Governo latitante sul conflitto in Corno d’Africa

Perché il governo italiano è rimasto del tutto assente a fronte del grave conflitto tra il governo etiope e il TPLF che domina in Tigray? Perché non ha nemmeno condannato il lancio di missili ad Asmara da parte delle milizie tigrine? Cosa ha fatto per aiutare i nostri connazionali in fuga da Makallè? Sono alcune delle domande poste dal sen. Adolfo Urso, di Fratelli d’Italia in una interrogazione nella quale, tra l’altro, si evidenzia che “sono passati oltre venti giorni da quando lo scontro politico e istituzionale tra il governo regionale del Tigray guidato dal Tigray People’s Liberatin Front (TPLF) e il governo nazionale guidato dal premier Abiy Ahmed è degenerato in un conflitto militare, che ha provocato già migliaia di vittime civili e oltre trentamila profughi nel vicino Sudan”.
Inoltre, “la sera del 14 novembre tre missili terra aria, lanciati dalle milizie del TPLF dal territorio del Tigray, hanno raggiunto la città di Asmara, capitale dell’Eritrea, con l’obiettivo dichiarato di colpirne l’aeroporto, come affermato dallo stesso Debretsion Gebremichael, leader della regione settentrionale etiope che guida la rivolta contro Addis Abeba”. Ora “l’esercito etiope sembra giunto a poche decine di chilometri da Makallè, capoluogo del Tigray, con il rischio di ulteriori vittime civili e di nuove ondate di profughi nel vicino Sudan”; tutti ciò mentre appare evidente la clamorosa assenza del nostro governo a fronte del “ruolo storico, culturale, economico e politico che Italia ha sempre avuto nella Regione” e delle “aspettative e speranze che quei popoli hanno sempre avuto nei confronti del nostro Paese”.
Urso,chiede, inoltre, di sapere, “quali informazioni il governo abbia avuto, sul piano diplomatico o dalla nostra intelligence, in merito a quanto stava per accadere in Etiopia e cosa abbia fatto in via preventiva per evitare che la situazione degenerasse in un conflitto armato”; ed, inoltre, “cosa il governo italiano abbia fatto nell’immediato degli eventi bellici per soccorrere gli italiani presenti a Makallè e nel Tigray, impegnati nelle loro attività produttive, che peraltro ora sono a rischio”.
Urso, infine, nel sollecitare “una immediata e significativa risposta alla richiesta di aiuti umanitari per evitare altre e più gravi tragedie”, sollecita interventi di alto livello bilaterali e multilaterali per fermare l’uso delle armi e una composizione pacifica del conflitto. “Vi è da chiederei, inoltre, se “dietro la sollevazione della classe dirigente tigrina e nello specifico del TPLF, partito espressione della etnia tigrina che aveva guidato il Paese sin dalla cacciata di Menghistu e che ora ritiene di essere stata estromesso dal potere dal nuovo corso di Abiy, possono esserci anche le mire di Paesi che si sono sentiti esclusi dal nuovo corso politico dell’Etiopia e quindi dal processo di pace che ne è seguito”.
L’interrogazione ricorda come ai primi di Novembre lo scontro politico e istituzionale tra il governo regionale del Tigray guidato dal Tigray People’s Liberatin Front (TPLF) e il governo nazionale guidato dal premier Abiy Ahmed è degenerato in un conflitto militare, che ha provocato già migliaia di vittime civili e oltre trentamila profughi nel vicino Sudan. La sera del 14 novembre tre missili terra aria, lanciati dalle milizie del TPLF dal territorio del Tigray, hanno raggiunto la città di Asmara, capitale dell’Eritrea, con l’obiettivo dichiarato di colpirne l’aeroporto, come affermato dallo stesso Debretsion Gebremichael, leader della regione settentrionale etiope che guida la rivolta contro Addis Abeba. Ora l’esercito etiope sembra giunto a poche decine di chilometri da Makallè, capoluogo del Tigray, con il rischio di ulteriori vittime civili e di nuove ondate di profughi nel vicino Sudan. Tutto nel silenzio assordante del governo italiano!
Si sono invece pronunciati altri governi europei mentre il 20 novembre l’Unione Africana ha nominato tre inviati per cercare di fermare le armi.
La cosa è particolarmente grave perché è noto a tutti quale sia il ruolo storico, culturale, economico e politico che Italia ha sempre avuto nella Regione e quale siano le aspettative e le speranze che quei popoli hanno sempre avuto nei confronti del nostro Paese.
Urso, pertanto, ha chiesto nella interrogazione:
quali informazioni il governo abbia avuto, sul piano diplomatico o dalla nostra intelligence, se e quando, in merito a quanto stava per accadere in Etiopia e cosa abbia fatto in via preventiva per evitare che la situazione degenerasse in un conflitto armato;
cosa il governo italiano abbia fatto nell’immediato degli eventi bellici per soccorrere gli italiani presenti a Makallè e nel Tigray, impegnati nelle loro attività produttive, che peraltro ora sono a rischio;
se risulta al vero che il governo non abbia espresso alcuna forma di condanna in merito ai missili lanciati dal territorio del Tigrai verso obiettivi civili in Eritrea, come invece fatto subito da altri Paesi Europei e dagli Stati Uniti; ove ciò corrispondesse al vero, quale sia il significato di questa assenza che rischia di far apparire il nostro Paese estraneo a quanto accade nel Corno d’Africa e comunque al destino del popolo eritreo proprio in una fase in cui occorre mostrare il massimo impegno per recuperare posizioni anche in riferimento alla nota grave vicenda dell’Istituto di cultura italiana ad Asmara;
se risulta al vero che non vi siano stati ancora contatti di alto livello tra il nostro governo e il governo etiope in merito a quanto di estremamente grave accade nell’area con immediate e pericolose ripercussioni in tutta la Regione; ove ciò fosse vero, se tale assenza non appaia incongrua rispetto al ruolo che l’Italia ha storicamente svolto in Etiopia e nella Regione e agli interessi strategici che ancora persistono, oltre alle giuste aspettative che i popoli e i governi di Etiopia, Eritrea e Somalia nutrono nei confronti del nostro Paese;
se risulta al vero che non vi siano stati contatti di alto livello con il governo di Somalia, paese che rischia di pagare il prezzo più alto ove l’esercito etiope dovesse ritirarsi lasciando campo libero al fondamentalismo islamico e nel contempo alla penetrazione turca, la cui egemonia contrasta apertamente, non solo in quell’area, con gli interessi nazionali italiani, oltre a favorire il radicalismo islamico; se ciò corrisponde al vero, quale il motivo di questo disimpegno che contrasta apertamente con quanto più volte affermato in sede parlamentare e nei consessi internazionali oltre che negli incontri bilaterali;
cosa il governo intenda fare in sede bilaterale e multilaterale in sostegno dell’Etiopia e degli altri Paesi della Regione per supportare la composizione pacifica dei contrasti, sopperire alla nuova crisi umanitaria che rischia di coinvolgere anche il Sudan, paese già stremato sul piano umanitario, e per dare nuovo impulso al processo di pace che proprio il premier etiope Abiy aveva attivato e a cui Eritrea e Somalia si erano subito associati, al fine di evitare che la sollevazione del TPLF, con le probabili interferenze esterne di altri Paesi, possano invece interrompere;
se non ritiene che dietro la sollevazione della classe dirigente tigrina e nello specifico del TPLF, partito espressione della etnia tigrina che aveva guidato il Paese sin dalla cacciata di Menghistu e che ora ritiene di essere stata estromesso dal potere dal nuovo corso di Abiy, possono esserci anche le mire di Paesi che si sono sentiti esclusi dal nuovo corso politico dell’Etiopia e quindi dal processo di pace che ne è seguito, con la risoluzione del pluridecennale conflitto tra Etiopia ed Eritrea e del conseguente sostegno alla stabilizzazione della Somalia.
