Perché occorre un’Authority per gli ivestimenti esteri

Per le società estere investire in Italia è storicamente una corsa ad ostacoli tra restrizioni, burocrazia, tasse, caos normativo ed una incompetenza generalizzata delle pubbliche amministrazioni. Qualcuno dirà che, dopotutto, almeno non si svende il paese preservando così l’italianità dell’economia. Nulla di più sbagliato! Attirare investimenti e know-how arricchisce il sistema produttivo del paese e certo non lo indebolisce.

Il Belpaese ha sempre avuto la presunzione di poter fare da sé. Forse colpa di quel narcisismo e vanità intrinsechi in una Nazione che ha dalla sua parte delle eccellenze riconosciute in tutto il mondo. Arte, storia, cultura ed, ovviamente il Made in Italy.

Questa consapevolezza in qualche modo ha penalizzato l’Italia, soprattutto per quanto riguarda la scarsa apertura verso chi viene dall’estero. Sarebbe opportuno prendere spunto dalle storiche rivali come Francia, Inghilterra e Germania, oltre ad altri player internazionali di caratura minore, che hanno puntato molto sull’attrazione di investimenti esteri incassando notevoli benefici e rafforzando le proprie economie, stando al contempo vigili ed attenti a non lasciare mai che il potere decisionale passasse in mani straniere.

Negli anni In Italia si è fatto pressoché il contrario. Abbiamo assistito ad abili operazioni di mercato quasi sempre svantaggiose per le imprese italiane, dove società estere (con “spalle coperte” dagli stessi paesi di provenienza) sono riuscite a prendere il controllo su molti asset strategici. Si è trattato di veri campioni nazionali passati ormai in mani straniere, ribaltando il concetto di attrattiva in permissivismo verso la depredazione del Made in Italy. L’Italia quindi si è rivelata debole ed inefficiente in quella competizione internazionale volta all’attrazione degli investimenti esteri cosiddetti buoni, diretti a portare benefici e ricchezza, dove si è vista superare persino da competitor molto più deboli ma (occorre ammetterlo) molto più organizzati ed agguerriti. In tutti i settori. Basti pensare all’Olanda, all’Inghilterra pre-Brexit, a Malta, a Cipro e ora persino agli Emirati Arabi che si sono tutti abilmente approfittati dall’insostenibilità della pressione fiscale italiana facendo si che molte aziende, soprattutto finanziarie ed erogatrici di servizi, trasferissero sedi e filiali operative in tali paesi allettati da condizioni fiscali favorevoli e zero burocrazia.
Riguardo la delocalizzazione industriale, invece, l’elenco comprenderebbe la quasi totalità dei paesi dell’Est Europa, dove le imprese italiane usufruiscono di manodopera più vantaggiosa a parità di qualità produttiva, di una ingerenza pressoché minima dei sindacati ed, ormai inutile dirlo, di un regime fiscale agevolato e attento alle esigente di chi investe. In molte di queste nazioni l’investitore estero viene affiancato persino da un tutor statale che lo aiuta a sbrigare gli adempimenti burocratici ed amministrativi.
Infine, pur brevemente, occorre menzionale le università, una vera arma di attrazione, questa volta non di investimenti bensì di menti eccelse provenienti da altri paesi, che poi si trasformano in ricchezza nazionale. L’Italia oggi si può difendere a malapena con la Bocconi e con il Politecnico di Milano. Sono tutte chance mancate. Difficilmente recuperabili ma non perse, qualora il Governo sia deciso a cambiare il modello attuale.  Se pensiamo a quante agenzie si occupano di attrazione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy, da Invitalia a SIMEST, ICE, il Comitato Attrazione Investimenti
Esteri (CAIE) presso il MISE, colpisce la scarsezza dei risultati raggiunti.
Certo, anche tali soggetti non possono fare miracoli se prima non si procede alla sburocratizzazione, alla digitalizzazione del paese, all’alleggerimento della pressione fiscale e all’adeguamento del sistema anche guardando (e perché no? Prendendo a modello) ciò che fanno gli altri.
L’attuale governo dovrebbe seriamente prendere in considerazione una politica di concertazione della gestione degli investimenti esteri e della promozione del Made in Italy. Ciò può avvenire attraverso la creazione di una vera e propria Authority che si occupi non solo di coordinare l’azione delle predette agenzie, ma di fare anche da tramite tra le imprese estere e tutti gli interlocutori italiani, pubblici o privati che siano, onde eliminare quell’impasse burocratico che schiaccia ogni entusiasmo ad investire in Italia.
Questo lavoro di coordinamento è fondamentale considerato che ogni impresa estera che vuole operare in Italia si imbatte in problematiche grottesche.
Un breve esempio. Una società estera (UE) che vuole operare in Italia come prima cosa costituisce una newco davanti al Notaio che provvede a registrarla presso la Camera di Commercio e segnalare l’inizio attività all’Agenzia delle Entrate. Da questo momento inizia il calvario. La società, desiderosa di cominciare a lavorare, a creare posti di lavoro, a produrre o fornire servizi, va ad aprire un conto corrente dove versare il capitale sociale. Però non si può. Se la neocostituita (di diritto italiano, regolarmente iscritta) ha più del 20% di capitale estero (ed è ovvio che sia così, si tratta di investitore estero) nessun istituto bancario italiano è disposto ad aprirle un conto. Senza spiegazioni, senza motivazioni, salvo evidenziare che trattasi della policy bancaria italiana. Nel frattempo arriva la burocrazia. La neocostituita società (il cui investitore estero ancora non ha ancora versato il capitale sociale visto che non gli aprono un conto) si scontra immediatamente con una serie di altre problematiche, tra cui l’obbligo del pagamento della bollatura dei libri sociali che nel 2022 si fa ancora per mezzo di bollettino postale cartaceo compilable a mano (Digitalizzazione? Manco a parlarne). Senza contare che i siti web istituzionali (Agenzie governative, P.A.) che contengono le linee guida, i regolamenti, le normative, elementi preziosissimi per il corretto operato amministrativo di una società, sono esclusivamente in italiano relegando le poche sezioni in inglese a informazioni parziali ed incomplete. A questo punto il malcapitato investitore estero alza comprensibilmente i tacchi e se ne va in Olanda. O a Dubai. Ovunque ma non qui.

Infine, si è sempre saputo che il grado di attrattività degli investimenti esteri si basa sulla stabilità politica di un paese. Quindi, è ovvio che fino ad oggi non abbiamo avuto molte chance. Basti come esempio ciò che è avvenuto anni fa con il Fondo del Qatar. All’invito dell’allora primo ministro italiano ad investire nel Belpaese, il Qatar ha declinato l’invito rispondendo che l’Italia non forniva garanzie di stabilità politica considerato il noto avvicendarsi di governi di breve durata. Neanche a farlo apposta dopo pochi mesi il noto epilogo del governo Letta e delle rassicurazioni di Renzi a stare sereno. L’attuale Esecutivo ha invece tutte le carte per portare a termine la legislatura e questo dovrebbe rassicurare gli investitori stranieri. Quindi è il momento di agire.  C’è un sistema paese da riformare, perché solo un paese moderno, digitalizzato, con un apparato burocratico snello e reattivo può creare le condizioni giuste per attrarre investimenti ed eccellenze verso l’Italia. Serve quindi un’Authority che coordini e affianchi tutte le agenzie attuali preposte a tale scopo, che vigili sull’operato di banche e P.A. riguardo le politiche adottate verso le società estere e crei delle regole snelle e chiare per accogliere le imprese straniere. Oltre all’esigenza di un portale unico dedicato, in inglese, con una forte connotazione anche pubblicitaria (utile anche per la promozione inversa del Made in Italy) che costituirebbe senz’altro uno strumento imprescindibile per l’attrazione degli investimenti e per la conseguente prosperità del paese.

*Kiril K. Maritchkov, Comitato scientifico Fondazione Farefuturo

La sicurezza economica al centro dell’interesse nazionale

La tutela dell’interesse nazionale da insidie e incursioni estere lesive degli asset strategici italiani è di fondamentale importanza, ce ne stiamo accorgendo ancora di più oggi, in un momento particolarmente difficile e delicato.

La relazione annuale prodotta nel febbraio scorso dal Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica evidenzia in modo chiaro questa necessità, presentando per altro un efficace confronto con alcune delle principali democrazie mondiali, dalle quali emergono spunti interessanti e possibili aree di miglioramento per il nostro Paese, da attuare quanto prima, in un quadro internazionale in rapido deterioramento.

In particolare evidenzia come negli Stati Uniti, in Svezia, in Giappone e in Francia si sia affrontato per tempo questo delicato tema, prevedendo strumenti e modelli organizzativi atti ad affrontare possibili scenari critici, come quelli che stiamo vivendo.

