Investimenti esteri, rischi e opportunità

La tutela dell’interesse nazionale, attraverso l’attivazione del “golden power” come scudo protettivo da incursioni estere lesive degli asset strategici italiani, è di fondamentale importanza soprattutto in un momento difficile e delicato come quello che stiamo attraversando.

L’Italia è infatti ancora oggi un Paese strategico nello scacchiere internazionale per rilevanti motivi geopolitici ed economici. Catalizza interesse e attrae investimenti esteri, i cosiddetti IDE (Investimenti Diretti Esteri, appunto), seppure ben al di sotto del proprio potenziale sia quantitativamente che qualitativamente. Gli IDE in entrata sono infatti rappresentati da poco più di 14.000 imprese a partecipazione o controllo estero, le quali però generano 1.300.000 posti di lavoro, un fatturato che supera i 500 miliardi di euro ed un valore aggiunto di oltre 100 miliardi di euro. Pur rappresentando solo lo 0,3% circa delle imprese attive in Italia, il loro peso sale a quasi l’8% degli addetti, a oltre il 15% del valore aggiunto prodotto e a poco più del 18% del fatturato complessivo.

Questo dice diverse cose: anzitutto che, rispetto alle altre potenze economiche mondiali, l’Italia ha una quota decisamente bassa di investimenti esteri; Gran Bretagna, Francia, Spagna e anche Germania, solo per rimanere in Europa, ne hanno molti di più pur avendo un appeal internazionale in diversi casi decisamente più basso del Belpaese. In secondo luogo che gli investimenti diretti esteri buoni generano posti di lavoro, ricchezza, quote ingenti di R&S oltre che di export e hanno un effetto benefico anche sulle filiere produttive. Basti pensare che, in media, le imprese a capitale estero presentano delle performance di gran lunga migliori in termini di valore aggiunto per addetto (86 mila contro 38 mila euro), grazie alle maggiori dimensioni medie di impresa (90 addetti per impresa, contro i 4 delle imprese domestiche). In generale, poi, gli IDE portano anche maggiori e diverse competenze, tecnologie, capacità manageriali, vantaggi di scala e di network. Non tutte le azioni in questo campo, quindi, sono di natura predatoria e potenzialmente pericolosa per l’interesse nazionale, anzi tutt’altro.

Da dove nascono quindi i timori che oggi bloccano da un lato i decisori politici e dall’altro gli investitori internazionali? Sicuramente da situazioni reali, come i recenti casi soprattutto di matrice cinese insegnano; ma anche dalla mancanza di una organizzazione efficace e ottimale degli organismi e degli strumenti preposti all’attrazione degli investimenti. Su questo dovremmo prendere esempio dalla Francia che da diversi anni lavora a difesa dell’interesse nazionale, eppure riesce ad attrarre più investimenti di quanto non faccia l’Italia. Per giocare bene la partita non basta quindi chiudersi in difesa ma bisogna anche sapersi proiettare in avanti, senza lasciare i fianchi scoperti.

Un assetto ottimale dovrebbe da un lato potenziare il CAIE, Comitato Attrazione Investimenti Esteri e, se già così non fosse, rafforzare il rapporto tra questo organismo interministeriale e l’organismo parlamentare preposto alla sicurezza nazionale, il COPASIR, in un’ottica di tutela dell’interesse nazionale ex ante. Dall’altro coinvolgere attivamente non solo, come in parte già accade, ICE Agenzia e Invitalia (chiarendone bene i ruoli) sul fronte della lead generation  e gestione dei dossier di candidatura dei potenziali investitori ma anche il Sistema Camerale italiano perché, tra l’altro, esso detiene l’unico database completamente informatizzato delle imprese (Registro Imprese, deposito bilanci, etc.), decisamente utile sia nel processo di big data analytics, sia nella fase ex post di “messa a terra” dei progetti di investimento buoni in ambito territoriale, passaggio questo ancora troppo debole e non adeguatamente ingegnerizzato nel flowchart dell’attrazione degli IDE.

Un miglior assetto in questo campo potrebbe da un lato porre un argine all’aumento oggettivo delle insidie nei settori strategici delle infrastrutture, dai porti al 5G ma non solo; dall’altro invertire la tendenza alla contrazione in atto, iniziata prima della pandemia e con essa ulteriormente aggravatasi, degli IDE buoni quelli cioè che creano valore per il Paese: nel 2019 l’Italia è scesa dal 15esimo al 16esimo posto a livello mondiale, che in soldoni vuol dire da 33 a 27 miliardi di dollari (fonte Unctad) con una perdita secca di 6 miliardi di investimenti rispetto all’anno precedente. L’Italia può e deve recuperare il terreno perso su questo tema, in sicurezza e con un unico driver: l’interesse nazionale.

*Enrico Argentiero, esperto mercati internazionali