La transizione ecologica nell’interesse nazionale

La transizione ecologica è il grande tema al centro degli sforzi della Unione Europea almeno dalla sottoscrizione degli accordi di Parigi il 19 Dicembre 2015. Attorno ad essa si è sviluppata una delle principali critiche all’amministrazione Trump e al contempo delle ragioni della Commissione Von der Leyen; ed anche in questo caso la crisi sanitaria dovuta al covid-19 ha svolto una funzione catalizzatrice imprimendo una decisa accelerazione.

L’ambizione del Vecchio Continente di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 ha definito un orizzonte temporale ristretto che richiede sforzi ulteriori e quindi è stata accolta a partire da quest’anno una iniziativa dell’europarlamentare francese Yannik Jadot (Greens/EFA) volta ad inserire un sistema tariffario sui beni importati nel mercato comune basato sulla quantità di anidride carbonica ‘incorporata’ in essi.

L’introduzione della misura, chiamata CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), mira a realizzare più obiettivi in un’ottica di sostenibilità economica ed ambientale: 1 – porre un freno al fenomeno cosiddetto della dispersione carbonica (carbon leakage), 2- incentivare misure di decarbonizzazione dell’economia in paesi esterni alla UE, 3 – finanziare i 750 MLDEUR di Next Generation EU necessari per il rilancio economico del post pandemia oltre che a sostituire l’attuale sistema di allocazione di certificati per l’emissione di anidride carbonica, l’Emissions Trading System (EU ETS).

Le opportunità sono molte, ma anche i rischi e quindi occorre individuare sin da subito il perimetro dell’interesse nazionale italiano al fine di contribuire alla definizione della misura (ancora in nuce) in sede europea per adeguarla alle esigenze del nostro sistema economico e produttivo.

Lo sviluppo di un piano paritario di competizione per i diversi protagonisti dei settori produttivi è una esigenza per le economie di mercato occidentali che sono sottoposte a costi elevati della forza lavoro, delle materie prime, dell’energia e operativi per il rispetto delle giuste normative ambientali. Un quadro normativo che miri a riequilibrare lo squilibrio di condizioni di mercato in cui ci troviamo ad operare, a svantaggio della competitività e della produttività delle nostre aziende, è quindi la giusta direzione.

Il CBAM ha infatti le potenzialità per ridurre il fenomeno della dispersione carbonica, che consiste o nella delocalizzazione delle imprese verso paesi meno ambientalmente ambiziosi, pur continuando a vendere nello spazio comunitario (aspetto già affrontato dalle quote carbone gratuite dell’ETS), oppure nell’importazione del bene da industrie già presenti nei paesi terzi nel mercato comune causando comunque un aumento netto (o una non riduzione) delle emissioni a livello globale, prospettiva nella quale la lotta al cambiamento climatico si muove.

Applicando tale tassa ulteriore sui beni di importazione, l’industria europea dell’acciaio che è una delle più soggette al fenomeno del carbon leakage, potrebbe riacquisire competitività almeno nello spazio del mercato comune ed uscire dalla crisi che attraversa ormai da più di venti anni in un contesto di regionalizzazione delle catene di produzione a livello europeo-mediterraneo in sostegno e stretta collaborazione alla nostra industria manifatturiera.

Tuttavia per un paese a forte vocazione esportatrice come il nostro, il rischio di introdurre una misura tariffaria sulle importazioni, che puo’ essere vista come una misura protezionista di dazi, è senza dubbio quello di suscitare presso i paesi terzi allo spazio comune azioni ritorsive che si tradurrebbero a loro volta in dazi sulle importazioni danneggiando immensamente la nostra economia e rischiando di mettere in pericolo la proiezione stessa che il sistema Italia si è data come orizzonte di sviluppo per il lungo termine: quella di un paese ‘rampa naturale’ sul mar Mediterraneo, fucina di prodotti ad altissimo valore aggiunto in tutti i comparti dove esso è protagonista (chimico, manifatturiero, alimentare, moda, mobili) che richiedono per loro stessa natura un posizionamento strategico nei mercati esteri: europei e soprattutto extraeuropei.

Tale pericolo è ancor più evidente quando si incrociano i dati relativi ai paesi importatori per i settori sensibili al carbon leakage, quelli esportatori europei per gli stessi settori e l’andamento dell’export complessivo italiano nel decennio 2009-2019.

Quello che risulta è che contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i paesi con una impronta carbone più profonda per i settori di interesse sono: Federazione Russa, Stati Uniti, Emirati Arabi, Libia al settimo posto e solo all’ottavo la Cina. Mentre sul versante europeo l’Italia è il terzo paese per esportazione di prodotti ‘carbon intensive’, ben avanti alla Francia, se si escludono Belgio e Paesi Bassi che per la loro struttura di hub commerciali si trovano ad esportare beni le cui catene del valore non sono prevalentemente sul territorio nazionale. Guardando al solo contesto nazionale il dato allarmante è che i paesi potenzialmente più interessati dal CBAM hanno visto nello scorso decennio un aumento positivo per tutti, marcato per alcuni e straordinario per altri del valore complessivo dell’export italiano. L’esempio degli Stati Uniti è sicuramente eccezionale ma eloquente al riguardo: siamo passati da un valore complessivo di circa 24.2 MLEUR nel 2009 a 51.8 MLEUR nel 2019, per un aumento percentuale del 114%, ma anche la Federazione Russa ha visto un aumento percentuale del 2.57%, con un valore complessivo di export per 8.79 MLEUR.

Ne deriva l’assoluta priorità per il nostro paese di tutelare in sede europea la nostra proiezione commerciale internazionale che deve essere al servizio dell’industria nazionale passando obbligatoriamente per la tutela ambientale e non al servizio della sola tutela ambientale, altrimenti il rischio è quello di ottenerla desertificando l’industria europea con i gravi problemi economici e sociali che ne conseguirebbero.

Un meccanismo di compensazione carbonica dovrà quindi prima di tutto partire da una stretta collaborazione, anche nell’iter legislativo, coi nostri partner commerciali e politici di eccellenza, gli USA fra tutti, dovrà prevedere dei periodi di prova reversibili per poter invertire la rotta se necessario, partire da settori pilota, sui quali i benefici in termini economici ed ambientali sono più evidenti (come il settore degli acciai) e non avere carattere di dazi per evitare un conflitto con le regole del WTO.

*Vittorio Casali De Rosa, ingegnere