Un sistema particolarmente organizzato appare quello francese, come si evince da questo passaggio del rapporto: <<In Francia, la prima struttura pubblica deputata alla centralizzazione dei dati economici che possono avere rilievo strategico risale al 1994: l’intelligence economica come strumento fondamentale di guerra risponde al bisogno di prevenire i comportamenti economici di Stati ed organizzazioni. L’approccio francese alla questione è stato, e sembra esserlo tuttora, di tipo bottom-up: un gruppo di accademici pionieri ha diffuso i concetti dell’intelligence economica inizialmente nelle università, per poi “contaminare” con le proprie teorie sia le strutture pubbliche, sia le aziende private, contribuendo fattivamente alla nascita di una cultura di intelligence economica. In tale modo la classe dirigente francese di ogni livello, pubblica e privata, ha potuto facilmente acquisire le basi concettuali per comprendere le modalità con cui intraprendere azioni offensive e difensive in un regime di guerra economica. A livello capillare, sono le Camere di commercio francesi a diffondere la conoscenza di pratiche di intelligence economica e delle strutture a cui rivolgersi, pubbliche e private, per le diverse esigenze delle singole aziende.  Non a caso, uno dei vantaggi francesi è l’aver coniugato intelligence economica (IE), business intelligence (BI) e competitive intelligence (CI) creando una struttura parastatale, la partecipata pubblico-privata Agence pour la diffusion de l’information technologique (ADIT,), che svolge regolarmente attività di BI e CI e, al contempo, supporta l’IE francese all’occorrenza. ADIT risulta, così, la sintesi di un concetto olistico dell’IE e di un interesse pubblico per gli affari economici che si spinge capillarmente fino alla consulenza rivolta alle Piccole e medie imprese (PMI). Sempre in tema di collaborazione con il settore privato, il Governo francese ha avviato in parallelo, da circa dieci anni, un’attività divulgativa a livello di Camere di commercio, con coinvolgimento di ordini professionali ed associazioni di categoria, per la diffusione di alcune best practices che spaziano dal tema della sicurezza dei dati (cybersecurity) fino alla modalità con cui condurre un attento monitoraggio del mercato e della concorrenza. In Francia, le attività di targeting economico finanziario sono responsabilità del Ministero dell’economia, dell’industria e del digitale (MEID). Presso la Direction générale des entreprises (DGE), posta all’interno del MEID, e più in particolare presso il Service de l’information stratégique et de la sécurité économique (SIS-SE), sono concentrate le seguenti attività: identificare i settori, le tecnologie e le imprese rilevanti per gli interessi economici, industriali e scientifici della Nazione ed accentrare le informazioni strategiche; concorrere all’elaborazione della policy governativa in materia di investimenti esteri; informare le Autorità circa persone, imprese ed organismi che rappresentano un interesse o una minaccia per le priorità strategiche del Paese; contribuire o monitorare il rispetto della legge sulla diffusione di documenti riservati. Il Commissario all’informazione strategica e alla sicurezza economica o CISSE (Commissaire à l’information stratégique et la sécurité économique), nominato con decreto presidenziale, sovrintende a tali attività e, al contempo, assicura il coordinamento con gli altri Ministeri del Governo e con i Servizi di intelligence. In tal modo, inglobando il MEID nel ciclo intelligence, il Governo francese agevola i Servizi di sicurezza nella funzione di targeting, rendendo chiaro e sempre aggiornato l’elenco di interessi strategici (aziende, persone, tecnologie) da tutelare>>.

Abbiamo esattamente bisogno di questo e non solo: la buona notizia è che sarebbero già disponibili buona parte degli strumenti necessari e le relative infrastrutture digitali. Quello che ancora manca è una chiara volontà politica in tal senso, che dia vita ad un coordinamento stabile e incardinato in una organizzazione specifica dedicata a livello centrale e all’attivazione, sul territorio, di quella rete capillare necessaria che, come sul modello francese, ben potrebbe essere rappresentata dalle Camere di Commercio, a tutti gli effetti enti pubblici di prossimità con il mondo dell’impresa e delle professioni, che già dispongono di potenti mezzi informatici e di Business Intelligence, quanto mai utili se ben indirizzati.

*Enrico Argentiero, esperto di mercati internazionali

Reagan e il “Nuovo Mao”: libertà e comunismo a confronto

L’anno 2018, un anno di vigilia di quell’annus horribilis 2019 nel  quale la catastrofe della pandemia prima negata e poi censurata dalla Cina  Comunista ha devastato le economie e a salute globale, in quel 2018 il  trionfo del nuovo Mao veniva acclamato  quasi universalmente. Come era d’altra parte avvenuto nei media Americani ed europei di molti paesi nella Seconda metà degli anni Trenta per Adolf Hitler.

Nel 2018, la Rivista “Forbes”, nella annuale classifica dei 75 uomini più potenti del mondo, lo collocava al primo posto, davanti a Putin e a  Trump.

Il Corriere della Sera lo dichiarava, con decisione apparentemente unanime del suo comitato di Redazione, come uomo dell’anno, suscitando  una reazione indignata di numerosi firmatari della lettera al Direttore  Fontana che peraltro ribadiva la correttezza di tale decisione, ignaro di  quello che già accadeva in Xinjiang e in Tibet, nel Mar della Cina  Meridionale, e che si preannunciava a Hong Kong, nello stretto di Taiwan,  in Birmania e nelle operazioni di colonizzazione tentacolare, finanziaria,  economica e logistica, delle “Vie della Seta”.

Un lume di saggezza sembrava invece già nel marzo 2018, provenire dall’Economist che scriveva: “La Cina è passata dall’autocrazia alla dittatura”.

Questo è avvenuto quando Xi Jinping, l’uomo più potente del mondo, ha fatto sapere che avrebbe cambiato la costituzione della Cina così da poter governare a vita. Dopo Mao nessun leader cinese ha mai avuto così tanto potere.

Dopo il collasso dell’URSS, l’Occidente ha accolto il nuovo grande continente comunista nel suo ordine globale. I leader occidentali credevano che inserire la Cina in istituzioni quali il WTO avrebbe mantenuto le sue grandi potenzialità all’interno di un sistema di regole costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Speravano che l’integrazione economica avrebbe incoraggiato la Cina a evolvere verso l’economia di mercato e, il suo popolo avrebbe ottenuto maggiori libertà democratiche e diritti.

Per diversi decenni, sembrava che questo potesse accadere.

La Cina è diventata più ricca. Sotto la guida di Hu Jintao la scommessa dell’Occidente sembrava ripagata. E quando Xi Jinping prese il potere cinque anni fa si credeva ancora che la Cina si sarebbe mossa verso lo Stato di Diritto e l’adozione di una Costituzione che vi si ispirasse. Oggi questa illusione è scomparsa. Xi Jinping ha indirizzato la politica e l’economia verso un crescente autoritarismo, controllo e repressione delle libertà individualiIl Presidente ha usato il suo potere per riaffermare il dominio del partito comunista. Ha annientato i rivali. Ha creato nuove Forze Armate e riportato l’intero sistema di sicurezza, intelligence e Difesa sotto il suo diretto controllo.

La nuova leadership si è mostrata durissima nel reprimere ogni forma di dissidenza, creando una sorveglianza di Stato. La Legge sulla Sicurezza Nazionale ha fatto strage a Hong Kong di qualsiasi libertà che Pechino si  era impegnata a rispettare con l’Accordo Sino-Britannico ratificato anche  dalle Nazioni Unite.

Pechino pretende di applicare la Legge sulla Sicurezza Nazionale ovunque nel mondo, nei confronti di cittadini cinesi che non dimostrino “amore” per il Partito Comunista Cinese, e minaccia chiunque altro manifesti sostegno alla causa della Democrazia e della Libertà in Cina.

La Cina è diventata un nemico dichiarato della democrazia liberale.  Nell’autunno 2018 il Presidente Xi Jinping ha offerto una sua teorizzazione proponendo che i Paesi partners della Cina comprendano la saggezza cinese e l’approccio cinese alla soluzione dei problemi. Ancor prima, nel 2012, Xi Jinping precisava che la Cina non esporterà il suo modello. Ma da un paio di anni afferma il contrario. L’Occidente e l’America hanno nella Cina – sempre più – non solo un rivale economico, ma anche un antagonista ideologico e strategico.

La scommessa per l’integrazione dei mercati ha avuto successo per Pechino, assai meno per gli altri. La Cina è stata integrata nell’economia globale. È il primo esportatore al mondo, con più del 13% del totale. Ha creato una prosperità straordinaria per sé stessa. Tuttavia, la Cina non ha un’economia di mercato, e ne resta assai distante.

Controlla il commercio come arma del potere statale. Tutte le industrie strategiche dipendono dallo Stato e così – in base alla legge – anche tutte quelle private, e non soltanto quelle ritenute strategiche. Il piano Made in China 2025 punta a creare leader mondiali in dieci industrie, tra le quali l’aviazione, la tecnologia e l’energia, che coprono quasi il 40% del tessuto manifatturiero.