Un vero atto d’accusa per la latitanza del governo che mette cosi a rischio anche gli interessi nazionali in un’area strategica!

*Enrico Sicilia, collaboratore Charta minuta

Un premio per l’Africa (italiana)

“È un premio per l’Africa”, ha dichiarato il Premier etiope Abiy Ahmed Ali durante la cerimonia di conferimento del Nobel per la Pace. Il suo Paese, l’Etiopia, da poco più di un anno ha cominciato a scrivere una pagina di storia nel Corno d’Africa martoriato per troppo tempo da numerosi conflitti. I rapporti in questa Regione erano tesi in uno stallo che sembrava non risolversi, nonostante gli Accordi di Algeri che nel 2000 posero fine alla violenta guerra tra Eritrea ed Etiopia, iniziata nel 1998 con un saldo di decine di migliaia di morti in due Paesi già stremati da una guerra civile durata circa vent’anni. In tale contesto Aby Ahmed Ali, musulmano Oromo non legato emotivamente alle ancestrali dispute tra i due Paesi, è riuscito ad emergere realmente come uomo nuovo in grado di compiere il primo passo necessario alla demarcazione del confine, con la visita ufficiale di giugno dello scorso anno ad Asmara e con l’invito ad Addis Abeba rivolto al presidente etiope Isaias Afewerki.

Un elemento fondamentale, di politica interna, che ha caratterizzato l’azione di Abiy è stato la liberazione dei prigionieri politici, l’impegno per un multipartitismo vero e non di facciata, l’avvio di una serie di importanti riforme economiche. Un’azione di tale portata riguarda la il Corno d’Africa, riguarda parte dell’Africa Subsahariana, riguarda il Mediterraneo che vive sulle proprie coste un dramma della instabilità del continente africano.
Il significato della assegnazione del Nobel per la Pace ad Abiy dovrebbe fare riflettere chi ha potuto pensare anche solo lontanamente che tale importante riconoscimento potesse essere assegnato a Greta Thunberg. Da simpatizzante di Greta a cui va dato il merito di aver sensibilizzato la sua generazione di “gretini” (ed io sono un po’ uno di quei gretini âgé) verso una tematica importante, che tuttavia si cerca di affrontare concretamente dal 2015 a seguito dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, purtroppo lottando tra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della realtà, sarebbe ora di mettere le cose al proprio posto con più raziocinio e meno emotività. Grazie Greta per averci ricordato il motivo per cui nel dicembre 2015 a Parigi si sono riuniti i rappresentanti di 195 Paesi del mondo; quando avrai terminato la scuola e vissuto l’età post adolescenziale ed adulta farai anche tu grandi cose.
Chapeau al premier etiope Abiy ed al suo popolo per aver messo da parte il dolore per la morte dei propri connazionali e le distruzioni della propria “casa” per un obiettivo più grande: la Pace.

De Lutio: una pagina di storia in Corno d’Africa

D. La visita del Primo Ministro etiopico Abiy Ahmed ad Asmara e del Presidente eritreo Isaias Afewerki ad Addis Abeba, nella prima metà del luglio scorso, è stata una pagina di storia che ha colpito tutti gli osservatori del Continente africano. Ciò che abbiamo visto rappresenta davvero un punto di svolta negli equilibri del Corno d’Africa?
