Pubblichiamo l’intervento dell’ambasciatore Gabriele Checchia a “FormarsiNazione”, la Scuola di Formazione sul web della Fondazione Farefuturo che ha delineato il “glossario nazionale”per la nuova classe dirigente. Tema della lezione: Imperi-Turchia
La Turchia è Paese erede di uno dei più grandi imperi che la storia abbia conosciuto, quello Ottomano che si estendeva dai Balcani al Corno d’Africa, dall’Egitto all’Anatolia all’Asia centrale.
Già questo può definire il peso politico di un impero che peraltro amministrava queste remote province in maniera abbastanza lasca, in quanto non si chiedevano particolari contributi, si esigeva solo il pagamento dei tributi e molte regioni potevano esercitare liberamente il loro credo purché non dessero segnali centrifughi nei confronti della Capitale imperiale.
Che cos’è oggi la politica estera di Erdogan? Sicuramente in essa confluiscono e convivono due componenti: quella neo-ottomana e quella panturca.
Vi è una sorta di tropismo della Turchia a guida Erdogan e AKP ( il “Partito della Giustizia e dello Sviluppo” da lui fondato ) in tali due direzioni . Tropismo del quale egli si è fatto interprete , seppure in maniera progressiva dal suo arrivo al potere nel 2002, come Primo Ministro conservatore islamico, poi come presidente della Repubblica dal 2014 ( con poteri ancora più estesi a partire dalla riforma in senso “presidenziale” avallata col “referendum”popolare del’aprile 2017).
Questo tropismo neo-ottomano ha trovato espressione anche in vari eventi di natura interna con ricadute internazionali: da ultimo la trasformazione in moschea di Santa Sofia, così come di quel gioiello di architettura bizantina che era la chiesa di San Salvatore in Cora recentemente riportata anch’essa a moschea, e la costruzione e inaugurazione nel maggio 2019 dell’enorme moschea di Camlica sul Bosforo nella parte asiatica di Istanbul ( inaugurazione presentata da Erdogan – tra le critiche dell’opposizione di matrice kemalista “per lo spreco di denaro pubblico che sarebbe stato più utile destinare alla sanità e all’educazione”) come “momento di riscatto per tutti i mussulmani” a fronte di una asseritamente dilagante “islamofobia” in Occidente.
Tutto ciò (vale a dire la fusione tra l’agenda mussulmana e quella pan-turca) non fa altro che confermare, in realtà, come l’abile Erdogan debba molto non solo al suo elettorato islamico-conservatore ma anche al suo alleato di governo : il partito “nazionalista” MHP ( “Milliyetci Hareket Partisi”) di Devlet Bhaçeli, formazione, quest’ultima, che coltiva un programma e una visione del mondo riconducibile a quella dei “Lupi grigi” di Alparslan Turkes .
A tale pronunziata attenzione alle istanze incarnate dal MHP Erdogan è spinto anche dal non disporre di una maggioranza assoluta in seno alla “Grande Assemblea Nazionale “( il Parlamento turco) : ciò che rende indispensabile l’apporto dei 49 deputati dell’MHP.
Accanto a questa componente neo-ottomana e panturca sussistono tuttavia anche elementi di continuità, nel posizionamento internazionale della Turchia di Erdogan, con quella di impronta laica e kemalista che cartterizzo’ la Repubblica turca a partire dalla sua fondazione e per molti decenni a seguire ( praticamente sino all’inizio degli anni 2000) . Faccio un esempio: ricorderete che uno degli ultimi atti di politica estera di Ataturk, poco prima della sua morte, fu il recupero del Sangiaccato di Alessandretta (che era sotto mandato francese) . Il ritorno di Alessandretta alla Turchia ( l’odierna Iskenderun , situata nella odierna provincia turca dell’Hatay) avvenne nel 1939 grazie a referendum forzoso dopo che l’anno precedente essa era stata occupata militarmente da forze turche.
