La sfida culturale della destra di governo

È da pochi giorni passato il 23 di marzo un giorno molto particolare per il nostro Paese che, se ce ne fosse ancora bisogno, ci avrebbe dovuto portare a riflettere sull’enorme patrimonio culturale che permea l’Italia ed ogni italiano. Quel giorno ricorrevano due anniversari : i 700 anni dalla morte di Dante ed i 1600 anni dalla fondazione di Venezia. Pochi hanno messo in relazione le due cose. Eppure la straordinarietà di poter avere, nella stessa giornata, due ricorrenze così cariche di significato, con un valore culturale così grande per noi ma anche per tutto il mondo, non può lasciarci indifferenti e ci obbliga ad interrogarci sul nostro rapporto con la nostra storia e le nostre tradizioni. L’Italia è ancora giovane, ma si fonda su una molteplicità di culture unica nel suo genere e questo se da una parte ha rappresentato e rappresenta un’opportunità legata all’immenso valore, che si è stratificato nei secoli, dall’altra continua ad essere un problema anzi “il” problema perché non siamo riusciti a creare un patrimonio condiviso da tutti in cui ci si possa riconoscere. La nostra storia post-unitaria, da questo punto di vista, ha aggravato la situazione.

Il periodo tra la fine della prima guerra mondiale ed il termine della seconda, il referendum su Repubblica e Monarchia ed i successivi decenni hanno creato una voragine che ci ha risucchiati in divisioni ideologiche ancora oggi non sanate ed apparentemente non sanabili. È incredibile constatare nel 2021 che non si sia riusciti a creare una identità nazionale da tramandare alle nuove generazioni ma, anzi, che queste vengano nutrite di propaganda divisiva nelle famiglie come nelle scuole. Questa è, forse, la più grande sfida che la destra italiana è chiamata a raccogliere in questi anni. Se, come è giusto che sia, è arrivato il momento di una destra conservatrice che sia a pieno titolo forza di governo, la cultura deve essere al centro di ogni suo programma e progetto e non si può più prescindere dalla necessità di trovare un humus con cui nutrire le nuove generazioni per far sì che si possano sentire orgogliose di essere nate in Italia.

Sicuramente non sarà un’impresa facile ma è inevitabile. La strumentalizzazione ideologica rimane il più alto muro da superare che separa la destra dall’ambizione di poter rappresentare un’alternativa alla sinistra governativa, è diventata un’arma potente cui molti non vogliono rinunciare sacrificando, così, la cosa più preziosa, l’identità nazionale, sull’altare dell’opportunismo politico. Lo scorso anno, il 14 di marzo, è stato il duecentesimo anniversario della nascita di Vittorio Emanuele II, quello sulla cui tomba a Roma, che si trova nel Pantheon, è scritto “Padre della Patria”, ebbene non un articolo, non una ricorrenza, non una parola sono stati spesi su questo anniversario. Si dirà : eravamo in piena pandemia e si contavano centinaia di morti al giorno. Eppure in quale momento, se non nei più gravi, una nazione ha bisogno di stringersi attorno ai suoi simboli per superare le proprie difficoltà, per ritrovare il proprio orgoglio? Possibile che un referendum ed un periodo storico ancora controverso possano cancellare la figura di chi ha fondato la nostra Patria? Come possiamo pensare di poter far crescere i nostri figli con l’amor di patria se abbiamo paura, perché di paura si tratta, di rivendicarne le figure fondanti?

Abbiamo bisogno di storicizzare il nostro passato, di analizzarlo, una volte per tutte, e trovare un percorso condiviso e condivisibile che porti all’identificazione di “termini”, nel senso latino di pietre di confine, in cui perimetrare i valori comuni in cui possiamo riconoscerci. Questo non può che venire da destra perché difficilmente la sinistra potrà rinunciare alle armi che il divisismo novecentesco continua ad offrirle anche nel ventunesimo secolo. Ed allora ecco che la Costituente Culturale può diventare una delle bandiere dell’immediato futuro su cui potersi misurare e rivendicare un ruolo propositivo. Solo attraverso una pacificazione culturale di tutto quanto avvenuto nello scorso secolo potremmo edificare il tempio della cultura italiana. Altrimenti il fil Rouge che attraversa i secoli, partendo dalla cultura latina ed attraversando il medioevo, i fedeli d’amore e l’umanesimo, il rinascimento ed il risorgimento continuerà a spezzarsi impedendoci di riconoscerci in qualcosa che vada al di là dei nostri territori di origine, dell’ancoraggio agli stati preunitari. Ecco, questo è quello che la destra conservatrice deve all’Italia, la possibilità di essere finalmente una Nazione con un popolo e non quell’espressione geografica che Metternich ci accusava di essere.