La Cina viola abitualmente il sistema di regole esistente nella società internazionale, ma sembra anche progettare un sistema parallelo “revisionista”, autonomo e alternativo. L’iniziativa Belt and Road, che prometteva di investire $1tn in mercati esteri è uno schema per sviluppare il Nord della Cina e per creare una rete di spionaggio industriale, di collegamenti strettissimi tra imprese ICT e altre a elevata tecnologia: per imporre così una totale capacità di controllo del vertice del PCC in tutto ciò che avviene. Il Governo cinese alimenta analoghi legami con decine di migliaia di ricercatori e studenti all’estero.

Sono ormai migliaia i casi di spionaggio sui quali l’FBI sta indagando, attribuiti a ricercatori cinesi negli Stati Uniti.

La Cina usa il commercio per affrontare i suoi rivali. Cerca di punire le imprese direttamente, come la Mercedes-Benz tedesca, che fu obbligata a chiedere scusa dopo aver citato il Dalai Lama online. Li punisce anche per il comportamento dei loro Governi. Quando le Filippine contestarono la rivendicazione cinese della Scarborough Shoal nel mare cinese del Sud, la Cina subito fermò il commercio di banane, per “problemi di sicurezza sanitaria”.

L’Occidente ha bisogno di ridisegnare i confini della politica verso la Cina. Cina e Occidente devono imparare a vivere con le loro differenze.

Più a lungo l’Occidente sarà accomodante nei confronti degli abusi della Cina, più sarà pericoloso affrontarli in futuro. di fare luce sui collegamenti tra fondazioni indipendenti, e Stato cinese.

Una sintesi delle difficoltà e delle minacce poste dalla Cina di Xi  Jinping veniva tracciata, durante la campagna presidenziale  americana, dal Senatore Elizabeth Warren, che sottolineava in Foreign  Affairs: … in tutto il mondo la democrazia liberale è sotto assedio. I Governi autoritari acquistano potere. I movimenti politici fautori del pluralismo sono sotto scacco. Le disuguaglianze crescono trasformando il Governo del popolo in governo delle élite più ricche. Il fenomeno parte innanzitutto dall’America che è stata, negli ultimi 70 anni, il paladino delle libertà democratiche, dello stato di diritto e della democrazia liberale.

Dall’inizio degli anni 2000, con il consolidarsi della globalizzazione e l’estrema finanziarizzazione dell’economia, Washington ha virato in direzione di politiche che, invece di andare a vantaggio di tutti, sono andate ad esclusivo vantaggio di un ristretto vertice di élite. Il divario fra l’1% dei detentori della ricchezza in ognuno dei Paesi OCSE e il 99% della popolazione è fortemente cresciuto nel corso degli ultimi 20 anni ed ha avuto un ulteriore impressionante accelerazione negli ultimi 10, mentre la crisi finanziaria e la recessione economica facevano perdere milioni di posti di lavoro con una crescita intollerabile di poveri e di emarginati dalla società. E’ questo il particolare brand di capitalismo sul quale sono parse concentrarsi le ultime amministrazioni repubblicane, riducendo le regolamentazioni, abbassando le tasse soprattutto sui ricchi, favorendo le società multinazionali.

L’emergere della Cina come potenza assertiva e neo-imperiale – sottolineava ancora Elizabeth Warren – è avvenuto in un contesto nel quale la superiorità militare degli Stati Uniti è rimasta certamente indiscussa sul piano regionale e globale.

Essa è stata tuttavia erosa dai successi considerevoli di Russia e Cina nell’ammodernamento e potenziamento delle rispettive forze militari e dei formidabili progressi tecnologici di queste due potenze nella “quinta dimensione” della sicurezza: il dominio cyber.

Credo che il Direttore Sangiuliano abbia avuto una grande intuizione nel dedicare i suoi due ultimi importanti lavori a due protagonisti di mondi ideologicamente contrapposti, il mondo della dittatura comunista da un lato, e il mondo della democrazia liberale dall’altro.

Sono entrambe storie di assoluta attualità, perché esprimono ancora oggi come quarant’anni fa una profonda diversità di impostazione sui valori fondamentali della dignità della persona, della libertà individuale e collettiva, della rappresentatività del popolo, del rispetto del pluralismo, dei diritti delle minoranze e delle diversità.

Vi sono alcune singolari coincidenze cronologiche nei due libri che, nel segnare l’iniziare ascesa di Xi Jinping e la fase trionfale della Presidenza Reagan, si presterebbero certamente a un esercizio storico – letterario come quello di Plutarco nelle “Vite Parallele” (Βίοι Παράλληλοι).

Tali coincidenze riguardano gli anni del secondo mandato del  Presidente Reagan, dal vertice di Ginevra con Michail Gorbaciov e al  suo discorso del 12 giugno 1987 a Berlino (“Signor Gorbaciov abbatta questo  muro”), e le vicende che riguardano in quegli stessi anni le ritrovate fortune politiche  del padre di Xi Jinping, Xi Zhongxun e  proprio nel 1987 -quando Reagan provocava una reazione di Gorbachev a Berlino- lo scoppio del caso Hu Yaobang, Segretario del  Partito Cinese al quale Xi Zhongxun era legato quale esponente delle  posizioni più liberali in materia economica e riformiste anche sul piano  politico.

Il confronto viene perfettamente descritto nel libro “Il nuovo Mao” ; un confronto che infiammava la politica cinese degli anni ’80: una contrapposizione, cioè, tra quanto ritenevano che le  riforme economiche dovessero rimanere solo tali, e quanti le vedevano invece come il preludio alla  formazione di un ceto medio e quindi a improcrastinabili riforme politiche.

Hu Yaobang si era spinto ad affermare che il Marxismo non era immune da errori e alcuni aspetti della vita in Occidente erano da apprezzare. Erano gli anni in cui gli studenti scendevano in piazza nelle grandi città per rivendicare quelle riforme. L’epilogo sarà Piazza Tienanmen.

Xi Jinping nell’86 aveva 33 anni ed era saldamente ancorato al sostegno del generale Geng Biao amico da sempre del padre. Con le sue scelte di carriera all’interno del partito e la stretta ortodossia ideologica al marxismo maoista abbracciata da Xi Jinping per quanto riguardava il ruolo assoluto del partito unico nella politica, Xi  Jinping iniziava quel percorso che avrebbe incardinato sempre più la Cina Comunista in una traiettoria nettamente antagonista e nemica della democrazia liberale , costantemente affermata da Ronald Reagan.

*Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Affari esteri

 

 

UNA POLITICA INDUSTRIALE PER L’ITALIA

Questo saggio di Giuseppe Pennisi, economista, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Ci può e deve essere una politica industriale nazionale e quali sono i suoi confini? Occorre fare una premessa. In economia ci sono, da sempre, due scuole di pensiero: la prima, alla Hayek, sostiene che la mano pubblica debba astenersi dall’intervenire in settori direttamente produttivi (come quelli dell’industria), il cui sviluppo dovrebbe venire orientato dal mercato; la seconda, alla Colbert (che non era un economista e non scriveva trattati, ma da ministro delle Finanze di Luigi XIV emetteva decreti con cui già alla metà del Seicento orientava le attività produttive in Francia), ritiene, invece, che la mano pubblica debba non solo guidare ma anche intervenire direttamente.

In Italia, un bel saggio recente di Pierluigi Ciocca (Tornare alla Crescita, Donzelli 2018) ricorda che i periodi di maggior sviluppo economico e industriale ci sono stati nell’età giolittiana e nei trent’anni del «miracolo economico», fasi in cui si garantivano le regole ed un efficace diritto pubblico dell’economia, le infrastrutture fisiche e istituzionali, e misure mirate solo per le aree depresse. Il sistema cresceva quasi spontaneamente e la politica industriale era in effetti orientata dal mercato. Nell’Unione europea (Ue), di cui siamo soci fondatori, e in un mondo caratterizzato da un forte grado d’integrazione economica internazionale – ci si deve chiedere – che spazio c’è per politiche industriali «nazionali»? In effetti, la «dottrina prevalente» nell’Ue è che lo sviluppo industriale deve essere garantito dalla libera concorrenza, dalla mancanza e di aiuti di Stato e di posizioni dominanti tra i player.

