Il Copasir aveva denunciato l’aggressività della Russia

Pubblichiamo il testo dell’intervento del 1° marzo  del senatore Adolfo Urso in occasione del dibattito in Aula sulla posizione dell’Italia sulla guerra in Ucraina

Signor Presidente, intervengo per la prima volta in quest’Aula da quando sono stato eletto Presidente del Copasir, utilizzando il tempo che mi è stato concesso dal mio Gruppo per evidenziare innanzitutto proprio quanto il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica abbia fatto in questi mesi proprio sulle questioni che ora dovremo necessariamente affrontare, in un clima di emergenza sull’onda della guerra nella nostra Europa. Sarà poi il senatore La Russa, in sede dichiarazione di voto, a esporre la posizione del Gruppo.

In questi mesi, con gli altri colleghi del Copasir abbiamo svolto un’intensa attività, come prescrive la legge, in vincolo di segretezza, con indagini, audizioni e analisi di cui abbiamo dato conto in relazioni specifiche al Parlamento – queste sì – pubbliche. In esse abbiamo evidenziato, tra l’altro, con estrema chiarezza proprio la postura aggressiva della Russia, non solo in Ucraina e nell’Europa orientale, ma in ogni area di interesse strategico italiano ed europeo: dai Balcani al Caucaso, dal Mediterraneo al Sahel, secondo una strategia volta al mantenimento della supremazia energetica, al controllo delle materie prime, anche al fine di accerchiare la nostra Europa.

Avevamo segnalato anche cosa stava accadendo in Bielorussia con il referendum costituzionale; le nuove minacce che si alzano in Bosnia e in Kosovo; il rafforzamento del dispositivo militare russo in Siria; la presenza dei mercenari della Wagner in Libia e i golpe militari – sei – nel Sahel, alla frontiera del nostro Mediterraneo allargato, che spianano la strada proprio alla Wagner. Significative peraltro le manovre navali militari congiunte di Russia, Cina e Iran svoltesi in gennaio nel Golfo dell’Oman.

Avevamo anche indicato con chiarezza la necessità di predisporre una vera difesa europea, come ha indicato il Presidente del Consiglio oggi, complementare alla NATO, per aumentare la difesa dell’Alleanza atlantica nel nostro continente e nel Mediterraneo allargato. Tra breve consegneremo la relazione sullo spazio, come fattore geopolitico su cui proprio Italia, sesta potenza spaziale civile al mondo, può giocare un importante ruolo. Difesa e spazio saranno peraltro oggetto delle decisioni che l’Europa dovrà assumere in marzo con lo Strategic compass e il progetto di autonomia strategica spaziale, oggi più che mai necessario. Abbiamo però già evidenziato nella recente relazione annuale come appariva già del tutto inadeguato il progetto di difesa europea, che allo stato prevede una forza di intervento rapido di appena 5.000 militari, quando la sola Italia ha un dispositivo di 9.200 militari in missioni internazionali. Agli asseriti impegni declamati in conseguenza della sciagurata ritirata dall’Afghanistan non è infatti corrisposto un maggiore impiego di risorse; anzi, nel nuovo bilancio europeo le risorse destinate ai diversi progetti di difesa europea sono state di fatto dimezzate.

Ora appare chiaro a tutti che occorre cambiare, perché l’Europa è sotto minaccia e noi sapremo come fare. Proprio per questo il nostro primo pensiero oggi va alla resistenza ucraina, alle famiglie nei rifugi che sui social chiedono aiuto; alle ragazze che confezionano le bottiglie molotov; agli operai che scavano le trincee per rallentare l’avanzata dei carri armati.

Il nostro pensiero va ai giovani che imbracciano un fucile pur non avendo mai fatto il servizio militare, a chi rientra in patria per difendere le proprie famiglie e la propria terra, a un popolo eroico che ha scoperto di essere finalmente una vera Nazione senza distinzione di lingue e di religione, come mai nella propria martoriata storia.  Loro ci ricordano oggi, con il sacrificio della lotta, quali siano i nostri valori, risvegliando loro le nostre coscienze intorpidite. Putin ha fatto un azzardo che ha ottenuto l’effetto di sollevare l’opinione pubblica mondiale, unita come mai si era vista prima. Persino all’interno della stessa Russia c’è chi protesta rischiando il carcere e la repressione. Questa è la prima importante lezione, un monito per chiunque nel mondo pensi che anche la libertà abbia un prezzo, che sia misurabile in rubli, in dollari o in renminbi; un monito a chiunque nel mondo pensi che si possa togliere la libertà senza sollevare la reazione unanime di chi, come noi, crede e vive nella libertà.

