sue responsabilità nel comportamento ambivalente che Berlino ha in un certo senso imposto all’Europa sulle forniture di gas naturale e nei tentennamenti mostrati davanti ad una crisi che dura ormai da 8 anni e che è parsa per tutto questo tempo una sorta di commedia degli equivoci, oscillante tra proclami internazionalisti e arrocchi mercantilisti. La Turchia gioca una sua partita autonoma dalla NATO, non applicando le sanzioni alla Russia con cui mantiene buoni rapporti, ma vendendo droni all’esercito Ucraino e ribadendo la propria primazia sugli stretti. Erdogan prova ad apparire come l’unico leader abbastanza equidistante da entrambi i contendenti sia da un punto di vista geografico che politico, così da poter promuovere una svolta, quantomeno apparente, nelle trattative in corso ed alimentare una presunta fama di risolutore di conflitti. I legami economici con la Russia poi pendono a suo favore e le recenti intese con Mosca in Siria trovano la diplomazia turca preparata a raggiungere un accordo. Anche Israele sembra apparentemente in grado di inserirsi e sfruttare i legami etnici e culturali che la legano ad ambedue le parti, ma l’eventualità di un successo sconta i limiti di una mediazione forse ancora non matura dal punto di vista temporale, che appare ancora oggi incerta e difficile da concretizzare. Chi si staglierà nei prossimi giorni come possibile paciere è la Cina: maggiore sarà la durata le conflitto, maggiori saranno le difficoltà Russe che potrebbero facilitare una soluzione orientale dalla quale Mosca uscirebbe doppiamente sconfitta. Sul piano militare perché costretta ad invocare l’intervento salvifico di Pechino da una guerra che non sembrerebbe più in grado di controllare autonomamente e su quello economico dove si troverebbe a brandelli, a fronte di conquiste territoriali dal discutibile valore strategico, con la certezza di finire nell’orbita cinese su interni settori produttivi: banche, energia e semiconduttori.

La reazione di Putin dinanzi ad un insuccesso militare, ancorché momentaneo, che si presenterebbe come l’anticamera di quella che fu la guerra in Afghanistan per l’Unione Sovietica, potrebbe spingere la Russia ad innalzare l’intensità dello scontro con uno scenario diametralmente opposto ad una trattativa lampo. Una vittoria di Pirro non è da escludere se l’impegno di Mosca fosse tale da rendere le forze Russe così soverchianti rispetto a quelle Ucraine, da portarle ad una sconfitta sicuramente dolorosa per entrambi o quantomeno da imporre una trattativa a senso unico che ha come precondizione la conquista delle grandi città, a cominciare dalla capitale. Se le perdite fossero eccessive persino in questo scenario, il modello che Putin potrebbe adottare è quello di Grozny, il che presupporrebbe rinunciare al combattimento urbano classico per radere al suolo con l’artiglieria le principali città ucraine in una sorta di riedizione della guerra in Cecenia, nella misura ritenuta sufficiente ad imporre un cessate il fuoco a Kiev, che si ritroverebbe a patire numerosissime vittime civili senza l’evacuazione con i corridoi umanitari. Facile intuire le finalità dal lato Russo di una misura apparentemente rivolta a mettere al riparo i civili, che darebbe il via libera al fuoco indiscriminato dell’artiglieria sui centri abitati, per altro già in corso in sprezzante contrasto con le convenzioni internazionali. Le perdite economiche sarebbero in quest’ultimo caso enormi, Mosca non risulterebbe in grado di colmarle ricostruendo i centri abitati e le infrastrutture. Ciò che rimarrebbe dell’Ucraina somiglierebbe ad una striscia di terra di nessuno devastata che ben si presta alla teoria dello stato cuscinetto più orientato verso l’annichilimento che l’equidistanza.

