Italia più forte con Ministero del mare

L’Italia, come è noto, è circondata da 7.456 chilometri di coste, 155.000
chilometri quadrati di acque marittime, interne e territoriali, e 350.000 chilometri quadrati di acque.
Un patrimonio non solo naturalistico, storico e culturale ma anche economico. Oggi più che mai.
Con l’80 per cento dei nostri confini bagnati dal mare, la blue economy costituisce, infatti, una parte
molto importante del sistema produttivo nazionale, con circa 200.000 imprese impegnate nella
cosiddetta « economia del mare », che va dalle attività primarie come la pesca, a quelle terziarie del
turismo marino, dei trasporti marittimi e della ricerca e regolamentazione ambientale, passando per
quelle secondarie quali la cantieristica.
Una forza imprenditoriale che cresce rispetto al resto dell’economia, come emerge dal VII Rapporto
sull’economia del mare (2018), e che coinvolge anche giovani (dieci imprese della blue economy su
cento sono « capitanate » da under trentacinque), donne (venti su cento sono a guida « rosa ») e
stranieri (sei su cento).

L’economia del mare si sviluppa in svariati settori che vanno dalla filiera ittica (che comprende le
attività connesse con la pesca, la lavorazione del pesce e la preparazione di piatti a base di pesce) a
quella della cantieristica (attività di costruzione di imbarcazioni da diporto e sportive, cantieri navali,
fabbricazione di strumenti per navigazione, installazione di macchine e apparecchiature industriali
connesse); dall’industria delle estrazioni marine (sale, petrolio, gas naturale) alla movimentazione di
merci e passeggeri (attività di trasporto via acqua di merci e persone, sia marittimo che costiero,
connesse attività di assicurazione e di intermediazione degli stessi trasporti e servizi logistici), ai
servizi di alloggio e ristorazione, alle attività sportive e ricreative (tour operator, guide e
accompagnatori turistici, parchi tematici, stabilimenti balneari e altri ambiti legati all’intrattenimento e
divertimento, discoteche, sale da ballo, sale giochi, eccetera), ma anche attività legate all’istruzione
(scuole nautiche). Senza dimenticare, poi, il settore della ricerca e della tutela ambientale che include
le attività di ricerca e sviluppo nel campo delle biotecnologie marine e delle scienze naturali legate al
mare più in generale, assieme alle attività di regolamentazione per la tutela ambientale e nel campo dei
trasporti e delle comunicazioni.
I settori in cui è più forte l’allargamento della base imprenditoriale, in termini percentuali, sono le
attività di ricerca, regolamentazione e tutela ambientale (più 34,6 per cento) e i servizi di alloggio e
ristorazione (più 23 per cento), mentre, tra le diverse ripartizioni territoriali, l’incremento maggiore del
numero di imprese della blue economy si riscontra nel Mezzogiorno e nel Centro Italia che
rappresentano, appunto, le due macro-ripartizioni a più alta concentrazione di imprese della blue
economy, con un’incidenza del 4,1 per cento e del 4,2 per cento sui rispettivi totali imprenditoriali.
Parliamo, dunque, di una forza imprenditoriale che rappresenta un motore per la produzione
economica, il cui valore aggiunto è arrivato, nel 2017, a 45 miliardi di euro, pari al 2,9 per cento del
totale economia, con un aumento di circa il 5,9 per cento, raddoppiando la variazione esibita dal resto
dell’economia.

Va poi rilevato il dato attinente alla forza lavoro che conta oltre 880.000 occupati, pari al 3,5 per cento
dell’occupazione complessiva nazionale, mentre dal 2011 al 2017 il numero di lavoratori è aumentato
di più 4 punti percentuali, a fronte di una crescita di solo l’1 per cento nel resto dell’economia.
Imprenditorialità, produzione e occupazione, a cui va ad aggiungersi la competitività in campo
internazionale, perché l’export della cantieristica e quello del settore ittico, nel suo insieme, ha toccato
nel 2017 quota 5,1 miliardi di euro.
Dati e numeri che per un effetto moltiplicatore devono aggiungersi a quelli dell’indotto relativi alle
attività fornitrici, ad esempio, di beni e servizi di input (materie prime, semilavorati, eccetera) e a
quelle che garantiscono la distribuzione commerciale, servizi di marketing, trasporti, logistica e così
via, per cui per ogni euro prodotto dalla blue economy se ne attivano quasi due sul resto dell’economia.
Analizzando in base alla ripartizione geografica, infine, il valore aggiunto prodotto dalla blue
economy, la sua attivazione sul resto dell’economia e il relativo moltiplicatore, emerge che l’intera
filiera della blue economy nel 2016 ha inciso, tra valore aggiunto prodotto in modo diretto e valore
aggiunto attivato, per circa l’11 per cento nell’economia del Mezzogiorno (36,3 miliardi di euro) e per
il 10,1 per cento in quella del Centro (33 miliardi di euro).
Un sistema che ha tenuto nonostante la crisi, che funziona, porta reddito e occupazione; una realtà,
quella marittima, molto complessa e articolata, legata al sistema portuale, al network trasportistico
terrestre, alla logistica e all’industria manifatturiera, oltre che ai servizi dedicati, che richiede una
organizzazione logistica puntuale, sistematizzata.

