Giovani e lavoro

Uno studio svolto appena qualche mese fa dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro riguardo il tasso di occupazione dei giovani nel mondo del lavoro ha fatto emergere che l’ Italia risulta essere la nazione con la più bassa percentuale di occupati al disotto dei 40 anni (esattamente il 32% contro la media del 41% in Europa).

Questa generazione di giovani  chiamati pandemials sono coloro i quali  hanno vissuto due crisi sociali (la crisi finanziaria iniziata nel 2008 e la pandemia del Covid 19)  che hanno inciso profondamente nelle loro aspettative di vita, tutto ciò ha pregiudicato inevitabilmente

l’accesso nel mondo del lavoro. Inoltre l’Italia ha registrato nel 2016  con il suo 21,4 % il tasso più alto dei NEET, nella fascia di età compresa tra i15 e i 24 anni rispetto ai paesi appartenenti all’Unione Europea la cui incidenza media si aggira intorno al 12% e cioè quei giovani che non studiano, non lavorano e non svolgono alcun tipo di formazione professionale perchè sfiduciati da quelle che possano essere le prospettive di inserimento nel mercato del lavoro. I giovani NEET tra i 15 e 29 anni sono passati dal 22,1% del 2019 al 23,3% nel 2020 . Tutto ciò ha determinato inevitabilmente fenoeni di frustazione ed isoltamento sociale.

Altro dato negativo è rappresentato dalle statistiche demografiche, piuttosto ridotte negli ultimi due anni ad opera soprattutto della pandemia. La mancanza di prospettive concrete lavorative è uno degli aspetti fondamentali che limitano le nuove generazioni a formare una famiglia.

Nel 2021 nel  settore industriale e dei servizi il numero dei posti  di lavoro per cui non è stata trovata forza lavoro adeguatamente formata è stato di oltre 230.000 unità. Questo dato è piuttosto emblematico perchè ci fa compredere che l’offerta di lavoro è presente nel nostro Paese, ma la forza lavoro esistente spesso non è dotata della giusta formazione professionale per ricoprie i profili lavorativi richiesti.

In Italia c’e’  una scarsa offerta di formazione tecnica non adeguata con quelli che sono gli standar richiesti dalle aziende  rispetto al resto d’Europa.  Nel territorio nazionale il numero degli istituti tecnici superiori conta poco più di 18mila studenti ogni anno. Il PNRR dovrebbe contribuire a migliorare la qualità della formazione ed incrementare il numero degli iscritti migliorando l’offerta formativa degli istituti , dotando queste scuole ad indirizzo tecnico e le istituzioni universitare tecnico scientifiche di tutti quegli strumenti necessari atti a creare figure idonee a soddisfare le richiete  aziendali. I tecnici informatici , delle telecomunicazioni e gli  operai specializzati sono considerate ad oggi figure professionali difficili da reperire.

I principali strumenti  attraverso i quali i giovani entrano nel mondo del lavoro al termine di un percorso di studi sono i tirocini ed i contratti di apprendistato.

I contratti di apprendistato attivati nel 2021 in Italia sono stati 370 mila . Questo è un dato piuttosto basso rispetto al totale della tipologie contrattuali di avviamento al lavoro. Se consideriamo che a partire dalla metà degli anni 80 ad oggi gli interventi su questa disciplina contrattuale sono stati diversi e l’ultimo è stato attraverso il d.lgs 15 giugno 2015 n. 81 che ha ridisegnato la disciplina normativa del Testo Unico del 2011 (d.lgs. 14 settembre 2011, n.167) . Attraverso questa ultima riforma le competenze regionali in materia di conratto di apprendistato sono riemerse in maniera considerevole e se da un lato questo è un aspetto positivo perchè responsabilizza le regioni attraverso percorsi formativi adeguati in stretta sinergia con le realta industriali del territorio (questo è quanto si verifica nel nord est esempio in Lombardia, Trentino Alto Adige,Veneto Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia)  dall’altro crea una “regionalizzazione deleteria” nelle aree più depresse della penisola italiana, e cioè nel centro sud  in cui l’esiguità delle risorse a disposizione già in gran parte assorbite dalla spesa sanitaria, oltre che la quasi totale  assenza di uno spirito cooperativistico tra le principali istituzioni locali  non consentono adeguate misure di investimento formativo vanificando lo spirito normativo che il contratto di apprendistato si prefige di conseguire.

Per questo occorre “snellire” l’ampio dedalo di norme fatte di regolamenti regionali, richiami normativi, rinvii alla contrattazione collettiva che rischiano di rendere farragginosa l’applicazione delle diverse tipologie del contratto di apprendistato che non assolve più  alla sua funzione primaria di formazione e ingresso nel mondo del lavoro delle giovani generazioni.

Inoltre se consideriamo che molte risorse sono impiegate a garantire  il reddito di cittadinanza che al contrario potrebbero essere destinate attraverso “precise regole di ingaggio” alle aziende per investire nella formazione avremmo sicuramente più benefici  che piuttosto un improduttivo assistenzialismo.

Altra considerazione riguarda i tirocini, spesso poco considerati , che rappresentano forse il primissimo ingresso reale nel mondo del lavoro al termine di un percorso di studi, e che ancora oggi meritano  una migliore regolamentazione. La Direzione Centrale del Coordinamento Giuridico dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha emanato una nota a fine marzo u.s. in cui vengono enunciati dei chiarimenti in merito alle disposizioni introdotte dalla l. 234/2021 già vigenti, in riferimento all’erogazione delle indennità, al ricorso fraudolento del tirocinio con lo scopo di eludere reali rapporti contrattuali di lavoro ed infine agli obblighi della sicurezza del lavoratore.

Le aspettative per il futuro non sono delle migliori, gli effetti del conflitto russo ucraino, l’inflazione in continuo aumento e la contrazione della crescita rischiano di accentuare una profonda conflittualità sociale . Per questo le scelte programmatiche in materia di politiche attive del lavoro compiute attraverso i fondi del PNRR dovranno avere una visione prospettica d’insieme e riallacciare compiutamente il mondo dell’impresa alle  giovani generazioni.

*Roberto Aprile, dipendente P.A.

 

Lockdown, la falsa efficienza dell’autoritarismo Cinese

Il recente focolaio che ha coinvolto l’area urbana di Shangai in Cina, dovuto al diffondersi della nuova variante omicron 2 del coronavirus, ha riacceso ancora una volta i riflettori sulle modalità scelte da Pechino per contrastare la pandemia.

Le tradizionali misure di contenimento basate sul trittico: lockdown, test e tracciamento vengono impiegate in modo ortodosso dalle autorità cinesi e sin dalla loro prima applicazione a Wuhan si confermano come l’unico meccanismo di contrasto alle infezioni ritenuto in concreto praticabile. La strategia “Covid zero”, la cui efficacia con le varianti meno contagiose era fuori discussione, ha iniziato a mostrare delle criticità evidenti al crescere dell’indice di trasmissibilità del virus. Le conseguenze sul piano economico inoltre, hanno interessato sul piano geografico tutto il mondo con le frequenti interruzioni della supply chain, soprattutto per il blocco delle città portuali, più colpite dai focolai rispetto all’entroterra. È la Cina tuttavia a pagare da un punto di vista economico il prezzo più alto per una strategia che in occidente appare fuori discussione. Se l’ultimo trimestre del 2021 ha visto un rallentamento della crescita di Pechino, pari solo al 4%, è nel 2022 che Xi Jinping rischia di mancare gli obiettivi di crescita prefissati, che diversi analisti stimano inferiori al 5% su base annua complici anche la crisi energetica e il calo degli investimenti esteri innescato dalla recente stretta autoritaria figlia della “Teoria del benessere comune”.

L’iniziale inasprimento delle misure restrittive deciso sin dagli esordi della pandemia nel gennaio di due anni fa, aveva trovato in Europa e negli Stati Uniti uno stuolo di sostenitori, pronti a sottolineare l’apparente efficienza del governo cinese nel contrasto al Covid. Misure draconiane imposte sfruttando un’indole altrettanto decantata della popolazione ad obbedire alle Autorità. Per tutto il 2020 e buona parte dell’anno successivo non sono mancati nemmeno coloro che ne chiedevano l’adozione speculare in Occidente per bloccare sul nascere i focolai più insidiosi, soprattutto nelle grandi conurbazioni che si confermano il serbatoio perfetto per i contagi.

Oggi, dopo aver testimoniato la straordinaria efficacia dei vaccini ad mRNA, frutto di una indiscussa superiorità tecnologica nel settore farmaceutico e biomedicale, la pandemia appare sotto controllo sul piano sanitario ed economico. Inoltre l’arrivo in quantità sempre più consistenti dei farmaci antivirali e degli anticorpi monoclonali di nuova generazione, anch’essi sviluppati tra Stati Uniti ed Europa, consentono di programmare concretamente un ritorno alla normalità, che culminerà con l’abbattimento della mortalità da Covid19 a valori simili all’influenza (0,1%).

La Cina sembra non possa contare su nessuna delle armi disponibili nell’arsenale occidentale. I vaccini a virus attenuato prodotti da Pechino con la tecnologia “tradizionale”, non solo risultavano di gran lunga meno efficaci contro il ceppo originario, ma già con la variante delta offrivano una protezione inferiore a quella di Pfizer e Moderna contro la malattia grave e il ricovero. Il divario si è ulteriormente ampliato con omicron, contro la quale ci sono dubbi che persino la terza dose dei vaccini cinesi possa riportare la protezione a livello comparabili a quelli occidentali. Non è un caso che Pechino abbia avviato da tempo la sperimentazione di vaccini a mRNA sviluppati in casa, pur non disponendo degli impianti e del know-how della nostra industria farmaceutica. Non è un caso infatti che per la produzione su larga scala delle dosi necessarie siano stati sondati stabilimenti in Europa e Asia a cui la Cina dovrà rivolgersi per disporre, con un ritardo di due anni, di un farmaco comparabile ai prodotti di Pfizer e Moderna.

Anche sul fronte degli antivirali Pechino si trova a dipendere completamente dalle forniture occidentali, a cui si aggiungono ostacoli regolatori, che hanno ostacolato l’approvazione del paxlovid, giunta condizionata e solo a febbraio e di approvvigionamento. Questi ultimi sono destinati a diventare insormontabili qualora la Cina pensasse di usare i nuovi farmaci come leva per mitigare il decorso clinico e temperare il confinamento. L’arco temporale richiesto per soddisfare tutti gli ordini sarebbe senz’altro superiore ad un anno ed è difficile pensare che senza una produzione in loco, le importazioni possano soddisfare le richieste anche nell’ipotesi assai remota in cui fossero concessi alla Cina canali preferenziali per le forniture. A differenza dei vaccini, l’industria farmaceutica di Pechino non ha ancora sviluppato alternative credibili e di efficacia sovrapponibile a quelle di Pfizer e Merck e non sembra che questo accadrà nel breve e medio periodo.

Tuttavia è la fragilità intrinseca del sistema sanitario cinese a costituire il fattore rende i lockdown l’unica soluzione praticabile per contrastare la circolazione del virus. In un recente studio del Journal of critical care medicine i letti di terapia intensiva disponibili in Cina risultavano essere 3,6 ogni mille abitanti, un decimo di quelli Americani che hanno superato ormai i 30 e meno della metà di quelli di Singapore (11,4) e Hong Kong (7,1). Se il problema riguardasse le sole strutture sanitarie si potrebbe porre rimedio costruendo nuovi ospedali sul modello di Wuhan nel 2020, purtroppo però il deficit peggiore di Pechino riguarda il personale, assolutamente insufficiente per contenere un focolaio di medie dimensioni in una grande città. Il sistema sanitario è ormai da anni alle prese con il sovrappopolamento e con una popolazione di età avanzata a cui diventa difficile assicurare cure con uno standard occidentale in tempi ordinari, impossibile durante una pandemia. Le scene caotiche del gennaio 2020, con i medici e gli infermieri inviati in massa nell’Hubei dalle altre province per lo screening di tutta la popolazione si sono ripetute questi giorni a Shanghai e la propaganda non ha perso l’occasione di enfatizzare la durissima lotta contro un virus ormai contagioso quanto la varicella. Qualora il contenimento fallisse e le autorità dovessero far fronte ai ricoveri con la creazione di nuovi posti letto, la Cina rischia di assistere inerme a casi come il focolaio di Jilin, dove gli ospedali improvvisati, costruiti come a Wuhan in pochissimi giorni, contavano su appena 5 medici e 20 infermieri ogni 100 pazienti ricoverati in gravi condizioni.

Simili previsioni sono confermate dalla mortalità per Covid che ad Hong Kong si è assestata ben sopra i 25 decessi ogni 100mila abitanti, con numeri che in alcuni giorni hanno superato i 300 morti al giorno. È naturale che le autorità cinesi abbiano valutato con grande attenzione le conseguenze di una diffusione incontrollata del virus come nella ex colonia britannica, sulla carta dotata di strutture sanitarie all’avanguardia e sicuramente più organizzate di quelle della confinante Shenzen o di Shanghai. A novembre il CDC di Pechino aveva stimato in almeno 260 milioni i casi e in 3 milioni i morti di covid, qualora la Cina avesse adottato restrizioni di intensità simile a quella di Regno unito e Stati Uniti. Oggi con Omicron è facile dedurre che il bilancio sarebbe da ritoccare al rialzo, anche in considerazione della bassissima efficacia dei vaccini a tecnologia “tradizionale” che non proteggono dalla malattia grave senza terza dose.

La Cina si trova dunque ad un bivio, la stretta autoritaria e illiberale che ha trovato in occidente le lodi sincere di una nutrita pattuglia di cultori dell’efficienza è ormai inattuabile per contenere omicron. Da metà marzo, più di 70 città che rappresentano il 40% della produzione industriale cinese hanno dovuto implementare misure restrittive per controllare i focolai di Covid, destinati ad essere sempre più aggressivi e diffusi. Se Pechino non dovesse riuscire nella missione di coniugare salute e libertà economica, accettando di convivere con il virus, l’obiettivo di crescita del 5,5% sarà un miraggio almeno per i prossimi due anni. In caso contrario, Xi Jinping dovrà prepararsi ad un numero di morti considerevole, non solo di Covid ma anche di tutte le altre patologie che gli ospedali hanno difficoltà a curare durante le campagne di screening. Il bilanciamento tra stabilità interna e benessere economico sarà ancora una volta la chiave di volta per comprendere il margine di rischio del governo cinese che, in ogni caso, non potrà rinunciare ai prodotti dell’industria farmaceutica americana ed europea per vincere la sfida finale al virus. Toccherà all’occidente decidere se e a quali condizioni fornirli a Pechino.

*Giovanni Maria Chessa, Comitato scientifico Farefuturo

Effetti collaterali

Fanno brutti scherzi gli effetti collaterali della terza dose del vaccino anticovid. Mi provocano allucinazioni, immagini assurde attraversano la mente. Ho creduto di sentire il Capo dello Stato intrufolarsi in qualche modo nella cornice del Festival di Sanremo, e – quel che è più assurdo – mi è sembrato vedere il Papa, come fosse la Littizzetto o un Burioni qualsiasiospite in un talk show della terza rete.

Segno tutto questo della mia età che avanza assieme alla demenza. Per non parlare degli incubi che turbano le mie notti. Se per cena indulgo in una pepata di cozze d’antipasto più una carbonara che al massimo raggiunge i due etti e per secondo tre peperoni farciti con pancetta e pecorino, il tutto bagnato da pochi calici di un leggero amarone, draghi e fantasmi si divertono poi a tormentare il mio sonno fino all’alba.

L’altra notte, pensate un po’ho sognato di essere sul punto di morire.  Ma non era questo l’evento più agghiacciante dell’onirica tragedia. Peggio: ho sognato che sarei morto democristiano. Ad accompagnarmi all‘altro mondo non era però quella familiare Dc di un tempo, quella degli Andreotti, Fanfani, Forlani, di quei democristri che furono in grado di governare e di fare anche qualcosa di buono per il Paese. No, nell’incubo prendeva corpo un’ incredibile dc dei tempi nostri, con leader improbabili eppure possibili: Di Maio, Conte, Renzi, Toti accompagnati da nipotini di Berlusconi. Insomma un’inedita balena bianca che era riuscita ad impossessarsi di un drago, anzi leggi al plurale: un Draghi, sì proprio di Mario Draghi. 

Si era concretizzato nel mio incubo il progetto neocentrista, a coronamento dell’epico disinballaggio dei cartoni già da tempo pubblicizzati e pronti a essere trasferiti dal Quirinale nella casa in affitto. 

In verità non avevano fatto tutto da soli i centristi novelli assieme al Letta minore. Una mano gliel’aveva data un irriducibile rivoluzionario barbuto, forse affascinato da un futuro libero dall’assillo inquietante di una donna che lo aveva fatto sentire come un uomo di  secondo piano,  un capitano sì, ma della riserva.

Nel mio incubo il resuscitato centro impossessandosi di Dragli, con l’aiuto della sinistra e l’astensione di qualche altro, aveva vinto le elezioni del ’23.   Confermati a vita il presidente del consiglio e Mattarella al Quirinale fino all’ottantasettesimo compleanno e, perché no – non mettiamo limiti alla provvidenza – fino al novantaquattresimo. Poi chi vivrà vedrà, ne vedrà delle belle. 

Basta con le cozze e i peperoni a cena. Basta con gli incubi.  Voglio sognare. Giorgia, fammi sognare.

*Angelo Belmonte, giornalista parlamentare

Lo sport italiano è sotto attacco dalla crisi energetica

Non vogliamo che i successi recentemente ottenuti alle olimpiadi del 2021 siano solo un bel ricordo per la nostra Italia dello sport. I successi degli azzurri in ogni disciplina sono il risultato di un’intensa attività sportiva che nasce dalle giovanili, dal dilettantismo, dalla scuola dei vari sport, da una cultura sociale viva. Non possiamo permetterci di buttare al vento quanto seminato per anni, la difesa della Nazione parte anche dalla difesa dello Sport. La crisi energetica dovuta sia alla limitata erogazione delle risorse nonché dal folle aumento dei prezzi al consumo stanno mettendo in seria difficoltà sia la filiera produttiva delle aziende di produzione di prodotti e servizi quanto le stesse famiglie che devono rivedere la distribuzione delle disponibilità liquide del proprio bilancio familiare. Si preannuncia un periodo molto difficile nel quale la crisi e la stessa speculazione faranno danni irreparabili in molti settori, alcuni dei quali nevralgici sotto il profilo sociale ed educativo come lo sport. Proprio così: la crisi energetica sta mettendo sotto scacco lo sport italiano. In buona sostanza lo sport rischia seriamente di implodere sotto la stretta energetica e di riverberare sul tessuto sociale tutte le problematiche emergenti come un macigno e possiamo così affermare che si sta configurando a tutti gli effetti un duro attacco alla nostra civiltà, non solo a quella dei consumi quanto alla comunità fondata sullo sport.

