Dal 40,8% e più di 11 milioni di voti alle elezioni europee del 2014, al 18,7% e poco più di 6 milioni di voti alle elezioni politiche del 2018. Di quel 40,8% circa la metà ha confermato il voto al Partito Democratico; il 15% si è astenuto; un terzo ha assegnato la preferenza ad un altro soggetto politico. Questi sono i numeri – spietati – che certificano la débâcle del centrosinistra. Non è, solo, una sconfitta: perché, a voler essere cinici, il Partito Democratico a guida renziana è abituato a perdere. Quello toccato il 4 marzo è solo il punto più basso di una parabola discendente che l’ex sindaco di Firenze e il suo cerchio magico non hanno voluto vedere, come nelle peggiori tradizioni del leaderismo nostrano. Il 18,7% è una percentuale-incubo che nessun sondaggio era stato in grado di prevedere e condanna alla marginalità: spazza via le radici, le fondamenta e la stessa ragione d’essere d’un partito che Walter Veltroni guidava con ambizione maggioritaria e vocazione collegiale, nella consapevolezza della necessità di una moderna sintesi fra le anime del centrosinistra. Di quel progetto rimangono le macerie lasciate dall’ego di Matteo Renzi, gli immancabili stracci pronti a volare nelle sedi opportune ma anche davanti alla telecamere, le dimissioni post-datate del segretario. Il Partito Democratico è destinato all’implosione, ma la responsabilità non è, comunque, solo dell’ex presidente del Consiglio.
Lo psicodramma del day-after racconta di un centrosinistra smarrito, in crisi d’identità, che rispecchia la stessa sindrome di cui soffrono pressoché tutti i partiti socialdemocratici occidentali. Lo spauracchio del fascismo dietro l’angolo, la cronica supponenza nei confronti dei propri stessi elettori, l’altezzoso snobismo nei confronti delle problematiche sociali create dall’emergenza migratoria, la ridicola caccia alle fake news e agli hacker russi come a novelli mulini a vento, l’ostinata dicotomia tra una fantomatica “società aperta” e una “società chiusa”, la malsana voglia d’essere sempre e ad ogni costo cheerleader di Bruxelles e degli utopici “Stati Uniti d’Europa”, l’incapacità sostanziale di fornire qualsivoglia lettura realistica e non elitaria della complessità del mondo globale: questi sono i tratti distintivi di un fallimento che ha trasformato il Partito Democratico da possibile forza maggioritaria a terzo polo minoritario nell’inedito tripolarismo della politica italiana. Alle inquietudini degli operai delusi dalla globalizzazione, il centrosinistra ha risposto con l’anagrafe antifascista; alle preoccupazioni di cittadini che hanno visto le periferie trasformarsi in terre di nessuno, è stata consigliata la visione di una commedia italiana sull’integrazione e sul multiculturalismo. La mancanza di autocritica come irrinunciabile àncora per giustificare ogni sconfitta.
Magra e illusoria consolazione è credere, ora, d’essere un ago della bilancia, o addirittura quelli che danno le carte. Il terzo polo è pronto a dividersi in tre correnti. Una che già prima delle elezioni smaniava d’accasarsi presso quella che Eugenio Scalfari, su Repubblica, ha definito come “il nuovo grande partito della sinistra moderna” ovvero il Movimento 5 Stelle – ma non erano populisti? –, confermando che grande è la confusione nei salotti buoni dell’intellighenzia. Una seconda, che guarda con interesse ad un possibile sostegno – magari un appoggio esterno – alla coalizione di centrodestra. Una terza, infine, che vorrebbe rimanere immobile, che si culla nell’illusione di avvantaggiarsi dal fallimento di eventuali tentativi di governo da parte degli avversari. Ecco, però, che per i Democratici c’è almeno una lieta novella: Oliviero Toscani ha deciso di scendere in campo e di iscriversi al partito. Sicuramente una risorsa preziosa per recuperare voti al Nord, sopratutto in Veneto.
*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta