La Francia e il deficit di classe dirigente

Le elezioni presidenziali in Francia chiudono una contesa che non ha mai visto mettere in discussione la rielezione di Emmanuel Macron. Un fatto questo di per sé inusuale negli ultimi anni, che hanno visto una sostanziale alternanza all’Eliseo al secondo turno favorita dalla progressiva frammentazione del quadro politico francese. Bisogna tornare al 2002, con la vittoria di Jaques Chirac su Jean Marie Le Pen per ritrovare un quadro simile ma non del tutto sovrapponibile a quello attuale.

Al di là delle lotte dinastiche che hanno interessato il Front National, in vent’anni è letteralmente cambiato il mondo, non abbastanza per propiziare una vittoria della destra, che attende con pazienza biblica il passaggio del cadavere nel fiume da ormai due decenni senza reali possibilità di successo. Forse il corpo esanime del nemico non arriverà mai e c’è pure il rischio concreto che a passare sia quello della Le Pen, a dispetto delle continue profezie a tinte fosche pronte a predire il crollo oggi della globalizzazione, domani dell’Unione Europea e chissà magari anche della società Francese.

Questa attesa spasmodica degli errori dell’establishment, ha portato a tralasciare contro ogni buonsenso la creazione di una vera classe dirigente, realisticamente in grado di affrontare i problemi che hanno fiaccato la popolarità di Macron in questi cinque anni e capace di proporsi agli elettori come una concreta scelta alternativa. È bene ricordare che il sistema istituzionale francese, oltre ad attribuire al Presidente della Repubblica un potere quasi “Jupiteriano”, plasmato ad immagine e somiglianza di De Gaulle, è permeato da una declinazione unica dell’elitismo che tutta la cittadinanza ha interiorizzato in modo più o meno consapevole e sicuramente sufficiente a scoraggiare avventure alla Masaniello a cui l’Italia è abituata da orami quasi un decennio.

Il Repubblicanesimo elitario si sostanzia nella sinergia tra alte sfere dell’amministrazione pubblica e vertici politici, da Pompidou a Macron, con l’eccezione di Sarkozy, spesso si ricorda come i Presidenti francesi abbiano in comune un percorso accademico scandito da tappe pressoché identiche, culminate con il diploma da enarca. Si potrebbe obiettare che ormai le pulsioni egalitarie hanno investito anche la Francia in quest’ambito e che l’ENA ha cambiato nome, una linea di pensiero a cui  Marine Le Pen non può mostrarsi estranea nella sua crociata contro i “privilegiati”. Tuttavia è questo il fattore che più l’ha contraddistinta negativamente rispetto al suo rivale Éric Zemmour, nonostante apparisse più moderata infatti, la vicinanza del leader di Reconquête ai circoli del potere editoriale e al mondo dei media di Vincent Bollorè, l’ha portato a coagulare pur con un risultato sotto le aspettative il sostegno di una buona parte della potenziale classe dirigente affine anche al Front National. Facile immaginare le conseguenze che ha sortito un simile depauperamento sulle ambizioni di governo della destra. Marine Le Pen non può neppure impiegare l’ottimo ma pur perdente risultato delle urne per fugare i dubbi che adombrano la sua reale capacità non solo di essere eletta vincendo al secondo turno, ma di incarnare un ruolo che in Occidente è l’apoteosi del verticismo politico, senza aver ricoperto prima d’ora cariche diverse dalla guida del maggiore partito di opposizione.

È quindi la mancanza degli attributi tecnico-politici ad aver allontanato gli elettori dal Front National ? Anche la Francia negli ultimi anni è stata interessata, in misura minore dell’Italia, da un fenomeno di perdita del potere d’acquisto chiamato “grand déclassement”: inflazione, crisi energetica e transizione ecologica sono stati sufficienti per attizzare il fuoco lepenista ben oltre il 40%, ma in misura lontana dal convincere i francesi della praticabilità di una soluzione politica basata su un programma di governo realmente alternativo a quello del presidente uscente.

Ciò non si è verificato forse perché un orientamento così governista non era neppure all’ordine del giorno di Marine Le Pen. Non basta infatti aver intrapreso un percorso di “normalizzazione” rispetto all’eredità politica paterna, sfociato nella costituzione del Rassemblement National e in un generale cambio di toni rispetto alla stagione politica passata. Marine Le Pen non ha mai dato l’impressione di voler prendere in mano le redini del paese e la tentazione della rendita di posizione dell’eterna opposizione può spiegare la velleitaria assenza di contenuti, spesso sfociata nella contraddizione come nel dibattito televisivo, da cui infatti è risultata sconfitta. La percezione di Macron come un bene rifugio dell’elettorato francese, rende la sua rielezione una vittoria parziale agli occhi dell’opinione pubblica che non l’ha ancora pienamente assimilato nelle categorie politiche tradizionali e con cui ha scontato grandi cali di popolarità durante il mandato.

Quando Chirac venne rieletto venti anni fa con un margine di quasi 60 punti, incarnava l’unità repubblicana e sia gli elettori che i candidati tradizionali ne riconobbero in modo esplicito l’assoluto ruolo di garanzia. Il caso di Chirac è emblematico perché sette anni prima aveva trionfato a sorpresa al primo turno contro il Primo Ministro uscente Balladur e poi al secondo con Jospin, facendo leva già allora sul tema della frattura sociale che in un paese come la Francia, meno disposta rispetto ad altri a rinunciare alle conquiste del welfare state, assume una dimensione trasversale comune a tutto l’elettorato.

Macron tuttavia non è Chiarc e pur vantando un successo solido, ma meno granitico del 2017, rischia di apparire solo come la migliore delle alternative possibili al Lepenismo, capace di coagulare intorno a sé consenso più per necessità di impedire l’ascesa del Front National che per gradimento elettorale.