Il timore di Ataturk era che chi controllava Alessandretta (in mani potenzialmente ostili come quelle della Francia ), potesse poi mirare, a partire di là, al “ventre molle del’Anatolia” e dunque alla stessa Ankara capitale della Repubblica nata sulle ceneri dell’Impero Ottomano. È interessante notare che molti anni dopo, alla metà degli anni 70′, l’operazione turca che portò all’invasione di Cipro e all’insediamento dell’esercito turco a Cipro nord partì proprio da Iskenderun.
Questa proiezione in chiave nazional-difensiva a partire dalla costa mediterranea, è una costante della politica turca, così come c’è continuità di attenzione da parte di Ankara al Mediterraneo orientale inteso come fascia di protezione e proiezione di “potenza”. Ne sono testimonianza le recenti iniziative del Presidente Erdogan in tale scacchiere: dall’acquisizione di fatto del controllo della Tripolitania ( dovendosi all’intervento militare turco il respingimento, nel giugno dello scorso anno, dell’offensiva lanciata dal Generale Haftar per acquisire il controllo anche di tale metà del Paese) all’assertività e accresciuta presenza mostrata nei mesi scorsi dalla Marina Militare turca nelle acque intorno a Cipro con chiara rivendicazione di sovranità di settori importanti delle stesse.
Accanto a elementi neo-ottomani e pan-turchi, nella politica estera e di proiezione di potenza dell’attuale Turchia, se ne collocano dunque altri nel segno della continuità con pregresse stagioni (di impronta certamente non islamizzante) della vita politica del Paese.
Vi è poi, nel posizionamento di Erdogan, anche una forte componente interna. In Turchia si voterà nel 2023 sia per le elezioni presidenziali che per le parlamentari. E’ scadenza alla quale l’attuale presidente e il suo partito al governo vogliono giungere in posizione di forza soprattutto alla luce del timore destato in loro dall’aver perso – come ho sopra accennato- nell’ultima tornata di elezioni amministrative ( primavera 2019) le più grandi città del Paese: a cominciare da Istanbul, che è come dire il “tesoro della corona” per l’ AKP. Quella Istanbul di cui Erdogan è stato agli inizi degli anni novanta sindaco iniziando proprio cosi la sua folgorante carriera politica. Aver perso , con Istanbul ( oltre che Ankara e Smirne) , il cuore pulsante della economia turca a favore del candidato dell’opposizione socialdemocratica- kemalista , Ekrem Imamoglu, è stato dunque per lui un colpo duro così come lo è stato per la sua visione di Turchia e per il suo elettorato di riferimento.
Questo dunque il quadro interno che vede Erdogan tentare di recuperare consensi galvanizzando e mobilitando la base tradizionale del suo elettorato attraverso i segnali di attenzione che ho sopra evocato.
A essi se ne aggiungono altri sempre di valenza islamico-nazionalista caratterizzati da un’accorta valorizzazione a livello mediatico di video che richiamano i “fasti imperiali” con elementi chiaramente islamici quale motivo di fondo e di “legittimazione” agli occhi del suo elettorato .
Come si colloca questa agenda di ritrovata di proiezione internazionale della Turchia sul piano geopolitico e dei suoi rapporti con l’Europa?
Intanto c’è un dato che non dobbiamo dimenticare: Erdogan, va detto per amore di verità, ha a lungo tentato soprattutto nei primi anni di mandato di avvicinarsi all’Europa, così come avevano tentato di avvicinarsi all’Europa i suoi predecessori. Basti ricordare che la Turchia è Paese candidato all’adesione dal 1963. Purtroppo questo processo non è mai giunto a compimento. L’Europa, è mia convinzione, avrebbe forse dovuto concedere qualcosa di più: un’apertura di credito alla Turchia pre-Erdogan che era quella più laica, e a noi a vario titolo più vicina.
Apertura di credito che avrebbe probabilmente anche potuto prendere la forma di un’opzione alternativa alla piena adesione: quella ad esempio di un “partenariato strategico” tra l’Unione Europea e la Turchia .