Appena un anno fa (8 giugno 2017), il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la dichiarazione de
La Valletta sulla politica marittima dell’Unione europea che elenca tra le priorità: maggiore
competitività, decarbonizzazione e digitalizzazione, « per assicurare una connessione globale, un
mercato interno efficiente e un settore marittimo di primo livello ».
L’Italia su tutti questi aspetti può giocare un ruolo decisivo, ma per farlo deve presentare una strategia,
una vera politica dei trasporti e dell’economia marittima; è, dunque, necessario, come viene chiesto
dall’intera industria, promuovere una governance forte e unitaria del mondo del mare, declinato in tutte
le sue molteplici componenti.
Il controllo sul mare, il corretto svolgimento delle attività economiche, la tutela dell’ambiente marino,
la salvaguardia del trasporto umano e la sicurezza della navigazione sono competenze attualmente
ripartite in diversi Ministeri senza quella necessaria e doverosa visione comune e univoca delle
problematiche legate alla vita in mare.
Con il presente disegno di legge si intendono riportare nell’ambito di un unico dicastero le funzioni e i
compiti che hanno un collegamento con il mare, con la sua tutela, le sue risorse, il suo ecosistema e i
trasporti marittimi: un Ministero del mare deputato a valorizzare la peculiarità del sistema marittimo e
la complessità delle sue articolazioni e lo sviluppo di politiche organiche per il settore.

Il futuro dell’Italia è nel mare. Una sfida, una opportunità, forse anche una missione.

 

Relazione introduttiva alla Proposta di Legge n. 917/2019 presentata dal Senatore Adolfo Urso che sarà discussa al meeting organizzato dalla Fondazione Farefuturo a Bari giovedì 19 settembre

 

 

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”

Intervista a Giulio Terzi di Sant’Agata ed Adolfo Urso sui temi del convegno “Il Dragone in Europa: opportunità e rischi per l’Italia”” realizzata da Massimiliano Coccia con Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (ambasciatore, presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Adolfo Urso (senatore, vice presidente Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Fratelli d’Italia).

Rinaldi:Il ruolo dello Stato? Investire su chi produce in Italia

Lunedì 26, a Roma, si terrà la terza sessione di studi del master di Farefuturo “Sovranismo vs Populismo”. L’incontro sarà dedicato a un altro tema di stringente attualità: “Impresa, lavoro, formazione e nuove povertà: quale il ruolo dello Stato?”. Ne discutiamo con uno dei relatori dell’incontro, l’economista e professore Antonio Maria Rinaldi.

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Professor Rinaldi, viviamo giorni di concitazione e d’incertezza dovuti alla bocciatura della manovra economica da parte dell’Unione europea. A suo avviso, questa manovra va nella direzione giusta per rilanciare il nostro Paese (e se sì, quali punti ritiene meritevoli di attenzione), oppure ha ragione Bruxelles?


Lo “scontro” con Bruxelles deriva essenzialmente dal fatto che i precedenti governi hanno ottenuto “concessioni” grazie alla flessibilità delle regole previste con la conseguenza di poter posticipare le clausole di salvaguardia che prevedevano aumenti del gettito IVA e accise attualmente quantificabili in 12.4 Mld. Ebbene l’attuale manovra intrapresa dal nuovo governo secondo i “tecnici” della Commissione Europea non avrebbe i requisiti attesi per “compensare” le concessioni ottenute dall’Italia e che anzi aggraverebbe ulteriormente il percorso di convergenza verso le regole della UE. Perciò ha proceduto per la prima volta all’apertura di una procedura per deficit eccessivo basata sul debito. Quindi la tesi del governo italiano di puntare alla crescita del PIL per la diminuzione del rapporto debito/PIL non ha trovato ascolto e supporto sui tavoli europei. 

 

La quarta rivoluzione industriale, con il suo carico d’innovazione, sta cambiando il modo di fare business. Quale ruolo pensa debba avere lo Stato in questo processo, considerate le preoccupazioni in merito all’impatto dell’automazione sul mercato del lavoro?


Certamente la cosiddetta Industria 4.0 rappresenta un elemento positivo e innovativo ma per ora è stato concepito per le industrie di dimensioni più grandi tralasciando le piccole e micro aziende che rappresentano la vera colonna portante dell’economia italiana. Pertanto l’automazione per massimizzare le nuove tecnologie produttive e miglioramento delle condizioni di lavoro, con innegabili vantaggi di produttività, sono stati ad esclusivo appannaggio delle grandi industrie. Se si riuscirà ad attrarre in modo intelligente anche le più piccole in questa nuova rivoluzione industriale si riuscirà a salvaguardare, se non aumentare, posti di lavoro e aumentandone inoltre sensibilmente la qualità e sicurezza.

 

Il reddito di cittadinanza è uno dei provvedimenti più discussi negli ultimi mesi. Qual è il suo giudizio in merito? Ritiene che sia lo strumento più efficace per combattere la povertà, oppure sarebbero preferibili altri provvedimenti?


Vorrei personalmente che neanche un cittadino italiano avesse la necessità di dover accedere al RdC, perché vorrebbe dire che di lavoro ce n’è per tutti. Ma questo purtroppo non è negli orizzonti prossimi e pertanto in linea di principio sono favorevole a dei meccanismi che diano la possibilità, a determinate e temporanee effettive condizioni reali, di ottenere una forma di reddito, ovvero di integrazione del reddito, per ottenere un livello di vita “dignitoso”. Naturalmente dal punto di vista tecnico di erogazione si può discuterne, ma non disdegno il principio che lo Stato deve tener conto della situazione di estremo disagio economico a carico di fasce sempre più estese della popolazione. Pertanto solo in in ottica temporale e di raccordo in attesa di opportunità di lavoro effettivo.

 

L’Indice della Libertà Economica redatto da Heritage Foundation vede l’Italia fanalino di coda d’Europa e in una posizione poco lusinghiera a livello globale. Ritiene veritiero questo studio? Quali provvedimenti si dovrebbero mettere in cantiere per rendere l’Italia un Paese su cui investire a livello imprenditoriale?


Aldilà della validità o meno di tutti gli studi comparativi è innegabile che l’Italia abbia sempre sofferto di mancanza di “attrazione” nei confronti di investitori esteri. Le motivazioni sono infinite ad iniziare dalla complessità e dalla non certezza delle regole amministrative e fiscali oltre ad una cronica lentezza della giustizia. Pertanto il capitale estero trova difficoltà ad avere un terreno ad esso favorevole e pertanto decide di orientarsi verso sistemi Paese più “semplici”. Ma questo crea, inoltre, un ulteriore disagio per il Paese perché induce capitali esteri ad acquistare realtà ed eccellenze italiane che si fregiano di brand di successo per poi delocalizzare immediatamente le produzioni avvalendosi naturalmente poi del prestigioso marchio italiano. 

 

Recentemente Matteo Salvini ha proposto l’abolizione del valore legale della laurea. Cosa pensa di questa proposta? Ritiene che l’attuale sistema formativo risponda alle esigenze del mercato del lavoro?


Anche in questo caso sono d’accordo in linea di principio con l’abolizione del voto di laurea nei concorsi pubblici poiché le diverse valutazioni degli Atenei italiani potrebbe sfavorire/favorire i partecipanti non ponendoli sullo stesso piano. Pertanto l’abolizione del previsto requisito minimo di voto conseguito alla laurea rappresenta a mio avviso una opportunità da valutare con interesse. Sarà poi la serietà e difficoltà del concorso a determinare i vincitori con criteri di meritocrazia che il solo voto di laurea, per i motivi sopra esposti, non consente di attribuire. 

 

 In Italia il tasso di disoccupazione giovanile viaggia intorno al 30%, quasi il doppio della media europea. Quali contromisure dovrebbe adottare il nostro Paese per invertire questa tendenza?


La nostra Costituzione sancisce al primo articolo che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e che quindi dovrebbe essere l’obbiettivo principale dell’azione di qualsiasi governo. Sappiamo, purtroppo, che l’attuale architettura su cui si fonda l’unione monetaria europea di fonda si fonda sulla stabilità dei prezzi, inflazione, e il rigore dei conti pubblico fino al perseguimento del principio del pareggio di bilancio. Questo modello si avvale essenzialmente della cosiddetta svalutazione salariale per recuperare obiettivi competitivi unitamente al fenomeno delle delocalizzazioni dei siti produttivi sempre più “incentivato” dalla globalizzazione senza regole. Questo ha prodotto danni nel mercato del lavoro con conseguenze ancora più marcate nei confronti dei giovani. Abbiamo visto recentemente come la nuova amministrazione USA abbia iniziato una mirata azione nel contrastare gli effetti devastanti della delocalizzazione nei confronti dell’occupazione e del tessuto industriale nazionale intraprendendo politiche di sgravi e incentivi fiscali a favore delle aziende che riportano le produzioni in patria. Sarebbe opportuno seguire anche in Italia lo stesso percorso.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

"Forza Spread!", l’imbarazzante "partito" che tifa per il disastro

Eccolo, di nuovo. Dopo qualche anno di tattica assenza, è tornato baldanzoso il partito dello spread. Riunisce tutto il peggio che l’opinione pubblica possa offrire. In prima linea troviamo certi giornalisti, esperti in danza classica – soprattutto nell’eseguire piroette – che fanno le pulci al Documento di Economia e Finanza come mai prima d’ora, passando in rassegna con la lente d’ingrandimento ogni decimale, ogni virgola, ogni copertura, pronti a denunciare – calcolatrici alla mano – che i conti non tornano e che la sciagura è prossima.

È davvero ammirevole constatare tanta professionalità: un peccato non averla vista negli anni corsi. A dare manforte si schiera una pletora di economisti, per definizione esperti in tuttologia e profondi conoscitori dell’intero scibile umano. Probabilmente delusi dal mancato declino dell’economia americana da loro previsto con l’elezione di Trump, e infastiditi dal fallito affondamento del Regno Unito dopo il referendum sulla Brexit, sperano di azzeccare almeno il crollo dell’Italia. Non staccano gli occhi dai grafici di Piazza Affari, pronti a suonare il campanello d’allarme appena la curva dello spread inizia a virare verso l’alto – salvo poi scordare di avvisare quando scende. E allora ecco che le cassandre annunciano il default,  perché il debito pubblico è insostenibile – d’altronde, ha raggiunto il record durante il governo Renzi – e il deficit non può finanziarie misure considerate regalie elettorali – il bonus di 80 euro era, infatti, una misura strutturale che andava a risanare le casse dello Stato.
Nelle retrovie, ma piuttosto chiassosi, si indignano i politici della vecchia classe dirigente, che qualche anno fa erano in prima linea a denunciare il complotto di Bruxelles e dei poteri forti per far cadere il governo Berlusconi, e che ora come pappagalli ammaestrati ripetono di rispettare gli impegni con l’Europa. Non avevano capito nulla sette anni fa, e poco continuano a capire della complessa realtà che li circonda: si illudono che basti gridare allo spauracchio “populista” per ottenere consensi e tornare agli antichi splendori.

Questa è l’eterogenea truppa che guarda speranzosa verso Bruxelles, e grida, anzi, invoca, a gran voce: “Forza spread!”. Coltivano una speranza malsana: che il differenziale tra Btp italiani e Bund tedeschi possa crescere sempre più, magari toccando quota 400, o – ancora meglio – 500. Lo spread come unica igiene per lavare via gli avversari politici indesiderati e avere la propria, distorta, rivincita. Credono di aver scoperto l’uovo di Colombo, ma non si accorgono di tifare per un film che si ripete. Nel 2011 si gridava, e si scriveva in certi giornali, “Fate presto!”, sotto il ricatto dello spread che doveva spazzare via un governo che metteva in pericolo l’esistenza stessa del Paese – così si disse.