Di conseguenza, la condizione del “migliore dei candidati possibili” continuerà a giocare a favore di Macron e degli altri leader europei finché i sostenitori di una proposta politica alternativa non si dimostreranno in grado di offrire all’opinione pubblica dei loro Stati pari garanzie sull’idoneità politica e tecnica richiesta dal ruolo di Capo di Stato o di Governo. Un simile processo di maturazione richiede innanzitutto la creazione di una classe dirigente in grado di offrire ad un presidente e al suo governo gli strumenti minimi per maneggiare la complessità della realtà odierna, prevedendo allo stesso tempo soluzioni in grado di incidere favorevolmente su temi in continuo mutamento, che vanno al di là delle conseguenze prodotte sulla vita di tutti i giorni come il caro benzina o l’aumento del prezzo dell’energia.

In Italia in particolare il centrodestra rischia di trovarsi in una situazione altrettanto spiacevole, con la differenza che mentre i risultati del primo mandato di Macron sono inequivocabili sia in termini di crescita economica che di riduzione della disoccupazione, in Italia altrettanto non si può dire degli esecutivi guidati dal Partito Democratico in questi ultimi 9 anni. Con la parentesi del primo governo Conte, il centrosinistra ha potuto beneficiare di una continuità politica e amministrativa pressoché ininterrotta, unita alla sostanziale benevolenza se non acquiescenza dell’Unione Europea a fronte di dati economici di gran lunga inferiori a quelli programmati nei documenti di bilancio, che non sono in alcun modo comparabili con i ritmi sostenuti della Francia ben prima della pandemia. Quello che è in apparenza un grande rompicapo politico, deve essere uno stimolo affinché il centrodestra si doti finalmente di un gruppo dirigente in grado di presentarsi ai mercati e al mondo senza ingenerare quei dubbi o insicurezze che, uniti alla litigiosità quasi puerile della coalizione, ne hanno impedito l’approdo a Palazzo Chigi. Solo dalla consapevolezza dei limiti dell’attuale quadro politico, per altro comuni a tutti gli schieramenti, potrà nascere una proposta di governo realistica e concreta che permetterà nel 2023 di ritornare al timone del paese.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Macron- Le Pen al duello finale

Parigi, 30 marzo

“Rien n’est joué, il faut mouiller la chemise”. “I giochi non sono finiti, bisogna bagnarsi la camicia”, cioè diamoci da fare perché la vittoria al secondo turno non è scontata. La preoccupazione è stata espressa da Emmanuel Macron mercoledì scorso all’ultima riunione del Consiglio dei Ministri, secondo quanto riferisce uno dei presenti.

Nessun problema al primo turno che si terrà domenica 10 aprile. Tutti i sondaggi danno il Presidente quasi al 30%, 9 punti avanti alla probabile sfidante Marine Le Pen che supera a sua volta Jean-Luc Mélenchon, candidato della sinistra, fermo al 14% ed Eric Zemmour, estrema destra, all’11%.

Ma il secondo turno, il 24 aprile, non sarà una

passeggiata per Macron. A preoccupare molti esponenti di En Marche, è l’astensionismo che potrebbe toccare il record del 30% e penalizzare principalmente il partito del Presidente. Molti elettori che al primo turno dicono di votare per la sinistra, non sono sicuri al secondo turno di convergere su Macron, piuttosto pensano di non recarsi alle urne.

Il malcontento a sinistra viene alimentato anche dalla riforma che porterà gradualmente da 62 a 65 anni l’età pensionabile. Una misura questa duramente criticata da Marine Le Pen che reclama “il diritto al riposo per le persone più fragili”. Aggiungi la rabbia non del tutto sopita dei gilet gialli e il quadro si complica per Macron.

I sondaggi degli ultimi giorni che danno in salita Le Pen preoccupano Il Presidente. Lei, la leader di Rassemblement National, ha impostato la campagna elettorale in difesa dei più deboli, un “patriottismo sociale” che le vale nel suo ambiente il titolo di “petit mer” del popolo.

Il ministro dell’Interno Gerard Darmanin ha candidamente espresso a France 5 il timore che la destra possa vincere le elezioni. Un timore o una speranza manifestati da numerosi osservatori politici.

Finora Macron ha coltivato la sua immagine a livello internazionale come presidente di turno del Consiglio Europeo e nel ruolo prestigioso che si era ritagliato nella trattativa per fermare la guerra.

Ma si osserva che le fasce più deboli colpite economicamente dalla crisi si preoccupano più del potere d’acquisto che dell’Ucraina.

Solo da lunedì scorso, 28 marzo, Macron si è immerso anima e corpo nella campagna elettorale. Tre punti principali nel programma del Presidente: lavoro, giovani, ecologia. E la rivendicazione delle cose fatte soprattutto nella sanità: rimborso delle spese per occhiali, cure dentarie e apparecchi acustici.

Maggiori aiuti a chi è in difficoltà, nel programma di Marine Le Pen, lotta alla criminalità e certezza della pena. Quanto basta per sperare di cavarsela questa volta nel duello finale per l’Eliseo, l’ultimo duello perché se perde , ha detto, non si ripresenterà più. Quella attuale è per lei una condizione migliore rispetto al 2017 quando uscì con le ossa rotte dal confronto televisivo con Macron. Stavolta le riconoscono una maggiore padronanza degli strumenti mediatici. Non solo. La presenza alla destra estrema di Zemmour, impegnato principalmente a frenare l’immigrazione, fa da parafulmine alle accuse che pendevano in precedenza sulla testa della figlia di JeanMarie Le Pen. Certo, si contesta a Marine il suo rapporto con Putin. Ma lei minimizza: se c’è un presidente francese che non ha avuto rapporti con Putin lanci la prima pietra.

*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

DEMOPATÌA, IL MALESSERE CONTEMPORANEO DELLE DEMOCRAZIE

Da anni – o forse da sempre – la democrazia liberale è considerata un regime in crisi. Il suo essere plurale e aperta la rende facilmente bersaglio di interpretazioni critiche e di profezie nefaste circa la sua prossima fine. Abbiamo letto di “tramonti dell’Occidente” e di democrazie decadenti lungo tutto il Novecento, almeno fino al crinale storico del 1989. Proprio la caduta del muro di Berlino sembrava aver segnato la fine delle alternative, la “fine della storia” per dirla con Fukuyama.