Da decenni, la Francia – Patria di Colbert – propone una «politica industriale europea» che, nel rispetto delle regole sulla concorrenza, incoraggi campioni europei tali da superare i confini nazionali e da gareggiare efficacemente con gigantesche multinazionali di impronta americana e asiatica. Due importanti documenti in tal senso, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012, tracciano prospettive e includono proposte concrete in materia. Hanno avuto relativamente poca attenzione in Italia e non sono stati formalmente recepiti in sede Ue, ma sono la cornice intellettuale e di politica economica in cui è nata, ad esempio, la fusione Fca-Psa, un chiaro elemento per far sì che il comparto europeo dell’auto possa rispondere efficacemente alla sfida della trasformazione tecnologica e del mercato mondiale. La Francia – vale la pena ricordare – ha anche creato «campioni europei», ma con un forte accento «nazionale», acquisendo aziende un tempo italiane, soprattutto nel comparto del lusso. Ciò dovrebbe essere un monito per l’Italia, dove non ci sono state acquisizioni significative di aziende straniere da incorporare in aziende italiane e fare così nascere «campioni europei» con il profumo ed il gusto italiano. Pochi anni fa, Franco Debenedetti, che è stato alla guida di grandi aziende, oltre che politico e saggista, ha analizzato gli insuccessi della politica industriale italiana in un volume dal titolo eloquente: Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale, Marsilio, 2016. Quasi quarantacinque anni fa, Giuliano Amato, che non può certo essere tacciato di iper-liberismo alla Hayek, nel volume Il governo dell’industria in Italia (Il Mulino, 1972), caratterizzava l’intervento pubblico nell’industria nel nostro Paese quale impiccione e pasticcione. Si potrebbe continuare con citazioni e riferimenti. La domanda di fondo è come mai Oltralpe si riesce a teorizzare i campioni europei, e anche a facilitarne la realizzazione, mentre da noi si finisce ad attuare interventi impiccioni e pasticcioni all’origine dei circa 160 tavoli di crisi in quel di via Molise, dove ha sede il Ministero per lo Sviluppo Economico (Mise)? La risposta è in gran misura in Colbert e in Napoleone Bonaparte che ne seguì le tracce e diede un inquadramento più completo alla strategia. In una Francia dove l’industrializzazione tardava a venire, Napoleone creò les grandes écoles perché lo Stato disponesse di un corpo altamente qualificato per valutare e guidare l’attuazione di interventi piccoli e grandi.

La tecnocrazia prodotta da les grandes écoles era fedele alla Nation e non cambiava funzione e ruoli a seconda del vento politico del momento. Ancora oggi, La Documentation Française, pubblicata dall’equivalente del Poligrafico dello Stato, diffonde le analisi perché tutti possano giudicarne la qualità. In effetti, quando la crisi del 1929 comportò una forte dose di intervento pubblico per salvare la finanza e l’industria italiana, Benito Mussolini non si rivolse a un camerata di stretta osservanza e fedeltà, ma a un socialista riformista, che non aveva mai preso la tessera del Partito, come Alberto Beneduce, per porre ordine al sistema. Da solo, tuttavia, questo elemento non basta. In primo luogo, al capitale intellettuale di cui dotare il settore pubblico, occorre affiancare un capitale fisico di infrastrutture (dalla logistica alle forme più avanzate di telematica) per fare sì che le imprese «nazionali» possano competere efficacemente con quelle straniere ed irrobustirsi sul piano interno e poi diventare «campioni europei»: gli storici dell’economia sottolineano che sia l’età giolittiana sia quella del miracolo economico furono caratterizzate da un grande sviluppo delle infrastrutture (finanziate in gran misura dallo Stato). In secondo luogo, è imperativo un diritto pubblico dell’economia semplice, trasparente e stabile, altra caratteristica e dell’età giolittiana e dei lustri del miracolo economico, mentre purtroppo in questi anni l’Italia è stata travagliata da un diritto pubblico dell’economia confuso e spesso cangiante (si vedano, ad esempio, i casi dell’impianto siderurgico di Taranto e delle concessioni autostradali).

A questo punto occorre chiedersi se una politica industriale «nazionale» con la prospettiva di dare vita a «campioni europei» può prevedere interventi finanziari diretti a sostegno di alcune imprese. Un’analisi interessante si ha in un saggio di Ernest Liu, un giovane professore dell’Università di Princeton (Industrial Policies in Production Networks in The Quarterly Journal of Economics, novembre 2019). Liu ha studiato con cura le politiche industriali del Giappone, della Corea del Sud, di Taiwan ed anche della Repubblica Popolare Cinese. Giunge ad una conclusione interessante: l’intervento pubblico diretto per la politica industriale può essere efficace quando mira a settori o industrie «a monte» che producono input per settori o industrie «a valle». Sulla base di queste analisi, si possono sviluppare alcuni criteri di politica industriale. Alitalia non è certo un’industria «a monte». L’ex Ilva ha, invece, tutte le caratteristiche di un’industria «a monte». Da qui a determinare come modulare un eventuale intervento pubblico la strada è ancora lunga. Ed è particolarmente complessa in una fase come l’attuale in cui le prospettive di una lunga e profonda recessione, aggravata dall’emergenza del coronavirus, e la possibile esplosione di una bolla finanziaria creata dall’indebitamento privato e dall’emissione di obbligazioni di dubbia consistenza. A metà marzo 2020 uno studio di Cerdar Selik e Mats Isaksson dell’Ocse ha stimato in 13,5 milioni di miliardi di dollari il totale del debito delle imprese non finanziarie, accumulato, in gran misura tramite emissioni di obbligazioni, in anni di crescita in molti Paesi industriali ad economia di mercato. Una crisi finanziaria sommata alla recessione potrebbe spazzare via non solo singole imprese ma anche interi comparti e rendere più facile individuare potenziali resistenti «campioni nazionali». L’Italia da sola non ce la potrà fare ad uscire da una recessione che ha sempre più i tratti di una depressione che potrà spazzare via molte imprese del manifatturiero ed abbassare di molto la valorizzazione di mercato di altre, rendendole facili preda di gruppi stranieri, di altri Stati europei e non solo. La strategia da seguire è lineare. Da un lato, massimizzare il supporto del resto dell’Unione europea, utilizzando bene le risorse specialmente quelle dello sportello della Banca europea degli investimenti dedicato alle piccole e medie imprese e promuovendo l’attivazione di uno sportello per le imprese nel costituendo Recovery Fund. Da un lato, difendere in via normativa il nostro capitale imprenditoriale da acquisizioni straniere.

*Giuseppe Pennisi, economista

RECOVERY AND RESILIENCE FUND

I tempi per il Resilience & Recovery Fund (RRF) sembrano allungarsi a ragione delle differenze politiche con Polonia ed Ungheria. È quindi appropriato non correre, ma attrezzarsi o con agenzia ad hoc (come suggerito da Giorgio La Malfa e, con diversità di accenti, da Alberto Quadrio Curzio) oppure (come nella recente proposta della Assonime, e nel paper di Marco Buti e Marcello Messori) oppure ponendo via Venti Settembre al centro dell’operazione, sotto il profilo tecnico.

L’idea delineate al vertice di maggioranza del 28 novembre di creare nella Presidenza del Consiglio una task force con sei manager e circa trecento addetti solleva serie perplessità. Qualsiasi specialista d’amministrazione nutrirebbe seri dubbi sulla capacità di selezionare, sei manager e trecento esperti, amalgamarli, dare loro orgoglio e sentimento di équipe – tutte caratteristiche per potere ben lavorare insieme. Per non parlare della logistica: trovare locali, attrezzature, e via discorrendo. E soprattutto della messa in atto di processi lavorativi, analitici e decisionali, Come evitare, infine, frizioni con le amministrazioni dello Stato (alcune con un forte spirito di corpo) che si sentirebbero inevitabilmente spodestate, e con le Regioni, per le materie loro affidate? I tentativi di creare strutture parallele finiscono sempre male. Inoltre, solleva seri dubbi sotto il profilo costituzionale – il Presidenze del Consiglio, e quindi i suoi uffici- hanno solo compiti coordinamento ai sensi dell’art.95 della Costituzione.

Inoltre, Palazzo Chigi (metaforicamente perché l’organico è ormai sparso in decine di edifici romani) è già affollato e sotto stress per avere avocato a sé numerosi compiti operativi, non di coordinamento. Oltre a quelli più noti – come i servizi segreti (di solito affidati al Ministro dell’Interno od ad un Sottosegretario ad hoc) -, vale la pena citare la struttura di missione Investitalia per le infrastrutture, quella per l’analisi dell’impatto della regolazione ed un Gabinetto su cui grava anche la nomina dei commissari per le opere pubbliche e per la sanità.

E’ soprattutto una proposta singolare, in quanto tranne la Francia (che ha in pratica dato nuova vita al Commissariato al Piano, le cui strutture erano comunque rimaste intatte in seno al Ministero dell’Economia e delle Finanze)) tutti gli altri Stati affidano l’operatività del Resilience and Recovery Fund ai rispettivi Ministeri dell’Economia e delle Finanze per il lavoro tecnico da condurre in cooperazioni con le altre amministrazioni centrali e regionali, ed al Ministro degli Affari Europei (quasi sempre senza portafoglio) il collegamento con le istituzioni europee. A livello politico interno, esistono comitati interministeriali per gli affari europei ed per la politica economica analoghi ai nostri Ciae e Cipe. In certi casi si dovrà rafforzare l’esistente con l’immissione di qualche esperto specialistico. Sarebbe opportuno, poi, utilizzare questa occasione per rivedere numerosi processi. Il disegno di legge di bilancio all’art.184 comma 14 già prevede un ruolo importante per il Ministero dell’Economia e delle Finanze- Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato; è sufficiente estenderne la portata in analogia con quanto avviene in quasi tutti gli Stati dell’Ue.