Lo sport è sotto attacco dalla crisi energetica e, in particolare, lo sport dilettantistico. È facile intuire che le società sportive nelle varie discipline di ogni ordine e grado fondano la preparazione dei propri atleti sugli allenamenti che giocoforza avvengono nelle ore pomeridiane, serali e di frequente anche notturne. Già questo aspetto fa comprendere quanto l’illuminazione di un impianto sportivo sia fondamentale – non solo per una gara ufficiale – quanto per gli stessi allenamenti. Qualcuno potrebbe suggerire di diminuire l’intensità della luce prodotta dall’impianto ma è utile sapere che le varie discipline sportive, per le gare ufficiali, richiedono un minimo di “lux” per svolgere la gara ufficiale al di sotto dei quali non è possibile giocare. Pur variando tra le varie discipline sportive, la riduzione dei “lux” (unità di misura della illuminazione artificiale), non è attuabile. Se da un lato non è proponibile tale riduzione per una gara ufficiale, una forte riduzione dei lux diventa difficile per mantenere una qualità accettabile anche durante gli allenamenti, che settimanalmente, spesso giornalmente, si svolgono presso tutti gli impianti sportivi. Lo sport è sotto scacco, proviamo a pensare non solo al calcio a 11 o al calcio a 5, ma alla pallacanestro come alla pallavolo, al tennis come all’atletica leggera, alle arti marziali come al nuoto, alla pallanuoto come all’hockey, alle bocce come al ciclismo su pista o alla scherma solo per fare degli esempi. Lo sport non professionistico è tenuto in piedi dai volontari e dagli sponsor minori, talvolta è autofinanziato da chi lo pratica come nel caso dello sport amatoriale e, tutti di fronte ad un aumento sconsiderato dei costi per l’energia si trovano di fronte ad una enorme incognita: CONTINUARE o CHIUDERE ?

Gli impianti sportivi per la quasi totalità sono di proprietà pubblica come Comuni e Province e il costo dell’illuminazione incide sulle tariffe di affitto dell’impianto sportivo e un numero sempre più alto di società non sono più in grado di sostenere tali spese portando le stesse società a dover valutare se resistere per esistere, oppure scomparire. Se sommiamo il consumo dell’energia elettrica al consumo del riscaldamento degli spogliatoi e al consumo dell’acqua calda delle docce è facilmente immaginabile che se non ci sono adeguate risorse economiche lo sport dilettantistico e amatoriale è destinato un po’ ovunque a gettare la spugna e a chiudere i battenti. A chiudere saranno tutte quelle piccole realtà dilettantistiche di periferia, dei piccoli centri urbani, dello sport praticato presso strutture (palestre, piste o terreni all’aperto) di proprietà comunale che già hanno serie difficoltà a far tornare i conti e che soprattutto non possono fare più beneficenza come succedeva molti anni addietro. Sotto il profilo sociale si prospetta un grande pericolo che per decenni è stato evitato, infatti, le società di periferia e le piccole squadre fatte per i giovani, per la ricreazione, per la convivenza sociale, per valorizzare lo sport sia di squadra che individuale sono messi a dura prova dall’impossibilità di reggere i costi da parte delle società sportive. Una situazione che se protratta nel lungo periodo potrebbe generare tensioni sociali e devianze nei giovani che trovandosi senza riferimenti sportivi locali la loro alternativa dopo la scuola o il lavoro è rimanere a casa senza la possibilità di socializzare per mezzo dello sport. Un danno sociale incalcolabile. Siamo in un momento storico economico in cui le piccole e medie aziende non riescono più a finanziare e sopportare le spese delle società sportive, la crisi di mercato nonché la crisi delle famiglie non riescono a garantire il minimo per poter pagare ai propri figli la possibilità di fare sport. L’aumento indiscriminato del costo dell’energia elettrica porta i bilanci delle società sportive ad un inevitabile dissesto che si tramuta non solo nella chiusura dell’attività quanto al venir meno del servizio sociale. La crisi energetica, se non arginata, sarà a pieno titolo la causa del nostro decadimento sociale, del decadimento del benessere fisico e ciò comprometterà il proseguo di una socializzazione – specialmente tra i giovani – già messa a dura prova dalla pandemia che ci ha portato a più riprese a stare forzatamente tra le mura domestiche.

Un rapporto causa ed effetto a dir poco pericoloso e in grado di produrre un risultato talmente negativo che la nostra società e la nostra economia non sono in grado di affrontare con successo. Lo sport è sotto attacco, per questo siamo tutti chiamati a fare l’impossibile per salvarlo, solo in questo modo salveremo lo sport, la nostra Patria e il futuro delle prossime generazioni da una disfatta sociale preannunciata.

Stefano Lecca, consulente in comunicazione social e webmarketing

Green Pass: altruismo o egoismo?