I regimi liberaldemocratici avevano vinto, non c’erano più reali competitor tra i sistemi politici. Eppure, proprio aver creduto che quel prodotto tipicamente occidentale e moderno, quella democrazia liberale e fondata sul libero mercato e sul capitalismo, fosse ormai un regime invincibile e destinato a essere esportato come benchmark per ogni comunità politica si è rivelato un grave errore. Un errore prima di tutto concettuale: quello cioè di aver considerato la politica come un terreno ormai neutro, regno della razionalità strumentale, della governance intesa come better regulation, dei governi come amministrazioni di condominio. Il regno dell’ordinaria amministrazione e delle scelte di policy basate su criteri scientifici. La fine delle polarizzazioni ideologiche e il trionfo del New Public Management. Oggi possiamo dire che non è andata proprio così, non tanto per la comparsa di nemici esterni, quanto per la riproposizione di problemi interni, tutti nostri, occidentali. Esiste un malessere attuale, contemporaneo, delle democrazie occidentali che non era stato previsto in quegli anni. Il malessere di oggi è prima di tutto una crisi di accountability: il gap tra le aspettative del popolo (il demos) e le risposte dei governi (il kratos) tende ad aumentare da diversi decenni. I sintomi di questo malessere sono numerosi.

Recentemente ho provato a isolarne alcuni:1 calo tendenziale della fiducia nei partiti, nei politici di professione e nelle istituzioni rappresentative; riduzione della partecipazione elettorale; aumento della volatilità elettorale; incremento del numero dei partiti; nascita e morte (politica) repentina di innumerevoli nuovi partiti; intensificazione dell’uso dei referendum ad hoc; riduzione della durata media in carica dei governi; diffusione di stile e atteggiamento populisti. Alcuni di questi sintomi sono ambivalenti nell’interpretazione. Ad esempio, una maggiore volatilità elettorale può essere letta come una più ampia libertà di scelta per l’elettore. Allo stesso modo l’incremento dell’uso dei referendum – e delle consultazioni popolari, anche online – sembrerebbe un buon sintomo democratico, non un sintomo di crisi. Tuttavia, anche questi due fenomeni, se letti guardando al big picture, ossia incrociando i dati con quelli degli altri sintomi, ci dicono altro: l’elettore più che libero sembra totalmente disorientato nelle sue scelte, spesso improvvisate, di impulso e “disperate”; i referendum risultano sempre più spesso un modo per ridare “lo scettro al popolo”, da parte di una classe politica progressivamente delegittimata e timorosa di compiere scelte impopolari.

Tutti questi sintomi descrivono una democrazia indebolita (specie sul suo versante liberale), con un demos partecipe a intermittenza, apatico e perennemente insoddisfatto, sempre più spesso mosso da quelle che possono essere definite le tre “i”: istinti, istanti e immaginario. E che sostituisce frequentemente il cosiddetto “voto di opinione” con il “voto di impulso”, una quarta “i”. Nella letteratura politologica recente si possono ritrovare numerosissimi “colpevoli”, gli agenti patogeni del malessere: la crisi dei partiti e della rappresentanza, la mediatizzazione della politica, la personalizzazione/leaderizzazione, la fine delle ideologie, l’arrivo della postverità e dei populismi e tanti altri fenomeni, ognuno dei quali ha ovviamente il suo peso e costituisce un problema reale. Tuttavia, se tutti questi agenti sono reali e sono diffusi praticamente in ogni regime democratico, deve esserci qualcosa di più profondo. E, andando in profondità, si arriva alla base, ossia al popolo. I nostri mutamenti come cittadini sono alla base dei mutamenti del sistema politico. Se la democrazia è malata, lo è perché si è ammalato il demos. In questo senso è una “demopatìa”.

Nello specifico, si tratta di una sorta di patologia autoimmune e degenerativa, nel senso che si è prodotta a seguito di mutamenti fortemente voluti in tutto l’Occidente e che proseguono e si intensificano nella contemporaneità. Il malessere democratico deriva, cioè, dalla lunga transizione alla postmodernità (o, per alcuni, all’ipermodernità): individualizzazione, fine delle grandi narrazioni, perdita del senso sociale, crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive, nuove percezioni e concezioni del tempo e dello spazio, sindrome consumistica e logica dell’“usa e getta”, crisi delle identità e fine delle comunità solide, narcisismo, incremento dei non luoghi e delle gratificazioni istantanee, ritorno a logiche di “folla” più che di massa. Se la società diventa prima di tutto psicologica, egocentrata e individualizzata, ogni settore della nostra esistenza ne risente: dall’economia, alla cultura, alla politica. Ciò non vuol dire che la politica non sia esente da colpe.

Tuttavia, le sue responsabilità vanno lette all’interno di una riflessione ampia, di una serie di mutamenti sistemici che per certi versi la “obbligano” a essere colpevole. Lo stesso ragionamento può essere fatto per i mass media. Le innovazioni tecnologiche sono i grandi motori di questi cambiamenti antropologici. Ogni innovazione è un medium e ci cambia, a prescindere dall’utilizzo che se ne fa: questa era la tesi di McLuhan, racchiusa nella celebre formula “il mezzo è il messaggio”. Concentrandoci sui mass media, il passaggio dall’era tipografica a quella televisiva ha comportato determinate conseguenze. Quello dall’era televisiva a quella digitale ne comporta altre. Tutte però vanno nella stessa direzione: incrementano la velocità e l’accumulazione di informazioni premiando la sintesi, e riducono conseguentemente la concentrazione e l’approfondimento; valorizzano “istinti e istanti” e allontanano la logica e il ragionamento; esaltano l’immagine e penalizzano il testo scritto; ricercano il sensazionalismo “a frammenti” per catturare l’attenzione e alimentano l’incoerenza nel discorso pubblico; ipersemplificano e banalizzano ogni argomento; elevano a notizia fenomeni irrilevanti (ma pop) e tengono fuori dall’agenda mediatica reali priorità (non pop perché complesse) e così via. In questo senso, la demopatìa ha luogo sia per ragioni storico-culturali (la modernità che produce “inevitabilmente” la postmodernità) che per ragioni tecnologiche (la transizione dall’era tipografica a quella digitale), entrambe legate a doppio filo: tutte le innovazioni tecnologiche recenti e vincenti sono strumentali e funzionali alla filosofia moderna. La accompagnano e ne costituiscono un derivato.

