L’autonomia strategica europea riparte dai semiconduttori

Nel mondo globalizzato ed interconnesso, della transizione digitale ed ecologica, i semiconduttori rappresentano la spina dorsale del nuovo paradigma produttivo: dall’automotive ai dispositivi informatici come smartphone e computer, alle console dei videogiochi, i semiconduttori sono ormai una tecnologia critica, e garantirne l’approvvigionamento è un tema di interesse nazionale per tutte le principali economie sviluppate.

La recente crisi delle materie prime ha dato luogo al cosiddetto chip crunch, che ha portato poi alla recente saturazione del mercato dei semiconduttori con evidenti ripercussioni sui mercati globali: nella vita quotidiana l’enorme difficoltà nell’acquistare una PlayStation 5 è la cartina al tornasole dell’intensità di questo fenomeno.

La crisi pandemica ha fermato i mercati globali, portando alla chiusura degli stabilimenti produttivi di microchip, in uno scenario dove lockdown e misure pandemiche hanno comportato ad una improvvisa domanda di dispositivi elettronici per via del boom dello smart working, il tutto nel mezzo di una guerra commerciale tra blocco cinese e blocco statunitense, che ha portato inevitabili tensioni ripercossesi proprio nei mercati e sugli utenti finali.

Si parla di crisi di saturazione, con picchi improvvisi di domanda a cui l’offerta non riesce a fare fronte nel breve periodo, portando a veri e propri colli di bottiglia che paralizzano, o comunque mettono in seria difficoltà, numerosi comparti. Basti pensare in questo caso a come nello scenario di riduzione della produzione di semiconduttori, accompagnata da una crescita nella domanda di dispositivi elettronici, sia esplosa, in un secondo momento, la domanda di automobili di ultima generazione, fortemente basate su sistemi di comunicazione elettronica, anche per via delle misure di rilancio economico disposte dai governi nazionali di tutto il mondo.

La crisi delle catene di fornitura dei semiconduttori trova origine già nel 2018 con le crescenti tensioni tra gli Stati Uniti e la Cina, anche a seguito dell’enorme concentrazione di terre rare e materiali essenziali per la produzione dei microchip proprio in capo alla Repubblica Popolare cinese ed in generale in Asia: i principali produttori di microchip sono infatti la cinese SMIC (Semiconductor Manufacturing International Corporation), la taiwanese TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Co) e la sudcoreana Samsung.

Solo Intel negli Stati Uniti è riuscita ad affermarsi come importante realtà del settore, in particolar modo per la progettazione e fabbricazione dei chip, ma nulla a che vedere rispetto alle controparti asiatiche e soprattutto Taiwan, da cui proviene il 50% dei microchip mondiali e oltre il 90% dei semiconduttori più sviluppati ed avanzati: l’Europa, in questa partita, non è pervenuta.

Lo sviluppo dell’IPCEI sui semiconduttori ha anticipato l’European Chips Act (ECA) come primo grande intervento di natura strategica per lo sviluppo di un’industria e di un settore dei semiconduttori di livello europeo.

Gli IPCEI sono i cosiddetti “Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo”, progetti di investimento che permettono la partecipazione di consorzi composti da varie aziende di settore con più Paesi membri, che permettono in via del tutto straordinaria l’erogazione di aiuti di Stato con enormi deroghe rispetto alle disposizioni attuative dell’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Sul solco di questa iniziativa si pone l’European Chips Act, con l’intenzione di ripristinare la sovranità tecnologica europea, portare la produzione europea di semiconduttori dal 9% al 20% entro il 2030 con l’intento di mobilitare oltre 40 miliardi di euro (tramite il cd. Chips Fund), quasi quanto i 52 miliardi stanziati dagli USA di Biden per il Chips for America Act: nel dettaglio si tratta di 15 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati aggiuntivi entro il 2030 rispetto ai 30 miliardi già stanziati nel quadro di Next Generation EU, HorizonEU e dai bilanci nazionali.

Il settore dei semiconduttori è sia ad alta intensità di conoscenza che di capitale, ed in quest’ottica le rigide regolamentazioni ai sussidi nel mercato interno sono uno dei principali fattori di arresto per lo sviluppo di un’industria dei chip europea.

Su questa falsariga l’ECA mostra i muscoli, lanciando un piano di investimento basato su partenariato pubblico-privato a valere su risorse comunitarie fino al 2027 (ultimo anno relativo alla programmazione del bilancio UE 2021-2027): la manovra muscolare dell’Unione consiste proprio nell’intento di non limitarsi a emanare documenti programmatici e strategie politiche di ampio respiro, ma un vero e proprio pacchetto normativo con tutte le carte in regola per istituire il programma di incentivi economici più ambizioso mai emanato dalla Commissione europea (dopo la Politica Agricola Comune, chiaramente).

I punti toccati dall’ECA sono molteplici: R&D, produzione, sostenibilità, catene di fornitura e gestione delle crisi. L’ambizione UE si intravede non tanto nel voler sviluppare un’industria europea dei semiconduttori, intersecata con lo sviluppo di IA e supercomputer, ma nello strumento normativo che permetterebbe alla Commissione di chiedere, in situazioni emergenziali, ai produttori di semiconduttori UE di concentrare la propria produzione su prodotti ad alto tasso di criticità.

L’ECA è indubbiamente una delle politiche industriali europee più ambiziose, ma è anche vero che la Commissione europea sinora non è mai stata in grado di disporre di una vera e propria politica industriale, vivendo un confronto costante tra la visione del mondo di Parigi e quella di Berlino, col risultato che sinora le politiche interventiste di stampo UE non sono mai state in grado di portare agli stessi risultati a cui abbiamo assistito in Cina o negli Stati Uniti: già nel 2013 la Commissione propose una strategia di investimento nei semiconduttori con l’idea di mobilitare 100 miliardi di euro di investimenti privati, misura che poi ha faticato a tradursi in risultati concreti.

Il recente successo dell’IPCEI sullo sviluppo di un’industria europea sulle batterie e l’indirizzo del Commissario al mercato interno Thierry Breton, francese non solo nella nazionalità, ma anche nella politique, stanno tuttavia lasciando intendere che un cambio di passo è possibile.

All’interno di questa intersezione dal lato della policy ci sono anche altre criticità tra cui l’assenza di grandi stabilimenti industriali di produzione di semiconduttori in Europa, ipotesi che le grandi aziende asiatiche non stanno al momento esplorando, nonché la difficoltà dal lato europeo di coordinare gli sforzi di spesa e di coordinamento politico, dovuto anche alla peculiare struttura dell’Unione: dal lato del budget i 40-45 miliardi previsti per il 2030 sono il frutto dell’unione di programmi di spesa pre-esistenti a budget nazionali ed a ulteriori stanziamenti ad hoc, allorché la Corea del Sud ha mobilitato oltre 400 miliardi di dollari fino al 2030, con Cina e Stati Uniti in grado di stanziare ex novo rispettivamente 150 e 52 miliardi di dollari.

A fronte di uno scenario del tutto inesplorato e pieno di incertezze, emergono tuttavia numerose opportunità, soprattutto per un Paese come l’Italia che è passato dal non toccare palla ad essere un attore determinante per la partita dei microchip, nonostante i due player principali restino Germania e, con molto distacco, Francia.

C’è poi il tema sulla capacità effettiva di approvvigionamento dei materiali necessari per la produzione dei semiconduttori: l’estrazione di terre rare (o rare earth elements, REE) richiede l’utilizzo di pratiche e materiali particolarmente dannosi per l’ambiente e, sebbene siano materiali non rari di per sé, è complesso riuscire a trovare luoghi di estrazione con una concentrazione di REE tale da rendere l’attività estrattiva sostenibile: su questo sarà inevitabile affrontare il tema della possibile estrazione di terre rare da giacimenti italiani ed europei in chiave di diversificazione delle fonti di approvvigionamento rispetto al monopolio cinese.

Se da un lato infatti la capacità di investimento della Germania nell’IPCEI sui semiconduttori (anche per via dei diversi valori di finanza pubblica) sovrasta di gran lunga le possibilità di Francia e Italia, il forte attivismo mostrato dal Governo nello stimolare una partnership tra Berlino, Parigi e Roma da un lato e con le grandi colossi esteri (la americana Intel prima tra tutti) dall’altro, lasciano ben sperare in un cambio di passo.

Per produrre microchip occorrono enormi quantità di acqua e ampi spazi per costruire gli impianti di lavorazione e su questo la geografia può rendere attrattiva ed appetibile per i grandi gruppi esteri l’ipotesi di sbarcare in Europa ed in Italia.

Sul lato interno, invece un ruolo chiave potrà essere ricoperto dalla STMicroelectronics, colosso italo-francese dei semiconduttori che sta effettuando importanti investimenti proprio in Italia, per una fabbrica di chip in silicio in Sicilia, e che può trovare spazio nel nuovo perimetro disegnato da Bruxelles. Proprio STM è protagonista, lato italiano, di buona parte dei progetti inquadrati nell’IPCEI sui semiconduttori, e può, anche grazie al PNRR trovare una dimensione europea riportando la penisola al cuore dell’interesse strategico del continente.

*Alessandro Guidi Batori, analista di politiche pubbliche