 

*Sergio Meschi, professore, direttore marketing Libera Accademia Belle Arti Brescia 

 

ITALIANITÀ NEL MONDO, FORZA PROFONDA

Questo saggio di Giulio Terzi di Sant’Agata, è stato pubblicato sul Rapporto Italia 2020 della Fondazione Farefuturo

 

I CONTENUTI IDENTITARI

Un forte elemento identitario della società italiana è il principio di solidarietà e di partecipazione, intrinsecamente legato al valore della vita umana e della dignità della persona. È rimasto saldo nelle generazioni che hanno vissuto la tragedia della Seconda guerra mondiale. Neppure le dittature nazista e comunista sono riuscite a cancellare i valori di questa identità: nei territori controllati dalle nostre forze armate persino la «soluzione finale» voluta da Hitler è stata in ogni modo ostacolata, anche sacrificando la vita, da migliaia di militari, diplomatici, funzionari, religiosi e comuni cittadini italiani. Tutto questo non è avvenuto per un caso della storia. Per quasi tre secoli il nostro pensiero politico e giuridico ha sviluppato quel senso di libertà laico e illuminista che, in simbiosi con la tradizione giudaicocristiana, ha ispirato le rivoluzioni democratiche di fine Settecento, e ha fatto progredire lo Stato di Diritto sino alla sua odierna concezione nel diritto internazionale, dai Trattati Europei ai numerosi accordi regionali e globali. È proprio la tradizione giuridica a costituire per gli italiani un forte elemento identitario. Vi è, certo, il paradosso della disaffezione popolare per la politica e per le sue istituzioni. Ma il nostro Paese è tra i primissimi in Occidente ad aver influito e ad influire, da Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri sino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulla diffusione dei principi dello Stato di Diritto pur trovandosi oggi in posizione piuttosto arretrata nella lotta alla corruzione, nella libertà di informazione, per quanto riguarda la giustizia, e il sistema carcerario. È dimostrato in ogni caso come l’elemento identitario profondo e forte riguardi l’insieme della nostra cultura, il suo contributo valoriale al progresso umano, e il senso di un «comune destino» che lega gli italiani sparsi nel mondo alla terra di origine. Un’identità, quindi, essenzialmente culturale; recepita e al tempo stesso alimentata da un’«altra Italia» fatta da quasi sessanta milioni di individui di cittadinanza o di discendenza italiana. L’attrazione che loro hanno verso il paese di origine e la sua cultura è così forte che gli ultimi censimenti negli Stati Uniti – dove il numero stimato dei nostri connazionali corrisponde quasi alla metà di tutti gli italiani all’estero – rilevano significativi aumenti tra i cittadini americani che dichiarano una loro origine italiana nonostante l’immigrazione dall’Italia sia ferma da quarant’anni.  Purtroppo l’attenzione che dedichiamo a questa «italianità», così importante per far «capire l’Italia» anche nei momenti più difficili, è assai modesta, anche quando si sprecano assicurazioni e promesse retoriche. Riconoscere un preciso interesse nazionale in tale direzione presuppone un netto cambiamento di rotta.

 

UN DECENNIO PERSO?

Il richiamo dell’«italianità» appare ancor più necessario ove si consideri che nel decennio appena concluso la «performance» del nostro Paese rispetto ad altri – a noi paragonabili per popolazione, dimensione economica, proiezione regionale e globale, sviluppo sociale e istruzione – viene giudicata debole da molti punti di vista. In politica è stato un susseguirsi poco concludente di esperimenti che hanno accresciuto la sensazione di instabilità e di transizione permanente, governativa e istituzionale. La crescita economica e dell’occupazione è rimasta una chimera. Contraddittorie e carenti sono parse le misure fiscali, di sostegno allo sviluppo e all’innovazione. In politica estera si deve ammettere come siano stati anni più di declino che non di rilancio del ruolo complessivo dell’Italia in Europa, nel Mediterraneo, e sul piano globale.  Hanno indubbiamente pesato fattori poco prevedibili e lontani dalla capacità di controllo per un singolo, per quanto influente, paese europeo. Lo è stato il disimpegno americano da spazi geopolitici di nostro diretto interesse; così come l’emergere di due «potenze revisioniste» dell’attuale ordine mondiale, o di ciò che ne resta. Pur essendo molto diverse per dimensione economica – il Pil russo equivale a un ottavo circa di quello cinese, e ai tre quarti di quello italiano – Cina e Russia sono infatti mosse da una comune propensione all’utilizzo della forza nell’accaparrarsi risorse naturali, nell’ampliare la loro influenza politica e presenza militare, nella politica del fatto compiuto. Cina e Russia si preoccupano sempre meno di dover risolvere – come prevedono trattati e statuti che hanno ratificato – ogni eventuale controversia attraverso i numerosi strumenti giurisdizionali e pattizi offerti dal Diritto internazionale. Da parte italiana, numerose incertezze, rinunce, ambiguità nei riferimenti fondamentali della nostra politica estera e di sicurezza, europea, atlantica e mediterranea hanno tuttavia contribuito, e non poco, a ridimensionare il ruolo dell’Italia sulla scena globale. Se pertanto si è chiuso un decennio che sarebbe arduo valutare come positivo per il ruolo internazionale del Paese, ancor meno accettabile è la scarsità di risultati conseguiti nell’affermazione dell’interesse nazionale e della sovranità dell’Italia.

 

NON UN DECENNIO PERSO PER LA «DIPLOMAZIA DELLA CULTURA»

Vi è tuttavia un ambito che si è rivelato sorprendentemente vitale anche negli ultimi dieci anni, persino più di quanto non lo sia stato in precedenza. Una dimensione cresciuta con dinamiche essenzialmente proprie, per lo più estranee all’impiego di risorse pubbliche, a strategie di Governo, o a visioni sostenute nei palazzi del potere. Si tratta della «Diplomazia della Cultura»: terreno privilegiato di interazione tra le «società civili», tra grandi e meno grandi protagonisti del sapere, della comunicazione e della conoscenza a livello globale. Ed è proprio in tale dimensione che si sta affermando con maggior chiarezza un ruolo di primo piano dell’Italia sostenuto dai valori identitari e culturali di «italianità» propri alle nostre comunità all’estero.  Vi sono principalmente tre motivi che rafforzano questa tendenza: 1. In primo luogo, si rileva da tempo una motivazione crescente delle nostre comunità all’estero – per effetto soprattutto della accelerata globalizzazione del sapere sostenuta dalle nuove tecnologie –  a «promuovere l’Italia» nella sua riconosciuta «unicità» di patrimoni culturali e di bellezza che colma oltre due millenni di una storia al centro dell’Europa e del Mediterraneo.  2. Inoltre, tale elemento motivazionale appare concentrarsi tra i giovani; siano essi di seconda, terza o altra fascia generazionale della nostra emigrazione; così come tra quanti sono partiti per l’estero in numero crescente negli ultimi dieci-quindici anni. Sono stati e continuano a essere sempre più numerosi i nostri giovani e giovanissimi impegnati a formare nei nuovi Paesi di residenza centri di studio, associazioni, reti di scienziati, di studiosi e professionisti, a lanciare con partner in Italia collaborazioni nella ricerca, nei servizi e nell’industria dei settori tradizionali del «Made in Italy» e dei comparti più innovativi, nelle attività di cooperazione allo sviluppo, maturando positive esperienze imprenditoriali e di lavoro tra le realtà nelle quali vivono e operano all’estero e il paese di origine. 3. In terzo luogo, come recentemente ha scritto da Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera», «l’Italia da sola ha una stazza troppo leggera per ambire a un ruolo significativo: anche solo per difendere i propri interessi. Ha bisogno di un partner forte, quanto più possibile forte. Ora, non potendo questo partner essere l’Unione Europea (…) la scelta si restringe di fatto agli Stati Uniti. (…) oggi nel teatro geografico che più ci interessa la posizione degli Stati Uniti appare oscillante tra tentazioni di disimpegno e affondi improvvisi. Sta di fatto però che nella politica americana alcuni punti fermi sono comunque ravvisabili: contrasto con l’espansionismo russo; un consolidato buon rapporto con il fronte islamico tradizionalista e anti-iraniano; una permanente intesa di fondo con Israele. (…) l’accredito di cui l’Italia gode nel mondo arabo, la sua posizione geografica di assoluto valore strategico unitamente al suo forte legame con la Santa Sede e da ultimo la sua qualità di terzo Paese dell’Unione Europea e quindi potenziale importante sponda con Bruxelles utili per consentire di stringere un rapporto significativo con gli Stati Uniti più forte e concertato di quello attuale». Nel rapporto privilegiato tra Italia e Stati Uniti conta, e può ancor di più influire in futuro, la realtà italiana negli Stati Uniti purché Roma esprima consapevolezza di un interesse nazionale imperniato sull’italianità nel mondo e sulle opportunità offerte dalla grande comunità italiana negli Usa.