Questo mutamento è totale perché cambia il nostro modo di percepire le cose, di pensare e di comportarci. Quella che oggi definiamo digital transformation è a tutti gli effetti una transizione antropologica, fondata sulle innovazioni tecnologiche e sorretta dalla società dei consumi. In sintesi, potremmo dire che oggi il consumatore ha sostituito il cittadino, anche in politica. Il pubblico è sempre più individualizzato; è composto da elettori-consumatori via via più insoddisfatti e alla ricerca di nuovi stimoli forti e spiazzanti (che è esattamente la logica di base della società dei consumi), di istanti pieni di dopamina, di gratificazioni immediate e di acquisti d’impulso. Ciò che noi chiediamo alla politica di oggi non è più un modello di riforma sociale (tipico dell’era del voto ideologico, del Novecento pieno, del “secolo breve”) o un insieme di soluzioni di policy che riteniamo praticabili e vincenti (come era previsto invece subito dopo il 1989, nell’era del presunto voto di opinione). Noi cerchiamo fondamentalmente emozioni forti e conferme delle nostre convinzioni, peraltro sempre più instabili. Cerchiamo sintonia emotiva, pillole psicoterapeutiche per le nostre insicurezze, storie da comprare che siano il più possibile tarate sulla nostra. Eroi individuali come appigli salvifici, come nuove scorciatoie cognitive che hanno sostituito i simboli, le ideologie e la rappresentanza “solida” del Novecento. Ciò fa sì che la politica performante, in un’ottica di cattura del consenso, sia sempre più quella che plasma la propria offerta in base ai desiderata della domanda, cioè del pubblico. Ecco perché si può definire la leadership contemporanea come followship: i leader vincenti di oggi sono quelli che meglio degli altri si sintonizzano sulle oscillazioni continue dell’opinione pubblica. Non ci guidano verso idee loro, convincendoci che siano le migliori.

Ci vendono idee nostre come fossero loro. Questo facilita l’ottenimento del consenso, ovviamente. Specie nel brevissimo periodo, che è ormai l’unico che conta, in un diluvio di stimoli quotidiano che finisce per favorire l’oblio immediato e l’incoerenza come virtù. Tuttavia, nonostante questi accorgimenti tattici e funzionali, i governi durano mediamente meno di prima e l’insoddisfazione del demos continua a crescere perché entra in gioco quella che Christian Salmon ha definito la “cerimonia cannibale”. Per catturare la nostra attenzione e il nostro consenso, i leader-follower sono costretti a seguire la logica dei media: devono fare sensazione, altrimenti non li percepiamo neanche, all’interno dell’oceano di informazioni nel quale siamo immersi. Per fare sensazione devono promettere “mari e monti” e farlo con un piglio fortemente volontaristico (voglio dunque posso, volere è potere) e con un taglio personale (quasi biopolitico, di intimate politics). Quando però si è chiamati a mettere in pratica le promesse (ossia una volta al governo), subentrano tutte le difficoltà: la complessità del reale e dei fenomeni che si affrontano; le risorse limitate; le opposizioni che hanno carta bianca per riposizionarsi su ogni tema, mentre chi governa deve decidere e dunque essere più coerente e lineare, per definizione; le cose buone che non fanno notizia, mentre quelle negative sì e dunque l’opinione pubblica fatica a percepire cambiamenti positivi e spesso li considera come “atti dovuti” e magari tardivi; la personalizzazione che rende i governanti di turno più precari di un tempo, perché l’immagine di una persona è più vulnerabile di quella di un’ideologia o di un partito (basti pensare a quanto oggi sia un attore politico decisivo la magistratura inquirente); la neofilia, la voglia di novità del consumatore che semplicemente si stanca e ha bisogno di nuovi stimoli. E dunque cestina in tempi sempre più rapidi l’ultimo leader di turno che gli ha fatto battere il cuore. L’eroe diventa presto capro espiatorio, prima di sparire nell’oblio totale. E il volontarismo (impotente) si trasforma in velleitarismo e continua ad alimentare l’insoddisfazione verso la politica in generale perché questa “cerimonia” si situa in un inevitabile vortice, in un trend necessariamente crescente di stimoli, promesse, sensazioni, emozioni.

Quello che si configura, in termini di rendimento democratico, è indubbiamente un vicolo cieco. Perché tutti i settori e le variabili coinvolte spingono verso la stessa direzione: società (dei consumi), mass media, opinione pubblica e politica sono avviluppate entro logiche tra loro coerenti, ma che conducono esattamente nel punto in cui siamo. Ecco perché a oggi nessuno possiede una terapia valida. Ogni ipotesi che provi a cambiare singoli pezzi del puzzle, per quanto ambiziosa, non può funzionare. Perché la malattia è più profonda, riguarda ognuno di noi nel suo quotidiano, nel suo essere cittadini, consumatori, elettori, persone. Tuttavia, prendere coscienza della profondità del malessere, per quanto a suo modo deprimente, può già costituire un punto di partenza “terapeutico”. Per dirla con Giorgio Agamben, «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio». Chi vede solo le luci – invertendo per certi versi il mito platonico della caverna – è solo accecato da una quotidianità febbrile e satura di stimoli, da cui di fatto è agito. Per salvare la democrazia, dobbiamo fare i conti con noi stessi. A partire dal nostro buio, individuale e collettivo.

*Luigi Di Gregorio, docente di Comunicazione politica, pubblica e sfera digitale all’Università della Tuscia, Viterbo

Dopo le regionali: cinque punti-chiave

L’Emilia-Romagna rimane al centrosinistra, la Calabria cambia e sceglie il centrodestra: questi i verdetti della prima tornata elettorale dell’anno, sorta di “aperitivo” di quella più ampia che a fine maggio vedrà coinvolte altre sei regioni (Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana e Veneto). Vediamo cinque punti-chiave per capire gli orientamenti che sono emersi da queste consultazioni.