La resistenza eroica degli ucraini segna una prima e un dopo nel conflitto globale tra le democrazie occidentali e i sistemi autoritari, un punto di svolta che sarà segnato nel calendario della storia. Quanto accaduto ci deve essere finalmente da lezione per affrontare tematiche che abbiamo da decenni accantonato, come se riguardassero altri, mentre riguardano noi e soprattutto i nostri figli che ne pagheranno il prezzo se non interveniamo subito.

Gli investimenti per la difesa sono certamente necessari, come ha appena fatto la Germania, ma lo sono anche gli investimenti in ricerca, tecnologia, formazione, nell’economia digitale e nell’intelligenza artificiale, nello spazio e nel cyber, per la sovranità energetica e la tutela degli asset strategici, senza cui nessuna autonomia e indipendenza si può più preservare.

Il Copasir ha presentato in questa legislatura sei relazioni tematiche e una relazione annuale in cui ha appunto affrontato ciò di cui oggi si discute. Cari colleghi, nessuna di queste relazioni è stata però ancora esaminata in modo compiuto dal Parlamento, anche se alcuni interventi importanti da noi indicati sono stati poi realizzati, dal sistema della golden power all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale che colma un ritardo decennale. Lo stesso destino nel vuoto hanno avuto le altre relazioni presentate nelle precedenti legislature, così come le relazioni annuali della Presidenza del Consiglio. Siamo stati troppo distratti sui temi della sicurezza nazionale, ora occorre prenderne atto. È necessario che si svolga presto una sessione del Parlamento, come abbiamo espressamente chiesto nel nostro documento inviato alle Camere prima che la situazione precipitasse.

Quanto sta accadendo ci fa capire infatti quanto importante sia la sicurezza della Repubblica e quanto ciò debba essere considerato in ogni decisione che prendiamo, anche quando affrontiamo i temi dell’energia o dell’economia digitale, della tecnologia, dell’intelligenza artificiale, dello spazio come dell’acciaio, degli asset infrastrutturali come delle filiere industriali, ben sapendo che i nostri avversari sistemici, cioè i sistemi autoritari, li utilizzano appieno nel loro confronto con le democrazie occidentali. Tutto questo fa parte di quello che viene chiamato guerra ibrida. A tal proposito, abbiamo evidenziato la necessità di disporre di un’intelligence economica al servizio del sistema Italia, che sia proattiva a tutela della scienza e della tecnologia e degli asset produttivi del Paese.

Sì, è vero, le sanzioni stanno producendo i loro effetti devastanti, ma occorre anche fermare le armi, rispondendo alle accorate richieste di aiuto di chi è minacciato nella vita e negli affetti, come stanno facendo persino Paesi che sono stati sempre storicamente neutrali come la Svizzera e la Svezia. Ora è il momento delle scelte di campo per tutti. Certo, anche noi pagheremo i costi delle sanzioni, soprattutto come conseguenza del prezzo dell’energia o – se permettete, cari colleghi – come conseguenza delle nostre scelte energetiche errate che ci hanno resi più vulnerabili di altri partner europei.

Proprio sulla sicurezza energetica abbiamo presentato in gennaio una relazione al Parlamento, in cui abbiamo evidenziato le criticità del sistema e le sue pericolose vulnerabilità, sia a fronte della necessaria transizione ecologica, sia a fronte dell’azione egemonica degli attori statuali. In quella relazione individuavamo già alcune soluzioni che in queste ore sono state oggetto della decretazione d’urgenza e concludevamo come fosse necessario realizzare un piano di sicurezza energetico che riducesse la dipendenza dall’estero e soprattutto dalla Russia, con l’obiettivo dell’indipendenza energetica e dell’autonomia produttiva e tecnologica, in collaborazione con i partner europei occidentali, anche in considerazione dei fattori e dei rischi geopolitici sempre più evidenti già allora.

Nella relazione annuale per la messa in sicurezza della rete cyber. Ieri peraltro l’Agenzia ha lanciato un allarme particolarmente significativo, anche perché la Russia è lo Stato meglio attrezzato al mondo per la guerra cibernetica. Per completare questa linea difensiva abbiamo richiamato la necessità di realizzare al più presto il cloud nazionale della pubblica amministrazione e la rete unica a controllo pubblico.

Cari colleghi, la Russia si è preparata da tempo al confronto con l’Occidente. Sono dieci anni che investe sulle due armi che possiede: le risorse energetiche e le forze armate. Punta al controllo delle materie prime e delle frontiere d’Europa, a sottomettere l’Ucraina oggi, per sottomettere domani le Repubbliche baltiche, la Georgia e la Moldova. Ora tutti sappiamo perché e dobbiamo elevare il livello di difesa, anche a fronte di un mondo in cui emergono altri attori altrettanto aggressivi, innanzitutto la Cina, primaria potenza tecnologica e produttiva, capace, essa sì davvero, di aspirare alla supremazia globale. Non possiamo fuggire dalla storia, però possiamo cambiarla. Con la risoluzione unitaria che voteremo oggi cominci davvero una nuova fase nella vita politica del Paese, che ci veda sempre uniti quando è in gioco la sicurezza della Repubblica e, con essa, i valori fondamentali della nostra civiltà.

*Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica

Semipresidenzialismo e maturità politica

Le recenti dichiarazioni di Giancarlo Giorgetti sulla possibile ascesa Quirinalizia di Mario Draghi, pongono il sistema istituzionale italiano nuovamente di fronte ad interrogativi irrisolti che, ciclicamente, si ripropongono mescolandosi con l’attualità contingente. L’eventualità che il Presidente del Consiglio continui ad esercitare de facto le sue prerogative dal Colle, impersonificando il ruolo di Capo dello Stato ma modificandone così profondamente la concezione e le stesse prerogative, è la spia evidente dello sbando e dell’incertezza esiziale che ha avvolto la politica Italiana. Non una mancanza di decisionismo, bensì una diretta conseguenza del depauperamento della classe dirigente, ormai incapace di rinnovarsi e costretta a preconizzare scenari incerti da cui far dipendere principalmente la propria sopravvivenza. In questo perverso meccanismo di autoconservazione, è stato più volte sottolineato come la figura di Draghi si ponga da garante degli equilibri politici e dell’azione di governo, che è libero di proiettare in una dimensione internazionale, ottenendo in cambio rassicurazioni su materie economiche e un rinnovato prestigio personale.

Grazie alla sua indiscussa autorevolezza, per la prima volta nella storia delle istituzioni repubblicane il Presidente del Consiglio lascia che siano i partiti a restringere il campo da gioco, concentrando le poche energie intellettuali su terreni di scontro meramente ideologici, facilmente spendibili agli occhi di un elettorato stanco e disaffezionato alla politica, in un contesto che ha perso i suoi originari connotati emergenziali propri della pandemia, ma che sembra vivere soltanto della propria inerzia.   È anche vero tuttavia, che un simile meccanismo di “volontaria” subordinazione, da un lato accentua ancora di più la deresponsabilizzazione dei partiti, alla quale nessuno vuole o può porre rimedio e dall’altro rende più evidenti le lacerazioni interne agli schieramenti più che mai traballanti, che rischiano di non sopravvivere alla stagione di cambiamenti alle porte. L’agenda Draghi capovolge i tradizionali scenari tripolari o bipolari, in cui i leader politici erano abituati a misurarsi con una certa sicurezza e individua nell’adesione al programma di governo il metro di valutazione di divisioni e alleanze. I partiti così estraniati dalla complessità in cui verrebbero altrimenti immersi, sarebbero ben disposti a rinunciare ad una fetta della propria autonomia decisionale, sulla cui lungimiranza si potrebbe comunque dubitare, venendo così trasformati da azionisti di governo in una sorta di azionisti di risparmio della politica. Svuotati dall’interno e vittime inconsapevoli delle proprie manchevolezze, raccoglierebbero senza fatica il dividendo in termini di consenso, che la partecipazione all’esecutivo o all’opposizione garantirebbe in modo automatico, dando solamente l’illusione di poter incidere nelle scelte più importanti, sulle quali l’influenza del Capo del Governo sarebbe pressoché totale.

Se questo scenario trova una parte dell’emiciclo favorevole, con il sostegno più volte manifestato alla prosecuzione dell’esecutivo, nella speranza di una riedizione dell’attuale schema per i prossimi anni, c’è tuttavia una compagine eterogenea che, per ragioni tutt’altro che irrilevanti, prova a far collimare la figura di Mario Draghi con le scadenze imposte dal calendario istituzionale. La più importante, quella dell’elezione del Presidente della Repubblica, consegna all’incertezza del momento le giravolte improvvisate dei segretari di partito, finendo con rievocare la paradossale situazione del febbraio 2021, quando una classe dirigente allo stremo ha invocato e ottenuto per sua stessa inadeguatezza la presenza a capo del Governo di una figura che fosse allo stesso tempo propulsiva, se non persino sostitutiva, e di garanzia del sistema. Si può certamente dubitare della compatibilità del Colle con le caratteristiche che in questi mesi ha assunto la nostra forma di governo, che troverebbe nel Quirinale il luogo più opportuno per la sua riproposizione. E’ opportuno domandarsi sino a che punto una simile interpretazione materiale della Costituzione possa porsi in modo antitetico con la legittimità stessa della Carta fondamentale, e le intenzioni di chi contribuì a redigerla ? In altre parole, quali sono i confini istituzionali che l’attuale ordinamento conferisce alla figura del Capo dello Stato e quanto possono essere snaturati da chi la impersonifica come in questo caso ? L’ampiezza con cui alcuni inquilini del Quirinale hanno interpretato il loro ruolo, non ci pone al riparo da questi interrogativi.

Una via Italiana al Semi-Presidenzialismo, a lungo accarezzata con tentativi fallimentari di vaste riforme costituzionali, potrebbe realizzarsi in via informale, “de facto” e andrebbe sicuramente contro la concezione schiva e morigerata che un’altra parte dell’emiciclo attribuirebbe volentieri ad un Presidente notaio, vocato unicamente a prendere atto delle decisioni che attendono la sua ratifica. Una figura che mal si concilia con l’estremo senso di inadeguatezza che trasmette buona parte della classe dirigente e che andrebbe sicuramente a cozzare con le priorità di un’incisiva azione di Governo, che per loro stessa natura devono rifuggire le pulsioni elettorali infantili a cui siamo purtroppo abituati. Con Mario Draghi al Quirinale cambierebbe radialmente la sostanza, e il decisionismo dei precedenti inquilini del Colle non sarebbe certo paragonabile agli attuali equilibri che vedono nella trasversalità e nella condivisione l’elemento di esistenza della nuova svolta Semi-Presidenziale, rispetto ai tradizionali scontri istituzionali con il Capo dello Stato propri del bipolarismo all’Italiana. Tenendo fuori dalla contesa il tema del vincolo esterno, che pure inevitabilmente si appalesa, appare chiaro che il bivio di Febbraio nasconde più di quelle semplici insidie del Vietnam parlamentare destinate a dissolversi con l’ultimo scrutinio. Se ogni elezione del Capo dello Stato è stata definita a suo modo “fondamentale” e destinata a lasciare il segno negli anni successivi, oggi non è errato portare all’eccesso questo concetto. La lunghezza del mandato poi, che molti ricorderanno collimare con l’originale settennato Gollista, spalma gli interrogativi su un arco di tempo abbastanza lungo per mandare in crisi i partiti politici, che tradizionalmente consumano le proprie ambizioni nell’orizzonte dell’immediato.

La proposta di Mario Draghi al Colle comunque la si interpreti è l’emblema della consapevolezza raggiunta da una parte della classe dirigente sui propri limiti intrinsechi, una presa d’atto che con qualche eccezione individua nel campione “esterno” la soluzione ai problemi del paese. Un’ammissione di fallimento della propria missione, a coronamento di un trentennio di vuoto istituzionale culminato con ben tre governi tecnici, triste unicum nel panorama internazionale, che può però a suo modo porsi come impulso di rinnovamento. Un cambiamento che avverrà solo se i protagonisti della scena dismetteranno i panni del canovaccio, per rientrare nei binari che la qualità della rappresentanza di un grande paese come l’Italia rivendica a gran voce, sia per la maggioranza che per l’opposizione, oggi più di prima.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Nuove regole sul credito per evitare il default

In questo articolo vorrei riprendere un lavoro già affrontato qualche mese fa su Charta Minuta relativo alle nuove norme EBA, Autorità Bancaria Europea, sulla definizione di soggetto inadempiente e di default della clientela privata, PMI e imprese. I nuovi criteri di valutazione sono disciplinati nell’art. 178 del Regolamento (UE) n. 575/2013 (CRR) sulla disciplina prudenziale applicabile agli intermediari finanziari. Tale definizione è stata integrata da ulteriori regole emanate in sede europea: le Linee Guida EBA sull’applicazione della definizione di Default (EBA/GL/2016/07) e il Regolamento Delegato (UE) n. 171/2018 della Commissione europea del 19 ottobre 2017, che individua la soglia di rilevanza delle obbligazioni creditizie in arretrato.

Il nuovo strumento di definizione del concetto di inadempienza ha come obiettivo quello di ridurre i crediti deteriorati ma rischia di avere un impatto disastroso sull’economia del nostro paese già segnata fortemente dalla crisi pandemica. Proprio in questi giorni il Presidente di FDI, On. Giorgia Meloni, chiederà al presidente del consiglio Mario Draghi di sollecitare le Istituzioni Europee, che ben conosce, di posticipare l’introduzione di tali regole prudenziali al fine di evitare una contrazione ancora più sostanziale dell’attività delle imprese italiane.

In sintesi, il Regolamento prevede la segnalazione nelle Centrali Rischi di tutte le esposizioni debitorie dopo 90 giorni di sconfinamento: per i privati ogni qualvolta ci sia uno sconfinamento sul conto di regolamento superiore ad euro 100 e all’1% del totale delle esposizioni; per le imprese quando lo sconfinamento sia superiore ad euro 500 e all’1% del totale delle esposizioni. Le segnalazioni riguarderanno tutti i finanziamenti in essere. La normativa composto le seguenti conseguenze sulle partite di pagamento collegate al rapporto di conto:

  • gli addebiti automatici non saranno più consentiti, se i clienti non avranno sufficienti disponibilità liquide sul c/c.
  • famiglie titolari di un conto rimasto senza provvista rischiano un’improvvisa interruzione ai pagamenti di utenze, stipendi, versamenti tributari, eventuali contributi previdenziali, rate di mutui e finanziamenti.
  • le nuove regole impongono di bloccare le rimesse interbancarie dirette (Rid). Il cliente diventa moroso nei confronti del titolare della Rid, un’informazione con rilevanti conseguenze sul profilo reputazionale del cliente.

Cambiano anche le regole di comunicazione degli indicatori di costo per i clienti sia in fase pre contrattuale che post contrattuale. La nuova normativa sulla trasparenza sostituisce l’ISC con il nuovo indicatore ICC (indicatore di costi complessivi). Il calcolo del nuovo indicatore include nuove spese in passato non considerate, come ad esempio quelle relative all’emissione delle carte di debito e credito.

Cambiano anche le commissioni applicate agli affidamenti e agli sconfinamenti. Già da tempo viene utilizzata, in sostituzione della commissione di massimo scoperto, la messa a disposizione fondi (MDF), applicabile alle aperture di credito regolate in conto corrente, e la commissione di istruttoria veloce (CIV), applicabile agli sconfinamenti. La MDF è commisurata alla somma messa a disposizione del cliente e alla durata dell’affidamento. L’ammontare della commissione è liberamente determinato nel contratto ma non può eccedere lo 0,5%, per trimestre, della somma affidata. La caratteristica dell’onnicomprensività comporta che non possano essere previsti ulteriori oneri in relazione alla messa a disposizione dei fondi e all’utilizzo dei medesimi.

L’entrata in vigore delle nuove regole EBA porterà ad una revisione sia nel rapporto con la cliente in una fase nella quale si prospetta per gli istituti di credito un nuovo periodo di forti aggregazioni e fusioni con forti incidenze sul sistema organizzativo e commerciale.

Dal punto di vista della clientela, al fine di poter introdurre soluzioni che possano impattare di meno sulla gestione dei rischi al fine di evitare segnalazioni di morosità, molti soggetti privati dispongono da tempo di “scoperti di conto” collegati ai rapporti di corrispondenza ordinari soprattutto su quei contratti che prevendono l’accredito di stipendi, pensioni e altre forme di compensi periodici. In tali condizioni è possibile utilizzare la differenza fra saldo contabile e saldo disponibile per coprire spese al momento non supportate dal primo.

Lo sconfinamento viene allora calcolato oltre il livello del saldo disponibile, il cui superamento riguarda un prestito e non più un deposito. Le banche possono certamente prevedere di ampliare il perimetro dei destinatari di questa soluzione, con ammontare anche limitato, per risolvere situazioni contingenti legate ad utenze e rate, evitando l’insorgere di problemi, tra l’altro, con notevoli costi amministrativi, sostituiti invece da interessi attivi.

In termini di gestione del rapporti sarebbe opportuno comunicare periodicamente alla clientela il saldo del conto corrente. Oggi la gestione delle informazioni è ovviamente migliore ed immediata attraverso l’utilizzo di App e altri canali evoluti.

Un’altra soluzione da sviluppare concerne la distinzione fra conti correnti e conti di deposito quale strumento per gestire in anticipo il possibile manifestarsi di saldi negativi. Si potrebbe valutare, nel caso dei rapporti bancari, quanto già in essere nella applicazione della normativa prevista per MIFID e IDD in termini di responsabilità dell’intermediario nei confronti del cliente, in qualità di contraente forte del rapporto per indurre il cliente a gestire con tempi e quantità idonei il passaggio tra i due conti, in anticipo rispetto alla soglia.

Un’altra soluzione più sofisticata può coinvolgere i fondi comuni monetari, sviluppandone la funzione di riserva, in tempi ormai prolungati nei quali il rendimento è sostanzialmente nullo.

Queste soluzioni comportano una modifica della struttura organizzativa degli Istituti di Credito e, di non poco conto, la differenza delle soluzioni da adottare sulla clientela evoluta rispetto a quella meno esperta e aperta a soluzioni digitali.

E’ evidente, comunque, che queste misure solutive si vanno a scontrare con la natura giuridica del conto corrente di corrispondenza che assegna una specifica responsabilità al suo utilizzatore, in quanto esso è il “contratto con il quale la banca si obbliga ad eseguire gli ordini ricevuti dal cliente” con la possibilità di utilizzare a vista le somme disponibili, senza limitazioni di tempo. Ciò impedisce di prevedere l’utilizzo di quantità non disponibili ad eccezione di eventuali fidi in essere.

Altro elemento da considerare sul quale potrebbe impattare la nuova disciplina di default è la politica gestionale delle banche verso l’utilizzo di nuove forme di pagamento attraverso canali evoluti.

Le carte di credito e di debito verrebbero coinvolte nel nuovo processo di gestione dei rischi di insolvenza. La normativa potrebbe privilegiare lo sviluppo delle prime rispetto alle seconde perché, avendo pagamenti programmati negli addebiti il cliente potrebbe gestire meglio il saldo disponibile rispetto alle carte di debito che generano un impatto immediato sul saldo del conto di regolamento.

Per concludere, appare indispensabile in questo momento storico di post pandemia un rinvio nell’attuazione concreta del nuovo strumento di gestione delle inadempienze e, in futuro, una comunicazione efficace e consapevole delle banche verso la clientela privata, PMI e impresa. Utilizzare delle logiche di flessibilità nella valutazione di classificazione a default cercando di verificare la storicità dei clienti, la sperimentazione dei rapporti e la gestione efficace nel tempo degli affidamenti concessi.

*Giuseppe Della Gatta, esperto di Diritto dell’economia

 

Draghi, Meloni e le generazioni future

L’incarico a Mario Draghi – da molti preconizzato – è maturato dopo le convulsioni della maggioranza del “Conte bis” e ha sparigliato il quadro politico, tagliando trasversalmente le alleanze tra i partiti.

La sciabolata improvvisa del Presidente Mattarella ha gettato nello scompiglio l’alleanza giallorossa.  PD e M5S avevano coltivano l’illusione di poter fare a meno di Italia Viva per andare avanti con la rinnovata formula politica di centro-sinistra saldata dalla figura di Giuseppe Conte, magari attraverso l’utilizzo dei miliardi del Recovery Fund. Sino alla conclusione dell’esplorazione di Roberto Fico i partiti della vecchia maggioranza si sono mostrati sin troppo sicuri che sarebbero riusciti a varare un “Conte ter” con l’aiuto dei soliti “responsabili”. Invece, come spesso accade in politica, si è imposta una realtà differente da quella immaginata ed è improvvisamente crollato il castello di carte di chi pensava di aver costruito – anche con l’uso mediatico dell’emergenza pandemica – il nuovo orizzonte strategico della sinistra di governo giallorossa.

Ma anche nel campo del centrodestra non sono tardate le divaricazioni. Alcune erano ampiamente previste, come quella che riguarda Forza Italia e la sua adesione ad ipotesi di governi tecnici o istituzionali, che potessero consentire il superamento della formula di governo giallorossa.

Altre, invece, erano sicuramente meno prevedibili, come quella derivante dalla disponibilità della Lega a partecipare ad un Governo di unità nazionale presieduto da Draghi.

L’unica eccezione alla grande alleanza per affrontare la crisi pandemica e provare a rilanciare l’Italia con l’utilizzo del prestito europeo del Recovery Plan è, dunque, quella di Fratelli d’Italia. Solo Giorgia Meloni ha volontariamente declinato l’invito del Presidente Mattarella, non chiudendo, tuttavia, la porta ad un concreto sostegno parlamentare su singoli provvedimenti nell’interesse della Nazione.

Anche questa scelta ha suscitato perplessità e un acceso, ma interessante dibattito nei circuiti politici, culturali ed editoriali della destra italiana. Da un lato, chi sostiene che in periodo di guerra (ormai consueta metafora dell’emergenza pandemica) nessuno dovrebbe sottrarsi alle istanze di una solidarietà politica nazionale, espressa con un corale appoggio al “Gabinetto bellico”.

Con il suo celebre “Whatever it takes” e con l’invenzione del Quantitative Easing l’ex Presidente della BCE ha salvato la moneta europea dalla speculazione internazionale e ha imposto, esponendosi agli anatemi dei rigoristi teutonici, un primo importante cambio di passo rispetto alle cieche politiche economiche depressive, fondate sull’ossessione tedesca per la stabilità monetaria.

Inoltre – last, but not least – il sostegno a Mario Draghi avrebbe potuto mettere in soffitta, definitivamente, i tentativi di riedizione, sotto mentite spoglie, del vecchio “arco costituzionale”. La conventio ad excludendum della destra, infatti, nella strategia del PD zingarettiano varrebbe ad imporre il ritorno ad una “democrazia bloccata” e il conseguente restringimento dell’area di governo al perimetro di un centro-sinistra con tonalità giallorosse.

Nell’interesse del Paese e non solo dei partiti che si collocano a destra dell’arco parlamentare, è fondamentale disinnescare questo grave rischio, la cui concretizzazione riporterebbe le lancette della democrazia italiana indietro di trent’anni. Si deve, tuttavia, riconoscere che l’ingresso in maggioranza della Lega di Salvini renderà spuntata quest’arma di delegittimazione rispetto a chi intendesse utilizzarla contro chicchessia e, a maggior ragione, nei confronti del partito nazionale che esprime il presidente dei Conservatori e riformisti europei.

D’altra parte, non mancano le ragioni a sostegno di quello che inizialmente è apparso come un “gran rifiuto” di Giorgia Meloni, ma che, con il passare delle ore, è stato messo a fuoco nei termini di una “opposizione patriottica”. La crescita progressiva di Fratelli d’Italia si spiega anche con una linea di rigorosa coerenza e con una visione dell’interesse nazionale (dalla economia agli assetti istituzionali, dal modello di sviluppo alla collocazione geo-politica del nostro Paese) non sempre espresse, con altrettanta organicità, da altre componenti del centro-destra. Probabilmente è vero che la visione “nazionale” di Fratelli d’Italia avrebbe faticato ad esprimersi con un governo di emergenza, magari sottoposto ai veti delle componenti grilline, democratiche e post-comuniste. La scelta, dunque, quella di convergere con la maggioranza che sosterrà il Governo Draghi, se e quando giungeranno in Parlamento indirizzi di politiche pubbliche coerenti con un disegno di riscossa dell’Italia e dell’Europa condivisibile per la destra identitaria e popolare.