Ogni volta che mi sono ritrovato a pensare una Roma diversa, forse coinvolgendomi nelle lotte politiche e culturali di Roma, sognando una Roma pulita, rispettosa, più ordinata – senza parcheggio in doppia fila “ne ho solo per un minuto”…, con una popolazione più propensa a camminare o usare dei mezzi pubblici più efficaci, o meglio senza essere il triste record europeo per l’uso massiccio individuale dell’auto per tratti piccoli – mi sentivo dire “non si può cambiare il romano”!
Vivendo a Mosca, ma avendo trascorso decade a Roma, non capivo come una città come Mosca era riuscita a far cambiare drasticamente il moscovita quattro ruote, che ancora pochi anni fa non sapeva neanche cosa fosse un passaggio pedonale, e che oggi si ferma se vede una persona che si appresta ad attraversare sul marciapiede – tutte cilindrate comprese!, che non si ferma mai in doppia fila, ecc…
Perchè Roma non avrebbe allora potuto cambiare? Il Green Pass ci da una triste risposta. Abbiamo visto una più o meno legittima propaganda massiccia sull’obbligo del Green Pass, ma i risultati attuali sembrano dare ragione a questa politica.
Qui però va studiata la reattività della popolazione, tutta nella sua stragrande maggioranza a fare rispettare l’obbligo del Green Pass, anche a Roma.
E se purtroppo la risposta a questo rispetto dell’obbligo fosse l’egoismo, la paura, la paura di ammalarsi e non il rispetto dell’altro; sennò come si spiega che questo (dovuto) zelo non sia anche valido per il pedone, per la qualità della vita nella nostra città?
Il Green Pass può andare oltre la questione della salute pubblica, può aiutare a pensare Roma diversa, dove l’individuo diventa comunità. Il Green pass può creare un precedente positivo, cambiare il Romano e non rimanere solo l’espressione dell’egoismo individuale.
A ripensarci, Roma.

*Emmanuel Goût, componente il Comitato scientifico Fondazione Farefuturo e componente del COS in Geopragma

Siamo più forti uniti. Il nostro orgoglio di lavorare insieme con partner italiani

To say that COVID19 has changed us may sound self-evident. Indeed, our daily lives have been so much affected by the virus that we now even wonder whether we will ever return to pre-pandemic “normal”. But whatever the impact on our individual lives, it is also important to analyze and understand the long-term changes that have happened at a higher level in our politics, the functioning of our democracies, and international relations.

For a number of reasons, Italy is probably the country in Europe that has been at the forefront of the momentous change we have lived over the past two years. Italy was the first country in Europe to shut down its economy due to the unexpected arrival and spread of the virus. Italy was also the country that paid the highest price last year for the first lockdown and, interestingly enough considering the rise of Euroscepticism in the country over the past few decades, it will also be the biggest single beneficiary of the European recovery fund – a lifeline for the national economy, and a unique opportunity to engineer a new start for the country, after 30 years of economic difficulties. Finally, Italy was also at the center of attention for Russian spies and Chinese propagandists, as they tried to use the occasion to weaken the country’s security and ties with its allies. To say that these attempts have backfired spectacularly may be true, but this is certainly not the end of the story. Russia will be back, and so too will China, as it desperately tries to extend its influence in Europe, sending more countries in a debt trap and extorting political favors from economic dependence.

There is much that Europeans (and more largely Westerners) can learn from Italy’s experience in fighting off the virus, and Italy is a key ally for the United States, as well as a key member of the European Union. With this in mind, and as the pressure builds on the Mediterranean – with the crisis in Afghanistan, but also the pressure China is exerting to gain a foothold in this key sea for East-West trade, it is high time for us to talk. This is what drove the International Republican Institute to organize this LEAD21 event in Rome, bringing up-and-coming MPs to discuss the lessons we can all take from the past year and a half, and most importantly talk about the future of Southern Europe, of the Mediterranean, and of the Transatlantic relationship.

Such an ambitious endeavor requires allies, and to provide the highest quality of debates, IRI, together with their Italian colleagues and experts from our partner organizations, Fare future, the Italian Atlantic Committee, but also the Fondazione de Gasperi and the Fondazione Luigi Einaudi, is glad to have teamed up with some of the best brains in the country to set up this discussion with  Europe’s future political leaders. The diversity of these think-tanks is in itself an asset, allowing for a wider and (importantly) a more profound debate, with conclusions not set as a foregone conclusion, but as the result of research and deliberation. Such is the strength of the West, and this seminar will be yet another chance for us to demonstrate that debate and intelligent dialogue, not the monolithic model offered by our adversaries, is the way forward.

Success requires teamwork, and this event is no exception. But in every team, some players are always more special than others, and so we are particularly grateful to Farefuturo for bringing the discussion to new levels in terms of international security, a crucial topic after this summer’s events, for inviting the group to debate in the Senate, and also for bringing us all together to commemorate the victims of jihadi terrorism – and those who fell fighting against it – at the Vittoriano, such an important symbol of Italian patriotism, where so many who fell for freedom and the unity of their country are celebrated.

The event that we are organizing together with our Italian friends these days should not be taken as a single event. It is part of a much wider discussion that IRI has undertaken in Italy and more widely in the Mediterranean. Together with politicians and actors in the think-tank universe, we believe it is time to discuss – and shape – the future of the Transatlantic alliance, and that of the Mediterranean. We also need to build a constructive dialogue about the current challenges facing our democracies – all of these crucial for the success of the West in the future, may the perspective be from Rome or Washington.

For this large and ambitious project, IRI is happy to have found in Farefuturo a great partner, with whom we hope to continue working in the future, through the exchange of ideas and further events we hope to organize jointly. This September event is the start of what we hope to be a long and mutually beneficial relationship.

 

*Thibault Muzergues, Europe and Euro-Med Program Director, Transatlantic Strategy

 

Le origini del virus. Censura e autocensura

Su una cosa vi è consenso nella comunità scientifica internazionale: trovare le origini del virus che ha scatenato la più grande pandemia mondiale nella storia dell’umanità è di primordiale importanza. Ciò nonostante per oltre un anno, tra la censura imposta dal regime cinese sulle indagini internazionali e l’autocensura praticata dal mainstream occidentale, la pista sempre più probabile di una fuga accidentale del laboratorio di Wuhan ed eventuali esperimenti ‘gain of function’ che coinvolgono anche scienziati occidentali rimangano ancora un tabù nel dibattito pubblico allargato. Una storia ancora in pieno sviluppo che mai come prima mette in luce le sfide gigantesche nello scontro esistenziale tra democrazie e regimi autoritari.

La Fondazione Farefuturo è da sempre molto attenta a queste tematiche che non riguardano solo gli aspetti geopolitici ma anche e soprattutto valoriali.