 

Il disfacimento del Movimento 5 Stelle. Fiaccato dalle dimissioni da capo politico di Luigi Di Maio e alle prese con una crisi interna conclamata, nel Movimento sembra già arrivata l’ora del “liberi tutti”. Emergono chiaramente tre schieramenti: una parte vorrebbe allearsi stabilmente con il Partito Democratico, una seconda vorrebbe riabilitare la vecchia linea “autonomista”, una terza continua ad avere nostalgia di Salvini. E se è vero che i grillini non hanno mai brillato alle elezioni amministrative, è altresì vero che si è ormai consolidato un trend negativo che ha portato alla smobilitazione in Emilia-Romagna come in Calabria: in quest’ultima regione il Movimento è addirittura fuori dal consiglio regionale, non avendo superato lo sbarramento dell’8% previsto dalla legge elettorale calabrese. In Emilia-Romagna la maggior parte degli ormai ex elettori grillini ha votato per Bonaccini, incidendo in maniera decisiva sulla sua vittoria (che anche in virtù di tale fattore è risultata essere più ampia delle previsioni).

La sconfitta (?) di Salvini. Può un leader che porta il proprio partito a raggiungere quasi il 32% nella regione politicamente più ostile – e ad aumentarne il consenso di quasi 200 mila voti rispetto alle ultime elezioni politiche – essere bollato come “il grande sconfitto” di questa tornata elettorale? Sì, perché la politica non è una scienza esatta e spesso risponde più alle emozioni che ai numeri. Quel 32% appare come una sconfitta perché le aspettative erano altre: e paradossalmente era stato proprio Salvini a crearle. La “nazionalizzazione” – e l’eccessiva personalizzazione – della campagna elettorale hanno pagato solo parzialmente in una delle poche roccaforti rosse rimaste. Rimane qualche utile lezione per le campagne future: prima fra tutte, la necessità di allargare le coordinate del voto leghista, che non riesce ancora a sfondare nelle grandi città; in secondo luogo, la necessità di diversificare lo stile comunicativo.

Forza Italia e il partito del Sud. Un imbarazzante 2,5% in Emilia-Romagna, il 12,3% in Calabria dove esprime il nuovo governatore, Jole Santelli: qual è la “vera” Forza Italia? La risposta è semplice se si osservano i trend delle ultime elezioni politiche, europee e amministrative. Come lo stesso Silvio Berlusconi ha affermato in una recente intervista, Forza Italia si sta caratterizzando come “partito del riscatto del Sud”. E non può che essere così, considerato che nelle regioni del Nord Forza Italia è praticamente sparita. Questo, tuttavia, è un problema per tutto il centrodestra: il mancato apporto in termini numerici di Forza Italia per Lucia Borgonzoni è stato un altro fattore determinante per la vittoria di Bonaccini. All’orizzonte ci sono le regionali in Campania, dove Forza Italia si appresta a sostenere un “suo” uomo, Stefano Caldoro, ma anche le regionali in Toscana, dove il partito esprime ottimi amministratori locali e dove il centrodestra non deve fare l’errore di partire già sconfitto.

La crescita costante di Fratelli d’Italia. Non è più una novità: anche in Calabria ed Emilia-Romagna il partito di Giorgia Meloni gode di ottima salute, raggiungendo percentuali intorno al 10% e ponendosi stabilmente come seconda forza della coalizione. Fratelli d’Italia continua a giovarsi da un lato della debolezza di Forza Italia, dall’altro del logoramento di Matteo Salvini dovuto alla sua sovra-esposizione mediatica: è probabile che nei prossimi mesi la percentuale del partito continui a crescere, considerato che Giorgia Meloni intende esprimere le candidature a governatore per le regionali in Puglia e nelle Marche. La concreta possibilità che venga varata una legge elettorale proporzionale aumenta la competizione all’interno del centrodestra, e Giorgia Meloni è attualmente la più in forma, come mostrano i sondaggi che la danno al primo posto in termini di gradimento.

La “vittoria” del Partito Democratico. La vittoria in Emilia-Romagna è, più che del partito, la vittoria di Stefano Bonaccini e del suo team di comunicazione, che ha saggiamente rinunciato a posizionare il simbolo del PD accanto al candidato e ne ha “rinfrescato” l’immagine. Bonaccini non si è lasciato trascinare nelle vicende romane e ha impostato una campagna elettorale prettamente territoriale, imperniata sulla presentazione dei buoni risultati dell’amministrazione uscente. C’è poi da ricordare che il campo di battaglia era l’Emilia-Romagna, che sta al PD come il Veneto sta alla Lega, dunque la vittoria era il minimo sindacale. Il bilancio finale di queste tornata elettorale, in verità, segna per il centrosinistra la perdita di un’altra regione, la Calabria: ora il centrodestra governa in 13 regioni, il centrosinistra in 6. Rimane interlocutorio il rapporto con le Sardine il cui apporto, come già evidenziato nella precedente analisi, è stato decisivo per contrastare Salvini sul piano identitario e per risvegliare una parte dormiente dell’elettorato di centro-sinistra: ma il dialogo con il Partito Democratico è solo all’inizio.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Manifesto contro il proporzionale

Il governo giallo-rosso è nato con due precisi obiettivi. Il primo è controllare l’elezione del presidente della Repubblica nel 2022; il secondo è modificare la legge elettorale per “disinnescare” una futura vittoria della coalizione di centro-destra, maggioranza nel Paese. Partito Democratico e Movimento 5 Stelle stanno già lavorando al ritorno del proporzionale “puro”, senza alcun elemento maggioritario. Una decisa opposizione a questo piano scellerato può costituire, senza dubbio, il primo banco di prova per una rinnovata unità del centrodestra. Il “no” al proporzionale deve essere netto, senza se e senza ma, senza distinguo e postille da azzeccagarbugli: vediamo perché.