Come indicato al termine di questo appunto, ove si volesse adottare l’idea concordata al vertice di maggioranza del 28 novembre, i tempi – come indicato nella nota al temine di questo appunto- non sarebbero compatibili con il programma europeo per il Recovery and Resilience Fund.

A mio avviso, il Ministero dell’Economia e delle Finanza è l’unica struttura della pubblica amministrazione che ha la capability di gestire la valutazione e selezione degli interventi, nonché, in collaborazione con le amministrazioni competenti dello Stato e delle Regioni, monitorare la tempistica della loro attuazione.

Al Ministero dell’Economia e delle Finanze, ai fini della valutazione e selezione degli interventi, si può prevedere un metodo in tre fasi: a) presentazione di un programma di riforme le cui spese vengano valutate con strumenti all’altezza di standard internazionali; b) scrematura dei progetti/singoli componenti di spesa (sia in conto capitale sia di parte corrente) per individuare quelli validi; c) scelta dei progetti/singoli componenti di spesa che ottimizzino gli obiettivi di politica economica. In tal modo, la politica si concentrerebbe sul livello “alto” della definizione degli obiettivi e dei parametri di valutazione e il lavoro di analisi verrebbe effettuato a livello tecnico, evitando un “suk” tra portatori di interessi. Se l’elenco dei progetti/singoli componenti di spesa non piacesse al Comitato interministeriale per gli affari europei, il livello politico dovrebbe modificare gli obiettivi (e parametri) e quello tecnico, utilizzando la strumentazione disponibile, fornirebbe una nuova proposta in linea con i nuovi obiettivi.

La prima fase potrebbe essere realizzata utilizzando Macgem-It, un modello econometrico multisettoriale sviluppato proprio all’interno del ministero dell’Economia e delle Finanze e pubblicato nel marzo 2020. Macgem-It consente di valutare gli effetti di programmi di spesa su variabili-obiettivo come Pil, occupazione, bilancia dei pagamenti e via discorrendo. E inserendo una funzione che specifichi l’importanza relativa che si dà ai vari obiettivi, delineare il mix o il pacchetto di spese che meglio consente di ottimizzare il loro raggiungimento.

È uno strumento che molti Paesi utilizzano per forgiare la loro politica economica e che in Italia è stato impiegato, in una versione molto semplificata, negli anni Ottanta e, poi, per l’analisi di alcuni grandi investimenti quali la transizione della televisione analogica al digitale terrestre e l’alta velocità tra Lione e Torino, nonché alcuni aspetti della politica tributaria. È entrato in graduale disuso soprattutto perché il suo asse portante – la “matrice di contabilità sociale” (Sam, per gli addetti ai lavori) – non veniva aggiornata dalla fine degli anni Novanta, quando l’Istat ha dato la priorità alle statistiche richieste dall’Ue. Si tenga presente che proprio per il Recovery fund in Francia è stato rimesso in funzione il Commissariato al Piano: è stato nominato un Alto Commissario che riferisce direttamente al Governo e il cui staff utilizzerà strumenti come Mcgem-It (i cui antenati sono comunque francesi, il Tableau économique di Quesnay).

Macgem-It è l’acronimo di “Multisector applied computable general equilibrium model for Italy” (modello multisettoriale computabile di equilibrio generale per l’Italia). È stato realizzato dal Dipartimento del Tesoro in collaborazione con il Dipartimento di economia e diritto dell’Università degli studi di Macerata. È stato ben tarato sulle caratteristiche del sistema economico italiano allo scopo di quantificare l’impatto disaggregato, diretto e indiretto, delle politiche di bilancio e degli scenari di riforma ipotizzati. Una prima versione è stata discussa due anni fa a un seminario tecnico a via XX Settembre, ora è un gradevole fascicoletto (pubblicato lo scorso marzo). È utile sapere che la Commissione europea ha invitato i modellisti italiani a tenere seminari di formazione per i colleghi di altri Stati dell’Ue. E’ quindi rispettato ed apprezzato alla Commissione europea.

La seconda fase è l’individuazione della platea di progetti singolarmente validi. A via Venti Settembre non mancano professionalità. Circa quaranta anni fa si sono fatte le prime esperienze di analisi costi-benefici applicate al Fondo investimenti e occupazione (Fio). Sono poi continuate all’allora Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e di Coesione. Infine, una quindicina di anni fa si sono fatte sperimentazioni di valutazione in condizioni di incertezza utilizzando tecniche molto avanzate. Infine, un centinaio di funzionari e dirigenti del dicastero hanno seguiti corsi alla Scuola nazionale d’amministrazione. Le “risorse umane” – per usare il lessico corrente – ci sono, occorre organizzarle bene e fornire loro i parametri di valutazione. Due compiti che spettano al livello politico.

I parametri di valutazione esprimono: a) le preferenze di distribuzione dei costi e dei benefici per fasce di reddito/consumi o su base territoriale o sotto il profilo intergenerazionale; b) il valore sociale da attribuire a obiettivi di politica economica e sociale, quali l’occupazione, la coesione sociale e la sostenibilità ambientale; c) il valore da attribuire a beni e servizi non di mercato o solo parzialmente di mercato (istruzione, ambiente, salute); d) il computo economico di effetti esterni, interdipendenze, costi accantonati, trasferimenti finanziari all’interno della collettività, andamento generale o specifico dei prezzi di beni e servizi; e) il valore economico e sociale di beni e servizi in mercati regolamentati (spesso con tariffe e altre forme di prezzi amministrati).

In materia, la situazione è un po’ confusa e sarebbe necessario mettere rapidamente ordine. Parametri sono stati elaborati negli anni Ottanta del secolo scorso dall’allora Ministero del Bilancio sulla base di una metodologia econometrica aggregata, volta a stimare il rendimento marginale dell’investimento in opere pubbliche. Essi hanno fornito la base di una delibera del Cipe del 1984, emendata, per gli investimenti nel Mezzogiorno, da una direttiva della presidenza del Consiglio del 1986. Tanto la delibera Cipe, quanto la direttiva sono ormai obsolete. Nel 2007, un documento di lavoro dell’Uval (Unità di valutazione allora presso il Ministero dello Sviluppo economico) ha proposto un aggiornamento (peraltro mai ufficializzato), basato sostanzialmente sui lavori della Commissione europea e sulle direttive per le istruttorie di piani e progetti a valere sui fondi strutturali europei. Nel 2012, il Cnel ha presentato un documento di osservazione e proposte, alla luce dell’evoluzione metodologica e dell’esperienza delle principali istituzioni internazionali e dei maggiori Paesi europei, ma soprattutto in linea con obiettivi che danno la priorità alla sostenibilità ambientale e a una migliore distribuzione dei benefici della crescita tra varie categorie. Il documento fu inviato a Governo e Parlamento, ma non è mai stato recepito. In punta di diritto è ancora valida la delibera del Cipe del 1984. Un chiarimento è essenziale. Sarebbe logico e semplice adottare il documento Cnel, aggiornato e ritoccato come si ritiene.

Il terzo stadio è la scelta in funzione degli obiettivi. Si può tornare al nostro amico Macgem-It o applicare una procedura multicriteri. L’aspetto tecnico è semplice, sempre che gli obiettivi politici siano chiari e trasparenti a tutte le dramatis personae italiane e Ue coinvolte in questa operazione.

Nota sulla tempistica

Ho fatto una stima dei tempi per varare la task force. Gli uffici della Presidenza del Consiglio sono già sotto affanno perché mancano circa trecento decreti attuativi (una settantina all’ormai «storico» Decreto Rilancio) per dare corpo alle misure anti- Covid.

Ammesso che tramite un maxiemendamento, la task force venga istituita con la legge di bilancio, la norma richiederebbe almeno una dozzina di decreti attuativi per esplicitare linee di comando, organigramma, direttive per la comunicazione esterna ed interna, i principali processi operativi; perché siano redatti, firmati, vidimati e bollinati (ad esempio dalla Ragioneria Generale dello Stato e dalla Corte dei Conti), andando alla velocità di Speedy Gonzales ci vorranno quattro mesi: si celebrerà la «missione compiuta» il primo Maggio, Festa del Lavoro.

Ma è solo l’inizio. Per la selezione dei manager e degli esperti, si dovrà ricorrere a procedure di evidenza pubblica, per evitare che magistratura contabile e magistratura amministrativa od anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (Ana), invalidino il tutto. Sarebbe, poi, una discriminazione incostituzionale non consentire ai dirigenti ed ai funzionari della pubblica amministrazione di partecipare alla selezione. Per accorciare i tempi si possono prevedere due binari (dopo avere descritto chiaramente ciascun incarico – attività che ha richiesto quattro mesi per la piccola struttura di missione «Investitalia») istituita presso la Presidenza del Consiglio sulla base della legge di bilancio 2019). Un binario per la pubblica amministrazione: un mese per redigere l’«interpello» e pubblicarlo, un mese per ricevere la domande, almeno tre mesi perché le commissioni di valutazione (da nominare) esaminino e la candidature e due mesi per decreti di nomina e relative registrazione. In breve, i primi «incaricati» prenderebbero servizio nel febbraio 2022

Non più rapido il percorso per rivolgersi al mercato privato. Ci vorrebbe una gara per selezionare società di ricerche di manager e di esperti, come venne fatto ai tempi del Governo Letta per le nomine nelle aziende a partecipazione pubblica (per incarichi nei consigli di amministrazione e simili). Allora la gara richiese quattro mesi: ora potrebbero essere portati a tre. Difficile accorciare i tempi del resto della procedura. I prima «incaricati» arriverebbero nel marzo 2022.