Ciò che venne in seguito non fu esattamente un successo o una benedizione per l’Italia; fu la prima causa di quello che oggi viene bollato come “populismo”. Eppure, il drappello dei “competenti” che gongola nel sentir tintinnare lo spread non riesce a vedere al di là del proprio wishful thinking. Non si accorge che sperare nella Troika li rende ancora più impopolari e insopportabili: in una parola, invotabili. Ma a giudicare da certi scomposti atteggiamenti, sembra che a molti non importi nemmeno più l’orizzonte elettorale. Tifare per il disastro è di per sé una fragorosa e imbarazzante ammissione di incapacità; è l’ultimo rifugio del perdente cronico. Questo governo non è certo perfetto – come non lo è affatto il Def, che ha più d’una zona d’ombra – e non può essere tenuto in una campana di vetro, al riparo e immune da qualsiasi critica. Se possibile, però, si abbiano un po’ di compostezza e di onestà intellettuale nel muovere tali critiche; e la si smetta, se è rimasto ancora un po’ di pudore, di gongolare nell’immaginare un Paese in macerie solo per riparare il proprio ego ferito.

*Federico Cartelli, collaboratore Charta minuta

Orientare la bussola dei mercati finanziari scommettendo su noi stessi

Trent’anni fa la metà del debito pubblico dell’Italia era nelle mani dei risparmiatori italiani. La borghesia media investiva parte dei propri risparmi nei titoli di Stato del proprio Paese, finanziandone dunque il presente e il futuro. La maggior parte della esposizione finanziaria dello Stato era quindi verso i propri cittadini nei cui riguardi venivano reinvestiti i capitali acquisiti appunto tramite l’emissione di titoli di debito. La Banca d’Italia ci informa che invece oggi i risparmiatori italiani rappresentano soltanto un esiguo 6 per cento; e l’esposizione più alta, con una quota del 32 per cento è verso istituti stranieri!
Quegli stessi investitori stranieri che ora, con la progressiva fine del Quantitative Easing, non solo vanno convinti a mantenere i titoli nostrani che hanno in pancia, ma vanno invogliati a sottoscriverne altri dal momento che non ci sarà più “mamma” Bce ad effettuare acquisti massicci. Non si può dunque prescindere dall’immagine dall’immagine che diamo di “noi” all’estero… ma non dobbiamo vivere ciò come un complesso di subalternità o come una mancanza di autonomia, anzi: ciò deve essere una sollecitazione ad essere migliori innanzitutto per “noi” stessi e di riflesso per gli altri che scommettono investendoci. E magari, per evitare di essere giudicati troppo dai mercati finanziari esteri, sarebbe opportuno che come cittadini tornassimo a scommettere su noi stessi come trent’anni fa.
Al momento la domanda che i principali 72 investitori internazionali si stanno ponendo, nel valutare i Paesi dell’Euro zona post Quantitative Easing sui quali puntare maggiormente o meno, è relativa alle prospettive di sviluppo economico che gli Stati presentano o meno. La risposta che circola riguardo alle ipotesi di crescita del Bel Paese, relativamente al Governo attualmente in carica, non sembra convincere gli esperti e di conseguenza i compratori che a questo punto pretendono un rendimento superiore in considerazione di un rischio che diventa superiore. E infatti se lo spread a marzo era a soglia 140 punti, oggi sembra voler assestarsi tra 250 e 300 punti. E questo rialzo significa maggior costo del debito. Uno shock di 100 punti su tutta la curva dei rendimenti (a partire da gennaio 2018 e per tutto il periodo di previsione del Def, fino al 2020), secondo una stima dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, si traduce, alla voce spesa per interessi, in cifre pari a 1,8 miliardi nel primo anno, 4,5 miliardi nel secondo, 6,6 nel 2020.
Il vero grande problema che ha dinnanzi l’Italia non è dunque l’Unione Europea e i suoi vincoli: il problema è come conciliare l’inconciliabile! Perché se le proposte di Governo da una parte, con il reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni, si traducono in maggiori uscite e dall’altra parte, con la flat tax, in minori entrate, la logica di rilancio dell’economia si esprime con una politica attiva che si attua con il deficit pubblico. E il deficit pubblico si finanzia con la leva del debito, dunque con l’emissione di titoli che vanno collocati nelle tanto vituperate strade dei mercati finanziari che si orientano con la propria bussola e scelgono dove, come e quando investire… e spetta al Governo offrire una prospettiva Paese che sia prospera per il proprio interno, per i propri cittadini e di riflesso sicura per i mercati così da non dovere ricorrere ad aumenti di tassi di rendimento economicamente insostenibili e moralmente svilenti.