Un’escalation con il clima arroventato diventerebbe così più probabile, Le tensioni latenti, unite a quelle che un’ulteriore crescita del livello dello scontro sul piano economico e militare possono innescare, formano un mix esplosivo in grado di ipotecare sostanzialmente ogni residua aspettativa di pace nel breve periodo. Le modalità di escalation e di de-escalation sono speculari e spesso non dipendono fino in fondo dalla volontà dei contendenti: la NATO per esempio potrebbe anche istituire una no fly-zone nell’ovest del paese per assicurare il deflusso dei profughi ma al di là dell’aspetto provocatorio, le difficoltà dell’aviazione Russa, martoriata dagli stinger e spinta al volo notturno, renderebbero una  simile misura inutile contro gli attacchi portati avanti con artiglieria e missili cruise, che i caccia sarebbero difficilmente in grado di intercettare. Si aprono allora interessanti prospettive rispetto alla dichiarazione Russa di cobelligeranza, è qui che potrebbero nascere i presupposti per un’improvvisa accelerazione del conflitto: in assenza di un’invasione dal confine Bielorusso, che finora non ha avuto seguito, una Russia esausta con caccia e tank braccati da Kiev con le armi NATO, potrebbe pensare di colpire i trasferimenti degli aiuti militari al confine qualora risultassero così decisivi per le sorti del conflitto da portarla alla sconfitta. Questo in che misura possa interessare i membri dell’alleanza atlantica ancora non è chiaro e ovviamente dipenderebbe dall’area geografica interessata da un potenziale attacco. L’articolo 5 del trattato non contribuisce a sciogliere i dubbi e la stessa definizione di “attacco armato” si presta a diverse interpretazioni in assenza di una prassi applicativa. Lo stesso accadrebbe con la messa a disposizione dell’Ucraina delle infrastrutture aeroportuali in Polonia, avendo la Russia distrutto la quasi totalità degli aeroporti di Kiev, e di alcuni vecchi caccia MIG da trasferire, la cui utilità però appare dubbia in considerazione della scarsa importanza che l’aviazione ha avuto in questo conflitto. Contrariamente a quanto si crede, i bombardamenti aerei hanno avuto un impatto relativamente ridotto rispetto al loro potenziale e anche per i diversi errori di Mosca nelle prime fasi del conflitto l’Ucraina sembra conservare ancora una piccola parte delle proprie difese aeree che non ha esitato ad impiegare con successo.

Anche le sanzioni infine potrebbero influire su scenari inaspettati: non sarebbe difficile immaginare le conseguenze che una rimozione totale della Russia dallo SWIFT unita all’embargo dagli idrocarburi produrrebbero sulla leadership Russa, che appare sotto pressione in tutti i casi e che per questo potrebbe essere portata a compiere scelte avventate. La debolezza è spesso una caratteristica connaturata agli Stati autoritari e il paradosso di un Putin sempre più debole potrebbe essere il rafforzamento interno delle forze armate, non più semplice strumento di proiezione di una flebile potenza imperiale ma ormai le vere indiziate di questo conflitto, che le ha viste finora prevalere sul blocco di potere dei servizi di sicurezza che in Russia è da sempre dominante. La vera incognita potrebbe presto riguardare il ruolo nascosto dei generali, pronti a tessere la trama di uno scontro interno al Cremlino dove a prevalere sarebbero i falchi più che le colombe.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

 

 

 

La dimensione strategica della sicurezza energetica in Italia.

Come ogni anno, con l’inverno che entra nel vivo, l’Italia è chiamata a fare i conti con la prevedibile crescita della domanda di energia. Accanto alle perduranti criticità che cronicamente si trascinano e riguardano lo squilibrio degli approvvigionamenti di gas naturale, quest’anno per la prima volta si sono palesate le difficoltà della transizione ecologica, il ritorno dell’inflazione (in parte indotta proprio dal prezzo dell’energia), tensioni geopolitiche (Russia e Kazakhistan) e le strozzature della catena del valore. Questi cinque fattori, che pure presi singolarmente erano in grado di esercitare una notevole pressione sulle condizioni di debolezza intrinseca dell’Italia, si sono combinati dando luogo ad un fenomeno distruttivo su scala internazionale di cui ancora facciamo fatica ad intuire la portata.

È noto che il nostro paese ormai da un trentennio pecchi dal punto di vista programmatico delle ampie vedute che avrebbero potuto, almeno in parte, correggere la rotta. Fattori esogeni ed endogeni si sommano mettendo a dura prova linee di difese, la cui sola concezione richiederebbe anni di pianificazione da un punto di vista strategico. Appurata l’assenza di quest’ultima su scala Europea, quasi tutti gli Stati membri sono stati costretti, ancora una volta, ad affidarsi a tatticismi improvvisati senza una regia affidabile affidabile, che spesso nascondono le vere responsabilità imputabili a chi, con grande miopia, ha apparentemente privilegiato gli interessi del proprio universo produttivo (è il caso paradigmatico della Germania), ricavandone tuttavia molto meno di quanto pianificato per una serie di errori (tra cui l’abbandono del nucleare), frutto di immaturità decisoria, che si ripercuotono su tutta l’Unione.