 

… E PER IL SOFT POWER

Se ricerca e sviluppo in Italia soffrono di un’endemica carenza di risorse, per disfunzioni amministrative o fondi decrescenti, decine di migliaia di nostri studiosi nelle più prestigiose università sono una forza insostituibile per collaborazioni e partenariati in campi di ricerca avanzata dai quali spesso possono operare in stretto rapporto con nostre aziende, enti e istituzioni. Tutto questo è anche il soft power del nostro Paese, ed è un fondamentale interesse nazionale sostenerlo nel modo più convinto. Il principale studioso del soft power, Joseph Nye, ne ha definito i contenuti sottolineando come si tratti di strategie utilizzate da un Paese e da una società civile per diventare attraenti nel mondo anziché utilizzare la coercizione, gli interessi nazionali possono essere sostenuti attraverso un mix di cultura, valori, iniziative di politica estera con le quali persuadere gli altri ad agire in modo compatibile con gli interessi nazionali affermati da chi ricorre al soft power. In questa linea è stato autorevolmente affermato che la democrazia liberale è il sistema di governo certamente più idoneo ad agire attraverso soft power. Riesce necessariamente più difficile farlo a un sistema autocratico o dittatoriale. E in effetti, mentre il presidente cinese Xi Jinping aveva affermato che i «valori sottostanti alla Via della Seta e alla Belt and Road Initiative hanno un richiamo più forte che in passato», le iniziative infrastrutturali e culturali promosse da Pechino stanno avendo crescenti difficoltà nell’ammorbidire la dura immagine internazionale della Cina. Autorevoli analisti, come sottolinea «Portland Report 2019» sul soft power, giudicano la Via della Seta e la Belt and Road Initiative un danno per la reputazione internazionale della Cina. Non è un caso che nel raffronto analitico tra le diverse componenti del soft power in Cina e in Italia, il nostro Paese appaia negli ultimi tre anni in netta crescita mentre la Cina registra una considerevole flessione.

Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Affari Esteri

Il tempo scandito dalle lancette del Coronavirus

Lunedì torneremo a sistemare i capelli, a prendere un caffè al bar, ad incontrare un amico, a fare due passi, seppur con le dovute e doverose regole potremo abbracciare un po’ di normalità che abbiamo visto scomparire in questi due mesi che sembrano un’eternità… Come i minuti interminabili che Salvador Dalì passò dinnanzi ad una fetta di formaggio che vedeva squagliarsi, in attesa che gli passasse il mal di testa e che la moglie Gala tornasse dal cinema. Quella sera del 1931 Dalì, ispirato da quella visione, dipinse La persistenza della memoria che racconta quanto sia impossibile fissare il tempo all’interno di un orologio perché la memoria umana lo impedisce. Albert Einstein a proposito della relatività del tempo diceva “Sedete per due ore in compagnia di una bella ragazza e vi sembrerà sia passato un minuto. Ma sedetevi su una stufa rovente per un minuto e vi sembrerà che siano passate due ore. Questa è la relatività” e le nostre infinite settimane di quarantena e coprifuoco, tra le altre cose, ci hanno insegnato in maniera estenuante anche questo.

Disegnare la propria vita nonostante le angosce

Quando nel 1932 Picasso dipinse Il sogno, il mondo non si era ancora ripreso dalla fine della prima guerra mondiale ed era scivolato nella grande depressione innescata dalla crisi del ’29. Per lui fu un periodo di serenità, seppur bagnata di realismo e non sbilanciata sull’ottimismo; stava vivendo gli inizi della relazione con Marie Thérèse, sua musa incontrata in metropolitana a Parigi, soggetto di molte opere. Anche se non rinunciò a marcare la tela con tratti deformi, a ricordare che non ci si può liberare dalle proprie angosce neanche in presenza della bellezza.
“Dipingere non è un’operazione estetica: è una forma di magia intesa a compiere un’opera di mediazione fra questo mondo estraneo ed ostile e noi”, diceva Picasso a chi criticava il suo linguaggio artistico. E forse in questo momento critico che stiamo attraversando dovremmo ascoltarlo, per capire meglio che nonostante tutto abbiamo sempre e comunque il dovere morale di portare a compimento l’opera più importante di tutte che è la nostra vita.

Più distanti dal resto, più vicini a sé stessi

Edward Hopper più di ogni altro artista è riuscito a raccontare il distacco sociale e la solitudine. La donna dipinta in Morning Sun del 1952 è immobile, guarda oltre la finestra della sua stanza con un’espressione di rassegnata alienazione che sembra lasciare trasparire uno stato d’animo afflitto ma allo stesso tempo tamponato da qualcosa di consolatorio.
Ognuno di noi, specchiandosi in quest’opera, può riconoscere anche solo un frammento della propria giornata primaverile di quarantena. E ciò può significare qualcosa di angoscioso oppure di comodo… In fondo questa condizione in cui perdiamo tempo può essere l’opportunità di acquisizione di quel tempo – che non abbiamo mai avuto – necessario a scrutare il proprio io, per conoscersi meglio, per migliorarsi. D’altronde, non a caso, il grande regista Bernardo Bertolucci amava dire che la solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista.

Manifesto della cultura identitaria e non conforme

Oggi 22 novembre nella Sala Conferenze Stampa della Camera dei deputati è stata presentata la rete delle Fondazioni e dei centri studi non conformi a cui hanno aderito alcune delle principali realtà del mondo politico. Oggi più che mai serve un grande e accurato lavoro preparatorio per sostanziale la prossima attività di governo: questa deve essere la prima attività delle fondazioni che si riconoscono nel Manifesto culturale presentato. Se il “Manifesto delle sardine” intende ostruire la strada del governo alla destra, abbiamo il dovere di preparare chi poi dovrà governare.

Con il Sole sul viso: un progetto etico per l’industria culturale

La Sala Caduti di Nassirya ha ospitato la conferenza stampa istituzionale del progetto etico “Con il sole sul viso”, attivo dal 2016 e da me ideato. Sono soddisfatta della numerosa partecipazione di tante realtà positive del terzo settore, del mondo della cultura e dello spettacolo che hanno riempito ben oltre la capienza massima la sala. Amici i quali, oltre il mio percorso artistico, condividono con me il valore della solidarietà e dell’attivismo sociale.
Nei giorni d’incertezza sui risvolti della “manovra” è stato importante arrivare in Senato e dare un po’ di coraggio spostando l’asse su una visione nuova, proiettata verso il futuro, e ricordando che certi temi non dovrebbero avere un sguardo unidirezionale ma universale. Il senatore Maurizio Gasparri, che ha sposato l’iniziativa, ha dimostrato grande sensibilità sul tema sostenendo la proposta di legge per “L’Istituzione del Fondo Nazionale per il Sussidio Temporaneo” a chi lavora nel settore artistico-culturale e della comunicazione.
Dal momento che mi piace dare seguito con i fatti a ciò che sostengo, è mia intenzione con questo progetto porre l’attenzione sulle realtà meritevoli. Ho trascorso gli ultimi tre anni ad osservare il nostro sistema lavorativo, anche come testimone diretta, principalmente per quanto concerne il mondo delle arti, della cultura e della comunicazione. Ho potuto riscontrare che persiste uno stato di necessità autentica per la sopravvivenza di coloro che vivono solo della propria “arte”: siamo portatori di sogni di emozioni, sentimenti e produciamo economia. Il disegno di legge, dunque, nasce da un’attenta valutazione dello stato di bisogno in cui versano molti lavoratori di questi settori strategici del “modello Italia” nel mondo.
La proposta legislativa prevede l’istituzione di un fondo permanente, con una dotazione di cento milioni annui, presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, da destinare come sussidio temporaneo a tutti i lavoratori dei settori artistico-culturali e della comunicazione, in particolare autonomi e con partita IVA, che non possono accedere ad alcuna forma di assicurazione sociale in caso di disoccupazione temporanea. Il testo prevede che, contestualmente, venga istituita presso il Ministero una Commisione chiamata a verificare dall’apposito elenco dei richiedenti tenuto dal dicastero della Cultura le domande, così da agevolare il reinserimento nell’ambito lavorativo di competenza indicato dal richiedente.
Il senatore Maurizio Gasparri nel corso della conferenza ha sottolineato così il valore dell’incontro: «Complimenti per questa iniziativa promossa da Alma Manera, artista di elevate e riconosciute qualità, sempre impegnata nelle giuste cause insieme a Federica De Pasquale che rappresenta in modo attivo il mondo dell’associazionismo e ha illustrato questa proposta di legge che da subito ho ritenuto necessario portare avanti». Per l’esponente di palazzo Madama il fondo da cento milioni di euro da istituire presso il Ministero della Cultura e dei Beni Culturali «rappresenta un passo significativo per andare realmente incontro a delle importanti realtà professionali del nostro Paese oggi prive di tutele concrete in caso di temporaneo bisogno».
Il disegno di legge – che vede come cofirmatari i senatori Adolfo Urso, Francesco Maria Giro, Antonio Saccone e le senatrici Isabella Rauti, Sandra Lonardo e Maria Rizzotti – ha riscosso interesse tra gli esponenti di quasi tutti gli schieramenti politici. La senatrice Rizzotti, ad esempio, commentando il progetto ha parlato di «un doveroso riconoscimento al mondo artistico culturale che rappresenta un comparto importantissimo della nostra società e che dobbiamo ringraziare: basti pensare a quanti sono gli artisti che sostengono tante iniziative di solidarietà anche negli ospedali vicino ai bambini ed alle persone sofferenti».
Importante contributo, poi, è stato quello del senatore Adolfo Urso, sempre disponibile a dare consigli “profetici” anche grazie alla sua esperienza internazionale e la conoscenza dei modelli esteri. «L’industria della cultura è di fatto il cuore del “made in Italy”, anche quando si tratta di prodotti manifatturieri – ha spiegato – . È stile, creatività, ingegno, qualità, eccellenza. Per questo va preservata: perché ne beneficia l’intera nazione e ne configura la propria identità». Ed ancora è stato Pasquale Cicciarelli, presidente commissione Cultura della Regione Lazio, a rinnovare il suo apprezzamento per le iniziative future: «Per me motivo di profondo orgoglio aver ricevuto il vostro graditissimo invito per questa importante iniziativa che persegue l’obiettivo di valorizzare il merito e le competenze, l’impegno e la tenacia a far esprimere le energie migliori e ad aiutare la capacità di comunicazione ed espressione di tutte le forme di differente abilità. Un progetto come questo merita la massima attenzione delle istituzioni e la vasta rappresentanza delle stesse per questa conferenza è un autentico segnale di condivisione».
Nel suo intervento il Vice Presidente A.F.I. Gianni di Sario ha affermato la validità delle proposte del progetto “Con il sole sul viso” e l’importanza del messaggio che la musica esprime, ricordando che fu proprio l’A.F.I. nel 1973 a chiedere con forza l’equiparazione del disco ai prodotti culturali di pari valenza. Molto appassionato l’intervento di Antonello Crucitti – responsabile dell’Associazione Famiglie Numerose e fondatore dell’omonima squadra nazionale di calcio -, papà, grazie ad Angela, sua moglie, di 11 figli. Crucitti è stato ringraziato per il supporto concreto dimostrato negli anni e per aver voluto promuovere il ruolo della famiglia come nucleo fondante della società all’interno del progetto.
Incisive le parole del maestro Franco Miseria: «L’arte e la cultura sono motori indispensabili in uno Stato che vuole essere civile. Il lavoro d’impresa va incentivato così come l’occupazione. Vivo ogni giorno la realtà della Danza, del Teatro e cerco di dare speranza ai giovani talenti che incontro e che mi interrogano e si interrogano sul futuro. Gli artisti, i comunicatori hanno necessità di esprimersi, vanno garantiti».
La Comunità Incontro con rappresentante il dott. Nannini ha raccontato il grande lavoro di terapia di recupero per i giovani vittime della droga, ma che oggi ritrovano il valore della vita attraverso un nuovo inizio e quanto il suo fondatore Don Pierino Gelmini tenesse alla musica e alle arti come veicolo di messaggi positivi e strumento di riabilitazione per ritrovare la gioia dell’incontro con la vita.
Questo, dunque, è l’incipit di un nuovo percorso. Ora insieme agli attori coinvolti e alla responsabile istituzionale del progetto, Federica De Pasquale, il nostro compito è sviluppare i prossimi obiettivi. Tra questi il consenso unanime sul testo normativo da noi proposto che auspichiamo abbia il giusto riconoscimento del governo, così come meritano le categorie speciali che garantisce.
Perché? Chi vive la propria professione con una fortissima vocazione deve essere tutelato. Deve poter rivendicare il diritto occupazionale e la libertà di profondere l’energia espressiva che per ogni Nazione equivale anche ad affermarne il corpo e l’anima tradotti come sentimento e nel nostro caso del “sentimento italiano”. W l’Italia!

*Alma Manera, artista

Sovranisti, non populisti. Per il bene (ed il benessere) della Nazione

Venerdì 16 partirà la Scuola di formazione della fondazione Farefuturo. Il primo corso è dedicato alla definizione di un tema di stretta attualità, «Sovranismo vs Populismo», per noi una vera e propria “emergenza” in vista della cruciale campagna elettorale per le Europee del 2019. Per chiarire la chiave di lettura del corso e la necessità di dotare le forze politiche identitarie di un’offerta politica all’altezza della sfida epocale ci affidiamo alle riflessioni del professor Mario Ciampi, coordinatore del Corso.
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Il sovranismo e il populismo sono culture solo in apparenza sovrapponibili. Sono tante le differenze tra questi due filoni di pensiero e di azione, ma a distinguerli è soprattutto la visione che hanno sulla formazione della classe dirigente. Il populismo predica la sovrapposizione tra il popolo e le élite. Chi è chiamato a decidere deve semplicemente applicare la volontà del popolo, che si presume monolitica, empirica, generale. Per questo, il populismo non ha bisogno di una vera classe dirigente: vi è in esso la presunzione di una perfetta coincidenza tra chi comanda e chi ubbidisce, fino a prefigurare l’abolizione della rappresentanza politica e dello stesso Parlamento. Anzi, quando è davvero ispirato, pretende perfino che i rappresentanti vengano scelti per sorteggio, che chiunque possa diventare parlamentare o ministro senza passare da percorsi selettivi, pur essendo evidente a tutti che non abbiamo una società paragonabile all’antica Grecia o alla Repubblica di Venezia. Nell’attuale scenario politico europeo e forse internazionale, il populismo più rigoroso è incarnato proprio dal Movimento 5 Stelle.
Il sovranismo, su questo punto cruciale della formazione della classe dirigente, deve esprimere tutt’altro indirizzo. Certo, la sua aspirazione è quella di recuperare la centralità del popolo e della nazione contro le derive tecnocratiche del potere, ma per realizzarla non può disdegnare i meccanismi della rappresentanza e la designazione di una dirigenza politica capace e responsabile. È lo stesso bene della nazione che lo richiede. Il sovranismo dovrebbe sentire come prioritaria questa missione: mettere i migliori e i più meritevoli in condizione di servire la nazione e il suo legittimo interesse. Esso crede ancora, nonostante tutto, che la politica sia un lavoro intellettuale, un beruf, una vocazione. E anche per questo ha il senso della storia, della tradizione, dell’appartenenza. Che oppone alla subcultura dello sradicamento, ancora per poco tempo dominante su scala planetaria.
Insomma, la formazione alla politica è una funzione essenziale per l’affermazione del sovranismo, o almeno di un sovranismo corretto dal realismo della cultura conservatrice, di un sovranismo come dovrebbe essere a destra, non velleitario, non di facciata. Del resto, per rappresentare al meglio l’interesse nazionale in un mondo così complesso come quello attuale, non si può fare gli alchimisti stregoni. Bisogna saper interpretare lo scenario interno ed esterno, sapere come attuarle certe trasformazioni, come guidarle. Se il populismo può permettersi di ricavare (a parole) l’ordine dal caos, il sovranismo deve dotarsi di un criterio ordinatore, che va quindi rigorosamente pensato e applicato. A partire dalla ricerca e dalla formazione. Sarà forse meno epico, ma noi crediamo nell’epica delle piccole cose.

*Mario Ciampi, segretario generale Fondazione Farefuturo

9 novembre. Farefuturo e l’asse pensante Italia-Visegrad

L’immagine di quel muro che il 9 novembre del 1989 veniva abbattuto a Berlino, con ogni mezzo, dal popolo finalmente festante di una nazione ingiustamente divisa e per diverso tempo oppressa, simboleggiava la giusta riscossa contro ogni forma di spietata vessazione come fu quella perpetrata dal regime sovietico. Quello sarebbe dovuto essere l’inizio di un grande sogno per le genti d’Europa; un sogno di unione, di cooperazione e di sviluppo condiviso per tutte le nazioni. Oggi, a distanza di 29 anni da quella data fatidica, quel sogno non si è realizzato. O, per lo meno, una struttura burocratica e impersonale – l’Ue – ha occluso la possibilità di quella cooperazione tra Stati liberi che è stata alla base dell’Europa politica immaginata dai padri fondatori.
Sogno sepolto? Al contrario. Mito capacitante che ritorna con la stessa forza e con nuovi protagonisti che si affacciano per disegnare la «nuova Europa». Lo si è visto plasticamente nell’importante meeting della Fondazione Farefuturo, svoltosi non a caso il giorno dell’importante anniversario del 9 novembre, alla Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto. Qui si è ratificata non solo l’intesa della fondazione italiana con i think tank “gemelli” dei partiti del blocco di Visegrad ma è nato un vero e proprio network identitario che si candida ad alimentare il fronte dell'”affermazione” contro le nuove forme di dirigismo di livellamento che si celano dietro un’idea di Unione europea apparentemente liberale.
L’incontro, che ha visto non a caso una partecipazione sentita e numerosa, è stato animato dagli interventi del presidente di Farefuturo e senatore di FdI, Adolfo Urso, del consigliere di amministrazione Rai, Giampaolo Rossi e dal saluto del presidente della Fondazione Alleanza Nazionale, Giuseppe Valentino. Ospiti d’eccezione, appunto, sono stati i rappresentanti delle Fondazioni dei paesi di Visegrad: Peter Markovic del “Center for open Policy” (Slovacchia), David Szabò direttore della “Szazadveg Politikai Iskola Alapitvany” (Ungheria) e Miroslava Vitàskovà, ricercatrice dell’“Institute of Politics and Society (Repubblica Ceca).
«Abbiamo scelto la data del 9 novembre, anniversario della caduta del Muro di Berlino, per evidenziare la necessità di rifondare la nostra Europa con chi allora ritrovò la propria libertà e la propria nazione aggredite dalla dominazione comunista» ha spiegato Urso indicando in questo meeting internazionale soltanto il primo di una serie di appuntamenti che andranno a comporre la scuola di formazione di Farefuturo che avrà come tema portante di questa prima sessione “Sovranismo vs Populismo”.
L’obiettivo degli incontri sarà quello di orientare il dibattito, proprio in vista delle fondamentali elezioni Europee di maggio, sulle sostanziali differenze tra la politica sovranista e la velleità populista. Una separazione necessaria proprio per salvaguardare la necessità di promuovere in tutti gli ambiti l’interesse nazionale in un quadro di sussidiarietà europea. «Sovranismo è futurismo, Populismo è presentismo» ha precisato non a caso Urso; e questo perché il primo si occupa della Nazione, che è composta non solo da chi la anima adesso ma anche dalle generazioni che verranno. Per questo motivo «il sovranismo punta sull’incremento della natalità, sulla crescita e sullo sviluppo». Il populismo, invece, invece, corre costantemente il pericolo di scadere nel «presentismo», ovvero di ricondurre tutto al soddisfacimento di un bisogno presente, momentaneo, occasionale e quindi effimero. Per dirla con esempio: «Orban è il vero sovranista. Maduro è il tipico populista».
Non è complicato distinguere quale sia, tra i due, il percorso su cui innestare una nuova classe dirigente formata e con le “idee a posto”. Per questo motivo l’anniversario del 9 novembre si carica di un ulteriore significato storico in virtù dell’avanzata delle sovraniste, deflagrate, praticamente, in buona parte dei paesi che formano l’Unione, come risposta al mancato modello di sviluppo europeo. Abbattere il muro per costruire cosa? Se è vero che l’Unione da madre si è tramutata in insensibile «matrigna», come ha precisato Giampaolo Rossi, incapace e inadatta a proteggere le sue genti dalle disfunzioni della globalizzazione, dalle speculazioni economiche, dal cinismo delle banche, che hanno condotto ad una lenta ma progressiva erosione del sistema dei diritti sociali e dell’apparato industriale, è necessario riallacciare il legame tra i popoli europei, ridare un senso al puzzle che ha composto il più grande affresco politico-sociale dell’occidente.
«La lotta in corso è tra chi difende le identità che hanno costruito nei secoli questa Europa, e un sistema economico che ha come fine quello di disgregare» ha sottolineato il consigliere Rai che, dopo aver omaggiato il filosofo Roger Scruton, ingiustamente criticato in terra d’Albione, ha segnalato l’imprescindibile necessità di creare una «classe politica che non abbia paura di raccontare ciò che noi siamo; che non abbia paura di dire che un mondo fondato sulle sovranità popolari sia più giusto e più libero di un mondo fondato sulle élite finanziarie».