Opzione che avrebbe potuto all’epoca rappresentare, ritengo, il punto di equilibrio tra i Paesi membri dell’UE ( come l’Italia) decisi a fare il possibile per mantenere il paese anatolico in qualche modo agganciato all’Europa e al suo modello valoriale e quelli , più numerosi , contrari a un l’ingresso della Turchia nella UE- seppur nel medio/lungo periodo- per una seri di motivi non sempre esplicitati : che vanno dal peso demografico del Paese al suo essere a schiacciante maggioranza di religione islamica al timore della concorrenza dei suoi prodotti per esempio nel settore agricolo .
Un serio partenariato strategico con Ankara – con un consistente “volet” di dialogo politico e sui temi della sicurezza – avrebbe tra l’altro probabilmente consentito , se ben presentato, di gratificare comunque l’”orgoglio” turco: elemento quest’ultimo, osservo, da prendere in considerazione in qualsiasi interazione di natura politica e/o geo-politica con quel Paese.
Tutto ciò non è purtroppo avvenuto ed è ora inutile recriminare poiché è chiaro che siamo ormai fuori tempo massimo per un’ iniziativa di tale natura cui la parte turca del resto , almeno con l’attuale dirigenza, difficilmente sarebbe interessata.
Il rapporto della Turchia con l’Europa era e resta dunque difficile sullo sfondo di ambiguità e non dichiarate reticenze da ambo le Parti. I negoziati per l’adesione , iniziati nell’ormai lontano 2005, sono fermi dal 2016 – per motivi riconducibili in larga misura alle violazioni dei diritti umani in quel Paese ( violazioni oggetto di ripetute “condanne” anche da parte del Parlamento europeo). E nessuno davvero sa se, e quando, essi potranno riprendere.
Vistasi preclusa , anche se in buona misura per sue responsabilità, l’opzione europea Ankara ha ripiegato su quelle che erano e restano le sue zone storiche di influenza ( con un ritorno di attenzione verso talune di esse proprio dell’” epoca Erdogan” dopo decenni di relativo disinteresse delle “leadership“ di ispirazione kemalista più concentrato sull’estero vicino in linea con il messaggio di Ataturk che invitava i suoi compatrioti a non cercare avventure espansioniste in terre lontane….). Quindi, accanto al Mediterraneo orientale- rimasto sempre al centro delle priorità della turchia post-bellica- l’Africa settentrionale (Libia in primis),l’area del Golfo -grazie anche a un forte rapporto con il Qatar cementato da un comune più o meno visibile sostegno alla Fratellanza Mussulmana – il Corno d’Africa dove la Turchia a guida AKP si sta nuovamente posizionando in Somalia, Sudan, Kenya e Gibuti.
Un ritorno dunque per certi versi di sapore “imperiale” dettato anche , come detto, dal non aver trovato aperta la porta verso la dimensione europea della propria politica estera.
Mi sentirei di affermare che la Turchia ha scoperto i questi ultimi anni con assertività e senza complessi d’inferiorità, il ruolo che le è forse più congeniale di media potenza regionale, le cui aspirazioni sono evidenti e che Erdogan ha bene espresso in una formula che trovo efficace nella sua laconicità.
Riferendosi alla monopolio di fatto sulle grandi scelte internazionali dei Paesi membri permanenti del Consilio di Sicurezza, ha impiegato questa formula: “il mondo è più grande di cinque, noi Turchia abbiamo tutte le carte in regola per giocarci la nostra partita”. Questo è il lato assertivo della ascesa di Erdogan, ma dobbiamo anche ricordare che nell’inconscio collettivo della popolazione turca – e questo vale sia per l’attuale classe dirigente islamico-conservatrice, così come per l’opposizione di matrice kemalista – pesano ancora “complessi” importanti.
Il primo è quello di sentirsi isolati e rigettati dall’Europa; l’Europa non vuole la Turchia – questo è quanto il turco medio pensa – in quanto Paese “islamico” e con una popolazione in forte crescita . E’ sentimento è ben racchiuso nella formula “il miglior amico di un turco è un altro turco”.
L’altro grande non detto ma che pesa nelle scelte della politica turca e il cosiddetto d “complesso di Sèvres” : trattato dell’agosto del 1920 ancor oggi considerato da quella opinione pubblica, di qualsiasi orientamento politico , come la quintessenza del male sotto il profilo diplomatico perché è trattato che nella lettura turca – che contiene più di un elemento di verità – intendeva in realtà sancire la frammentazione definitiva dell’impero turco: con un’ Anatolia della quale larghe parti sarebbero state concesse alla Francia; la Cilicia alla Grecia, all’Italia parte della zona di Antalya e gli Stretti aperti alle unità navali di tutti i Paesi anche in tempo di guerra; uno Stato armeno a nord-est, e uno Stato curdo da ritagliare nelle regioni sud-orientali della Turchia.
Quello che i turchi allora paventavano è che tale smembramento della Turchia storica avrebbe in realtà sancito la fine della “turchità” nella sua dimensione etnica, linguistica e culturale.
Il complesso di Sèvres incide tantissimo ancor oggi nell’inconscio collettivo turco. Come sapete, Ataturk riuscì con la vittoriosa “guerra di indipendenza e liberazione ” , conclusasi nel 1923, a per così dire capovolgere il contenuto dell’intesa di Sèvres .
I nuovi assetti da lui conseguiti – con un pesante tributo di sangue, nel corso del conflitto con le potenze occupanti, da parte delle forze della appena nata Repubblica turca- trovarono la loro formalizzazione nel Trattato di Losanna ( 24 luglio 1923). Intesa che , come noto, consentì alla Turchia di salvare il proprio cuore anatolico”, di recuperare il controllo degli Stretti, evitare lo smembramento del Paese in altre entità statali o protettorati e mantenere la sovranità sulla sua costa mediterranea ed egea.
La “sindrome di Sèvres” continua però a pesare nell’immaginario turco : l’Occidente, si ritiene non solo a livello popolare ma anche in quei circoli intellettuali, complotta ancor oggi contro la Turchia ed complotto, si lascia intendere, che non terminerà mai…
Dopo il fallito colpo di stato del 2016 Erdogan affermò non casualmente…che se i “golpisti” fossero riusciti nei loro intenti si sarebbe profilata una nuova Sèvres. Nella sua analisi ( o forse sarebbe più appropriato dire nella sua narrativa..) uno dei principali obiettivi degli autori del tentato “putsch” sarebbe stato proprio quello di giungere ad una nuova frantumazione della Turchia.
Per tornare alle direttrici di politica estera della attuale Turchia ci troviamo oggi di fronte a una Turchia particolarmente assertiva e e profilata su vari più o meno limitrofi scacchieri. Per quanto riguarda il Mediterraneo orientale, vi è il contenzioso antico con la Atene e con Nicosia. Contenzioso che scaturisce dalla percezione turca di essere stata oggetto di condizioni “leonine” nei trattati successivi alla prima guerra mondiale almeno per quanto riguarda la sua proiezione marittima : con uno sbocco al Mediterraneo di fatto chiuso dalle incombenti acque territoriali greche e cipriote e un conseguente obbligo di ripiegamento sull’entroterra anatolico.
La dirigenza turca – sia di maggioranza che di opposizione- contesta in particolare la “doxa” secondo la quale, dal punto di vista del diritto internazionale marittimo, l’isola di Kastellorizo situata a pochi chilometri dalla costa turca ha diritto a una piattaforma continentale che la porterebbe addirittura – ove tale tesi fosse spinta all’estremo -all’interno dell’Anatolia e a poter rivendicare la sovranità su buona parte della costa turca. È una tesi che la Turchia rifiuta di accettare, con buone ragioni dal punto di vista dei diritti storici ma anche per considerazioni dettate ,direi, dal buon senso.
Da qui nasce anche il tentativo di sparigliare il gioco attraverso l’accordo con la Libia del novembre del 2019 per giungere a una delimitazione turco-libica della zona economica esclusiva (EEZ) che interseca la fascia di mare intorno a Cipro e alla Grecia. E’ un modo per dire, in sostanza, che non si può tornare ad una spartizione del Mediterraneo senza che i turchi siano parte dell’equilibrio complessivo.