R. Senza dubbio è un punto di partenza. Quando iniziano processi, che devono risolvere questioni aperte da molti anni, è sempre difficile predire quale sarà il loro risultato.  La mia impressione è che siamo di fronte ad un vero cambiamento di scenario, reso possibile dal fatto che per la prima volta nella plurimillenaria storia dell’Etiopia un musulmano, di etnia Oromo, è alla guida del Paese. Quindi, una personalità non condizionata da legami ancestrali con la disputa tra Etiopia ed Eritrea, capace di creare le condizioni necessarie all’avvio delle attività di demarcazione della frontiera sulla base delle conclusioni della famosa Commissione di demarcazione, istitutita dagli Accordi di Algeri. Un altro elemento importante, questa volta di politica interna, è stata la liberazione dei prigionieri politici e l’impegno dello stesso Abiy a favore del multipartitismo effettivo e non di facciata. Infine, lo stesso Primo Ministro etiopico ha annunziato una serie di riforme economiche attese da anni – tra cui la privatizzazioe delle telecomunicazioni – che potrebbero “liberare” quelle energie, bloccate da decenni, e che potrebbero portare finalmente quel benessere che l’Etiopia ed il Corno d’Africa non hanno mai conosciuto. Il quadro politico dell’Etiopia e dell’intero Corno d’Africa è stato completamente bloccato per troppi anni, tanto sul fronte interno che su quello internazionale.
D. Nonostante l’Accordo di Algeri che portò alla fine della violentisisma guerra durata dal ’98 al 2000, vi è stato un protrarsi di rapporti molto tesi… come si è giunti ad un dialogo di tale portata?
R. Tanto in politica estera quanto sul fronte interno, l’Etiopia ha vissuto per oltre 10 anni in una situazione di completo stallo. Non va dimenticato che Addis Abeba è impegnata dal 2006 anche in Somalia, altro conflitto ancora irrisolto. Il tentativo di isolare l’Eritrea non aveva portato a risultati concreti ed anzi aveva contribuito al rafforzamento del regime ed alla fuga di migliaia di giovani, privi di concrete prospettive, come ben sappiamo in Italia dove sono giunte migliaia di govani eritrei. Ricordo che in varie occasioni  l’allora Primo Ministro etiopico Meles Zenawi invitatava gli Ambasciatori occidentali a non considerare il proprio Governo come un blocco monolitico. Sempre secondo Meles, il suo ruolo era semplicemente quello di ago della bilancia tra le tradizionali tendenze centraliste, contrarie sai all’indipendenza dell’Eritrea che alla regionalizzazione del Paese, e quelle disponibili a creare una nuova legittimità nazionale, basata appunto su federalismo anche etnico e su di un rapporto paritario con l’Eritrea. Ciò era in parte vero. Probabilmente è accaduto che una nuova etnia, ormai maggioritaria e tradizionalemnte ai margini della storia etiopica, è riuscita ad esprimere un leader di statura nazionale, non emotivamente coinvolto nella vicenda eritrea, capace di fare ciò che razionalmente tutti gli amici dell’Etiopia suggerivano da anni… incontrarsi e dialogare!
D. Oltre ai fondamentali passi mossi dai due leader, quanto e come peserà il ruolo delle due rispettive popolazioni nel processo di reale pacificazione?
R. Le popolazioni nelle loro diverse componenti, etniche e religiose, dovranno partecipare al processo di “normalizzazione” delle relazioni interpersonali. Non dimentichiamo che la guerra etio eritrea ha provocato decine di migliaia di morti, in due Paesi gia stremati da una guerra civile durata circa 20 anni! Ritengo tuttavia che, come sempre, la stragrande maggioranza della popolazione cerchi di vivere in pace e di dimenticare gli orrori delle guerre.
D. La Somalia è caratterizzata da una forte mancanza di autorità dello stato. La forte frammentazione del potere è la causa principale dello sviluppo di derive religiose che hanno aperto la porta all’ISIS. L’armonizzazione tra Eritrea ed Etiopia potrebbe beneficiare la Somalia e concorrere alla salvaguardia del Corno d’Africa da infiltrazioni terroristiche?