*Alessandro Boccia, collaboratore Charta minuta

Ripartire dalle città per superare la krìsis

Costantinopoli era definita la città per eccellenza perché era il luogo in cui si componevano le differenze e vi era la volontà di porsi continuamente una questione: “Si sta facendo bene?”. Oggi le città possono avere un ruolo determinante per governare il processo di crisi che affligge il Paese e, per farlo, chi amministra deve saper porsi le giuste domande e trovare risposte in quei giacimenti di pensiero che respirano e vivono la città… che sono le università, le scuole, gli ordini professionali, le associazioni di categoria, le associazioni di idee, le fondazioni, i partiti, i sindacati.

Le città hanno un ruolo fondamentale perché sono il luogo della cantierizzazione dell’economia, ma non solo; perché vi è la maggior consistenza demografica delle persone, la maggior consistenza economica delle ricchezze, la maggior consistenza di contraddizioni che generano conflitto. E su queste tre caratterizzazioni occorre ben riflettere e porsi la questione “si sta facendo bene?”, per approdare ad una nuova vita delle città. La dimensione che occorre alla città del terzo millennio non necessità della gonfiezza ma di prossimità dalla provincia, di prossimità al Paese e all’oltre confine nazionale. Perché la gonfiezza cittadina se da una parte crea lo spopolamento dei Comuni di provincia arrecando in taluni casi desertificazioni di luoghi geograficamente e strategicamente sfruttabili, dall’altra parte crea al proprio interno delle periferie di periferie in cui il disagio è la determinazione principale del determinante malessere che sempre più genera manifestazioni di drammi e degenera in disumanità.
Le dotazioni economiche che lo Stato concede alle città non possono non andare, in buona parte, nella direzione di rigenerazione delle periferie che sono divenute uno spazio di insostenibile sofferenza… non possono non andare, in buona parte, anche nelle infrastrutture di collegamento verso la provincia che è la cura dimagrante della città che non deve essere obesa per avere peso, dal momento che il peso lo determina la qualità dei servizi, la quantità dell’attenzione ecologica, la velocità di collegamento. Ma la progettualità realizzativa si colloca in un uno spazio che ha bisogno di tempo e troppo spesso lo Stato pone una clessidra che affanna e affossa. Lo Stato centrale per mettere le città nella condizione di essere proattive al superamento della krìsis che le affligge, deve concedere una qualità delle procedure che sia pari alla quantità delle risorse che eroga ad esse, perché occorre una velocità normativa ed una semplificazione delle procedure che consentano la realizzazione alla progettualità del pensiero che altrimenti resta affanno in una palude.
*Antonio Coppola, collaboratore Charta minuta