Nei giorno della visita del presidente Xi Jinping  a Roma per la firma degli accordi sulla Belt and Road abbiamo realizzato  il meeting Il Dragone in Europa. Opportunità e rischi per l’Italia  proprio per denunciare i rischi di sottomissione dell’Italia a Pechino.  Ma  la Fondazione si è impegnata soprattutto sul fronte dei diritti umani facendo intervenire in due occasioni il leader di Hong Kong Joshua Wong, attivista e fondatore del Partito Demosito in teleconferenza nella Sala Nassirya del Senato. La prima  il 28 novembre 2019 che tanto rumore a suscitato per la reazione inconsueta e inusuale da parte dell’ambasciata cinese, e la seconda volta il 18 novembre 2020 per una lezione  sul valore della libertà tenuta appunto  da Wong al corso di formazione della Fondazione FormarsiNazione dove manifestò tra l’altro il timore i essere a breve arrestato così come di fatto è avvenuto poche ore dopo. Un impegno continuativo che ha prodotto la pubblicazione del Rapporto dal titolo La sfida cinese e la posizione della Repubblica italiana sull’attenzione all’interno dei Paesi democratici verso le iniziative di regimi autoritari volte a minare la stabilità, nonché i principi e i valori costituzionali, delle democrazie liberali e, ora rivolge la sua attenzione sull’origine del Corona virus e sull’uso politico della pandemia.

Al webmeeting di Farefuturo di venerdì 11 giugno  sono intervenuti lo scienziato Mariano Bizzarri, il sociologo Arnaldo Ferrari Nasi e l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri, i giornalisti Marco Gaiazzi (Fuori dal Coro) e Enzo Reale (Atlantico Quotidiano), ha coordinato i lavori Laura Harth.

Nel corso del meeting è stato illustrato un sondaggio a cura del sociologo Arnaldo Ferrari Nasi sulla percezione che hanno gli italiani sull’origine del virus e sull’uso politico della pandemia.

L’evento  trasmesso sui canali social della Fondazione: facebook,  Instagram e LinkedIn è visibile anche sul canale Youtube di Farefuturo

UN’AMMINISTRAZIONE DA RIFORMARE. LEZIONI DALL’EMERGENZA CORONAVIRUS

Questo saggio di Salvatore Sfrecola, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

In questo Paese, nel quale i cittadini sono chiamati assai spesso alle urne per assicurare la rappresentanza popolare nelle assemblee legislative delle istituzioni territoriali, lo Stato, le regioni, i comuni, vincere le elezioni, come ripeto da tempo, può essere relativamente facile, difficile è governare, come dimostra la ricorrente, mancata realizzazione di parti significative dei programmi di governo. Le ragioni vanno ricercate essenzialmente nella inadeguatezza dell’indirizzo politico delineato da una classe politica estremamente modesta che, tra l’altro, non tiene conto della capacità delle strutture amministrative di dare attuazione alle politiche pubbliche. Che è, in ogni caso, responsabilità della politica che detta le regole legislative e amministrative. Infatti, l’amministrazione pubblica italiana, che pure si avvale in ogni settore di riconosciute eccellenze professionali, è, complessivamente considerata, assolutamente inadeguata rispetto al ruolo che dovrebbe svolgere.

L’organizzazione dei ministeri, la normativa sostanziale da applicare, quella procedimentale, la professionalità degli addetti, esigono una profonda revisione. L’esperienza insegna, infatti, che i programmi governativi spesso sono frustrati da normative confuse, delle quali al momento dell’approvazione non sono stati evidentemente simulati gli effetti. Il Parlamento, inoltre, sovente ricorre a leggi di delegazione, spesso generiche («in bianco»), con l’effetto che i provvedimenti di attuazione, i decreti legislativi, tardano ad essere emanati, come dimostra il decreto «milleproroghe», di anno in anno sempre più corposo. Non di rado il giudizio sulla legittimità di quelle norme, spesso scritte male, finisce dinanzi ai tribunali amministrativi o alla Consulta. Ad esempio, il mancato rispetto della delega è vizio di costituzionalità.

Le responsabilità di questa situazione sono diffuse e risalenti nel tempo ma progressivamente aggravate, come dimostra la vicenda attuale dell’epidemia da coronavirus, con incertezze nella individuazione delle attribuzioni e delle competenze tra Stato e regioni, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, decisa dalle sinistre nel 2001 con una maggioranza di tre voti, e, a cascata, nell’adozione dei provvedimenti necessari per far fronte all’emergenza. Responsabilità della classe politica, innanzitutto, nella quale sempre più spesso mancano competenze ed esperienze, com’è sotto gli occhi di tutti. Ma anche dei sindacati del pubblico impiego, promotori di ripetute istanze di slittamento verso l’alto di fasce di dipendenti attuato con riconoscimento di «mansioni superiori» quasi mai effettivamente esercitate, ma benignamente «attestate» dai capi degli uffici. Una politica del pubblico impiego che, quanto alla dirigenza, si è basata sulla moltiplicazione dei posti di funzione che ha fatto perdere di vista il senso della funzionalità delle strutture amministrative, quanto a competenze e numero degli addetti, e della stessa responsabilità dei dirigenti. Il loro numero è enormemente cresciuto nel tempo, con l’effetto di parcellizzazione degli apparati con soddisfazione dell’antica aspirazione dei detentori del potere politico al divide et impera, una regola dagli effetti perversi in presenza di una classe di governo estremamente modesta. Ministri che si sentono autorevoli di fronte ad un dirigente dimezzato, che loro hanno nominato e da loro attende la conferma.

Quale indipendenza, dunque, per la dirigenza statale? Inoltre, lo spoil system, immaginato per inserire nei ministeri professionalità «non rinvenibili nei ruoli dell’Amministrazione» (art. 19, comma 6, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), è stata la strada per assicurare un posto di lavoro ai portaborse dei politici o a funzionari «di area» che non erano riusciti a superare il concorso a dirigente. Con l’effetto di mortificare i funzionari vincitori di carriera che hanno visto precluse prospettive che un tempo potevano costituire una importante aspettativa professionale. Insomma, occorre una profonda riforma per governare. Come gli italiani hanno potuto verificare nell’occasione drammatica del contrasto all’epidemia da Covid-19, nell’affrontare la quale il Governo ha dimostrato assoluta incapacità di assumere rapidamente le occorrenti decisioni. È sufficiente qualche breve considerazione sui tempi della risposta all’allarme pervenuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) il 30 gennaio 2020, con la dichiarazione dello stato di «emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus» (Pheic). E qui c’è la prima falla nella organizzazione statale.