  1. Il proporzionale è stato già bocciato dagli Italiani mediante referendum abrogativo. Il 18 aprile 1993 si recò alle urne oltre il 77% degli aventi diritto e ben l’82,74% votò in favore dell’abrogazione di alcune disposizioni della legge elettorale in vigore per il Senato. Questo risultato – combinato con la precedente abrogazione, avvenuta sempre per via referendaria il 9 giugno 1991, di alcune norme relative alla legge elettorale per la Camera – portò il Parlamento ad approvare due leggi (una per ogni ramo parlamentare) che introducevano un sistema elettorale misto basato sull’elezione di tre quarti dei deputati e tre quarti dei senatori con sistema maggioritario a turno unico nell’ambito di collegi uninominali. Solo i restanti seggi venivano attribuiti con il sistema proporzionale.

 

  1. Il proporzionale è il simbolo del trasformismo ed esaspera tutte le già evidenti criticità di una repubblica parlamentare. Altro che “cambiamento”: ora si lavora per riportare l’Italia ai tempi della Prima Repubblica, nella quale si ricorreva alle scorciatoie costituzionali per legittimare giuridicamente giochi di palazzo e repentini cambi di casacca. Non deve sorprendere che a farsi promotori del ritorno al proporzionale siano, rispettivamente: un presidente del Consiglio che è riuscito con rapida disinvoltura a cambiare compagni di viaggio (una capacità di adattamento davvero d’altri tempi); un partito (quello Democratico) che per evitare di essere l’eterno secondo ha improvvisamente abbandonato la storica battaglia in favore del maggioritario; un altro partito (Movimento 5 Stelle) che già sogna di essere l’eterno ago della bilancia in Parlamento.

 

  1. Il proporzionale è sinonimo d’instabilità: 66 governi in 73 anni anni di repubblica a quanto pare non sono stati sufficienti per comprendere la dannosità di questo sistema elettorale. L’Italia ha bisogno di stabilità, e questa è possibile solo attraverso una sana alternanza democratica basata sulla volontà degli elettori. Questo è l’obiettivo di una democrazia matura: invece, si mira a mantenere l’Italia nell’eterno limbo di una repubblica transitoria e plasmabile sulla base degli interessi di una minoranza. Una minoranza che senza cambiare le regole del gioco sarebbe destinata a rimanere tale anche nelle aule parlamentari, e che quando si trova all’opposizione non smette mai di preoccuparsi per la credibilità internazionale dell’Italia. Ma quale livello di credibilità può avere un Paese che cambia governo ogni anno sulla base di occasionali convenienze partitiche?

 

  1. Il proporzionale rende più fragile il sistema-Paese: l’impossibilità nel riuscire a dare continuità all’azione dell’esecutivo ha inevitabili e negative ripercussioni sul tessuto socio-economico e sulla qualità delle politiche pubbliche. Il proporzionale impedisce ai governi di disegnare un orizzonte temporale di medio-lungo periodo e di mettere in cantiere riforme strutturali in grado di avere ripercussioni positive sul sistema produttivo. Imprese, lavoratori autonomi e dipendenti, famiglie si trovano così a fare i conti con continui cambiamenti legislativi che si traducono in ben noti labirinti burocratici. Il proporzionale costruisce governi di breve respiro, che spesso hanno come uniche priorità la soddisfazione dei propri piccoli bacini elettorali e la rincorsa di un occasionale consenso utile solo per potersi sedere al tavolo del prossimo inciucio.

 

  1. Il proporzionale crea disaffezione verso le istituzioni e verso la politica. Sarà pur vero che, come prevede la Costituzione, non si vota per eleggere il governo né il Presidente del Consiglio: ma se i cittadini vengono ridotti a meri esecutori di una democrazia di facciata, e la sovranità popolare – da esercitare, certo, nelle forme e nei limiti della Costituzione – è considerata nulla più che un intralcio facilmente superabile dall’ambizione di un manipolo di opportunisti, è naturale che a prevalere siano rabbia e risentimento verso un sistema che anziché auto-riformarsi si preoccupa di cementare le proprie rendite di posizione. Le soluzioni sono due: l’abbandono del parlamentarismo in favore di una repubblica presidenziale con elezioni diretta del capo dello Stato, e l’adozione di una legge elettorale di tipo maggioritario.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Lega e Fratelli, la coppia vincente

I dati definitivi delle elezioni europee disegnano uno scenario molto chiaro. Trionfa la Lega, che inverte i rapporti di forza nei confronti del Movimento 5 Stelle, sorpassato da un redivivo Partito Democratico che però perde voti. Male Forza Italia, che non riesce a fermare l’emorragia di consensi; bene Fratelli d’Italia, che vede aumentare la propria percentuale di elezione in elezione.

• Il calo indicato dai sondaggi delle ultime settimane era solo immaginario: la Lega vola ampiamente oltre la soglia del 30% arrivando a più del 34% dei consensi. Si afferma e anzi recupera voti nei tradizionali feudi del Nord – dove, secondo alcuni “analisti”, il partito stava perdendo consenso –, avanza nelle ex regioni rosse ma si afferma anche al Sud. La Lega è ormai un partito nazionale e punta alle prossime regionali per strappare Toscana, Emilia-Romagna e Umbria al Partito Democratico. Il saldo è ampiamente positivo rispetto al 2014 e al 2018.

• Per il Movimento 5 Stelle si è verificato lo scenario peggiore: doppiato dalla Lega, sorpassato dal Partito Democratico. Il saldo è negativo rispetto al 2014 e al 2018. I grillini calano molto al Nord e al Centro, e vengono “salvati” dal Sud e dalla Sicilia, dove tuttavia la bassa affluenza ha penalizzato il Movimento. Per Luigi Di Maio sarà molto difficile riuscire a tenere compatto il partito davanti a un risultato così deludente: il futuro del governo è un rebus. La strategia comunicativa aggressiva nei confronti di Salvini non ha pagato.