R. Senza dubbio sì ma è necessaria una premessa. Tradizionalmente, la Somalia è caratterizzata da una struttura socio politica sui generis, il Clan, ed ha solo tollerato l’esistenza di uno stato centralizzato, forte. Siad Barre, esponente di un piccolissimo clan tentò di superare la struttura clanica e di creare una Somalia unitaria ma il suo progetto fallì per ragioni troppo lunghe da spiegare ora. Va altresì tenuto presente che la guerriglia eritrea e poi quella delle altre etnie etiopiche contro l’Imperatore e, successivamente, il Derg hanno sempre ottenuto dalla Somalia aiuti e sostegno anche politico. Quello che è avvenuto in Somalia dopo la caduta di Siad Barre nel ’91 ha avuto pesanti conseguenze sull’Etiopia ed Addis Abeba ha sempre seguito con attenzione l’evoluzione del quadro interno somalo, cercando di evitare un coinvolgimento diretto delle potenze islamiche. Va anche ricordato che nel dopoguerra l’Etiopia è stata attaccata ben due volte dalla Somalia ed è riuscita ad aver ragione dei somali solo con molta fatica. Nei momenti di maggior tensione con Addis Abeba, Asmara sosteneva i movimenti somali contrari agli interessi strategici dell’Etiopia. Ora la speranza è che i due leader riescano a collaborare anche per i riflessi positivi che una Somalia stabile avrebbe sugli equilibri interni di entrambi i Paesi, anche nell’interesse delle rispettive Comunità islamiche purchè queste non siano state già infiltrate in maniera irreversibile dagli estremisti ilsamici.
D. L’instabilità e la conseguente precarietà economica del Corno d’Africa non ha giovato affatto neanche ai vicini Sudan, Sud Sudan e Kenya… luoghi dai quali una gran parte dei migranti raggiunge l’Europa attraverso l’Italia che ne è la porta nel Mediterraneo. Una pacificazione strutturata gioverebbe senz’altro al nostro Paese, anche in un’ottica di contenimento dei flussi migratori. Che ruolo dovrebbe e potrebbe svolgere l’Italia congiuntamente all’Europa?
R. Ovviamente, una stabilizzazione del Corno d’Africa sarebbe utile anche alla Regione mediterranea ed all’Africa sub-sahariana. Uno sviluppo civile ed economico di Eritrea ed Etiopia avrebbe conseguenze positive su tutta l’Africa ma anche sull’Europa. Tradizionalmente il Corno d’Africa è sempre stato la porta di ingresso dell’Islam verso l’Africa sub-sahariana ed in questi anni di estremismo islamico l’Europa così come i regimi laici africani e medio orientali avrebbero tutto l’interesse a prestare la massima attenzione a questo scacchiere. Ciò è particolarmente vero per gli europei ed in particolare per l’Italia. Il contenimento dei flussi migratori è un elemento centrale del dibattito politico italiano ed europeo ma dobbiamo anche riflettere sul fatto che l’Italia è in grado di svolgere un ruolo politico autonomo in Libia, nel Corno d’Africa e parzialmente in Medio Oriente. In raccordo con l’UE e con gli USA, l’Italia deve essere presente, aiutando i due Paesi nel processo di stabilizzazione del Corno d’Africa affinchè questo vada avanti con la necessaria velocità e per evitare che i due Paesi implodano, aprendo le porte dell’Africa sub-sahariana ai diversi gruppi terroristici di ispirazione islamica. Inoltre, la Regione ha bisogno di infrastrutture e si potrebbero quindi aprire prospettive interessanti per la nostra economia. Non dimentichiamo che Etiopia ed Eritrea sono gli unici Paesi dell’Africa sub-sahariana ad avere una struttura statuale stabile. Certamente andrà modernizzata e rafforzata ma costituisce un’ottima base di partenza. L’Italia ha ancora gli strumenti politici e culturali per svolgere un proprio ruolo, basti pensare a tutti i funzionari, i militari, gli agenti di polizia che abbiamo formato nelle nostre scuole, Accademie, Università a strutture uniche come l’Orientale di Napoli dove si insegnano ancora le principali lingue della Regione o al patrimonio di conoscenze dell’Istituto Italo-Africano, sospeso in un limbo giuridico da troppi anni. In conclusione, è necessaria da parte dell’Italia un’intensa azione nel Corno d’Africa, non per vuoto velleitarismo o nostalgismi ridicoli, ma perchè si tratta di difendere nostri interessi politici ed economici e perchè ne avremmo ancora i mezzi.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta