NUOVE POVERTÀ, EMARGINAZIONE SOCIALE, CITTADINANZA

Questo saggio di Domenico De Masi  è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo.

Attualmente i Paesi del mondo sono 196. Messi in ordine decrescente, l’Italia si piazza al 23° posto per numero di abitanti, all’ottavo posto per Prodotto interno lordo (Pil) e al 32° posto per Pil pro-capite: è, dunque, un paese ricco. Però la ricchezza vi è distribuita in modo disuguale e con disuguaglianza crescente. Nel corso degli ultimi dieci anni, segnati dalla crisi, il patrimonio dei 6 milioni di italiani più ricchi è cresciuto del 72% mentre quello dei sei milioni più poveri è diminuito del 63%. Secondo l’Istat, il primo gennaio 2019 cinque milioni di persone, pari all’8,3% della popolazione residente, era in condizione di povertà assoluta, cioè priva dei mezzi necessari per vivere con dignità. Dopo 12 mesi, grazie al “reddito di cittadinanza”, la metà di questi poveri, pari a 2,5 milioni, percepiscono un sussidio medio di 520 euro e, quindi, sono usciti dalla povertà assoluta. Tra questi, 200.000 sono disabili e 600.000 sono minorenni, quindi non sono in grado di lavorare. Ciò sottolinea il fatto che la povertà non va confusa con la disoccupazione perché non tutti i poveri sono disoccupati, né tutti i disoccupati sono poveri. Così, ad esempio, tra i cinque milioni di poveri assoluti che vi erano in Italia il primo gennaio 2019, il 60% non era in grado di lavorare perché composto da inabili, vecchi e minori.

Nella nostra società postindustriale un disoccupato, un occupato precario e con salario irrisorio, un minorenne, un vecchio, un inabile, un malato cronico diventa «scarto sociale» quando, venuto meno anche il soccorso della famiglia e del welfare, si ritrova in uno stato di mendicità o prossimo ad essa, per cui è condannato all’invisibilità, alla sventura assoluta, alla morte civile prima della morte fisica. Quella «persona», anche se non ancora mendicante, costretta a scivolare furtiva lungo i margini della società, vergognandosi di chiedere un euro al passante frettoloso, magari qualche anno prima preparava la sua tesi di laurea illudendosi di approdare di lì a poco a una vita migliore di quella che suo padre, piccolo borghese, aveva condotto per anni, sacrificandosi per tenere suo figlio agli studi. Ora si metterà in fila, una fila che si allunga di giorno in giorno, la stessa cui si accodano l’operaio e l’impiegato che hanno superato i termini previsti dalla cassa integrazione, il manager che fino a qualche mese fa si illudeva di essere immune dal licenziamento e poi, da un momento all’altro, è stato gettato sul lastrico, il lavoratore che mantiene ancora un impiego ma percepisce un salario assolutamente inadeguato alle pur misere esigenze della propria famiglia.

Poiché non siamo di fronte a una crisi economica violenta ma breve come è spesso accaduto in passato, ma 55 di fronte a una decrescita di lunga durata, che gli economisti chiamano elegantemente «strutturale», questa povertà si rifletterà anche sulla prossima generazione perché, come dice Wright Mills, «non solo i figli dei ricchi ereditano la ricchezza con tutti i suoi vantaggi, ma i figli dei poveri ereditano la povertà con tutti i suoi svantaggi». Perciò dalla povertà economica discende la povertà educativa e, nel 30% dei casi, i figli dei nuovi poveri finiscono per abbandonare la scuola, castrandosi così anche dell’ultima speranza di mobilità sociale.

Due cose interessano ai ricchi per quanto riguarda i poveri «assoluti»: che siano docili e invisibili. La docile non-ribellione è assicurata dalla povertà stessa perché essa infiacchisce il corpo e offusca la mente inchiodando tutta la persona alla ricerca di risorse minime e indilazionabili, sicché al povero non resta nessuna residua energia, nessuna ulteriore intelligenza da applicare a un progetto di lungo termine. L’invisibilità è una delle due conditio sine qua non imposte al povero se vuole conservare il diritto a sopravvivere in un sistema preoccupato di assicurare ai suoi privilegiati la sicurezza urbana, la tranquillità della coscienza e la soavità dei sensi. Il povero è tenuto a diventare «uno di quelli che, anche se visti, anche se sentiti, non vengono guardati, non vengono ascoltati, e che, del resto, tacciono», come scrive Viviane Forrester nell’Orrore economico. L’insistenza di un accattone che chiede l’obolo, la spudoratezza di un barbone che osa dormire sotto un portone borghese, la puzza di un pezzente che si permette di salire su un autobus di linea, rappresentano altrettante evasioni improprie dall’invisibilità, altrettante ferite al quieto vivere della borghesia e al rispetto per la sua agiatezza.

La colpa ulteriore di questi poveri è di ricordarci, con la loro sola presenza, che essi non sono soli: come a volte ci mostra la televisione tra una pubblicità di cibi per gatti e un quiz premiato con gettoni d’oro, migliaia di altri poveri sbarcano clandestinamente sulle nostre coste e milioni si ammassano nelle regioni in guerra e nei deserti infuocati, tutti minaccianti per la nostra opulenta tranquillità di spettatori dominanti. Ciò che il benestante apprezza nei poveri, ciò che reputa legittimo pretendere da essi, ciò che, ai suoi occhi, i poveri hanno il dovere di coltivare in massimo grado, è la dignità. Il povero dignitoso – e tutti i poveri sono tenuti a esserlo – non importuna i passanti con le sue questue noiose, non si ripara dal freddo in luoghi impropri, non mette a dura prova l’olfatto dei passeggeri. Anche a costo di morire di fame, di astenersi dal dormire, di rinunziare ai mezzi pubblici. Eppure tutti questi poveri, sempre più numerosi, sempre più giovani, hanno un corpo da nutrire e da far sopravvivere giorno per giorno.

Come se non bastasse, ora alla persecuzione della sorte quotidiana si è aggiunta la persecuzione del coronavirus, crudele verso tutti, crudelissima verso i 15.000 barboni di Roma e i 50.000 d’Italia. Per ironia della sorte, le norme restrittive emanate dal governo 56 obbligano tutti i cittadini, indistintamente, a chiudersi in casa: tutti, compresi questi homeless che non hanno casa e che, proprio per mancanza di un domicilio, non hanno potuto aspirare al reddito di cittadinanza. Così questa pandemia, tra tante altre cose terribili, ci ripete ciò che Albert Camus ricordava nel suo capolavoro La peste: che «neppure la paura della morte riesce a stabilire tra gli uomini un’uguaglianza solidale».

 

*Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia Sapienza Università di Roma