*Giuseppe Pennisi, economista

 

IL PROSSIMO FUTURO ECONOMICO DEL PAESE

Stiamo vivendo una fase che, nei libri di storia, avrà la stessa rilevanza di eventi a ricordo imperituro e, forse, chiuderà l’Era Contemporanea.
Ma noi che siamo protagonisti e spettatori possiamo plasmarne il contenuto e mettere le premesse per la successiva evoluzione sociale, democratica, economica.
Affronto in queste righe il progetto di innovazione e trasformazione del tessuto economico-industriale-finanziario che, con il contributo del legislatore, si può e si deve realizzare.
Siamo alle prese con una contingenza fatta di paura pandemica, di incertezza sul futuro, di riposizionamento dell’economia mondiale;non sappiamo quando e come se ne uscirà , ma certamente il dopo non sarà come prima ed allora dotiamoci di una strategia capace di rispondere alla crisi facendo sì che questa sia un’opportunità.

Il panorama industriale italiano, già indebolito dalla strisciante crisi indotta dalla prepotente invasione sui mercati dell’oriente asiatico e dal permanere di una invadente strategia bancaria tedesca ed americana, si è oscurato con molteplici situazioni di sofferenza finanziaria e fiscale e con il disimpegno degli investitori stranieri, ma non possiamo accettare di non reagire per salvare questo Paese dal declino partendo dalla forza dei suoi cittadini e della intelligenza dei nostri centri di ricerca e dalle nostre Università.

Il nostro debito pubblico che è attualmente vicino ai 2.600 miliardi di euro salirà inevitabilmente nei prossimi due anni vicino ai 3.000 ed il rapporto con il Prodotto Interno Lordo tenderà al 200& portandoci alla possibilità di un commissariamento da parte della UE e comunque ad un grave rischio di impennata dei tassi sui titoli di Stato, quale soluzione si può intravedere?

Il risparmio degli italiani oggi è intorno ai 1.100 miliardi di euro in depositi bancari che non rendono nulla e sono solo intermediati parzialmente dal sistema bancario, molto spesso per sottoscrivere titoli di Stato italiani e non; ecco la proposta: ampliare la possibilità di sottoscrivere quote di Fondi Mobiliari con un consistente incentivo costituito da credito fiscale ( 30% come nel caso di investimento nel capitale di società start-up ) che si dedichino a rilevare e risanare aziende in conclamata difficoltà che abbiano concrete possibilità di rilancio attraverso l’introduzione di provvedimenti legislativi di saldo e stralcio dei debiti fiscali ( che comunque lo Stato non incasserebbe in caso di Commissariamento, Liquidazione o Fallimento ) e con la possibilità di riacquistare i propri debiti, con diritto di prelazione, verso gli Istituti di Credito che li abbiano classificati come crediti deteriorati ed intendano venderli ad Operatori Finanziari.

Prepariamoci a salvare e rafforzare quel tessuto di imprese che ci ha fatto diventare negli anni 90 la quinta potenza industriale del mondo perché solo così potremo mantenere un rapporto Debito/PIL che non ci costringa a svendere questo meraviglioso Paese agli avvoltoi che da dodici anni hanno deciso di invaderci economicamente.

*Pierluigi Borghini, ingegnere, presidente EUR

Attenti, scoppieranno nuove bolle finanziarie

La Federal Reserve Bank stimava che il debito relativo ai prestiti auto negli USA aveva raggiunto quota 1.200 miliardi (ed oggi sono 1.330), guadagnando il terzo posto sul podio dei debiti privati dopo i mutui e i prestiti destinati agli studenti, con un rischio di instabilità accentuato dal ricordo di quanto avvenuto dodici anni prima; – scrivevo nel mio libro “Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica” Guida Editori – Ed inoltre, “altra bolla che potrebbe saltare da un momento all’altro è quella relativa ai crediti al consumo che negli Stati Uniti ammontano a 3.840 miliardi di dollari”…. “È questo il debito delle famiglie americane, che non solo è cresciuto rispetto alla crisi del 2007-2008, ma che è anche peggiorato in qualità: oggi circa il 27% dei consumatori americani è classificato “subprime” (cioè poco affidabile). Questo accade perché si è spinto l’erogazione di prestiti a chi non è affidabile, favorita dalla politica ultraespansiva delle banche centrali, che incentiva la ricerca di rendimenti da parte degli investitori. Sono “subprime” 73 milioni di carte di credito: record dal 2009. Si stima infatti che sia avvenuta tra il 2010 e il 2017 una crescita della fascia di debitori subprime più a rischio dal 5 al 33% sul totale”.
“Ora con la pandemia il mercato dell’auto, che ammonta a 1500 miliardi, è crollato e le banche non sanno più dove mettere i veicoli sequestrati ai debitori morosi e che dovrebbero essere rivenduti sotto costo. L’agenzia di “rating” Standard & Poors avverte che le perdite su questo fronte aumenteranno, raggiungendo complessivamente centinaia di miliardi di dollari. I prestiti infatti spesso sono molto superiori al valore della vettura e vengono fatti su redditi inesistenti. Le banche non hanno fatto troppi controlli su questi piccoli prestiti, erogati ad alti tassi d’interesse. E così questa bolla è cresciuta così come quella dei prestiti d’onore agli studenti universitari, che attualmente viaggiano intorno a mille cinquecento miliardi di dollari (1.500), a cui si aggiungono mille miliardi per carte di credito.
JP Morgan ha stimato una ulteriore flessione, nelle prime settimane di aprile scorso, dell’11,8% del loro valore. Una caduta che potrebbe innescare perdite multimiliardarie nelle divisioni di servizi finanziarie delle case produttrici di auto, nelle banche e società di credito. I prestiti auto utilizzati per gli acquisti hanno raggiunto picchi di 1.330 miliardi, lievitati del 5% in un anno e del 60% in dodici anni, pari al 7,4% dell’indebitamento delle famiglie.
Già prima della pandemia il 5% era in sofferenza. Gm Financial potrebbe subire subito perdite per tre miliardi, Ford Credit per 2,8 miliardi. Il debito alle famiglie che vale oltre 14.150 miliardi di dollari potrebbe esplodere da un momento all’altro. Su tutti i prestiti immobiliari che sono 9.950 miliardi, Ubs ha calcolato che il 10% potrebbe andare in sofferenza ed altri 110 miliardi di dollari in carte di credito sono sull’orlo dell’insolvenza.
In questa fase di bassi tassi di interesse sono tornate in auge le obbligazioni societarie, più rischiose rispetto ai titoli di Stato e miliardi di dollari sono stati pompati in fondi comuni che investiti in corporate bond. E c’è stato anche il ritorno delle obbligazioni di prestito collateralizzati (Collateralized Loan Obligation). Le CLO agiscono come fondi comuni: comprano un portafoglio di prestiti e poi li rivendono a fette agli investitori. Il rischio è diverso a seconda della tranche; e i prodotti più rischiosi sono quelli che per primi incorreranno in perdite se i prestiti non saranno rimborsati.
Anche i cosiddetti “leveraged loans”, i prestiti concessi a debitori fortemente indebitati, sono aumentati. Un altro prodotto, che sta incontrando di nuovo l’interesse degli investitori sono le obbligazioni strutturate basate su mutui ipotecari delle imprese.
Ma ai “titoli tossici” tradizionali si è aggiunto negli ultimi tempi “altra carta” pericolosissima. Molti investitori americani che sono a caccia di rendimenti alti si sono gettati infatti in uno dei segmenti più incerti e pericolosi del mercato, le obbligazioni legate a prestiti per grandi progetti commerciali, dagli alberghi ai centri commerciali. Nonostante il tasso dei default, superiore al 9%, sia a livelli record. Poi vi sono le “Dividend recape”, le ricapitalizzazioni attraverso emissioni di bond o assunzioni di debito allo scopo di pagare dividendi, che sono diventate ormai un vero e proprio sistema di pagamento cedola. I fondi vogliono remunerare ad ogni costo i propri investitori, e il modo più semplice per farlo è di indebitare le società da loro controllate per finanziare dividendi. Si stanno gravando le società di nuovi debiti assolutamente improduttivi. Si tratta insomma di “obbligazioni spazzatura”, junk bond, che si stanno diffondendo. Quei prestiti servono poi a generare altre speculazioni: i finanziamenti agli immobiliaristi sono stati infatti cartolarizzati e poi inseriti in pacchetti di obbligazioni, la cui rischiosità è difficilmente calcolabile. La macchina dei subprime così è tornata a marciare a pieni giri. I fondi di private equity americani hanno occupato lo spazio lasciato libero dalle banche regionali americane sul fronte dei finanziamenti immobiliari.
Lo scoppio della bolla immobiliare del 2007 fece “saltare” 475 istituti regionali e i fondi di private equity sono stati i più veloci a entrare nel business anche se il trend è in diminuzione. Le ragioni sono diverse: moltissime aziende si sono viste abbassare il giudizio a livello “junk” dalle agenzie di rating, ma questo fenomeno è stato compensato dalla creazione di una enorme massa di liquidità, che ha permesso alle aziende di raccogliere fondi a bassissimo costo. Ed ora il mondo è di nuovo sull’orlo del precipizio e ci sono tutte le premesse perché riesploda la crisi con più virulenza.

Lagarde lasci a chi è competente

Occorre necessariamente essere persone di mondo per guidare un’alta istituzione europea e per essere di mondo occorre essere cittadini europei della propria nazione. Christine Lagarde, con il frasario da signorotta borghese intrisa di superiorità, si è dimostrata invece provinciale. E sia ben chiaro che si può essere provinciali anche provenendo dal IX arrondissement parigino. Si è rivelata inadeguata al ruolo di un presidente della BCE le cui parole vengono costantemente pesate da chi investe nel mercato finanziario, inadeguata a rappresentare il sentimento della parola unione che precede la parola “europea”, inadeguata a far percepire l’Europa come ciò che deve essere per uno Stato membro: rassicurante come una placenta per il proprio feto.

Nel momento in cui l’Italia, stremata per la lotta al Corona Virus, avrebbe bisogno solo di tatto e delicatezza, tutti gli attori politici italiani, nessuno escluso, hanno trovato il modo di rispondere a quel volutamente altezzoso “non siamo qui per ridurre gli spread”. E il mite Mattarella ha dovuto stendere un comunicato bagnato di stizza, le belle parole della presidente della Commissione Ursula von der Leyen sono state eclissate, il commissario Gentiloni e il presidente del Parlamento Sassoli hanno dovuto subire un’umiliazione che non meritavano, ma la cosa più grave è che il sentimento degli italiani, già provato da anni di assenza di percezione europea, ne è uscito lacerato. Lacerato. E l’Europa, al proprio interno, non può permettersi di instillare sentimenti di lacerazione.

L’Italia è il Paese che, attraverso i Trattati di Messina animati da Gaetano Martino e con l’attivismo di De Gasperi, ha contributo in primissima linea alla nascita dell’Europa. Roma è per sua natura la capitale europea nel Mediterraneo. Sarebbe dunque sbagliato dare ascolto agli istinti anti europeisti, perché la fotografia della realtà ci mostra che il limes dei singoli Stati dell’Unione è ormai scavalcato dai desideri delle persone, dalle necessità e dalle ambizioni delle aziende, dalla condivisione culturale. Dovremmo anzi essere protagonisti di un necessario rinascimento europeo, con un’agenda adeguata, per vivere il ruolo che per natura ci spetta, ma soprattutto per non essere irrilevanti dinnanzi a giganti come Cina, Russia ed U.S.A.

Come la vita, l’Europa ha le sue pecche ma è meglio averla… Così come è meglio vivere e cercare di migliorarsi e migliorare, invece che morire.

*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta

Leo: per un fisco dello sviluppo

Intervista di Antonio Coppola al Prof. Maurizio Leo, candidato alla Camera dei Deputati – Collegio Roma Centro

Esperto di diritto tributario dal vasto curriculum, già in Parlamento dove si è distinto nelle più importanti Commissioni; un profilo ideale per sfidare Gualtieri nel difficile Collegio Roma 1. Come sta vivendo questa campagna elettorale?

Mi sto occupando di temi tecnici, di fiscalità in particolar modo, in virtù della mia lunga esperienza professionale. Ho cercato di intercettare i problemi dei contribuenti, che ho modo di osservare e conoscere da vicino, al fine di poter elaborare risposte concrete.

 

In politica economica la sua visione è opposta a quella del Governo, mi può dare una panoramica?

Il Governo nella legge di bilancio ha inasprito il carico fiscale a carico dei contribuenti. Basti pensare alla stretta sulle compensazioni, agli appesantimenti per i contratti d’appalto, al cuneo fiscale che non mostra nulla in favore dei lavoratori dipendenti, dei pensionati, degli incapienti. La mia visione è diversa perché penso nella necessità di abbattere il carico fiscale, soprattutto in favore delle fasce di reddito che vanno dai 28.000 ai 55.000 euro, a cui può aggiungersi la flat tax sui redditi incrementali, per poter dare ossigeno a lavoratori e imprese, trovando in parte le coperture economiche dalle risorse destinate al costo del reddito di cittadinanza.

 

Cosa pensa dell’Italia nell’attuale contesto economico internazionale?

I principali organismi internazionali di settore fotografano l’Italia ultima in Europa, penultima nel mondo OCSE. La crescita prevista oscilla tra lo 0,2 – 0,3% con un rapporto deficit/PIL verso il 2,4%, che renderà certamente necessaria una manovra correttiva entro aprile.

 

Il crescente decadimento del centro storico fa male a chi ama Roma, dove in Campidoglio amministra il Movimento 5 Stelle ed in Municipio il Centrosinistra. Crede che i suoi avversari di Collegio possano sottrarsi da questa responsabilità? 

Degrado urbano, abusivismo e micro criminalità prendono sempre più spazio e non è accettabile nel centro storico della capitale d’Italia. Il Movimento 5 Stelle che amministra il Comune ed il Centrosinistra che amministra il I Municipio non possono sottrarsi dal fallimento delle loro gestioni.

 

*Antonio Coppola, collaboratore di Charta minuta

 

 

Gas naturale sfida per il futuro

In uno scenario internazionale mutevole, caratterizzato dal perdurare di notevoli margini di incertezze geopolitiche, si profilano nel mercato degli idrocarburi nuove variabili nella determinazione di prezzi e consumi.

Fattori chiave specifici fanno spazio a dinamiche interpretative un tempo trascurate a favore dei tradizionali “pilastri” macroeconomici di domanda e offerta. L’Oxford institute for energy studies sottolinea come la crescita della domanda di petrolio sia sempre più legata alla congiuntura economica globale e alle sue fluttuazioni imprevedibili che riducono l’impatto della volatilità dei prezzi. Questi ultimi risentono pesantemente delle variazioni connesse al consumo immediato e alle scelte dei consumatori. Ulteriori variabili dipendono dai cambi di policy energetica adottati dagli Stati produttori, dalla rinuncia acclarata ad una programmazione della produzione che abbracci il medio e lungo periodo e dalle perduranti crisi di natura politica e commerciale che scuotono il mondo, con un occhio allo spettro di una recessione incombente. Un capitolo a sé merita la comunicazione, legata in special modo ai tweet del Presidente degli Stati Uniti, in grado di incidere nel brevissimo termine in maniera sostanziale, vantaggio accresciuto dal fatto che gli USA si candidano grazie allo shale oil a diventare un esportatore netto di greggio e derivati. Se la presenza di tali indicatori di difficile previsione ha contribuito infatti ad accrescere la volatilità del segmento greggio, tale fenomeno non si è ripetuto in egual misura in quello del gas naturale che appare beneficiario di una certa resilienza e si candida ad un ruolo di primo piano nella prima metà del XXI secolo.
L’Agenzia internazionale dell’energia nel suo report annuale sul mercato del gas rileva come, dopo un altro anno record, la domanda globale di gas naturale si prevede in continua crescita per i prossimi 5 anni. Il trend è supportato dai consumi sempre più massicci ad opera dei paesi dell’Asia, beneficiari di una perdurante congiuntura economica positiva e dallo sviluppo del commercio internazionale su cui influisce il ricorso al gas naturale liquefatto che si avvia a rivoluzionare la filiera del midstream nel trasporto e nello stoccaggio.

La domanda è cresciuta ad un tasso del 4,6%, il più elevato dal 2010 e il gas naturale rappresenta quasi metà dell’incremento dei consumi di energia primaria in tutto il mondo. Un ritmo destinato a consolidarsi con un aumento del 10% nei prossimi cinque anni, raggiungendo oltre 4,3 trilioni di metri cubi nel 2024. L’uso industriale del gas naturale, sia come combustibile che come materia prima, si conferma in espansione ed è prevista l’incremento ad un tasso medio annuo del 3%, che equivarrà alla metà della crescita del consumo globale nel quinquennio. Il comparto produzione di energia d’altro canto rimane saldamente il maggiore consumatore di gas naturale, nonostante la crescita più lenta dovuta alla forte concorrenza delle energie rinnovabili e del carbone.
Il 40% di questi nuovi consumi si prevede imputabile alla Cina, il gigante asiatico trainato dagli obiettivi del governo ha avviato ormai da diversi anni un programma sistematico di miglioramento della qualità dell’aria con il passaggio dal carbone a nuove fonti di energia meno inquinanti. Tuttavia i consumi seppur in rapido aumento sono destinati a ridursi dal 18% del 2018 ad una media dell’8% nei prossimi 5 anni. Pesano in tal senso la progressiva riduzione della crescita della crescita economica su base annua, risultato di un rallentamento pianificato nel quadro della visione Made in China 2025, ma anche le incertezze della guerra commerciale in corso con gli Stati Uniti.
Anche altri Paesi Asiatici sperimentano un incremento della domanda di gas naturale. Pakistan, India e Bangladesh in particolare dovranno compensare l’impatto ambientale di un settore industriale in rapida crescita e di una massiccia urbanizzazione, spesso attuata senza i più elementari strumenti di pianificazione. In questi casi un valido aiuto alla sostenibilità dello sviluppo economico proviene dall’impiego del gas naturale, nel quadro di un’economia circolare, impiantabile con più facilità in scenari produttivi ancora in definizione.