*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta

Ecco i disastri del decreto disoccupazione

In termini economici stiamo parlando di un vero e proprio disastro. Decreto dignità? È più esatto chiamarlo “decreto disoccupazione”. Basta leggere le misure, andando oltre gli slogan: più burocrazia, più conflitti, più divieti, più limiti, più contenziosi e quindi minore libertà. Tutto questo mentre – parallelamente – i 5 Stelle dagli scranni del governo minacciano il blocco della Tav, della Pedemontana e di ogni grande infrastruttura per non parlare della chiusura dell’Ilva. Controproposte? Solo demagogia, se si pensa poi a nazionalizzare Alitalia dove servono tre miliardi di euro.
Di Maio & co sostengono che il decreto dovrebbe stabilizzare i precari, in realtà – come stiamo dimostrando – costringe le imprese a non rinnovare i contratti, di fatto a licenziare. Qualche volta a delocalizzare, in altri casi a chiudere. Ecco allora che abbiamo ascoltato la rivolta del Veneto, incarnata da seicento imprenditori in rappresentanza di tanti altri che condividono le stesse preoccupazioni. Lo abbiamo fatto a Verona, capitale della produzione, polo logistico e fieristico, cuore del Nordest produttivo, di quella macroregione che dalla Lega si aspettava semplificazione burocratica e flat tax, non nuovi lacci e lacciuoli.
La domanda a questo punto è: questo decreto a chi giova, oltre al richiamo mediatico per il ministro del Lavoro? Questo decreto “ingrassa” solo alcuni studi commercialisti e fra breve gli studi legali mentre punisce impresa e lavoratori. Ingrassa i commercialisti che oggi sono sommersi di nuove richieste su come evitare costi aggiuntivi. Ingrassa gli avvocati, perché cosi come è strutturato con le causali, alimenterà nuovi contenziosi e cause legali. Già, le causali: le modifiche apportate in Commissione sono toppe peggiori del buco. Occorre renderle meno specifiche, altrimenti aumenteranno non gli assunti ma i contenziosi, ed è necessario allungare il primo contratto ad almeno diciotto mesi, senza obbligo di causale.
C’è da dire, poi, che la normativa sulle causali impatta con quanto previsto spesso dai contratti collettivi che, tra proroghe e rinnovi, prevedono un regime che talvolta supera anche 44/56 mesi, senza causali, per esempio per la chimica o per i metalmeccanici. In mancanza di un regime transitorio che faccia salvi gli accordi preesistenti aumenteranno i contenziosi e comunque si creerà inevitabilmente in un ginepraio di condizioni che faranno impazzire le imprese.
La stessa moratoria sui contratti sino al 31 dicembre è un autogol. Caro Salvini, la moratoria la si concede a chi è fuori dalle regole, a chi commette abusi, a chi commettere reati. Fare impresa non è un abuso, assumere un lavoratore non è reato. L’imprenditore non è uno da perseguire, chi fa impresa in Italia è un patriota, è un eroe. Pensavamo che la Lega lo avesse capito.
Insomma, è sempre più chiaro come questo decreto sia frutto di un pregiudizio, un pregiudizio contro chi produce e crea lavoro. Un pregiudizio contro l’impresa, frutto di chi non mai creato impresa, peggio di chi non ha mai lavorato. I grillini anche in questo sono peggio dei comunisti. Nel sistema comunista si creava una lotta di classe tra datori di lavoro e lavoratori e si puntava sostanzialmente alla rivalsa dei lavoratori contro i datori di lavoro sino ad espropriarne la proprietà dei mezzi di produzione. Come è andata a finire lo sappiano. In questo caso è peggio. Questa è una nuova e più perversa lotta di classe tra chi non ha mai lavorato e chi lavora. Chi ha voluto e scritto questa legge non ha mai lavorato e infatti propone il reddito di cittadinanza, cioè pagare a vita chi non lavorerà a vita.
Ecco perché abbiamo lanciato un appello, partendo dagli eletti nel Veneto, agli eletti nel Nord, per rivolgerci a tutti gli elettori d’Italia. Ci dicono che hanno sottoscritto un contratto di governo: l’unico contratto che ha valore è quello sottoscritto con gli elettori, altrimenti è tradimento! Ci dicono, allora, che non potevano fare altrimenti. Non è vero, vi era una maggioranza di centrodestra ma c’è chi non ha voluto insistere e puntare i piedi mancando di rispetto ai nostri elettori…
Mi chiedo però perché hanno ceduto tutti i ministeri produttivi, quelli che riguardano gli interessi delle imprese ai Cinque Stelle? Di Maio è ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, quindi, industria, energie, commercio estero, comunicazione, Mezzogiorno e consumatori. Toninelli è ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Ai Cinque stelle hanno ceduto anche l’Ambiente, i Beni culturali, la Sanità. La Lega ha rinunciato a tutto quello che incide sull’Economia, tradendo se stessa. Pazzesco.
Per tutto questo ci impegneremo in Aula per modificare il decreto, e ove ciò non avvenisse a settembre faremo un tour nei distretti industriali dei Nord per denunciare l’asservimento della Lega ai Cinque stelle e per ascoltare le proposte e le proteste delle imprese, di chi produce e lavoro, nei confronti di un governo che è contro chi produce e contro chi lavora. Dopo il tour, porteremo le istanze del mondo produttivo in una Conferenza nazionale programmatica del Nord, così che Fratelli possa pienamente interpretare le esigenze di chi produce e lavora. Noi non li tradiremo.