In questo senso mi sembra interessante quella che oggi viene definita la dottrina della “ patria blu” (“Mavi Vatan” in turco) teorizzata dall’ Ammiraglio in pensione ma molto attivo a livello accademico Cem Gundeniz: autentico servitore dello Stato privo di affiliazione politica. Egli sostiene in una serie di recenti scritti che la “ patria blu” è in sostanza nient’altro che la rivendicazione dei “diritti storici” che la Turchia ha sul mare Mediterraneo, violati dai trattati successivi alla prima guerra mondiale. Soprattutto Ankara intende ancora lanciare così un messaggio forte alla Francia e alla Grecia: i due Paesi che più avrebbero tratto profitto dal Trattato di Sèvres ove non successivamente superato, almeno in parte, da quello di Losanna.
Il contenzioso tra Francia e Grecia, da un lato, e Turchia dall’altro ha infatti radici antiche e non è questione di questi ultimi mesi. Ho già ricordato la problematica della provincia di Alessandretta che vide Ataturk confrontarsi con la Francia ( potenza mandataria sul Sangiaccato).
Come si potrà uscire da questa situazione di confronto che mi sembra però aver conosciuto un qualche attenuazione in queste ultime settimane ( ma che resta comunque delicata e direi imbarazzante….alla luce della comune appartenenza dei tre Paesi alla NATO) ? Quello che mi sento di rilevare è che non è corretto asserire che la Turchia cerca necessariamente lo scontro. Ho letto con attenzione le riflessioni dell’Ammiraglio Gundeniz sul numero di “Limes “ dello scorso luglio.
Nella intervista a Marco Ansaldo egli afferma quanto segue:” La mia teoria della “patria blu” non entra nel dettaglio, non vuole regolare ogni problema aperto, ma è soltanto il modo di definire gli interessi marittimi turchi al grado geopolitico strategico”. Egli spezza quindi una lancia a favore del negoziato con Atene -in quanto Capitale più direttamente interessata – facendosi espressione di una asserita disponibiltà della “leadership” turca a una trattativa che coinvolga tutti gli attori coinvolti a cominciare dalla parte greca.
La vicenda libica ha anch’essa dei caratteri di tipicità che non vanno sottovalutati. In Libia la Turchia cerca infatti anche il recupero di una “profondità strategica” che le consenta di libertà di azione anche nello sfruttamento delle ricche risorse energetiche situate nei fondali di antistanti la costa libica. In questo senso appunto va letto il già citato accordo del 2019 per la definizione con la Libia della zona economica esclusiva. Ankara coltiva tuttavia in Libia ( e torniamo alla profondità strategica..) anche ambizioni sulla terraferma , avendo conquistato posizioni di controllo quasi esclusivo in Tripolitania per esempio con la base aerea di Ghardabiya e quella navale di Misurata.
Si tratta di una forte proiezione di potenza, cui potrebbe non essere estraneo il forte disappunto determinato in Erdogan dalla caduta di Gheddafi – con il cui regime regime le imprese turche stavano sviluppando una forte collaborazione economica ed industriale- a seguito di un intervento occidentale mai veramente digerito da parte turca .Vi è chi sostiene , e penso vi sia molto di vero, che la dirigenza turca – memore appunto di tale precedente – voglia ora giocare di anticipo, sostenendo in Libia il governo ( quello del “premier” al Sarraj) riconosciuto dalla comunità internazionale.
Ho cercato di illustrare il posizionamento turco sui vari dossier, in maniera meno “binaria” di quanto non faccia certa stampa italiana e non solo che veicola a volte analisi sommarie poco attente – come invece per correttezza e amor di verità dovrebbe sempre avvenire – alle ragioni alla base di talune scelte di Ankara in politica estera.
Noi sappiamo che vi è un progetto di sanzioni europee all’indirizzzo della Turchia per questa sua marcata assertività nei confronti del Mediterraneo orientale. Sanzioni che non passarono al Consiglio Affari Esteri dello scorso ottobre.
Se ne tornerà a parlare su proposta cipriota e francese il 9 e il 10 dicembre prossimi; ancora una volta è difficile fare previsioni ma al momento non mi sembra sussistano le condizioni per una unanimità su questo tipo di provvedimenti nei confronti di Ankara.