È pur vero che individuare il principale “colpevole” del momento rischia di essere uno sforzo puramente teorico. La complessità del mondo globalizzato unita alle peculiarità del mercato dell’energia, soprattutto dal lato dell’offerta, fanno sfumare i confini delle responsabilità. È noto già da prima che i pochi pozzi propagandistici di Mattei fiorissero nella Pianura Padana, che l’Italia non sia mai stata un importante produttore di idrocarburi e in generale si trovi nella difficile condizione di chi è privo di importanti materie prime. Per questa ragione, anche volendo i volumi di metano estratti nell’Adriatico non potrebbero superare i 5 miliardi di metri cubi in un arco di tempo almeno triennale, che permetta di riallineare la produzione con gli investimenti necessari mai effettuati. Questi ultimi per essere programmati necessitano di un quadro regolatorio omogeneo che garantisca gli operatori dalle giravolte improvvisate della politica, senza certezza del diritto le trivelle rimarranno ferme. Con la liberalizzazione dei mercati dell’energia, l’Italia ha rinunciato ad attrarre considerevoli investimenti di imprese estere dell’oil&gas per le attività di prospezione mineraria: una filiera virtuosa, con il pregio di garantire una piccola protezione nei confronti di tempeste geopolitiche e che avrebbe contribuito ad integrare l’ottimo meccanismo di stoccaggio di cui il nostro paese si è dotato e che con l’autoproduzione ai minimi è destinato ad operare a metà.

Esulano dal destino dei pozzi dell’Adriatico e del canale di Sicilia le scelte attuate su scala Europea che hanno condotto l’Unione nelle mani della Russia. Una condizione di assoluta debolezza, fonte di numerosi interrogativi, che ha visto una crescita dei suoi profili di criticità in corrispondenza delle crisi geopolitiche degli ultimi 15 anni. L’UE oggi ha scelto consapevolmente di vestire i panni del vaso d’argilla e con le tensioni in Ucraina e Bielorussia si trova alla mercè degli eventi: alla prospettiva scongiurata di sanzioni sul gasdotto Nord stream 2, ancora in attesa delle autorizzazioni nonostante la fine dei lavori, si aggiunge la totale indisponibilità dell’Unione ad accodarsi agli Stati Uniti per imporre ulteriori sanzioni alla Russia sull’export di idrocarburi.

Non è paradossale immaginare anzi, che in caso di escalation in Ucraina possa essere Mosca a ridurre o tagliare le forniture, facendo piombare l’Europa in una crisi energetica simile a quelle che negli anni 70’ costarono all’Italia il tracollo dell’industria chimica e il ricorso ad un prestito del Fondo Monetario Internazionale, un MES ante litteram.

Se il ragionamento degli Stati Uniti si inserisce nella convinzione diffusa che il completamento del Nord stream 2 possa più agevolmente compromettere la stabilità economica dell’Ucraina, legata a doppio filo al transito del gas, che verrebbe facilmente aggirata e privata dei mezzi di sostentamento, è tutto da dimostrare l’assunto che la Russia disponga di una produzione di idrocarburi artificiosamente calmierata per scatenare una guerra dei prezzi: Mosca paga lo scotto delle sanzioni imposte durante la prima crisi Ucraina che hanno danneggiato l’industria estrattiva di Stato, già gravata da croniche inefficienze e scarsamente propensa ad attuare quegli investimenti la cui mancanza viene avvertita anche in altri paesi esportatori che, al contrario della Russia, hanno potuto contare su scambi di tecnologia mineraria pressoché illimitati con gli Stati Uniti e l’Europa.

Tutti gli sforzi diplomatici profusi dalle amministrazioni americane per contrastare il progressivo incremento della dipendenza energetica dell’Unione Europea nei confronti della Russia sono falliti e c’è da aspettarsi che presto le valvole del Nord stream 2 verranno aperte, non appena arriverà l’imprimatur amministrativo. Anche il suo gemello meridionale, il South stream in cui Eni giocava un ruolo fondamentale, è riemerso sotto mentite spoglie nel Turkstream che ha comportato un’ipoteca sull’autonomia energetica dei paesi balcanici e cementato i legami tra un ambiguo paese NATO e il più importante fornitore di gas naturale dell’Unione Europea.

C’è da chiedersi se la miopia pianificatrice che ha interessato lo sviluppo dei nuovi gasdotti sia il concorso di più fattori di carattere politico ed economico e delle presunte connivenze che, lungi dall’essere dimostrate, ne hanno accompagnato la realizzazione e da cui nemmeno le voci contrarie possono dirsi immuni.

Oggi il quadro energetico europeo appare irrimediabilmente compromesso. L’inflazione indotta dall’aumento dei prezzi di petrolio e gas naturale rischia di alzare significativamente il livello di scontro sociale e portare all’esasperazione un continente stretto ancora nelle morse della pandemia, ogni tentativo di invertire la rotta o di alzare i toni con Mosca si è tradotto in un simbolico aiuto Americano consistente in una flotta di navi gasiere che coprono appena il consumo giornaliero dell’Unione. In caso di scontro armato tra Russia e Ucraina è l’UE a rischiare le conseguenze peggiori e la consapevolezza di questa ambiguità ormai instillata nelle agende di Capi di Stato e di Governo va al passo con l’inettitudine di istituzioni prive di legittimazione decisionale.

Tutte le soluzioni valutate come compatibili con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica sono state colpevolmente accantonate o sono risultate dei parziali correttivi: il gasdotto TAP è oggi in servizio dopo anni di deliranti boicottaggi ambientalisti e garantisce uno sbocco fondamentale al gas Azero, che in un futuro prossimo potrebbe essere affiancato da quello Turkmeno se la pipeline fosse prolungata sino all’altra sponda del Caspio. EastMed pur non essendo apparentemente necessario dal punto di vista della domanda rappresenta un asset fondamentale di diversificazione degli approvvigionamenti, nonché un importantissimo strumento geopolitico su cui l’Italia avrebbe potuto basare una ancorché limitata influenza. Impossibile non menzionare il futuribile gasdotto transahariano ormai in avanzato stato di progettazione e destinato a collegare la Nigeria all’Algeria, che sarebbe stata la plastica rappresentazione dell’impegno dell’Unione Europea per la pacificazione del Sahel. Al momento non si intravvedono scelte in tal senso neppure da parte dell’Italia che dovrebbe avere tutto l’interesse a sostenere il progetto, pur pagando lo scotto delle continue inchieste della magistratura milanese che hanno flagellato le attività di Eni in Africa, danneggiando la credibilità internazionale del gruppo e del suo management, sottraendo valore al suo primo azionista: lo Stato Italiano.

Un copione che negli ultimi anni si è ripetuto due volte, colpendo gli affari in due paesi fondamentali per la diversificazione delle importazioni di gas naturale. La Nigeria infatti si candida a giocare un ruolo di primo piano anche nell’esportazione del GNL insieme ad Egitto, Angola e Mozambico. L’Algeria rimarrà un partner fondamentale per i prossimi decenni.

Se il Mediterraneo non ha avuto grande fortuna, nemmeno gli sforzi di diversificare in Asia Centrale hanno segnato traguardi importanti. Se di petrolio si parla non si può non citare il giacimento di Kashagan che costò la guida di Eni a Mincato dopo 10 miliardi bruciati nelle profondità del Caspio, per il gas naturale è andata meglio e Karachaganak appare minacciato solo dalle nuvole che si addensano sul futuro del Kazakhistan e che rischiano di compromettere l’attività di siti estrattivi di notevole importanza. Dispute sul controllo dei ricchi giacimenti del Caspio hanno impedito al Turkmenistan di affermarsi come forte esportatore di gas naturale in Europa e ad oggi è improbabile che questo avvenga con la costruzione di un nuovo gasdotto.

La scelta di puntare tutte le fiches sulla Russia ha saturato l’offerta di gas naturale e reso apparentemente sconveniente costruire nuove pipeline. I costi nascosti non contemperano però gli aumenti repentini dei prezzi a cui saremo chiamati a far fronte comune nei prossimi anni in assenza di investimenti su scala globale. Poter contare su una più vasta pletora di fornitori avrebbe permesso all’Unione Europea di prendere una posizione più decisa nei confronti di Mosca, pur non pregiudicando in alcun caso l’importazione di idrocarburi che si sarebbe svolta con un minor rischio di ritorsioni, perché in fondo ad un’economia arretrata e basata sulle materie prime come quella Russa è imperativo vendere per poter comprare.

Un’ulteriore alternativa degna di nota, che vede l’arrendevolezza della Germania far soccombere gli altri Stati membri, è l’uso del nucleare come sostegno all’elettrificazione delle filiere economiche europee. Con la chiusura delle centrali Berlino si avvia a decretare un inverno energetico parzialmente compensato da quei bizzarri strumenti che sono i meccanismi di capacità, pronti a bruciare costosa lignite (se opportunamente sussidiati), quando le nuvole coprono il sole e non soffia vento nei parchi eolici del mare del Nord. Senza contare le conseguenze ambientali drammatiche, sottese a questa scelta immatura che pesa sull’eredità di Angela Merkel, la decisione di rinunciare all’atomo rischia di sommarsi alle strozzature della supply chain che stanno rendendo economicamente impossibile la transizione ecologica, unita all’inflazione che probabilmente ne è diretta conseguenza.

A conti fatti, un corollario di errori da matita blu difficilmente risolvibili nel breve periodo, richiederà nei prossimi anni soluzioni concrete, a partire dai nuovi investimenti nel settore minerario che sarà centrale per assicurare la tenuta sociale più che ipotetiche derive ideologiche destinate a consumarsi a contatto con la realtà, come ogni massimalismo all’esito dell’incontro con la Storia. I sistemi di accumulo da soli non salveranno l’Europa del 2025 e probabilmente nemmeno quella del 2030, la miopia geopolitica condanna l’Unione di oggi e farà lo stesso con quella di domani. È certo che il gas naturale ci accompagnerà ancora a lungo e l’idrogeno non sarà mai prodotto in modo conveniente e senza emissioni se non ricorrendo all’energia nucleare, unico modo di affrontare l’elettrificazione della società post-industriale. Pensare di alimentare il sistema produttivo con i parchi eolici può essere un’utopia ancora più pericolosa di chi predica la chiusura di fabbriche e acciaierie.

Per farsi trovare all’altezza delle sfide del reshoring è necessario garantire quel minimo di stabilità dei prezzi che convinca gli investitori internazionali a scommettere sull’Europa, non solo come terra di consumo ma anche di produzione. Un orizzonte che si avvicina sempre più e che rischia di condannare l’Italia in primis alla desertificazione industriale, con i redditi che non crescono falcidiati da bollette sempre più esose e un’inflazione indotta dai prezzi dell’energia che condiziona in concreto la vita dei cittadini, in nome di un ambientalismo ideologico e pericoloso che sembra aver smarrito la sua carica sociale che in passato l’ha contraddistinto.

Includere nucleare e gas naturale nella tassonomia “verde” della Commissione è una mossa necessaria che dovrà essere integrata con un regime agevolato di aiuti di stato e uno sforzo comune andrà indirizzato allo stoccaggio comune del metano su scala Europea, ad oggi la più importante riserva strategica nel vecchio continente che ha “rinunciato a combattere”.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

Geopolitica, Farefuturo e Republican Institute: il perchè di una scelta

Si terrà il prossimo 10 settembre,  nella Sala Capitolare del Senato, il seminario su  temi geo-politici di attualità promosso da Farefuturo in partenariato con l’” International Republican Institute “ ( Fondazione statunitense impegnata per la promozione della democrazia e  dei valori di libertà, nata nel 1983  sulla scia del discorso l’anno prima del Presidente Reagan a Westminster e presieduta dal 1983  al 2018 dal Senatore McCain) e con il Comitato Atlantico Italiano .  Il filo conduttore delle discussioni è ben sintetizzato nel titolo stesso della imminente giornata di lavori : “ L’ Europa e la relazione transatlantica dopo l’Afghanistan. Che cosa è cambiato e cosa no” . Venti anni dopo l’11  settembre

Si tratterà per la nostra Fondazione di un momento di incontro  per molti versi innovativo dettato in primo luogo  dalla volontà di contribuire – anche attraverso iniziative specifiche  – alla riflessione in atto  in ambito occidentale, e per ciò stesso nel nostro Paese,  sulle dinamiche che  caratterizzano l’attuale complessa fase della vita internazionale nonché  alla individuazione  di possibili vie di uscita, nei tempi che si riveleranno necessari, ad almeno talune delle crisi in atto.

L’evento di natura formativa – uno dei principali tra quelli portati avanti in Europa dall’”International Republican Institute- IRI”- è parte di un più ampio programma avviato da tempo dal prestigioso Istituto statunitense a beneficio di giovani parlamentari provenienti da una pluralità di Paesi europei appartenenti ai gruppi popolari, conservatori e liberali , che ricoprono per la prima volta incarichi a livello nazionale e sono destinati, secondo le valutazioni dell’IRI, a futuri ruoli apicali.

Esso  vuole pertanto  rappresentare al tempo stesso, da un lato,  un omaggio  di Farefuturo e delle Fondazioni Comitati/ “partner” nel progetto, al ruolo primario dei Parlamenti nella messa a fuoco ed elaborazione delle grandi scelte di politica estera; dall’altro,  un segnale di interesse e apprezzamento nei confronti delle potenzialità di cui sono portatrici, nei più diversi Paesi d’Europa, le giovani leve della politica con particolare riguardo a quelle che si riconoscono  nei valori del popolarismo, conservatorismo e liberalismo europeo.

Il programma –  articolato in una fase iniziale e conclusiva aperta alla stampa e in due sessioni “a porte chiuse”- consentirà ai partecipanti  di confrontarsi con i relatori su tematiche di particolare attualità : dalle relazioni Europa- USA- Cina nella fase post-Afghanistan e post-pandemia alla situazione e prospettive nell’Europa meridionale . A cominciare dal per noi cruciale scacchiere mediterraneo alla luce, tra l’altro, dei recenti drammatici sviluppi  in Afghanistan. Si tratterà, in altre parole, di una riflessione ad ampio raggio sui nuovi assetti internazionali , il futuro dell’Alleanza Atlantica e il ruolo dell’Unione Europea e dell’Italia nelle aree di prioritario interesse nazionale.

I lavori saranno aperti dal Sen. Adolfo Urso, presidente di Farefuturo, e dal “Senior Director for Transatlantic Relations” dell’IRI, Jan Surotchak. Seguirà, sempre nella parte aperta al pubblico, l’intervento del Ministro della Difesa, On. Lorenzo Guerini. Nelle sessioni di lavoro sono previste relazioni di figure di spicco: Guido Crosetto, presidente AIAD, l’On. Carlo Fidanza , presidente della delegazione italiana FdI- ECR, il Generale Carlo Jean , presidente del Centro Studi di geopolitica economica , Fabrizio Luciolli , presidente del Comitato Atlantico italiano, il Sen. Lucio Malan, presidente dell’ Associazione parlamentare di amicizia Italia- Israele , il prof. Andrea Margelletti , presidente del CeSI, il prof. Carlo Pelanda , politologo ed esperto di studi strategici. Le conclusioni sono previste alle 16 con l’intervento del Sen. Urso.

Non è certo questa la sede per elaborare sui singoli punti che saranno oggetto del seminario. Mi sembra però doveroso rilevare come esso si collochi in una fase caratterizzata sul piano internazionale da eventi e dinamiche che , se non comprese e correttamente gestite, peseranno a lungo e in maniera non positiva sui destini dell’Occidente: dalle conseguenze di breve e medio periodo del ritiro delle forze statunitensi e NATO dal teatro afghano all’impatto che il ritorno al potere dei talebani potrà esercitare  sugli equilibri regionali con potenze emergenti o già come tali riconosciute  ( Cina, Pakistan , India, Turchia, Iran per non citarne che alcune…) che  stanno muovendosi per ulteriormente allargare i propri spazi di manovra,  all’accelerazione che sta conoscendo sul versante europeo la riflessione sulla “autonomia strategica “ – anche alla luce delle recenti impegnative dichiarazioni  in materia dell’Alto Rappresentante e vice- Presidente della Commissione Europea Josep Borrell – e sul futuro delle relazioni transatlantiche, alle modalità più efficaci per assicurare la migliore interazione possibile tra un’eventuale futura difesa europea e quella già assicurata dal quadro “atlantico”  all’impatto ,infine, che la tragedia in atto in Afghanistan produrrà , e sta già producendo, sul volume e natura dei flussi migratori verso l’Europa a cominciare da quella meridionale di nostro più diretto interesse.

In questo  esercizio di riflessione /anticipazione Farefuturo intende svolgere – nel caso specifico di concerto con due istituti  particolarmente qualificati sui temi in parola e in uno spirito di dialogo aperto e costante  coi nostri fondamentali alleati d’oltre-oceano: Canada e Stati Uniti  – un ruolo di primo piano pro-attivo,  e altre iniziative di analoga natura sono allo studio per i mesi a venire.

Ruolo proattivo  e all’altezza delle sfide cui l’Italia  – Paese fondatore dell’Unione Europea e rispettato membro dell’Alleanza Atlantica- e il continente europeo nell’accezione più ampia del termine ( comprensivo dunque sia del Regno Unito che  dei nostri partner di area mediterranea e balcanica) si trovano confrontati.

Tutto questo, mi sia consentito aggiungere, nella consapevolezza  delle responsabilità aggiuntive che derivano al nostro Paese dall’ esercitare attualmente la presidenza di un fòro , quale il G20, le cui potenzialità anche sul terreno del contributo all’avvio a soluzione delle grandi crisi internazionali ( e lo ha ben compreso il Presidente Draghi ) restano ancora in larga misura inesplorate e da  valorizzare .

Si tratterà certo, né potrebbe essere diversamente , di un apporto squisitamente intellettuale  che non potrà , per evidenti motivi, affrontare che alcuni dei temi sopra evocati . Ma la platea dei partecipanti ( giovani parlamentari , come sopra anticipato, dei più diversi Paesi  europei, molti dei quali di area centro-orientale e balcanica) è tale da legittimare la speranza che gli spunti di riflessione che dall’incontro del 10 settembre scaturiranno, qualunque essi siano,  possano trovare ascolto e suscitare interesse anche oltre i nostri confini e in ambienti altamente  qualificati .

Ma il seminario del 10 settembre rivestirà, per la nostra Fondazione , anche una forte valenza simbolica: quella cioè di una ribadita vicinanza alle Istituzioni e al popolo americano nel segno di condivisi valori . Ne sarà testimonianza la deposizione, il giorno prima, di una corona all’altare della Patria da parte del Presidente Urso ,affiancato dai citati rappresentanti dell’IRI e del Comitato Atlantico,   in memoria delle vittime dell’”11 settembre” e dei militari e civili  caduti in Afghanistan nell’adempimento del loro dovere al servizio delle missioni USA e NATO in quel Paese.

I partecipanti al seminario saranno quindi ricevuti nei suoi uffici al Senato, sempre il 9 settembre, dalla Presidente Casellati nel quadro di una visita di cortesia istituzionale.

 

* Gabriele Checchia, responsabile per le relazioni internazionali di Farefuturo

 

 

 

 

 

Siamo più forti uniti. Il nostro orgoglio di lavorare insieme con partner italiani

To say that COVID19 has changed us may sound self-evident. Indeed, our daily lives have been so much affected by the virus that we now even wonder whether we will ever return to pre-pandemic “normal”. But whatever the impact on our individual lives, it is also important to analyze and understand the long-term changes that have happened at a higher level in our politics, the functioning of our democracies, and international relations.

For a number of reasons, Italy is probably the country in Europe that has been at the forefront of the momentous change we have lived over the past two years. Italy was the first country in Europe to shut down its economy due to the unexpected arrival and spread of the virus. Italy was also the country that paid the highest price last year for the first lockdown and, interestingly enough considering the rise of Euroscepticism in the country over the past few decades, it will also be the biggest single beneficiary of the European recovery fund – a lifeline for the national economy, and a unique opportunity to engineer a new start for the country, after 30 years of economic difficulties. Finally, Italy was also at the center of attention for Russian spies and Chinese propagandists, as they tried to use the occasion to weaken the country’s security and ties with its allies. To say that these attempts have backfired spectacularly may be true, but this is certainly not the end of the story. Russia will be back, and so too will China, as it desperately tries to extend its influence in Europe, sending more countries in a debt trap and extorting political favors from economic dependence.

There is much that Europeans (and more largely Westerners) can learn from Italy’s experience in fighting off the virus, and Italy is a key ally for the United States, as well as a key member of the European Union. With this in mind, and as the pressure builds on the Mediterranean – with the crisis in Afghanistan, but also the pressure China is exerting to gain a foothold in this key sea for East-West trade, it is high time for us to talk. This is what drove the International Republican Institute to organize this LEAD21 event in Rome, bringing up-and-coming MPs to discuss the lessons we can all take from the past year and a half, and most importantly talk about the future of Southern Europe, of the Mediterranean, and of the Transatlantic relationship.

Such an ambitious endeavor requires allies, and to provide the highest quality of debates, IRI, together with their Italian colleagues and experts from our partner organizations, Fare future, the Italian Atlantic Committee, but also the Fondazione de Gasperi and the Fondazione Luigi Einaudi, is glad to have teamed up with some of the best brains in the country to set up this discussion with  Europe’s future political leaders. The diversity of these think-tanks is in itself an asset, allowing for a wider and (importantly) a more profound debate, with conclusions not set as a foregone conclusion, but as the result of research and deliberation. Such is the strength of the West, and this seminar will be yet another chance for us to demonstrate that debate and intelligent dialogue, not the monolithic model offered by our adversaries, is the way forward.

Success requires teamwork, and this event is no exception. But in every team, some players are always more special than others, and so we are particularly grateful to Farefuturo for bringing the discussion to new levels in terms of international security, a crucial topic after this summer’s events, for inviting the group to debate in the Senate, and also for bringing us all together to commemorate the victims of jihadi terrorism – and those who fell fighting against it – at the Vittoriano, such an important symbol of Italian patriotism, where so many who fell for freedom and the unity of their country are celebrated.

The event that we are organizing together with our Italian friends these days should not be taken as a single event. It is part of a much wider discussion that IRI has undertaken in Italy and more widely in the Mediterranean. Together with politicians and actors in the think-tank universe, we believe it is time to discuss – and shape – the future of the Transatlantic alliance, and that of the Mediterranean. We also need to build a constructive dialogue about the current challenges facing our democracies – all of these crucial for the success of the West in the future, may the perspective be from Rome or Washington.

For this large and ambitious project, IRI is happy to have found in Farefuturo a great partner, with whom we hope to continue working in the future, through the exchange of ideas and further events we hope to organize jointly. This September event is the start of what we hope to be a long and mutually beneficial relationship.

 

*Thibault Muzergues, Europe and Euro-Med Program Director, Transatlantic Strategy

 

Libia, Afghanistan…fallimento del modello “state building”?

Con questo articolo di Emmanuel Gout sul futuro dell’Europa, continua la collaborazione tra la Fondazione Farefuturo e la Fondazione francese Geopragma . Gout è nel Comitato scientifico della nostra Fondazione e membro del COS in Geopragma. 
L’articolo viene pubblicato in contemporanea dalla due fondazioni. 

Il Ministro degli Affari Esteri Di Maio aveva, ad inizio agosto, appena concluso il suo viaggio diplomatico in Libia per tentare di ridare all’Italia un ruolo da protagonista, quando, molto più ad oriente, precipitava la fine del regime afghano. Poco più di due settimane dopo fuggiva di fatto il presidente Ghani – ultima marionetta americana – una fuga meno discreta del re Luigi XVI…

Poco in comune però tra la rivoluzione francese portatrice di ideali di libertà e di diritti, e il regime talebano che avevamo potuto osservare anni fa, come parentesi Jihadista , tra l’invasione sovietica e lo sbarco americano dell’inizio secolo. Sono tornati, forse diversi – sarà da giudicare sui fatti – e il capo del partito dello stesso ministro degli affari esteri, Conte,  invita al dialogo con questa possibile nuova versione talebana, versione XXI secolo.