*Adolfo Urso, senatore FdI

La solidarietà? Finanziare lo sviluppo in Africa, non dare false speranze

Parlando di immigrazione da anni molti giornalisti, politici ed intellettuali di sinistra sostengono il grande apporto culturale ed economico che tale fenomeno porta e porterà all’Italia, all’Europa e al mondo Occidentale in genere. Tale miope visione (di quei pochi che ci credono veramente) o ipocrita e falsamente buonista (per il resto della collettività asservita al “politically correct”), è stata da sempre serva di interessi particolari e mai coerente con la realtà (si ricordi ancora il caso Capalbio, roccaforte estiva dei radical chic del PD, ribellatisi all’idea di accogliere una ventina di immigrati), trasformandosi in un male decisamente più deplorevole rispetto al presunto razzismo di cui in questi giorni viene accusata la destra.
Il buonismo, sia italiano che europeo, nei confronti del fenomeno immigratorio, ha di fatto aperto le porte ad un’accoglienza senza alcun progetto che, proprio per tale mancanza di lucidità, uccide due volte. La sua prima vittima è il mondo Occidentale, la seconda tutti i paesi da cui i migranti provengono. Ma vediamo il perché, prendendo proprio questi due punti cardine della propaganda buonista: la cultura e l’economia. La prima tesi dei buonisti è che gli immigrati contribuiscono ad accrescere la multiculturalità dei paesi ospitanti il che è di per sè un bene. Ma un bene per chi?
È stato sicuramente un bene per l’immenso, selvaggio e praticamente privo di popolazione continente americano che grazie ai coloni europei che si insediarono più di 300 anni fa ha avuto il suo primo contributo in termini di civilizzazione, o per l’ancora più sperduto continente australiano dove con gli esuli è nata una nazione multiculturale ed oggi anche tra le più avanzate. Ma in un paese come l’Italia, che custodisce oltre l’80% del patrimonio artistico e culturale mondiale, che ha dato all’umanità alcuni tra i più celebri filosofi, scrittori, artisti, architetti ed ingegneri, la cui storia passa dagli Etruschi alla civiltà Romana, dal Rinascimento alle eccellenze odierne, quale ulteriore e così prezioso contributo si potrà avere dalla multiculturalità importata dal terzo mondo?
E anche se non parlassimo di arte, di letteratura o architettura o meccanica, ma di settori ben più “terreni”, le domande restano le stesse. Perché, chiederei ai buonisti, l’arte culinaria italiana che ha sorpassato quella francese diventando la n.1 del pianeta, avrebbe bisogno del kebab o del tajine? Perché la moda italiana, esempio di eccellenza e di estro creativo ammirata in tutto il mondo necessiterebbe di burka o chador? Quali sarebbero i contributi culturali degli immigrati odierni così straordinari da poter essere importati nel paese di Dante, Raffaello, Leonardo, Caravaggio ma anche di Umberto Eco, di Renzo Piano, di Ennio Morricone? Quali precise lacune o carenze nella cultura italiana colmerebbero gli immigrati del Mali o dalla Nigeria di oggi? Non ci dimentichiamo quanta contaminazione “araba” c’è nella nostra cultura, ma parliamo di quella di secoli fa, quando quei popoli avevano veramente qualcosa da insegnare e tramandare!
La multiculturalità è un concetto straordinario, visto nell’ottica del fenomeno più importante dei nostri tempi, la Globalizzazione. La multiculturalità sta nell’apertura mentale e sociale al diverso, e non alla fusione forzata dei vari – e spesso contrapposti – modi di vivere. La tanto decantata “integrazione” funziona laddove c’è la volontà di integrarsi, mentre nella maggior parte dei casi crea solo scontri, religiosi o etnici che siano. Ormai sono decenni che non ci sono più guerre tra Stati, mentre i conflitti sono diventati regionali, basati sulla volontà di avere una propria identità ed appartenenza in un mondo ormai aperto e senza confini.
Il secondo punto sbandierato dai buonisti è il tanto decantato contributo all’economia degli immigrati, che ha portato anche alla (tristemente) celebre definizione di “risorse”. Risorse che non vengono da un altro paese ma da un altro continente, risorse con usi, conoscenze, istruzione, ritmi e capacità lavorative totalmente differenti. E non è un offesa. Chi ha lavorato in una piantagione di banane conosce i cicli del raccolto, sa valutare il grado di maturazione e la qualità delle banane, ma non quelle dei pomodori pachino, prodotto tipico del sud Italia. È normale.
L’edilizia e l’architettura di una nazione equatoriale è talmente diversa da quella della pianura padana da rendere totalmente inutile la necessità di importare manodopera proveniente da tali paesi. E se si dicesse che bisogna istruire, formare e specializzare gli immigrati per poterli inserire nel tessuto produttivo nazionale, ciò rappresenterebbe un altro immenso errore nonché spreco di risorse pubbliche, in un paese come il nostro dove il tasso di disoccupazione è tra i più altri in Europa e dove il lavoro nero – proprio quello alimentato dagli immigrati – esercita una spinta a ribasso dei salari ben sotto i minimi di legge.
La vera solidarietà, l’unica sana, nobile e non ipocrita, di cui prima o poi i buonisti dovranno prendere atto, è quella di aiutare a casa loro quei popoli che, per un’infinità di motivi storici o sociali, si trovano oggi in difficoltà. Finanziare delle opportunità sul posto, creare impresa, formare le future generazioni, importare know-how e cultura, anziché sradicare i giovani, per lo più uomini, dalla loro terra attraverso il perverso meccanismo dell’accoglienza. Perché il passaparola dei governi buonisti, che raccolgono gli immigrati a poche miglia dalle loro coste per portarli nell’agognato Occidente, non fa altro che desertificare i paesi africani privandoli dalla loro forza lavoro più giovane e riempire le città europee di persone che non conoscono la lingua, non hanno una professionalità da vendere, non appartengono alla cultura locale e a cui non resta che delinquere, spesso non per scelta ma per mera necessità.