La Germania della Cancelliera Merkel è perplessa per tutta una serie di motivi e anche il nostro Paese nutre seri dubbi circa la opportunità di agire contro la Turchia con meccanismi sanzionatori.
Crediamo infatti che il dialogo con Ankara vada recuperato certo senza rinunciare ai nostri valori sul piano dei diritti e sul rispetto dei diritti internazionali, ma anche proponendo alla parte turca un’”agenda positiva” che consenta a quest’ultima di comprendere che in Europa la Turchia non ha solo avversari.
Un’agenda positiva, seppur da subordinare a talune condizioni irrinunciabili per noi europei, che non offra soprattutto pretesti a quelle componenti dell’opinione pubblica turca che esistono e che cercano un confronto duro e “ideologico” con l’Europa. C’è, e questo Ankara deve capire, un’Europa pronta al dialogo ma a certe condizioni. E’ un percorso stretto che però esiste e ritengo vada la pena di essere esplorato.
Al di là di quello libico e del Mediterraneo orientale vi è poi il “dossier” siriano. Anche qui la Turchia vuole giocare in prima fascia; sappiamo che in Siria il principale obiettivo della attuale dirigenza turca – venuta ormai meno la sua aspirazione iniziale alla deposizione di Bashar Al–Assad per il pesante intervento di Mosca a sostegno del regime – è tornato a essere quello di evitare a tutti costi la creazione di uno Stato curdo a ridosso del suo confine sud -orientale .
Su questo la Turchia ha ottenuto un buon risultato con la creazione riconosciuta dalla comunità internazionale e non contestata né da Russia, né da Stati Uniti di una fascia di rispetto di 120 km di lunghezza e 30 di larghezza.
Fascia di sicurezza che dovrebbe consentire ad Ankara di tenere a bada il movimento curdo dell’YPG (“Unità di Protezione Popolare “in lingua curda) che la Turchia interpreta come l’ altra faccia del PKK ( movimento terrorista per Ankara) , l’unica differenza risiedendo per la Turchia nel fatto che l’YPG opera a partire da basi collocate in territorio siriano. Probabilmente la realtà dell’YPG ( formaziona che ha svolto una preziosa opera di supporto delle unità americane impegnate nella lotta allo Stato islamico nel nord della Siria) è ben diversa, ma non è questa la lettura che ne danno i turchi. Questa idea della fascia di rispetto potrebbe essere comunque una soluzione tampone in attesa che maturino le condizioni per una sistemazione più chiara della Siria post-Assad se e quando questo avverrà….
Sicuramente Ankara vuole riservarsi un posto in prima fila al tavolo dove si sta negoziando a Ginevra il futuro costituzionale della Siria, e avere le imprese turche anch’esse in prima fila quando si tratterrà di conferire gli appalti per la ricostruzione.
Con riferimento infine agli interessi dell’Italia nei confronti del “fattore Turchia” vari sono i versanti a mio avviso da monitorare anche per cogliere e, se possibile evitare che acquisiscano carattere irreversibile, le dinamiche – ivi comprese quelle di natura psicologica – suscettibili di determinare in senso a noi sfavorevole il comportamento di Ankara nella Regione.
Uno dei più importanti tra tali versanti è quello riconducibile al già citato “complesso di Sèvres”. Mi sentirei di affermare che l’ effimero Trattato di Sèvres , che premiava essenzialmente Francia e Grecia e in qualche misura anche l’Italia ( oltre che – come detto- le aspirazioni statuali delle locali comunità curda e e armena), rappresentava nel mediterraneo oriental quello che l’Accordo Sykes-Picot è stato per i possedimenti imperiali ottomani in medio–oriente. Si trattava anche in quest’ultimo caso di territori già parte dell’Impero ottomano e allo stesso sottratti alla fine del primo conflitto mondiale : con Siria e Libano, nel caso di specie, concessi in mandato alla Francia ; Iraq e Palestina alla Gran Bretagna.
Due esempi quindi di accordi tra le potenze vincitrici che mettevano la Turchia nell’angolo.