L’Italia ha un suo rappresentante nell’O.M.S. Bisognava attendere la dichiarazione ufficiale per un virus denominato n. 19, cioè scoperto nel 2019? Perché il nostro rappresentante non ha allertato il governo? O l’ha fatto e il presidente del Consiglio ed il ministro della Salute hanno sottovalutato il pericolo? Sta di fatto che il 31 gennaio il Consiglio dei Ministri dichiara, per sei mesi, «lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili», avendo evidentemente presente che la situazione di pericolo avrebbe avuto una durata almeno corrispondente. Eppure il Governo, che nel frattempo non si è preoccupato di fare una ricognizione delle occorrenze, mascherine e apparati di ventilazione polmonare, presumibilmente occorrenti, per verificarne l’esistenza nelle strutture ospedaliere o per predisporne l’acquisto, attende il 23 febbraio per adottare un provvedimento di urgenza «con forza di legge» con poche norme, al quale seguirà una serie di decreti legge mai vista prima. Mentre le disposizioni di dettaglio vengono adottate dal presidente del Consiglio con propri decreti di dubbia costituzionalità per le gravi limitazioni all’esercizio di diritti personali costituzionalmente garantiti: uno tra tutti, il diritto di circolazione. Decreti «incostituzionali», come li ha bollati Sabino Cassese, giurista insigne ed ex giudice della Corte costituzionale, che non si sa neanche chi li abbia scritti, tra comitati e task force, una pletora di oltre 450 «esperti», come se l’amministrazione pubblica non ne avesse. E non esistesse il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), organo «di consulenza delle Camere e del Governo» (art. 99, comma 2, Cost.).

Quanto ai decreti legge, vengono convertiti dal Parlamento senza che sia possibile discutere ed emendare il testo, ricorrendo il Governo al voto di fiducia, con evidente emarginazione delle due Camere. E mentre il virus sembra aver attenuato la propria pericolosità e si guarda alla «fase due» per cercare di dare ossigeno all’economia bloccata in tutti i settori, l’incapacità dell’Amministrazione di rispondere alle esigenze del momento apre la strada ad una normativa straordinaria la quale fa intravedere, tuttavia, un nuovo, per certi versi, più grave pericolo: quello che la logica dell’emergenza (niente gare, niente controlli) estenda i suoi effetti oltre il tempo strettamente necessario per proporsi come regola per il futuro. Semplificare necesse est, naturalmente, ma… est modus in rebus. Nel segno della legalità e della trasparenza.

*Salvatore Sfrecola, Presidente Associazione Italiana Giuristi di Amministrazione, già presidente di Sezione della Corte dei Conti

La Tv di Stato presidio nazionale

Questo saggio di Giampaolo Rossi, consigliere Rai, è stato pubblicato nel Rapporto Nazionale “Italia 20.20” della Fondazione Farefuturo

Nell’epoca della rivoluzione digitale, il dibattito attorno al ruolo del Servizio Pubblico Radiotelevisivo e Multimediale rimane ancorato ad una natura, per così dire, «analogica»; attiva gli impulsi elettrici della polemica politica, alimenta scosse demagogiche che spesso fanno perdere di vista che la Rai non è semplicemente un’azienda di comunicazione ma la più importante media company italiana, uno dei principali vettori di costruzione dell’immaginario simbolico della nostra nazione e un asset industriale strategico negli interessi del Paese. L’accelerazione tecnologica degli ultimi 30 anni che sta operando una completa disintermediazione dei processi culturali e comunicativi, rende spesso la Rai come una sorta di eredità pesante di un passato ma in realtà in tutta Europa, il Servizio Pubblico Radiotelevisivo conserva una centralità funzionale anche a definire il ruolo internazionale della nazione di appartenenza. La Rai è un’entità eccezionalmente articolata che opera in un contesto complesso e in continua evoluzione; la sua rilevanza per la vita del Paese è sancita anzitutto dal suo status di S.p.A. d’interesse nazionale, che la pone in una condizione particolare rispetto alla disciplina civilistica pura, imponendole di operare all’interno di un mercato fortemente globalizzato e nello stesso tempo gravandola di oneri addizionali nel campo della trasparenza, della disciplina contabile e dei processi di governance e controllo, ma ponendola allo stesso tempo in un ambito di salvaguardia proprio delle infrastrutture strategiche. Le attività di Rai sono significative nell’ambito della tutela dell’interesse nazionale essenzialmente per il loro impatto su tre aspetti: tecnologico, sociale, culturale.

 

RUOLO TECNOLOGICO

L’apporto tecnico di Rai al sistema-Paese è dato dalla sua capillare infrastruttura di trasmissione di segnali audio/video e multimediali, con una copertura del territorio di poco inferiore al 100% sulla piattaforma digitale terrestre e totale su quella satellitare, garantita dalla sua consociata Rai Way, provider leader in Italia di infrastrutture e servizi di rete broadcast. Questa caratteristica la qualifica inoltre come infrastruttura critica, sottoposta anche a tutela NATO, per la sua importanza strategica in caso di emergenze e conflitti. Ma la Rai rappresenta anche un importante presidio d’innovazione tecnologica. Il suo Centro di Ricerche, Innovazione Tecnologica e Sperimentazione di Torino (Crits), nato nel 1929 come laboratorio di ricerche per l’Eiar, è oggi considerato uno dei più importanti laboratori di sviluppo a livello internazionale. Qui, negli anni ‘30, fu realizzato il «Visorium», il primo impianto italiano di ripresa e ricezione televisiva che, insieme agli esperimenti inglesi di John Logie Baird, mise l’Italia tra i precursori mondiali della nascita della TV. Nel corso dei decenni il Crits della Rai ha realizzato centinaia di brevetti di livello internazionale; tra i più recenti spiccano le applicazioni innovative per le trasmissioni in standard Dvb-T2. Brevetti le cui licenze di utilizzo sono state acquistate da numerose multinazionali. Lo sviluppo di tecnologie di comunicazione proprietarie rappresenta uno dei cardini della proiezione strategica di una nazione, come testimonia l’acceso dibattito sul 5G, che ha creato contrapposizioni di interessi a livello planetario. Nell’attuale assetto industriale italiano il Centro Ricerche Rai rappresenta un unicum d’eccellenza che contribuisce in maniera determinante a mantenere il Paese al passo con le grandi potenze dell’era della comunicazione globale.