• Festeggia Fratelli d’Italia, ancora una volta snobbato – o tutt’al più deriso – dai media mainstream ma che, come la Lega, è l’unico partito che può vantare una crescita costante dal 2014 a oggi. Il raggiungimento di oltre il 6% dei consensi rappresenta il miglior risultato della – giovane – storia del partito: Forza Italia dista solo 2,5 punti percentuali, ma ad esempio in Veneto, a livello regionale, il sorpasso è già avvenuto. Un dato politico rilevante: un ipotetico “fronte sovranista” Salvini-Meloni raccoglierebbe, allo stato attuale, più del 40% dei voti.

• Forza Italia crolla sotto la soglia psicologica del 10%, ma anche del 9%. È l’unico partito, insieme al Movimento 5 Stelle, a segnare un saldo negativo rispetto al 2014 al 2018. La parabola discendente non sembra attualmente arrestabile e anzi apre nuovi fronti di spaccatura all’interno del partito. Gli equilibri del destra-centro vanno ormai consolidandosi.

• Il Partito Democratico esce dal torpore post-renziano e lancia segnali di vita compiendo un insperato sorpasso ai danni del Movimento 5 Stelle. Si afferma in particolare nelle grandi città, confermando una tendenza già emersa parzialmente nel 2018. È opportuno, tuttavia, precisare che sebbene il saldo percentuale sia positivo, in termini prettamente numerici il saldo è negativo: il Partito Democratico, infatti, perde voti rispetto al 2018. Resta tutta da verificare la presunta unità interna del partito e la tenuta territoriale: in sostanza, è prematuro parlare di “resurrezione” dei Democratici, che dovranno lavorare molto per rendere questo risultato un punto di partenza e non di arrivo.

Fonte:federicocartelli.com

Sardegna, al voto con l’Armata di Solinas

Domenica 24 Febbraio i Sardi saranno chiamati al voto per eleggere il Presidente della Regione. Dopo 5 anni di centrosinistra, le elezioni si annunciano piene di interrogativi, culminati con gli strascichi della rivolta dei pastori e l’incubo dell’astensione pronto a flagellare la competizione elettorale. La più grande bizzarria che salta all’occhio è proprio la legge, maldestramente concepita nel 2013 e non modificata, che regolerà la competizione elettorale. Non scevro da critiche, il Porcellum in salsa Sarda si distingue per abnormi soglie di sbarramento verso le liste non coalizzate, un premio di maggioranza attribuito di concerto con la vittoria del Presidente, per annullare il rischio di “anatra zoppa” e lo scoglio del voto disgiunto che agita i partiti e soprattutto i candidati in corsa per la poltrona di Villa Devoto. Nel rispetto delle regole non scritte dell’alternanza, i pronostici vertono a favore di Christian Solinas, Senatore Sardo-Leghista che guida una flottiglia più o meno coesa di 11 liste, ribattezzata  con l’imponente nome di “Centrodestra civico, sardista e autonomista”, verso i caldi lidi dell’aula di Via Roma, pronto a sfondare il boom del 40% per aggiudicarsi il 60% dell’emiciclo. Un centrodestra allargato con 200 candidati in più di quello che 5 anni prima sfiorò l’impresa mai riuscita del bis con Ugo Cappellacci, vincitore nel confronto di lista ma sommerso da un tremendo disgiunto a favore dell’eterno outsider Pili, che per la seconda volta ha svestito i “panni istituzionali” per indossare quelli di “capo-popolo” e del Presidente uscente, non ricandidato, Francesco Pigliaru. Abbastanza fortunato da non doversi barcamenare in un Consiglio non suo come sarebbe stato naturale, Pigliaru è la prova lampante che il porceddum andava cambiato per favorire una maggiore corrispondenza tra l’aula e il volere degli elettori, ma i segnali dell’ultima ora hanno fatto protendere per il mantenimento dello status quo. A tentare la remuntada per il Centrosinistra c’è Massimo Zedda, il Sindaco di Cagliari che gira l’isola come una trottola cercando di cancellare con una grossa gomma l’esperienza del governo che l’ha preceduto, a parole ci riesce ma nelle liste è costretto ad accettare pesanti compromessi con i democratici, primo punto dolente. Si sente tuttavia svincolato dalle segreterie di partito, complice lo stato comatoso del PD Nazionale e Regionale in corso di riorganizzazione, di cui può ignorare almeno in campagna elettorale le direttive. Ostenta sicurezza agli occhi del pubblico, d’altronde nessuno avrebbe potuto immaginare un suo exploit nel 2011, da quel momento siede indisturbato a Palazzo Civico per un secondo mandato e sa che alla fine se la potrà giocare almeno per strappare il robusto premio di maggioranza al suo principale competitor: Christian Solinas. Complicato è anche lo stato dei 5 Stelle che scontano una scelta orientata all’ultimo verso il bibliotecario Desogus, seguita alla condanna del candidato-designato Mario Puddu. Il Sindaco di Assemini è uscito sconfitto (e di scena) per un abuso d’ufficio, giudicato troppo gravemente dall’etica pentastellata, per permettergli di finalizzare un biennio di campagna elettorale quasi permanente. Puddu è un esponente dell’ala sinistra del movimento, vicina a Fico e avrebbe eroso sicuramente consenso alla sinistra di Zedda che può così tirare un momentaneo sospiro di sollievo. Lo sostituisce in questo gravoso compito però Vindice Lecis, giornalista di lungo corso (ha lavorato 35 anni nel gruppo L’Espresso), portabandiera di un rassemblement falce&martello che agita lo spauracchio di un disgiunto poco gradito anche da quelle parti riportando in auge battaglie industriali e… ambientali. Segue il Filologo Paolo Maninchedda: un evergreen della politica Sarda, da sempre schierato con le varie maggioranze dal 2004 ad oggi, salvo poi ravvisare a metà mandato i soliti segnali di ribellione che fanno temere il peggio, alla fine i mal di pancia rientrano e si procede a gonfie vele o quasi verso la fine della legislatura. Questa volta però il Professore, che ha mantenuto il voto di coerenza, correrà da solo capitanando il Partito dei Sardi. Con lui anche l’ex Presidente della Regione Mauro Pili e l’indipendentista di sinistra Andrea Murgia saranno impegnati nella difficile sfida di superare il 5% dei voti validi con le rispettive liste per portare una pattuglia di fedelissimi nell’aula di Via Roma, sfida assai ardua che rischia di infrangersi contro l’implacabile soglia di sbarramento. A Michela Murgia 5 anni prima non bastarono 75000 voti per superare il moloch che si frappone tra i candidati “minori” e gli scranni, un mostro imperturbabile persino agli attacchi dei giuristi più puntigliosi, che nessuno si è scomodato di rimuovere dall’ingrato compito, egregiamente adempiuto con una lontana fragranza di incostituzionalità.