Archiviato, dunque, il fisiologico, quanto utile dibattito interno su una scelta fondamentale per il destino del Paese (come si conviene ad un partito che possa dirsi veramente tale e non un mero coacervo di interessi elettorali), si tratta adesso di percorrere sino in fondo la via della “opposizione patriottica”.

Occorre, innanzi tutto, smascherare la falsa narrazione oppositiva tra europeisti e (presunti) antieuropeisti. Nessun europeo può e vuole oggi dire no all’Europa; ma ogni europeo può pretendere che il progetto di integrazione avanzi verso un modello di unione politica confederale. Una Unione che si regga sulle radici di una identità bimillenaria e sia capace di proiettarsi, non solo economicamente, nello scenario globale come potenza continentale. Una confederazione europea fondata sulla partecipazione politica dei suoi cittadini e sulla eguaglianza delle opportunità nell’intero suo territorio. Una comunità di Stati che sappia difendere i suoi ceti produttivi dall’economia finanziaria e dalla concorrenza sleale dei liberi battitori dei mercati internazionali. Un ordinamento sovrastale che, riavviando il processo di integrazione, restituisca le scelte monetarie e gli indirizzi di politica economica e fiscale alla sovranità di istituzioni politiche continentali, democratiche e rappresentative.

Del resto, proprio il “Whatever it takes” di Mario Draghi ha tutti i caratteri di una potente affermazione di sovranità rispetto alle dinamiche adespote dell’economia finanziaria globale. Una decisione politica anomala e in un certo senso paradossale, perché assunta da una autorità tecnica e “non politica”, che ha però dimostrato come, anche nel mondo globalizzato, non si possa fare a meno di istituzioni di governo dell’economia.

Un disegno, in definitiva, profondamente diverso dall’attuale Unione europea, troppo spesso concepita quale fonte di legittimazione tecnocratica e non, invece, come proiezione politica continentale di una concreta comunità democratica di cittadini e di Stati.

In questo senso, i conservatori possono essere, al contempo, europei e sovranisti. Nella tradizione del diritto pubblico europeo, infatti, al contrario rispetto a quanto sostenuto da alcune superficiali narrazioni, la sovranità è democrazia e partecipazione, universalismo inclusivo di cittadini, di comunità intermedie, di imprese e di lavoratori, nel quadro unificante di comuni principi di civiltà.

Una visione “patriottica europea”, dunque, può ben conciliarsi con la tutela degli interessi nazionali. Anche sul piano interno, quindi, l’opposizione costruttiva potrà esprimere il suo sostegno a tutte le iniziative di modernizzazione del Paese fondate sull’utilizzo razionale dell’enorme massa finanziaria del Recovery Plan. La risposta alla crisi indotta dalla pandemia ha, infatti, determinato un primo momento di rottura rispetto alle politiche rigoriste che rifiutavano l’idea di un debito comune per alimentare la solidarietà politica, sociale ed economica dell’Europa.

Un piano che dovrà sostenere, in Parlamento e nel Paese, il rilancio infrastrutturale dell’Italia e la ricucitura delle distanze fra il Nord e il Sud, con il potenziamento delle reti e con la valorizzazione delle identità territoriali. Un programma di supporto per assicurare nuova libertà di azione al genio nazionale sul piano della cultura, dell’impresa, dell’arte, della tecnica, della ricerca e dell’innovazione, da troppo tempo strozzato dalle rigidità burocratiche o dalle false rappresentazioni di una possibile “decrescita felice”. Un progetto di rilancio che sprigioni le energie individuali e collettive della nazione con il sostegno dello Stato e dell’Europa, garanti delle regole del gioco e delle infrastrutture strategiche. Una visione di competizione aperta al mondo nei termini della migliore tradizione dell’universalismo europeo, anziché sulla fiducia ingenua e incondizionata nel mercato globale.

In questo scenario dovrà misurarsi il contributo della maggioranza che sosterrà il Governo Draghi e il ruolo dell’opposizione costruttiva della destra italiana, con il pensiero rivolto alle generazioni future.

*Felice Giuffrè, ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico, Università di Catania