*Kiril Maritchkov, avvocato internazionalista

 

Il giorno infausto dei mercati e della politica Italiana

Proviamo a dire, e in parte ad immaginare e ricostruire, cosa sia davvero successo ieri 29 maggio 2018, nella più folle giornata politica del nostro paese da molti anni, argomentando a metà tra mercati, stampa e partiti:
Tra le 10:10 e le 10:13 di ieri mattina un gruppo di mani forti tra loro coordinate (investitori importanti, possibilmente spinti anche da qualche potere politico) ha venduto tanti miliardi di Euro in BTP italiani da provocare un aumento dello spread di 40 punti in tre minuti, prima e dopo i quali il resto del mercato – che non era affatto in condizioni di panico – ha continuato per un certo tempo a comprare e vendere a ritmi normali.
Un aumento dello spread tanto concentrato, come mostra il grafico in alto, ci fu solo all’inizio della crisi del 2011 (prima della quale non si vide niente del genere dal 1992) e potrebbe anche segnare l’inizio di una crisi finanziaria mondiale se dovesse destabilizzare le nostre banche, che sono troppo grandi per essere salvate (da qualsiasi istituzione mondiale).
I notiziari TV e giornali economici del mondo, anche sui social, hanno dato la notizia del rialzo (senza spiegare più di tanto come fosse successo) e il mondo si è volto a guardare cosa succedeva in Italia. E si è spaventato più di quanto non avesse fatto per il ridicolo scandalo su Conte (che già era andato su tutti i giornali internazionali). Le borse di tutti i paesi hanno iniziato a perdere, e le scommesse sul mercato dei derivati contro stati ed aziende Europee (ed Italiane in particolare) ad aumentare, e così via per tutta la giornata.
Carlo Cottarelli, incaricato ieri di formare un Governo da Mattarella, dopo il noto colpo di mano, ha ricevuto in mattinata una prima aggressione da Lega e 5S, i quali hanno fatto circolare nei palazzi l’informazione che il Parlamento avrebbe votato in fretta una risoluzione vincolante sul DEF impedendo così a Cottarelli stesso di recarsi ai prossimi vertici europei per dire qualsiasi cosa fosse diversa dalla linea delle due forze euroscettiche. In pratica trasformandolo in un “pappagallo”.
Ma nel frattempo la Presidenza della Repubblica e il Partito Democratico con dichiarazioni tipo quella del capogruppo renziano Andrea Marcucci delle 12:30, di cui in foto, avevano diffuso in Italia e nel mondo l’idea assurda che Savona, Salvini e Di Maio volessero uscire dall’Euro in un fine settimana e di nascosto. Una totale, e pericolosa, fake news, costruita con un riferimento decontestualizzato a proposte puramente accademiche di Savona fatte tempo addietro sulla modalità migliore di uscita da una moneta (pubblica vs. segreta). Questo è importante perché le sedi degli investitori in tutto il mondo – che ormai fin dalle 10:30 di mattina ora italiana seguivano il nostro paese – hanno iniziato a pensare che in Italia fosse in atto il momento “decisivo” per l’euro o contro l’euro, e che il popolo, avendo premiato Salvini e Di Maio, fosse contro l’euro.
Marcucci Uscita Euro
Sulle agenzie di stampa italiane, e quindi mondiali, si sono ulteriormente diffuse le analisi che già ieri rilevavano che, a causa dei tempi tecnici, un’eventuale sfiducia immediata del Governo Cottarelli non avrebbe portato al voto in dicembre ma al voto in estate, avvertendo anche che fosse necessario un qualche tipo di risoluzione per rinviare il voto a settembre/ottobre, esponendo l’Italia a una “vittoria delle forze no-euro” in piena sessione di bilancio invernale, cioè quando si sarebbe dovuta decidere la finanziaria triennale 2019-2021.
Alle 16:30, con geniale tempismo, il PD in Senato ha attaccato pesantemente Cottarelli, unica figura apprezzata dai mercati poiché esponente del Fondo Monetario Internazionale, annunciando per puro tatticismo politico che non lo avrebbe sostenuto, poiché non voleva collegarsi politicamente come solo partito in sostegno della sua figura di “uomo di tasse e tagli” temendo di perdere voti nelle elezioni vicinissime, nonostante fosse espressione di Mattarella, cioè di un Presidente della Repubblica PD, voluto ed eletto da Renzi. In altre parole: il mondo ha visto che tutti i sostenitori dell’uomo del rigore FMI nuovo candidato premier si stavano dileguando in meno di 24 ore, e che chiedevano elezioni a Luglio, destinate a essere vinte dai “no euro”.
A questo punto, e siamo nel pomeriggio inoltrato, gli investitori di ogni tipo che osservavano la situazione hanno capito che presto su tutti i giornali del mondo sarebbe stato ulteriormente ridicolizzato il Governo dell’Italia, che non solo non avrebbe ottenuto la fiducia, ma avrebbe avuto addirittura zero voti a favore dal parlamento, per andare a fare in europa il “pappagallo” di una maggioranza con idee economiche opposte al premier nei vertici di giugno, e venire sostituito entro agosto da un gruppo agguerrito di personaggi intenzionati a uscire dalla moneta unica, magari titolari del 68% dei voti nelle Camere (come da recente analisi dell’Istituto Cattaneo).
Dalle 16:30, pertanto, il mercato normale del BTP ha iniziato a mostrare una curva frastagliata al rialzo, indice di piccole vendite diffuse in tutto il mondo (e non più opera di mani forti coordinate) andando direttamente nella fase in cui la crisi rialzista è diffusa e non più arrestabile dalle manovre di gruppi organizzati di investitori, non senza l’intervento di banche centrali.