Certamente Erdogan , da un lato, non vuole che questo si ripeta ; dall’altro, cavalca l’onda emotiva che tali memorie suscitano ancora in seno all’opinione pubblica turca per coltivare la sua agenda nazionalista e islamico-conservatrice in vista delle cruciali elezioni legislative e presidenziali del 2023.
Qual è in tutto questo l’interesse italiano? Direi quello recupero del dialogo con Ankara – capitale di un Paese troppo importante dal punto di vista geo-politico per essere lasciato al proprio destino (o al rischio di derive filo-russe e/o filo-cinesi) in particolare sui “dossier” per noi prioritari.
Prima di tutto la salvaguardia e il completamento del Gasdotto Trans- Anatolico (TANAP nell’acronimo inglese), così importante per noi come per l’Europa, che partendo dall’Azerbaijan – attraverso appunto la Turchia Grecia e Albania – si collegherà al Gasdotto Trans-Adriatico (la“Trans-Adriatic pipeline”/TAP) per terminare in Italia nei pressi di Lecce . E’ destinato a fare della Turchia lo snodo centrale (“hub”) del cosiddetto “corridoio meridionale del gas”) per apportarci, appunto, quel supplemento di risorse di gas che per un Paese come il nostro – così dipendente dall’estero per i propri approvvigionamenti energetici – è davvero elemento strategico . E ‘ evidente che se andassimo a uno “scontro” con Ankara una delle “vittime” sarebbe quasi certamente il futuro del Gasdotto Trans-Anatolico con la sua derivazione italiana.
Il secondo elemento di possibile convergenza tra i nostri interessi e quelli turchi – da vagliare alla luce delle discussioni che si stanno svolgendo in Europa sul futuro della Libia e di quelle che stiamo avendo e dovremo continuare ad avere in materia con Ankara – risiede nel fatto che sia l’Italia che la Turchia sostengono in Libia il legittimo governo di al-Sarraj. Penso che anche su questo versante vi possano essere margini per lavorare insieme;
Una nostra azione più assertiva a sostegno di Al-Sarraj probabilmente ci consentirebbe di anche di recuperare posizioni sul terreno in quella Tripolitania che Ankara tende ormai a considerare una sorta di dominio riservato; abbiamo visto che cosa è avvenuto con le nostre unità di pattugliamento costiero ormai con ufficiali turchi a bordo come istruttori. Quasi la Turchia, e non l’Italia, fosse il Paese donatore.
Anche nel Mediterraneo orientale abbiamo interesse a convergere per quanto possibile con Ankara: in chiave, ad esempio, di contenimento della visibile aspirazione francese a ritagliarsi un ruolo di decisore di ultima istanza. Non credo ci convenga assecondare queste tendenze anche perché la Turchia resta comunque un membro importante dell’Alleanza Atlantica: abbiamo quindi un obbligo ,da alleato ad alleato, a non consolidare in quel Paese un senso di isolamento e messa ai margini ( da parte, nel caso di specie, di altri alleati quali la Francia ela Grecia con i quali pure dobbiamo continuare a mantenere un dilaogo intenso anche su tali tematiche) .
Senso di isolamento che , per i motivi di ordine storico e psicologico che ho sopra cercato di illustrare , potrebbe produrre ricadute inquietanti sul piano del suo posizionamento geo-politico e securitario della Repubblica Turca.
Il problema Nato è in ogni caso molto complesso e meriterebbe un approfondimento difficile da svolgere in questa sede.
Vorrei ricordare infine il forte interscambio e collaborazione industriale che abbiamo con la Turchia: restiamo tra i principali partner economico-commerciali europei del Paese anatolico anche in una fase molto difficile della sua economia con una svalutazione della lira turca e un crollo degli investimenti esteri.
Ultimo elemento di riflessione che mi fa piacere condividere con voi è che se isolassimo la Turchia di Erdogan , in assenza di un per ora poco probabile cambio di maggioranza, rischieremmo di favorirne un’ulteriore deriva islamica in chiave anti-europea. Scenario certamente non auspicabile e da disincentivare in ogni modo possibile .
*Gabriele Checchia, ambasciatore, già rappresentante permanente d’Italia presso la Nato