 

RUOLO SOCIALE

La natura pubblica della Rai è ciò che ne fa un irrinunciabile elemento di coesione sociale, favorita attraverso una rappresentazione pluralista e verticale delle numerose e complesse anime che compongono la nazione, degli interessi diffusi e di quello generale, della miriade di realtà territoriali, sviluppando trame orizzontali di composizione e valorizzazione delle specificità. Questa matrice di comunicazione è sottesa a tutta la programmazione tv, radio e web della Rai, ma anche al cinema e alla fiction (di cui la Rai è leader in Italia alimentando il mercato della produzione nazionale), alla produzione di contenuti per ragazzi, alla tutela delle minoranze linguistiche e ad ogni altro aspetto della mission affidatale dal contratto di servizio. L’informazione Rai è un altro tassello fondamentale di questo mosaico: l’impostazione produttiva su una pluralità di testate garantisce una rappresentazione articolata della complessa cultura politica della nostra democrazia; il non avere il parametro degli ascolti e degli utili economici – fondamentale elemento di differenziazione dagli operatori commerciali – le consente da un lato di sviluppare profondità di ragionamento e dall’altro di contrastare il dilagante fenomeno delle fake news, il cui principale elemento scatenante è proprio la necessità di «fare notizia ad ogni costo» che ormai troppo spesso guida l’operato di alcune testate del settore privato. L’ampio spazio dedicato alla programmazione istituzionale è certamente un altro elemento rilevante nell’ambito dello sviluppo del Servizio Pubblico Radiotelevisivo quale motore di coesione sociale. Il nuovo Canale Istituzionale previsto nel Piano Industriale (e richiesto nell’ultimo contratto di servizio) va proprio nella direzione di contribuire ad avvicinare gli spazi naturali di vita della nostra democrazia, al sentire consapevole del cittadino.

 

 RUOLO CULTURALE

Venendo all’importanza culturale della Rai, essa poggia le sue basi su due pilastri fondamentali: il suo essere custode della memoria e dell’identità della Nazione tramite l’immenso archivio audio/video delle Teche, e la sua capacità di interpretare il ruolo di prima agenzia culturale del Paese, dedicando migliaia di ore all’anno di nuova programmazione alla valorizzazione della musica, della letteratura, dell’arte, dell’architettura, della danza, delle eccellenze del territorio, dell’artigianato e del design, sia inserendole all’interno della programmazione generalista sia dedicandole spazi appositi attraverso canali specializzati radio, tv e web. Costruzione di un immaginario nazionale, valorizzazione della nostra identità anche all’estero attraverso il nascente nuovo canale in lingua inglese previsto dal contratto di servizio che, al pari degli altri broadcaster pubblici, aiuta la circolazione della cultura italiana, del suo essere risorsa mondiale anche all’estero. Lo sforzo della Rai nell’ambito culturale è amplissimo ed interviene costantemente anche a supporto delle istituzioni nazionali e locali, mediante lo sviluppo di piattaforme e contenuti «educational», la realizzazione di programmi per le minoranze linguistiche e religiose, la valorizzazione di rievocazioni storiche e ricorrenze del territorio, che non troverebbero cittadinanza altrove a causa del grande sforzo produttivo e delle notevoli qualità professionali richieste per la loro ripresa e diffusione.

 

EMERGENZA COVID-19

Ancora di più l’emergenza Covid-19 ha evidenziato il ruolo centrale della Rai nel sistema di sicurezza sociale del Paese. È stato il Servizio Pubblico a supportare la scuola italiana con gli strumenti didattici preparati appositamente da Rai Cultura e rilasciati in dotazione a insegnanti e studenti per favorire la formazione a distanza degli studenti costretti alla sosta forzata per la chiusura delle scuole. Ed è stata la Rai a costruire un’apposita convenzione con il governo italiano per utilizzare il canale Rai Scuola in un progetto di insegnamento all’avanguardia in Europa. Ed è la Rai che oggi sta proponendo soluzioni operative per salvaguardare l’intero sistema del mercato audiovisivo italiano (cinema, fiction, documentari) colpito dalla crisi, a partire dall’ipotesi di utilizzare una parte del canone retrocesso allo Stato per investimenti specifici su questo settore fondamentale per la costruzione della nostra identità nazionale.

 

CONCLUSIONE

Nel dibattito attuale, la Rai risente spesso delle polemiche politiche legate alla crisi di legittimità del mainstream che attraversa il cambiamento radicale in atto nelle nostre democrazie. Per mainstream intendiamo quel complesso sistema di costruzione dell’immaginario simbolico, operato dai media, che ha dato forma e sostanza al potere di un’élite tecno-finanziaria che questi media per buona parte controlla. Ma la Rai che, ricordiamo, è tra i Servizi Pubblici europei quella con il canone più basso (di poco superiore solo a quello della Slovacchia), rimane in termini di classificazione EBU una delle aziende migliori per qualità di programmazione, produzione contenuti, redditività e servizi. Un patrimonio fondamentale della nostra Nazione, da allineare certo ai bisogni di rappresentazione reale della società italiana (e non a quelli dell’élite che in questi anni attraverso la Rai si è spesso auto-rappresentata); un patrimonio che una nuova politica dovrebbe comprendere non solo come spazio di occupazione ma come strumento essenziale per la difesa degli interessi nazionali nel tempo della grande sfida della globalizzazione. Anzi, l’importanza è incrementale, in ragione dell’esponenzialità delle dinamiche economiche su scala globale che stanno generando fenomeni di concentrazione della proprietà dei media nelle mani di pochi enormi soggetti multinazionali, i cui interessi possono divergere – se non addirittura contrastare – con quelli delle Nazioni destinatarie dei contenuti. La tv di Stato, per quanto fumoso possa oggi sembrare il concetto, è uno strumento sempre più indispensabile di tutela dell’interesse nazionale; è l’anticorpo attraverso il quale la democrazia difende se stessa dalle distorsioni indotte dalla viralità del mercato globale, un presidio di indipendenza, autorevolezza e buon senso che non è ipotizzabile garantire in altro modo.

*Giampaolo Rossi, consigliere di Amministrazione Rai