I consiglieri di tutti i protagonisti hanno spiegato ai protagonisti  che se avessero continuato altre due ore con l’idea del Governo Cottarelli senza un voto e con il compitino dettato dal Parlamento, che nel frattempo celebrava un processo al capo dello Stato, non solo l’Italia non sarebbe arrivata finanziariamente integra fino a settembre, ma potenzialmente nemmeno a luglio perché nessun investitore avrebbe mai comprato un altro BTP se non a tassi di interesse insostenibili, in assenza di un capo politico del paese identificato, in presenza di una contestazione della massima carica, e senza alcuna garanzia che la linea politica immediata-ventura non fosse uscire dall’euro (fra l’altro con mezzo paese occupato ad accusare l’altra metà di mentire, ed il mondo finanziario a leggere Twitter in tempo reale) trasformando così l’aumento dello spread in un aumento del costo reale del servizio del debito.
Nel frattempo la BCE e Moody’s hanno fatto sapere che un eventuale declassamento del rating di pochissimo, molto probabile in questo scenario, avrebbe potuto (a causa delle regole interne della BCE) provocare il blocco del Quantitative Easing sull’Italia, lasciando aperta solo la cannula dell’ossigeno di eventuali operazioni OMT, il cosiddetto scudo anti-spread, molto più costose politicamente ed anche economicamente.
Moody's BCE Italia
Moody's BCE QE
In serata, poiché per fortuna sembra esistere ancora un barlume di razionalità anche nella politica italiana, tutti hanno capito di dover fermare la pièce teatrale per un momento, e magari occuparsi della “bomba che è qui fuori in corridoio” (Bersani, semicit.). In questo senso, quindi, Salvini per primo ha smentito definitivamente l’impeachment, segnalando che al paese serve un governo per la crisi finanziaria e che non manifesterà contro Matttarella.
Salvini Impeachment Mattarella
Di Maio, vista la decisione di Salvini di svelenire il clima, ha rinunciato anche lui all’impeachment di Mattarella (pur dando a Salvini del “pavido”, con una brutta caduta di stile) ed ha rilanciato la disponibilità a formare un governo con la Lega. Cottarelli, capendo di non essere in alcun modo utile a rassicurare i mercati da premier privo di poteri, ha fermato le macchine alle 17:30, lasciando il quirinale e facendo filtrare la possibilità di rimettere il mandato, ridando spazio o al voto subito o a un possibile governo, ufficialmente parlando di problemi sulla scelta dei ministri. Giorgia Meloni di fronte alla crisi dei mercati ha parlato di unità del paese e, dopo aver chiesto correttamente l’incarico a un premier del cdx, che è l’unica strada ancora non tentata da Mattarella, si è offerta comunque di sostenere M5S e Lega purché questi scongiurino le elezioni in luglio, rispetto alle quali l’Italia potrebbe arrivare sotto attacco della speculazione finanziaria.
Meloni Crisi MattarellaTra le 22:00 e le 23:00, Adnkronos e ANSA incredibilmente hanno battuto la notizia della concreta possibilità domani della formazione di un Governo Conte senza Savona o di un Governo Giorgetti con Cottarelli all’economia. L’ex dirigente dello FMI, anche perché indicato da Mattarella, è l’unico che può rassicurare i mercati che il governo, pur se politico e dotato di maggioranza per intervenire e fare leggi, non potrebbe comunque fare mosse avventate contro l’Euro. Se Cottarelli avesse l’economia, il Premier dovrebbe andare alla lega perché essa non avrebbe più il MEF (che aveva chiesto per dare la premiership ai 5 Stelle). Oppure, il MEF dovrebbe essere diviso (ma questo toglierebbe potere a Cottarelli spaventando i mercati). Un governo Conte, invece, anche senza Savona (che non è mai stato un problema, tranne che per Mattarella), resterebbe considerato “euroscettico” dai mercati e privo di un “capo” autorevole, e, se pure avesse potuto andar bene rispetto a una situazione normale, non sarebbe adeguato oggi con lo spread in tensione. Non è stato ancora ipotizzato un governo Cottarelli con ministri Lega e M5S, ma si è segnalata la volontà di Mattarella di insistere su di lui. Questa terza potrebbe essere la soluzione per tenere in equilibrio Salvini e Di Maio qualche mese, fino a elezioni in autunno.
Conte senza Savona
Giorgetti Premier
Da questi sviluppi in poi, sui giornali, in TV, e sui social network di tutto il paese, chiunque ha già iniziato a esercitarsi in insulti di incoerenza e scarsa serietà rivolti ai partiti responsabili dei cambi di linea, sul modello della sconvolgente dichiarazione di Matteo Renzi, che parlava di “telenovela italiana”. Tutti costoro, non sembrano capire che una tra queste possibilità, e le altre emerse nella giornata odierna, potrebbe essere la via per salvare il paese da un possibile disastro imminente, che il Governo “pappagallo” senza voti non garantirebbe. Bene hanno fatto quindi i partiti diversi dal PD a fermarsi a riflettere sul fatto nuovo, che non esisteva prima, dell’attacco speculativo più forte da molto tempo.  Lo ha dimostrato l’andamento dello spread nella giornata di oggi, che ha inoltre visto il rimbalzo delle borse mondiali e dei titoli bancari, anche grazie alla riapertura di margini di trattativa per una soluzione politica all’instabilità italiana.

*Giovanni Basini, collaboratore Charta minuta

L’Italia nel vuoto, il vuoto d’Italia. L’azione internazionale nella stagione del ritorno degli interessi nazionali: geopolitica, economia, sicurezza

L’evento è stato organizzato in collaborazione con il Center for Near Abroad Strategic Studies

Sono intervenuti: Paolo Quercia (direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies), Adolfo Urso (presidente della Fondazione Farefuturo), Alberto Negri (giornalista de Il Sole 24 Ore), Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (presidente del Comitato Mondiale per lo Stato di Diritto – Marco Pannella), Guido Crosetto (presidente dell’AIAD), Carlo Jean (professore), Gabriele Checchia (ambasciatore), Raffaele De Lutio (ministro plenipotenziario).