Le Regionali sono anche una valida occasione sfoggiare il messianismo che per l’occasione, trovandoci in Sardegna, assume connotati un po’ esotici. Per Christian Solinas nessuno è voluto mancare all’appuntamento col profumo di vittoria alle porte, la coalizione di Centrodestra ha schierato l’artiglieria pesante: il Ministro degli Interni in stato di grazia con un tour quasi settimanale girerà la Sardegna in lungo e in largo facendo scalo a Roma e in Puglia, Giorgia Meloni che si aggiudica a mani basse lo scettro della maggior distanza percorsa in macchina in appena due giorni e Silvio Berlusconi che non vuole mancare da nessuna parte, tenta una nuova operazione rinascita tra piantine miracolose e diete, trova ad accoglierlo ad Oristano Paolo Palumbo, giovanissimo candidato forzista affetto da SLA che con profondo coraggio e dignità ha intrapreso la sua prima sfida elettorale e che speriamo che gli sia di buon auspicio come già successo 25 anni or sono dalle parti di Sassari ad un altro “disabile” di successo.

I 5 stelle tentennano, chiamano a raccolta i Ministri della compagine di governo, quasi a voler reclamare finalmente un ruolo istituzionale. L’intento è positivo ma il risultato mediatico non è dei migliori con Toninelli di mezzo, si attendono ancora i veri leader pentastellati per ribaltare i pronostici della vigilia.

Poi c’è Zedda che, a parte Zingaretti e Pisapia, si è chiuso in un religioso diniego all’idea di far sbarcare i pezzi di grosso calibro del Centrosinistra in Sardegna. Troppa incertezza all’orizzonte e il rischio di un congresso permanente del PD trasposto nella realtà Sarda (che non è delle migliori), hanno fatto vincere la più classica delle idee gattopardesche di chi gioca la carta del nuovo che avanza: nessuno ostacolerà le manovre dei protagonisti della giunta Pigliaru nei rispettivi collegi dove tenteranno l’elezione, ma i confini sono già stati tracciati e restano ben visibili. Chissà se saranno rispettati?

*Giovanni Chessa, collaboratore Charta minuta

Leopolda 8, ultima fermata di Renzi: il treno della "rottamazione" è deragliato

Mai stato così all’angolo Matteo Renzi, neanche all’indomani della sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Mai così privo di carte da giocare e idee, altro che “Leopolda 8”. Parola di Pierluigi Bersani: l’alleanza a sinistra non s’ha da fare. E c’era pure da spettarselo, a parte Giuliano Pisapia che pure, sul dossier della manovra, è pronto a vendere caro l’appoggio. È chiaro che gli uomini di Mdp non possono risalire in un carro dal quale sono già scesi all’alba dell’ultimo congresso del Partito democratico, se a guidarlo è sempre lo stesso cocchiere. Non sarebbe soltanto un atto incoerente ma difficile da digerire da coloro che dovrebbero recarsi alle urne e mettere una “x” sulla scheda che in un modo o nell’altro garantirebbe il segretario del Pd.
A quel punto la fuga di voti da sinistra verso il Movimento Cinque stelle, sarebbe un esito strategicamente poco appagante per una formazione ai primi vagiti elettorali. Lo sa benissimo anche Piero Fassino, impegnato in una difficile opera di mediazione destinata a far saltare il banco e a far finire la pistola fumante nelle mani di Massimo D’Alema. Furbamente, però, il Lìder Massimo, le mani, ha preferito tenerle in tasca.
Altro che ritorno all’Unione, se c’è una figura che divide gli animi è proprio quella di Renzi. Se n’è accorto di recente anche Giorgio Napolitano, l’uomo che aveva consegnato a Renzi le chiavi del governo del Paese in un momento storico – quello che precedeva le scorse Europee – dove la miglior risposta ai malumori del Paese era la sgangherata proposta declinabile quale populismo-di-sistema. La guerra ingaggiata, in ultimo, con il presidente delle Repubblica Sergio Mattarella e il premier Paolo Gentiloni sul rinnovo di Ignazio Visco al vertice della Banca d’Italia, ci dice che la dialettica renziana non lascia prigionieri, bensì macerie.
Così facendo, Renzi rischia di non andare da nessuna parte. Perché se la proposta dell’ex rottamatore ha perso appeal nell’area progressista, sulla scorta di provvedimenti assai indigesti quali Jobs Act e la Buona scuola, che hanno frustrato quei blocchi sociali tradizionalmente affini alla sinistra, anche la battaglia al centro rischia di perderla malamente. La vittoria del centrodestra unito in Sicilia, con la recente elezione del postmissino Nello Musumeci a presidente della Regione, stanno convincendo Silvio Berlusconi dell’inutilità di un piano B da siglare con lo stesso Renzi all’indomani delle Politiche.
Anche perché l’habitat naturale dei moderati, non può non essere contiguo alle aree identitarie e conservatrici, soprattutto oggi che con la reintroduzione dei collegi uninominali figli del Rosatellum, i poli tornano ad avere una ragion sufficiente. Un incrocio che non può non mettere all’angolo il leader fiorentino. In altri termini, se il “patto dell’arancino” produce effetti indigesti, questi rischiano di essere a danno esclusivo di chi al tavolo non poteva esserci. E questi, ovviamente, è il renzismo di ritorno.

*Fernando Adonia, collaboratore Charta minuta