Emerge inoltre la crescente influenza del Gas Naturale Liquefatto nella filiera del midstream. Trainato dalla costante offerta degli esportatori tradizionali come Qatar, Australia, Malesia e Nigeria a cui contribuiranno presto gli Stati Uniti in virtù del continuo rinvenimento di giacimenti di shale gas di cui si prevede lo sfruttamento nell’immediato. Nei trasporti marittimi internazionali il GNL è assurto al ruolo di alternativa credibile ai carburanti tradizionali, a causa di leggi sempre più restrittive sull’uso di derivati del petrolio contenenti zolfo che entreranno in vigore già dal 2020. Il gas naturale liquefatto infatti, non solo riduce del 20% le emissioni di CO2 ma porta a valori prossimi allo zero quelle di anidride solforosa e di polveri sottili. Inoltre la maggiore flessibilità negli approvvigionamenti, rispetto ai tradizionali gasdotti, permetterà di raggiungere un buon margine di incidenza nei consumi dei paesi importatori, a patto che i prezzi si mantengano sufficientemente bassi da non comprometterne la convenienza economica. Potenzialità di cui l’Italia sarà costretta a tenere conto visto il suo record poco invidiabile di trasporto gommato (oltre l’85%) e di inquinamento atmosferico delle aree urbane, che rendono opportuna una trasformazione della filiera merceologica verso fonti energetiche alternative. L’importanza del GNL risiede nella possibilità di un suo utilizzo in tutte le fasi del processo di spedizione delle merci e per efficientare la supply chain non si può prescindere dall’ottimizzazione e innovazione sostenibile delle modalità di trasporto. La riconversione a favore del gas naturale liquefatto nella logistica rappresenta dunque un vantaggio e un’opportunità di crescita nel lungo periodo, perché permette sia al fornitore del servizio che a quello dell’infrastruttura di stoccaggio e distribuzione di integrarsi reciprocamente all’interno di una filiera virtuosa.

D’altro canto dopo numerosi anni di declino gli investimenti pubblici e privati in questo settore hanno segnato un boom nel 2018 e si prevede che numerosi progetti pianificati negli anni possano supportare l’espansione del mercato globale. Anche in questo caso permangono le incertezze legate alla “guerra dei dazi” le cui ripercussioni sono acuite dal fatto che il trasporto del GNL si effettua via mare, ed è perciò collaterale agli andamenti del commercio internazionale.
La crescita del gas naturale non è frutto di una mera coincidenza o di una fase anticiclica del mercato. Gli sforzi sempre più ambiziosi richiesti agli Stati in materia di decarbonizzazione, formalizzati con la ratifica dell’accordo di Parigi del 2015, si inseriscono in un trend consolidato che interessa il futuro dei combustibili fossili: la grande disponibilità del già menzionato GNL, dello shale gas e del gas russo hanno provocato una contrazione dei prezzi a cui ha fatto seguito un incremento della domanda legato alla progressiva dismissione del carbone come fonte energetica. L’Italia ha programmato il phase-out al 2025 ma è ragionevole che mutati indirizzi di politica energetica possano influire a favore di uno slittamento al 2030, in leggero ritardo rispetto ai più stretti partner Europei, mentre rimane l’incognita Visegrad che si ostina a posporre gli impegni comunitari ben oltre il 2050. Sarebbe stato ragionevole agevolare una simile policy con il mantenimento, se non addirittura il potenziamento, dell’energia nucleare su scala Europea. Il frettoloso abbandono di quest’ultima ha infatti frustrato le ambizioni di disporre di un mix carbon free già nel medio periodo. Ai fattori sopraelencati si aggiungono i promettenti sviluppi in materia di stoccaggio e cattura del cosiddetto biogas e biometano, a lungo ritenuti una conseguenza inevitabile dell’impatto ambientale di agricoltura e allevamento intensivi. Oggi, con una crescita demografica impetuosa in Asia e Africa, diviene naturale volgere lo sguardo verso sistemi in grado di mitigare gli effetti negativi dell’industria alimentare e della zootecnia. L’obiettivo rimane quello di giungere ad un’immissione in atmosfera di CO2 sempre più “neutra”, resa tale da un reimpiego dei residui utili in una successiva filiera produttiva. Il tutto a favore della rinuncia ad un approvvigionamento energetico “tradizionale”.

Il consorzio italiano del biogas sottolinea come il settore in Italia possa ambire a coprire un potenziale produttivo di gas rinnovabile stimato nel 2030 in 10 miliardi di metri cubi di biometano, dei quali 8 miliardi provenienti da matrici agricole e 2 miliardi ottenibili da particolari tipi di rifiuti organici, da fonti non biogeniche e dai processi di gassificazione. Un simile obiettivo sarebbe praticabile già da adesso, destinando circa 400.000 ettari di superficie agricola utilizzata (SAU) a colture di primo raccolto, valorizzando i prodotti di scarto della zootecnia e i sottoprodotti dell’industria agroalimentare.
Appare chiaro che la produzione di biometano è solo uno degli anelli di una catena ben più complessa che, partendo dalla pianificazione dell’uso del suolo, influenza numerose componenti della produzione di beni provenienti dal settore agricolo. L’industria agroalimentare anche per questo si candida a pieno titolo a diventare meta di investimenti a favore dell’efficientamento energetico e della produttività, e se il legislatore rinuncerà ad adoperare una troppo annacquata lungimiranza, sarà compito dei privati fornire il propellente adatto all’economia circolare. Con l’obiettivo di collegare il mondo delle campagne a quello industriale e post-industriale, perseguendo una policy di un impatto il più possibile neutro sull’ambiente.
Rimangono positive inoltre, sia in termini occupazionali che di crescita economica, le conseguenze di uno sviluppo della filiera di produzione, stoccaggio e distribuzione del biogas su tutte le attività produttive. In particolare l’industria e i trasporti beneficerebbero, nell’ottica di economia circolare, di una fonte energetica del tutto identica al tradizionale gas naturale, con il prezioso vantaggio, anche in termini geopolitici, di una maggiore indipendenza dalle importazioni dai paesi produttori.

Tale fattore sarebbe destinato ad acquisire una certa influenza nel medio e lungo periodo, se combinato con politiche di incremento degli investimenti in ricerca e produzione degli idrocarburi nel territorio nazionale. Per il mantenimento della produzione domestica attraverso lo sviluppo delle risorse energetiche del Paese, gli operatori di Assomineraria hanno previsto un investimento per il periodo 2018-30 di circa 13 miliardi di euro e un impegno economico complessivo di circa 18 miliardi su progetti già definiti. Le attività offshore tuttavia sono in calo da diversi anni: nel 2018 sono stati estratti circa 5 miliardi e mezzo di metri cubi di gas naturale, a fronte di un miliardo di euro di investimenti attualizzati, in costante declino rispetto ai 9 miliardi di smc del 2008. Il contributo è comunque pari al 7,6% del fabbisogno energetico, con una riduzione del costo dell’energia stimato in un valore di circa 3,1 miliardi di euro. L’intera filiera upstream italiana ha totalizzato 3,9 miliardi di euro di fatturato nel 2018 e conta 7.000 addetti diretti e indiretti nella sola attività estrattiva, più circa 13.000 nell’indotto esterno al settore, che ha nel polo di Ravenna la sua realtà più significativa. Nell’area del Mare Adriatico centro-settentrionale si concentrano le ambizioni dell’Italia come mini-potenza energetica in un settore di importanza strategica, del quale i consumatori apprezzerebbero ancor di più i notevoli benefici apportati in presenza di gravi problemi di approvvigionamento energetico di idrocarburi.
Quella del gas naturale rappresenta infatti una sfida per il futuro, verso la transizione energetica, che il nostro Paese non può permettersi di perdere. In linea con i principali partner europei e mondiali, la classe politica e dirigente è chiamata ad uno sforzo in più per assicurare che gli obiettivi dei settori produttivi non solo combacino con quelli della tutela dell’ambiente, ma siano portati ad esprimere dal loro reciproco condizionamento, una spinta in più verso una crescita economica tangibile e sostenibile per le generazioni presenti e future.