In premessa, non c’è dubbio che un “fondamentale” della diplomazia è di mantenere il dialogo, un filo conduttore con tutti, in particolare con i potenziali nemici. In tal senso, Conte ha probabilmente ragione, come lo fanno Cina, Russia, Emirati…che mantengono la loro ambasciata…ma la vigilanza e la coerenza con i propri valori devono essere una priorità nel stabilire o mantenere il dialogo.

Certo che la storia afghana è soprattutto la storia di un fallimento, quello dello “state building”, una versione politically correct della colonizzazione. Si prendono modelli e principi occidentali, politici, culturali, religiosi, economici e si pensa potere applicarli dovunque senza pensare alla realtà delle identità e dei popoli, convinti di un potenziale “tutto si compra”. Già la tappa successiva si mette in ordine di marcia, e mentre la fuga è in atto, fioriscono le minacce di prossime sanzioni, di privare il paese di una banca centrale e così di far valere la nostra forza di convincimento, ormai umiliata, fallita sul terreno. L’analisi dei benefici – illusori – del sistema “sanzione” dovrebbe invece spingerci ad identificare altre vie a supporto delle nostre politiche internazionali.

Peggio, sono centinaia di miliardi andati in fumo – non per tutti – e soprattutto centinaia di vita di soldati europei e americani che oggi si domandano perché sono morti. Domani saranno nuovi flussi migratori in Europa – certo non finiscono negli USA – flussi che interpellano doveri umanitari e capacità del nostro vecchio continente a gestire questa crisi.

In Afghanistan, il sistema “tribale”, di “clan”, di etnie,  sono una componente essenziale del paese, in Libia il sistema tribale è LA componente del paese. In Afghanistan era nato un embrione di stato, fantoccio e corrotto, ma  la progressiva urbanizzazione della società consentiva premesse di cambiamenti culturali, in particolare per le donne.

In Libia non esistono tradizione di uno stato articolato, strutturato e lo stesso Gheddafi sapeva di dover gestire le diverse realtà tribale per meglio presidiare il paese e la “sua rivoluzione”. La Libia è rimasta lacerata dell’intervento voluto dalla presidenza Sarkozy. Oggi in alcun casi le tribu sono diventate mafie locali che “gestiscono” il dramma dei flussi migratori.

In Afghanistan, gli USA, aprendo direttamente negoziati con i taliban – senza alcun rappresentanza del loro neo stato afghano – hanno consegnato di fatto il paese ai talebani (tra l’altro anche le armi), sostenuti dal Pakistan. Ci sarà sicuramente da riflettere sulla gestione americana dell’Afghanistan, dalle torri gemelle ad oggi.

In Libia, oggi sul terreno diplomatico, dopo l’ultimo tentativo fallito del maresciallo Haftar di prendere Tripoli, i protagonisti sono più i Turchi e i Russi, che gli Italiani o i Francesi. Si profilano elezioni programmate dal mondo occidentale per fine anno. Lo stesso Haftar corre dietro alla riconquista di una legittimità internazionale, validando il processo delle elezioni caldeggiate dal suo rivale di Tripoli.

In Afghanistan, si profila l’organizzazione di una possibile resistenza, dal numero due di Ghani al figlio di Massud; c’è da scommettere che il fossoyeur della Libia, Bernard Henri Lévy, si farà, insieme a quest’ultimo,  presto fotografare.

La lezione viene quindi di non credere che la nascita di un stato non radicato, improvvisato,  possa essere una garanzia per l’occidente e per i diritti stessi delle persone.

L’Italia è davanti una sfida quasi epocale della sua diplomazia: paesi che hanno avuto legami stretti con l’Italia, parte della Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia e in fine come già detto la Libia sono in situazione di forte instabilità: conflitti, elezioni, crisi economiche, migratorie… Non bastano le diplomazie dell’ENI o di Leonardo, occorre che l’Italia, paese della cultura degli equilibri possa ritrovare un ruolo da protagonista, lontano da manicheismi distruttori o di soli interessi economici. 

L’Italia, alleato fedele degli USA, ha sempre saputo mantenere un legame forte con la Russia. Dispone quindi di una storia diplomatica in grado di potere pensare ad un suo rinascimento, solo se la quotidianità della politica italiana potrà lasciare spazio ad una nostra visione della diplomazia e i principali protagonisti essere all’altezza del ruolo dell’Italia nel mondo.

*Emmanuel Goût, componente il Comitato scientifico Fondazione Farefuturo e componente del COS in Geopragma